Cuba.

Morto Fidel Castro non si apre una nuova fase di una “rivoluzione socialista” - che non c’è mai stata -, ma un riposizionamento del capitalismo cubano nel mercato mondiale

(«il comunista»; N° 146;  Dicembre 2016)

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Il nazionalismo che incanalò la rivolta delle masse proletarie e semiproletarie cubane contro la feroce dittatura di Batista e la colonizzazione statunitense non aprì mai la via al socialismo, ma ad una borghesia nazionale che ambiva trattenere per sé i profitti che finivano nelle tasche dei capitalisti americani.

Uno dei miti, alimentati per più di cinquant’anni dalle borghesie imperialiste di tutto il mondo, quello del “socialismo cubano”, perde, con la morte di Fidel Castro, uno dei suoi più tenaci propagandisti.

Il primo gennaio 1959, dopo tre anni di guerriglia condotta contro il regime di Fulgencio Batista, che per 25 anni aveva dominato sull’isola per conto del capitalismo statunitense, il “Movimento del 26 luglio” con a capo Fidel Castro conquista la capitale L’Avana, da cui Batista era fuggito, e prende il potere.

Nel clima generale dei movimenti di democratizzazione dell’America Latina, in un quadro internazionale in cui le lotte anticoloniali in Asia e in Africa stavano mettendo in grande difficoltà le potenze coloniali europee e nell’ambito della cosiddetta “guerra fredda” tra Usa e Urss, gli Stati Uniti giocarono la carta del sostegno alla “democrazia” in America Latina in funzione anti-Urss. In un primo tempo, perciò, sostennero il cambio della guardia a Cuba tra Batista e Castro, ma dopo che il governo castrista – dando seguito al programma di riforma agraria del “Movimento del 26 luglio” – nazionalizzò le più grandi proprietà e le più grandi aziende soprattutto zuccheriere e del tabacco togliendole dalle mani dei capitalisti americani, il governo Usa cambiò politica: cercò di strozzare l’economia cubana non importando più lo zucchero e riducendo drasticamente il flusso turistico verso l’isola caraibica. Il governo castrista, mai proclamatosi “socialista”, si rivolse quindi all’Urss (che d’altra parte aveva tutto l’interesse a sottrarre Cuba all’influenza di Washington); questo obbligato cambio di rotta e un programma sociale “antiamericano” facilitarono la propaganda interna ed estera di una specie di “socialismo nazionale”; nel 1961 la Repubblica di Cuba fu proclamata “repubblica socialista”.

Cuba, all’epoca, per il fatto che il movimento dei “barbudos” era riuscito a vincere e a tener testa all’imperialismo più forte del mondo, guadagnò velocemente il gradino più alto nel mito di un “socialismo nazionale” che la Russia staliniano-krusceviana alimentava da decenni a piene mani: Cuba, Fidel Castro e, con lui, Che Guevara venivano sbandierati dall’opportunismo stalinista come i campioni di un “socialismo” che poteva “conquistare l’America”. Nella trappola propagandistica del falso socialismo russo, o cinese, e quindi del falso socialismo cubano, ci cascarono tutti i gruppi cosiddetti di estrema sinistra che scambiavano le “nazionalizzazioni”  e le “cooperative” per socialismo realizzato in economia. Per di più, pretendevano che vi potesse essere una “rivoluzione socialista” senza l’influenza determinante sul proletariato e sulle masse diseredate - come guida politica - del partito comunista rivoluzionario; pretendevano che la “rivoluzione socialista” fosse in realtà una democrazia allargata e che non avesse per suo programma fondamentale - una volta conquistato il potere politico - di considerarsi un bastione della rivoluzione proletaria internazionale e perciò di indirizzare le proprie forze a distruggere i capisaldi borghesi all’interno del paese e ad integrare la propria lotta anticapitalistica nella lotta del proletariato di tutti gli altri paesi.

