In margine al 60° anniversario dei Trattati di Roma sulla nascita dell'Europa comunitaria

Quanti spettri s’aggirano per l’Europa?

(«il comunista»; N° 148;  Aprile 2017)

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E’ nota la frase con cui inizia il Manifesto del Partito Comunista, scritto da Marx ed Engel nel 1847 su invito della Lega dei comunisti e pubblicato nel febbraio 1848, alla vigilia delle rivoluzioni di segno proletario a Parigi, Berlino, Vienna, Milano: «Uno spettro s'aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi».

All’epoca, insieme alla rivoluzione borghese, in Germania, in Austria, in Italia, si profilava anche la rivoluzione proletaria; il comunismo, come affermavano Marx-Engels nel Manifesto, era «già riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee», tanto che non potevano che concludere così: «E’ ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro un manifesto del partito stesso. A questo scopo si sono riuniti a Londra comunisti delle nazionalità più diverse e hanno redatto il seguente manifesto che viene pubblicato in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e danese».

Da allora, le vicende storiche della lotta di classe e della rivoluzione proletaria, attraverso le loro vittorie e le loro sconfitte, hanno confermato la prospettiva storica svolta nel Manifesto del 1848, sia riguardo le rivoluzioni democratico-borghesi che dovevano ancora attuarsi con i loro contenuti progressisti e con il loro sviluppo inevitabilmente conservatore e reazionario, sia riguardo la rivoluzione proletaria, attesa in particolare in Francia, dato lo sviluppo reale del movimento operaio in quel paese (e nel 1871 sarà la Comune di Parigi a dimostrarlo), ma considerata concretamente possibile anche in Germania, sullo slancio della rivoluzione borghese e democratica, in virtù degli sviluppi delle lotte di classe in tutta Europa (e nel 1917 sarà in Russia, sullo slancio della rivoluzione borghese e democratica, che si attuerà la prima grande rivoluzione proletaria vittoriosa). Contro il comunismo, ossia contro il movimento rivoluzionario internazionale del proletariato, trasformatosi, dal 1871 e dal 1917, da “spettro” a riconosciuta potenza sociale e politica da tutte le potenze europee e mondiali, tutte le potenze capitalistiche del mondo – nonostante la lotta di concorrenza e la guerra che si sono fatte e continuano a farsi le une contro le altre – hanno costantemente affilato le proprie armi controrivoluzionarie (materiali e ideologiche) per sconfiggerlo e per rimandare il più lontano possibile nel tempo l’appuntamento storico, non con lo “spettro del comunismo”, ma con la sua concreta e tremenda forza sociale incarnata da un proletariato internazionale sempre più numeroso, e con la sua formidabile forza politica incarnata da un partito di classe che, sebbene sia stato sfigurato, falsificato, sconfitto, distrutto nelle battaglie di classe finora svoltesi, rinascerà prepotentemente sull’onda della ripresa della lotta di classe a livello internazionale.

Ma altri spettri, da tempo, turbano le borghesie dei paesi europei.

