Il Fronte Popolare: 80 anni di un mito logoro quanto la lotta antifascista

(«il comunista»; N° 147;  Dicembre 2016)

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Per decenni il mito del Fronte Popolare è stato alimentato non soltanto, come è logico, dai partiti e dai sindacati collaborazionisti, ma anche dalle forze dell’opportunismo di “estrema” sinistra.

I primi, vantando le leggi sociali emanate grazie alla vittoria elettorale, in Francia come in Spagna, intendevano dimostrare ai proletari che le urne sono il mezzo più sicuro e più efficace per migliorare la loro situazione; gli altri, affermando che vi vedevano la ricetta del rilancio della lotta proletaria, in realtà giustificavano il loro codismo congenito nei confronti dei primi: era, a parer loro, legittimo aiutare la vittoria elettorale dei partiti di sinistra perché questa vittoria avrebbe trainato l’entrata in lotta dei lavoratori che, “scavalcando” così i riformisti, si sarebbero diretti, forse, verso la rivoluzione. E così essi hanno chiamato i proletari a votare praticamente in tutte le elezioni per i PS o i PC.

Le differenti esperienze dopo una trentina d’anni di governi d’unione della sinistra hanno dato un colpo che si potrebbe credere fatale a questo mito inseparabile del riformismo di sinistra e di estrema sinistra.

Quelle esperienze hanno dimostrato, fin da quella del Fronte Popolare, che l’azione di governo di questi partiti si è esercitata fondamentalmente a beneficio dell’ordine borghese, poiché le piccole riforme attuate non servivano che a far ingoiare la pillola di uno “sporco lavoro” effettuato a favore dei capitalisti che la destra, a quell’epoca, non era in grado di compiere; queste riforme sono state, d’altra parte, del tutto insignificanti e quelle attuate di recente sono in realtà delle “contro-riforme”, veri e propri attacchi antiproletari in piena regola.

Esse hanno mostrato che una vittoria elettorale dei partiti di sinistra non dava l’avvio a nessuna ondata di scioperi e, ancor meno, ad alcuna spinta rivoluzionaria. L’andata al governo di questi pompieri sociali, al contrario, ha sempre avuto la funzione di attenuare le tensioni sociali e di disinnescare, per quanto possibile, i conflitti; l’esempio classico è stato dato, all’inizio degli anni ’80 in Francia, dal settore metallurgico per il quale il governo di sinistra (Fabius) riuscì, senza troppe difficoltà, a chiudere le acciaierie che risultavano eccedenti, sopprimendo migliaia di posti di lavoro, mentre il governo di destra (Barre), che aveva tentato la stessa cosa, aveva dovuto affrontare violenti movimenti di lotta.

Ma ciò non impedisce agli eterni procacciatori di illusioni riformiste di tentare di ravvivare periodicamente il mito, deformando la realtà dei fatti. Ad esempio, un Mélenchon (Partito di Sinistra) o un Laurent (PCF) nella prospettiva delle elezioni presidenziali francesi si sono appellati a più riprese alla costituzione di un nuovo fronte popolare, “di sinistra” o “dei cittadini” (1). I trotskisti del NPA si accontentano di sostenere “la necessità, sempre attuale, di immaginare un maggio-giugno 36 che vada fino in fondo!” (2).

Pur riconoscendone i limiti (e come non farlo?), d’altronde spesso attribuiti alla debolezza della sua azione antifascista, gli estimatori attuali del Fronte Popolare sottolineano i suoi risultati sul piano rivendicativo, mettendo in risalto talvolta la lotta operaia (versione “estremista”), talvolta l’unità delle organizzazioni e del “popolo” (versione socialdemocratica).

I più grandi risultati immediati della lotta proletaria, in effetti, non consistono nei miglioramenti più o meno ampi delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari: questi miglioramenti, sotto il capitalismo, sono sempre precari e transitori, come è dimostrato, ad esempio, dal fatto che la grande conquista delle 36 ore settimanali al posto delle 40, addirittura passate come legge dello Stato, sarà rimessa in discussione: a 40 anni di distanza (dal 1978), la durata del lavoro settimanale degli operai ritorna, in pratica, alle 40 ore!

La cosa più importante è che le lotte proletarie rafforzino o meno l’unità della classe nella prospettiva della lotta per risultati storici del proletariato, ossia per risultati generali e politici che sono la rivoluzione, la presa del potere, la distruzione del capitalismo e l’avvio ad una società di specie, al comunismo.

Per poter parlare davvero di vittoria a proposito di risultati immediati sarebbe necessario che questi risultati non entrassero in contraddizione con gli scopi finali della lotta di classe proletaria, e che non li facessero dimenticare. Quel che bisogna considerare, per apprezzare nel loro giusto valore le riforme e le “conquiste” del 1936, non è la loro ampiezza ma il prezzo politico che i proletari hanno dovuto pagare. E questo prezzo politico è consistito nella perdita totale del loro partito di classe, del suo programma e del concetto stesso della sua missione rivoluzionaria: la “vittoria democratica” che completò gli scioperi del 1936 consacrò, in realtà, la liquidazione di questi tre fattori.