In realtà, sebbene la lotta contro l’oppressione colonialista degli Usa su Cuba sia stata una lotta che tendeva a sollevare dalla fame e dalla miseria le masse contadine e proletarie cubane, quella lotta ha sempre avuto le caratteristiche di una rivolta borghese capace di indirizzare la spinta “rivoluzionaria” delle masse proletarie, semiproletarie e dei contadini poveri verso gli obiettivi politici, ed economici, della borghesia cubana, e soprattutto dei suoi strati medi e piccoli, visto che i grandi borghesi erano compartecipi dei profitti che i capitalisti americani razziavano a Cuba.

D’altra parte, storicamente, la Cuba del 1959 non era più quella del 1850. Nel 1898 Cuba si era resa indipendente dalla Spagna, ma capitalisticamente era divenuta una semi-colonia degli Usa: all’ordine del giorno non vi era più la “rivoluzione doppia” (rivoluzione antifeudale per l’indipendenza nazionale e per impiantare le basi del capitalismo, e rivoluzione proletaria, dunque antiborghese ed anticapitalistica, come nel caso della Russia 1905-1917), ma la sola rivoluzione proletaria, sebbene in un paese capitalisticamente arretrato. E la rivoluzione proletaria – dunque la rivoluzione “socialista” – per essere tale deve avere per protagonista la classe del proletariato (di fabbrica e dei campi), organizzata in organismi economici e sociali tali da permetterle di allenarsi, attraverso le lotte immediate, alla lotta contro la classe borghese, e deve essere guidata dal partito comunista rivoluzionario, l’unico organo che possiede la coscienza di classe, quindi gli obiettivi e gli scopi storici della lotta rivoluzionaria del proletariato a livello nazionale e internazionale. Tutto questo mancò a Cuba, come mancò in tutti i paesi del mondo, dato che in Russia e nel mondo, negli anni venti del secolo scorso, vinse la controrivoluzione borghese che chiamammo staliniana. Ecco perché il castrismo, o il guevarismo, non può essere scambiato per “socialismo”; si è trattato, in realtà di un radicalismo borghese in salsa cubana...

Nel 1961, in uno dei lavori di partito dedicati alla “rivoluzione cubana”, intitolato “I due volti della rivoluzione cubana”, scrivevamo:

«Solo in apparenza i moti cubani, di cui i barbudos sono stati e sono protagonisti scenografici, si ricollegano a quelli che hanno scosso dalle fondamenta l’ordine tradizionale in Asia e in Africa.

«L’elemento comune rappresentato dall’aspra lotta contro l’imperialismo e i grandi monopoli capitalistici vela il fatto essenziale che, nel caso dei Paesi afro-asiatici, la lotta d’indipendenza nazionale e per la costituzione di Stati unitari (quindi diretta anche contro potenze coloniali o, comunque, contro il giogo finanziario del capitalismo imperialistico) è un aspetto della più vasta lotta contro strutture tradizionali, feudali o parafeudali; a Cuba, e in genere – seppure in vario grado – nell’America latina, il capitalismo è stato ormai da diversi decenni importato dagli USA e da altri Paesi capitalistici e l’economia interna presenta da tempo la fondamentale ossatura borghese, quindi anche una struttura sociale poggiante su un vasto e sfruttatissimo proletariato.