La controrivoluzione borghese, negli anni Venti del secolo scorso, per sconfiggere il movimento rivoluzionario in Russia e nel mondo prese le sembianze del “socialismo in un solo paese”, mentre sviluppava esclusivamente capitalismo (che chiamammo staliniana), e così poté approfittare delle difficoltà del movimento proletario europeo che non riuscì ad agganciarsi allo slancio rivoluzionario del proletariato russo a causa di molti fattori negativi presenti – uno dei più decisivi fu la recidiva democratica e riformista che intossicava tutti i partiti della II Internazionale, salvo alcune correnti di sinistra come quella italiana –. Da allora, lo “spettro del comunismo” evocato nel Manifesto di Marx-Engels, non spaventò più le classi dominanti borghesi – che continuarono però per decenni ad ingannare il proletariato mondiale con la propaganda del falso socialismo e del falso comunismo – ma servì a rafforzare la presa delle più diverse varianti dell’opportunismo sul proletariato di ogni paese per deviarlo, confonderlo, imbrigliarlo nelle maglie del riformismo e del nazionalismo fino a portarlo completamente disarmato dal punto di vista ideologico, organizzativo, politico al secondo e più devastante macello imperialistico mondiale: la seconda guerra mondiale. Forti della sconfitta del movimento rivoluzionario negli anni Venti, le borghesie della gran parte delle potenze del mondo, dopo che in Italia e in Germania avevano scovato la soluzione fascista e nazionalsocialista, come controrivoluzione preventiva, per combattere il pericolo rappresentato dalle lotte dei movimenti proletari rivoluzionari, si ritrovarono nuovamente a dover fare i conti con i più acuti contrasti interimperialistici che la conclusione della prima guerra mondiale non aveva assolutamente risolto. Se da un lato, le borghesie d’Italia e di Germania difendevano con il loro fascismo una politica sociale raffinatamente interclassista e una politica imperialista improntata nella supposta supremazia ariana, dall’altro le borghesie francese, inglese, americana tornarono ad agitare il vessillo della “democrazia”, della “libertà”, della “pace” in funzione antifascista, attirando nel proprio blocco la Russia stalinizzata, ma solo dopo che questa aveva tentato di condividere con la Germania nazista la spartizione della Polonia. La seconda guerra mondiale tornò a devastare l’intera Europa e questa volta in modo molto più profondo, e non risparmiò nessuna zona del mondo ritenuta strategica da entrambi i blocchi belligeranti (gli Alleati da una parte, e le Potenze dell’Asse dall’altra), come l’oceano Pacifico, vista l’attività militare del Giappone lanciatosi alla conquista dei paesi asiatici, tutto il Medio Oriente ricco di petrolio e il Nord Africa. Ma è in Europa che inzia lo scontro tra i giganti imperialisti ed è in Europa che, di fatto, si decidono le sorti della guerra: o la Germania, vincendo la guerra, riusciva nell’intento di “unificare” l’Europa sotto il suo centralizzatissimo e totalitario dominio, oppure l’Europa tornava ad essere il continente in cui le potenze imperialistiche storiche –  cui si era aggiunta la Russia con tutte le sue mire sui paesi di lingua slava dell’Est europeo – si dovevano nuovamente destreggiare tra gli inevitabili contrasti di interesse che si indirizzavano oggettivamente verso i due blocchi imperialisti in formazione. La Germania perse, Regno Unito e Francia vinsero soprattutto grazie all’intervento degli Stati Uniti, vinse anche la Russia e vinse alla fine anche l’Italia, sbarazzatasi di Mussolini e della partecipazione al blocco imperialista dell’Asse; naturalmente perse, per ultimo, il Giappone, piegato alla fine con le le bombe atomiche della democraticissima America.

Finita la guerra, l’Europa si presenta come un grande mercato a disposizione delle merci e dei capitali americani e come una formidabile fucina di profitti grazie soprattutto alla ricostruzione di interi paesi. Ma rimane nella carne e nel cuore delle popolazioni massacrate nella guerra mondiale lo spettro di una guerra enormemente più devastante della precedente. Alle classi dominanti borghesi serviva riconquistare la fiducia soprattutto dei rispettivi proletariati chiamati, come era logico in regime capitalistico, ad ulteriori sacrifici – dopo l’ecatombe di guerra – nella ricostruzione e nella riorganizzazione economica dei paesi che dovevano passare da una “economia di guerra” ad una “economia di pace” con l’obiettivo di accumulare profitti ben più corposi di quanto non fossero prima della guerra; in maniera diversa, ovviamente, a seconda che si fosse in uno o nell’altro dei due “campi di influenza” in cui il mondo si era diviso.

 

DALLO SPETTRO DELLA GUERRA ATOMICA ALLO SPETTRO DELLA CRISI MONDIALE

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Nella Russia stalinana e nei paesi suoi “satelliti” di cosiddetta “democrazia popolare”, sotto la pressione economica e sociale di uno sviluppo capitalistico che cercava di approfittare del periodo di “pace” instauratosi in particolare in Europa, i nuovi governanti russi, “destalinizzanti” e “destalinizzati”, tentavano attraverso rapporti internazionali votati alla “distensione” – seppur fredda – di far passare il falso concetto che i due “campi” che si dividono il mondo – il “campo socialista” e il “campo capitalista” – possono sì lottare fra di loro, ma non necessariamente sul piano della guerra combattuta (che con le armi atomiche avrebbe vanificato ogni cosa), bensì sul piano della competizione economica fra i due sistemi: quello ad economia “pianificata” e quello ad economia “di mercato”. Siamo nel periodo della cosiddetta “guerra fredda”, di un “equilibrio del terrore” dovuto all’armamento atomico delle due superpotenze, Stati Uniti e Russia.