A fronte di questa capitolazione, furono acquisiti dei vantaggi – non lo si può negare – almeno per determinati strati del proletariato, ma va sottolineato che questi vantaggi furono piuttosto magri e di breve durata. La svalutazione monetaria erose ben presto gli aumenti salariali, mentre le 40 ore settimanali furono ripristinate rapidamente in nome delle esigenze della produzione nazionale di fronte al fascismo ecc. Non rimasero che le ferie retribuite, la generalizzazione delle assicurazioni sociali come altre riforme minori che apparvero importanti all’epoca a causa della legislazione sociale che in Francia, fino ad allora, era particolarmente retrograda. Dopo un lungo periodo di inattività sindacale, di impotenza operaia e di offensiva padronale (tutte conseguenze della sconfitta della rivoluzione comunista in Europa), la borghesia poteva temere un improvviso risveglio da parte del proletariato, una reazione ben più brutale e altrimenti pericolosa della vittoria elettorale di un’alleanza tra comunisti, socialisti e radicali. Con gli accordi di Matignon, la borghesia ci guadagnò parecchio, perché, in cambio di qualche elemosina economica e di qualche riforma, essa ottenne il riassorbimento della rivolta operaia e, nello stesso tempo, la collaborazione sociale e politica dei partiti e dei sindacati operai.

Va ricordato che l’ondata di scioperi non fu per nulla incoraggiata da questi partiti e dai sindacati che, al contrario, la subirono, e fecero ogni sforzo per limitarla: sotto ogni governo, e più ancora sotto i governi di sinistra, i proletari  ottengono soltanto quel che conquistano con la lotta. Dopo la firma degli accordi di Matignon, i dirigenti politici e sindacali chiamarono i lavoratori a cessare le occupazioni e a riprendere diligentemente il lavoro (famosa la dichiarazione di Thorez: “bisogna saper terminare uno sciopero”); ma i lavoratori non li ascoltarono, e cessarono lo sciopero solo dopo aver ottentuo soddisfazione alle loro richieste.

Tuttavia, come abbiamo detto, questi vantaggi non ebbero che una portata effimera, ma ciò non toglie che furono pagati con l’aperto abbandono dell’indipendenza di classe delle organizzazioni operaie. Prima del 1936, il PCF, allo stesso modo del PCI e del PCE, e i dirigenti della CGTU (3), come quelli delle organizzazioni sindacali italiane (pur distrutte dal fascismo) e spagnole, affermavano di combattere il capitalismo. Ma dopo il 1936 non fecero che collaborare con esso. Prima del 1936, il PCF, ad esempio, continuava a combattere le formule politiche della borghesia, almeno a parole; faceva propaganda contro il militarismo e il dominio coloniale, denunciava le menzogne e le illusioni riformiste e parlamentari avanzate dai socialdemocratici e dai dirigenti della CGT (la CGL francese), affermava che di fronte alla minaccia di guerra il proletariato non doveva difendere la patria ma attaccare il capitalismo. Non trattiamo ora, qui, la realtà più che dubbia di queste posizioni di classe rivendicate dal PCF, ma è un fatto politico importante che,  nel 1936, lo stesso partito diventa patriota e sciovinista. Esso reclamava un “esercito forte e repubblicano”, cantava le lodi del parlamento e si inchinava davanti ai radicali e a coloro che in precedenza chiamava “socialtraditori”, simboli della degenerazione imperialista; infine, esso si riconciliava con i capi sindacali collaborazionisti che, 15 anni prima, avevano espulso dalla CGT i rivoluzionari, tradito tutti gli scioperi e sabotato ogni mobilitazione contro il sostegno dell’imperialismo francese alla controrivoluzione in Russia. Questo voltafaccia non era che un rinnegamento completo delle posizioni di classe, oltre che nei fatti anche nelle parole, ma passò inosservato nell’euforia delle concessioni accordate dal padronato.  

Il capitalismo aveva bisogno, alla vigilia di una nuova guerra mondiale, di questa trasformazione. Esso doveva piegare il proletariato alla mostruosa disciplina necessaria al conflitto. E l’antifascismo fu la chiave di volta trovata. La delimitazione dei due campi militari che si sarebbero scontrati fu ottenuta grazie al riavvicinamento dell’URSS alle democrazie occidentali. E la formula politica adatta a ricreare l’unione nazionale fu fornita dalla costituzione della grande alleanza dei partiti “democratici” nel Fronte Popolare che si impose grazie alla trasformazione del grande movimento rivendicativo in manovra elettorale e parlamentare.