«Qui, il tema principale della “rivoluzione” anticolonialista è lo sforzo della giovane borghesia indigena di svincolarsi dalla soggezione al capitale finanziario straniero (alla cui ombra tuttavia è cresciuta) o, secondo i casi, di stabilire con esso rapporti di compartecipazione agli utili dello sfruttamento delle risorse locali, utilizzando a questo scopo la spinta alla ribellione delle masse proletarie e sempiproletarie, canalizzandola verso l’obiettivo nazionalista, distogliendola da un possibile orientamento social-rivoluzionario, e facendone il predellino del proprio rafforzamento al comando dello Stato. I moti e i regimi che sorgono in quest’area, e di cui l’esempio cubano offre il modello più “puro”, si presentano quindi come violentemente nazionalisti all’esterno e come riformisti all’interno; nel primo senso hanno una funzione storica di rottura dei tradizionali equilibri imperialistici che può provocare e provoca di fatto nei grandi centri della pirateria borghese (e specie negli USA) crisi di prestigio e difficoltà economiche serie il cui violento scoppio non può lasciare stupidamente “indifferente” il proletariato mondiale e il partito rivoluzionario comunista; nel secondo senso, esercitano un’azione di freno sui contrasti sociali interni, e per il proletariato internazionale e indigeno non solo non si pone il problema di un appoggio armato ai partiti nazionali in quanto si tratti di far “girare in avanti la ruota della storia” abbattendo residue strutture precapitalistiche e spingendo il moto sul piano della “rivoluzione doppia”, ma si pone quello di denunziarne gli obiettivi borghesi-riformistici e mettere sul tappeto la questione del distacco della classe operaia da partiti e regimi interclassisti, e dell’aperta lotta proletaria per l’assalto al potere.

«Nel caso specifico di Cuba, il proletariato rivoluzionario può valutare positivamente le batoste inflitte sia ai mastodonti zuccherieri e petroliferi americani, sia al loro governo interventista in nome della “libertà” e “autodecisione dei popoli”, e lo smascheramento di queste false bandiere ideologiche; ma deve irridere e combattere la pretesa castrista di aver compiuto una “rivoluzione sociale” e, peggio ancora, di aver costruito di punto in bianco una “repubblica socialista”, con la benedizione, per giunta, dell’altro affarismo mondiale impersonato dal Cremlino.

«Alla creazione e diffusione di questo mito, che fra l’altro porta acqua al mulino dei borghesi radicaleggianti i quali predicano la possibilità della “rivoluzione” sociale senza partito di classe e quindi senza marxismo, contribuiscono non solo, com’è logico, gli stalin-kuscioviani, commessi viaggiatori dei regimi popolari interclassisti battezzati progressisti e magari socialisti, ma anche i “nazionalcomunisti” alla Tito e quelli che, per disgrazia del grande rivoluzionario Leone, si autoproclamano trotskisti» (1).

Al di là del mito castrista o guevarista e del “socialismo cubano”, resta il fatto che Cuba ha resistito alle pressioni di Washington nonostante l’embargo statunitense che da 55 anni la assedia. Certo, fino al 1989, quando l’impero sovietico è imploso, il fatto di poter contare sulle relazioni commerciali e politiche con l’Urss e con i suoi satelliti europei, ha contribuito a tener a freno le minacce statunitensi. Ma non va scordato che l’economia cubana, proprio attraverso le relazioni capitalistiche con Mosca, con gli altri paesi europei dell’Est e con alcuni paesi dell’America Latina, specie il Venezuela, si reinseriva nel mercato mondiale attraverso le importazioni di petrolio, macchinari, prodotti alimentari, prodotti chimici e le esportazioni di zucchero, nichel, tabacco, pesce, agrumi, prodotti farmaceutici. E dopo il crollo dell’impero russo, le relazioni economiche e commerciali si sono allargate agli altri paesi dell’Europa occidentale a tal punto che dal 2002 Cuba utilizza l’euro al posto del dollaro negli scambi commerciali internazionali. L’isolamento di Cuba, in realtà, non è mai stato un vero isolamento economico e commerciale, lo è stato in parte politico; è stata soprattutto una emarginazione da parte del capitale statunitense in attesa che il regime castrista si logorasse e cadesse, dato che incursioni del tipo “Baia dei Porci” avevano dimostrato di non portare facili vittorie.