Nel mondo occidentale, la propaganda anticomunista si incentra non contro il comunismo rivoluzionario come all’epoca di Marx o di Lenin, ma contro il regime sovietico e i regimi da esso dipendenti o influenzati in quanto “totalitari” e in quanto impediscono la “libertà d’impresa” attraverso la quale, ovviamente, i capitali dei grandi trust economici e finanziari occidentali avrebbero il via libera per colonizzare direttamente anche quel vasto mercato rappresentato per l’appunto da Russia, Cina, Germania est e tutti i paesi dell’est europeo fino all’Asia centrale.

Con il mito del “socialismo reale” le macchine propagandistiche di Mosca e di Pechino illudevano i proletari di tutto il mondo sul fatto che il mondo diviso tra due sistemi economici completamente opposti, mentre la realtà materiale non poteva che registrare sotto la sola voce capitalismo tutte le economie nazionali esistenti, perché tutte erano, e sono, basate sulla legge del valore, sul mercato, la moneta, il lavoro salariato, il profitto capitalistico. Andava per la maggiore l’oscena propaganda non soltanto delle “vie nazionali” al socialismo, ma addirittura del raggiungimento del “comunismo” nel 1980, senza tener conto che lo sviluppo del capitalismo compo rta periodicamente la comparsa di crisi economiche di varia intensità. Arrivò il 1980 e, con l’intensificazione degli scambi commerciali tra tutti i paesi, cosiddetti “socialisti” e non, arrivarono anche i fattori di crisi che, nonostante la famosa “cortina di ferro”, iniziarono a minare le difese ideologiche, politiche e militari con cui l’impero sovietico si era protetto per una quarantina d’anni. Nel 1975 l’economia mondiale precipitò in una crisi di sovrapproduzione che mise in ginocchio le più forti potenze imperialistiche, ma non si trasformò in crisi di guerra; i mercati avevano ancora risorse per assorbire i colpi della crisi e uno degli elementi che diedero respiro all’economia capitalistica mondiale è stata la lenta ma inesorabile implosione dell’impero russo liberando in questo modo vasti territori economici dalla stretta economica e militare ai quali erano costretti dalla fine della seconda guerra mondiale in poi: il disordine mondiale, da allora, diventa la nuova situazione in cui  tutti i paesi tentano di ritagliarsi una posizione di vantaggio, o perlomeno di minor svantaggio, senza doversi fare la guerra direttamente. Dal crollo dell’URSS e del suo impero la propaganda borghese trae una conclusione: il “comunismo” ha fallito, non ha potuto e non potrà mai essere una valida alternativa al capitalismo. Del capitalismo si riconoscono debolezze e aspetti anche terribili, rispetto ai quali si tratta di far valere, in modo più coerente e determinato da parte dei governi delle maggiori economie mondiali, i sacri valori della democrazia, della libertà, della pace per i quali non si smette mai di coinvolgere le masse proletarie di ogni paese. Il riformismo, che ai tempi di Lenin veniva battuto in teoria e in pratica, torna così a rappresentare – in tutte le sue varianti “nazionali” – l’unica arma ideologica di “sinistra” con la quale si contrabbanda, sotto ogni cielo, la politica di segno “proletario”. Con il crollo dell’Urss, la propaganda borghese sperò, e spera ancora, di poter seppellire definitivamente lo spettro del comunismo, quello di Marx naturalmente, perché quello falso ha svolto egregiamente il suo compito di deviare e paralizzare il movimento proletario nel suo cammino verso l’emancipazione.

Che il socialismo non sia mai stato realizzato né in Russia né in qualsiasi altro paese al mondo, è tesi nostra da sempre; basta riferirsi ai numerossimi scritti contenuti nella stampa del nostro partito per averne la dimostrazione. Resta il fatto che, dopo aver falsificato completamente la teoria del socialismo, stravolgendo da cima a fondo la teoria marxista (basta citare l’invenzione del “mercato socialista” nelle economie cosiddette “pianificate” che, essendo anch’esse solo ed esclusivamente capitalistiche, non potevano che subire, ad est come ad ovest, una delle tante caratteristiche del mercantilismo capitalistico, l’anarchia del mercato e mandare all’aria ogni piano “quinquennale”, “settennale” o “triennale” che dir si voglia), si aggiunse, a questa falsificazione, l’ulteriore menzogna di un comunismo crollato e fallito per sempre.