Alla base di questa svolta generale vi fu l’attitudine della piccola borghesia. Di fronte alla minaccia di rivoluzione è su di essa che si appoggiò la reazione borghese in Italia, portando il fascismo al potere. E furono ancora gli strati di piccola borghesia che la grande borghesia in Germania lanciò contro il proletariato quando al capitalismo tedesco fu necessario il nazismo per uscire dalla sua situazione disperata. Niente di tutto questo avvenne in Francia; non solo la situazione non era così tesa come in quei paesi, ma nel momento in cui i “comunisti” si presero il carico di orientare l’agitazione sociale nel senso del rafforzamento democratico del sistema borghese, tutti gli strati della classe media scoprirono una passione particolare per le “libertà repubblicane” e si diressero nelle braccia di questi nuovi difensori dell’ordine capitalista ai quali diedero la vittoria elettorale nel giugno del 1936.

Era necessario, naturalmente, lasciare agli operai quel che avevano ottenuto senza attendere l’azione dei loro eletti, ma era relativamente poco rispetto a quel che i capitalisti avrebbero potuto perdere da una fiammata sociale di tale ampiezza. In contropartita, il capitale otteneva la realizzazione delle migliori condizioni politiche per affrontare la prossima guerra. Senza dubbio la preparazione del conflitto militare prese più tempo e fu meno fruttuosa della soppressione delle “conquiste” sociali, ma l’azione del partiti “operai” fu in ogni caso indispensabile. A questo riguardo il Fronte Popolare aveva “ben lavorato”; il disfattismo rivoluzionario era del tutto scomparso e i proletari si erano rassegnati alla guerra, alla carneficina imperialista, in nome della lotta contro il fascismo! Iniziata come lotta sociale contro le esigenze del capitale, la fase aperta nel maggio-giugno 1936 terminò con la guerra imperialista per il salvataggio dello stesso capitalismo.

L’opera antiproletaria degli staliniani e dei socialdemocratici continuò in seguito nella Resistenza nazionalista ed ebbe la sua maggiore ampiezza dopo la fine della guerra quando, in tutti i paesi, essi chiamarono i proletari a produrre e non a rivendicare, opponendosi agli scioperi, piegando i lavoratori alle esigenze della ricostruzione e della nuova fase di sviluppo del capitalismo.

Gli insegnamenti dell’esperienza del Fronte Popolare possono essere riassunti in alcune righe. Nella sua lotta contro il capitalismo il proletariato dispone di due armi: lo sciopero generalizzato e la presa rivoluzionaria del potere il cui sbocco è la dittatura del proletariato. La sola vittoria che ebbe luogo nel 1936 è quella della borghesia che, per un lungo periodo è riuscita, disarmando il proletariato e distruggendo i suoi partiti di classe, ad ottenere il controllo diretto e indiretto delle organizzazioni operaie. I partiti e i sindacati “operai”, che ancor oggi influenzano e controllano le masse proletarie, sono accaniti nemici dell’arma suprema della classe operaia, l’arma immediata dello sciopero generale senza limiti di tempo e di spazio; e lo sono da sempre in quanto partigiani della democrazia borghese contro la rivoluzione e la dittatura del proletariato, come hanno dimostrato più di trent’anni dopo il 1936, in Francia, nel maggio-giugno 1968 di fronte al montare improvviso ed ampio del movimento di lotta proletaria, e nell’”autunno caldo” italiano del 1969 e in tutti gli episodi successivi in cui i proletari hanno tentato di difendere con gli scioperi e la lotta più aspra, in Germania, in Polonia e ancora in Italia negli anni ’80, i propri interessi di classe.

Questi partiti e questi sindacati della collaborazione interclassista riusciranno sempre a privare il proletariato delle sue armi di classe?

Niente affatto! Anche se il loro logoramento, così evidente oggi, quanto quello del mito del 1936, non significa che essi abbiano perso la loro efficacia antiproletaria, sarà comunque per loro certamente più difficile che in passato impedire lo scoppio di movimenti di lotta proletaria e la ricostituzione del partito di classe. E’ lo sviluppo delle contraddizioni stesse del capitalismo, e della loro acutezza, che ripropongono inevitabilmente al proletariato la necessità fisica e sociale della lotta di classe. Da questo punto di vista, il logoramento del mito del Fronte Popolare è di buon auspicio.

 


 

(1) l’Humanité, 6/6/16. Il “Parti de Gauche” è una formazione politica che, dal 2009, raduna ex socialisti del PSF ed ex comunisti del PCF.

(2) Revue l’Anticapitaliste n°77, giugno 2016. Il “Nouveau Parti Anticapitaliste” (NPA) è una formazione trotskista che, a differenza di “Lutte Ouvrière”, prevede l’alleanza elettorale, o di governo, con i partiti “di sinistra”.

(3) La CGTU, fu costituita nel 1921 da una minoranza della CGT che voleva aderire alla Internazionale Sindacale Rossa. Sempre legata al PCF, in tutte le sue trasformazioni, nel 1936 si riunificò con la CGT in un unico sindacato.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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