Sarà l’euro e non il dollaro a riposizionare il capitalismo cubano nel mercato mondiale attraverso non solo più intensi scambi commerciali ma anche investimenti nell’isola?  Che sia l’uno o l’altro, non cambia la sostanza dello sfruttamento capitalistico: il capitale si investe più facilmente dove ci sono risorse naturali e abbondanza di forza lavoro proletaria, meglio se istruita. E Cuba rappresenta per ogni capitale che vuole far profitto una terra fertile e una forza lavoro capace, istruita e soprattutto abituata ad un basso tenore di vita, perciò, oggettivamente, a basso costo. L’apertura ad accordi con imprese farmaceutiche europee, grazie ai piani di sviluppo biotech, dimostra che Cuba può rappresentare per il capitale un'ottima occasione di profitto; ed è certo che sarà questa la strada che il governo cubano imboccherà con più lena d’ora in poi; la recente visita di Obama e dei funzionari del Dipartimento di Stato all’Avana è un altro segnale che l’isolamento di Cuba dagli Stati Uniti, prima o poi, verrà superato.

Gli operai cubani, delle fabbriche e dei campi, ingannati per sei decenni riguardo  a un socialismo inesistente, se hanno potuto godere finora di progressi importanti nel campo della sanità e dell’istruzione, lo devono a due fattori principali: il primo, è la loro tenace lotta contro gli aspetti più brutali dello sfruttamento dei vecchi capitalisti americani e cubani, lotta che ha fatto da base alla cacciata di Batista e dei trust americani, lotta che è stata ripagata con un regime nazionalista capace di tacitare le necessità di base di sopravvivenza delle larghe masse proletarie e semiproletarie, garantendo in questo modo la tenuta del regime castrista; il secondo, è la congiuntura internazionale che ha fatto sì che i contrasti più acuti fra imperialismi si concentrassero in altre zone e in altri paesi del mondo, in particolare in Medio Oriente e in Africa.

Non sappiamo quanto tempo ci vorrà perché i proletari cubani si rendano conto che il nazionalismo che i “comandanti” Fidel Castro e Che Guevara etichettarono come “socialismo” e che il partito, fondato solo nel 1965, chiamato “partito comunista cubano”, non sono stati altro che strumenti utili alla borghesia cubana radicale e impoverita per sottrarsi alla soffocante tutela del capitalismo statunitense e, nello stesso tempo, utili per gestire direttamente, nazionalmente, attraverso una conquistata “sovranità nazionale”, lo sfruttamento del proletariato cubano, caratteristica non del socialismo ma di ogni società capitalista.

Non sappiamo quale acutizzazione dei contrasti interimperialistici e quali crisi economiche metteranno in difficoltà i poteri borghesi negli Stati Uniti, nei paesi europei, nei paesi latinoamericani, in Russia o in Cina, ma è certo che lo sviluppo del capitalismo a livello internazionale porterà ad un accrescimento dei fattori di contrasto e di guerra, scuotendo inevitabilmente i rispettivi proletariati dalla lunga intossicazione opportunista, democratica e nazionalista, ponendo loro l’inevitabile dilemma storico: o guerra o rivoluzione, o lotta di classe e rivoluzionaria ad esclusiva difesa degli interessi immediati e storici proletari, oppure ennesimo annichilimento della propria identità di classe e ulteriore asservimento dei proletariati alle esigenze del vorace e spietato modo di produzione capitalistico.

In quanto comunisti internazionalisti e rivoluzionari, sulla scorta delle esperienze storiche della Comune di Parigi e della Rivoluzione d’Ottobre in Russia e sulla linea che ha distinto storicamente la sinistra comunista nella lotta contro la degenerazione dell’Internazionale Comunista e dei partiti ad essa aderenti, noi continuiamo la dura opera della difesa del marxismo ortodosso da ogni attacco opportunista e della formazione del partito di classe che avrà il compito di guidare a livello internazionale le masse proletarie alla rivoluzione finalmente antiborghese e anticapitalistica, dunque effettivamente socialista e comunista.

3 dicembre 2016

 


 

(1) Vedi il resoconto esteso della riunione generale di partito tenuta a Roma il 3-4 marzo 1961, rapporto su “La terribile responsabilità dello stalinismo di fronte ai moti anticoloniali”, pubblicato ne “il programma comunista” n. 10 del 1961.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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