Se ad Oriente l’ideologia del “socialismo in un solo paese” fece da base all’annichilimento delle masse proletarie di Russia, Cina e di tutti i paesi che subirono la loro influenza diretta e indiretta, ad Occidente l’ideologia che continua ad avere forza è quella della democrazia, declinata come metodo politico per superare gli egoismi nazionali e i contrasti capitalistici. Dopo le devastazioni della seconda guerra mondiale, torna in auge il mito di un’Europa pacifica, economicamente progressiva, politicamente stabile, socialmente benestante, ideologicamente basata sulla storia millenaria di arte, cultura e bellezza, capace di rappresentare un modello per il mondo e di essere un polo d’attrazione per tutti i paesi che subirono nei secoli la sua colonizzazione.

Al proletariato dei paesi europei si propinò, perciò, l’idea di un’Europa che gradatamente, a passi successivi, poteva raggiungere una sua Unione attraversando le diverse fasi di associazione economica, commerciale, culturale, militare e finalmente politica. Il tutto condito con politiche sociali – in realtà ereditate direttamente dal fascismo! – basate sugli ammortizzatori sociali, sulla cooperazione tra imprenditori e lavoratori, su di un benessere derivato da una distribuzione del reddito nazionale più “equo” e, naturalmente, sulla libertà di impresa, di associazione, di culto, di organizzazione, di sciopero ecc, ecc. Il riformismo socialista che il fascismo aveva realizzato, fu recuperato ed applicato dalla democrazia postfascista: a dimostrazione che il capitalismo può cambiare pelle ma non struttura portante, e che il potere borghese può cambiare casacca e metodi di governo – parlamentare, presidenziale, autoritario, militare, democratico, fascista, a seconda delle situazioni – ma non i suoi obiettivi di fondo che lo legano indissolubilmente alla conservazione sociale. 

       Ma è la stessa Europa, mitizzata come unità economica e politica, se si vuole come “Unione Europea”, a giocare il ruolo di araba fenice che non si trasformerà mai in una realtà vivente. Molto spesso abbiamo trattato questa questione lungo i settant’anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma vale la pena tornarci anche perché è sotto gli occhi di tutti che “l’Europa” come unico corpo organico non esiste, e più si va avanti nel tempo, più gli interessi nazionali di ciascun paese si fanno pressanti e decisivi mettendo costantemente in crisi l’associazione europea.

 

A 60 ANNI DAI TRATTATI DI ROMA, L’EUROPA È SEMPRE PIÙ IN CRISI

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Nel 60° dei tanto osannati Trattati di Roma che diedero i natali, secondo i governanti europei, ad un’Europa che doveva gradatamente svilupparsi da “associazione economica” ad “associazione politica”, passando dalla fase dei “trattati” tra paesi che si sono fatti la guerra alla fase della “costituzione” dell’Europa politica nella quale i diversi paesi si sarebbero dovuti “fondere”, ogni governo borghese è costretto a constatare che l’Europa economica è sempre più in crisi e che l’Europa politica non esisterà mai. La storia non si fa né coi Trattati, né con le Costituzioni; semmai, Trattati e Costituzioni non fanno che registrare – con la inevitabile ipocrisia che domina la politica e l’ideologia borghese – i risultati dei rapporti di forza tra i diversi paesi, rapporti di forza espressi dalla potenza economica, militare, politica di ciascuno di essi, inseriti nella prospettiva, a breve o a lungo termine, di far valere quei propositi che servono non tanto a definire il grado di dominio o di sudditanza di un paese rispetto all’altro, ma a illudere le grandi masse di ogni paese sulle possibilità di un progresso graduale, pacifico, economicamente e politicamente vantaggioso.

E’ inevitabile, in regime capitalistico, che gli interessi economici e finanziari primeggino su qualsiasi altro interesse, e che l’ideologia, l’arte, la cultura sono al servizio di quegli interessi. Era, ed è, quindi normale che, terminate le devastazioni di guerra, sulla base di interessi economici condivisi tra i diversi paesi – sull’onda della “ricostruzione post-bellica” e di un’economia che a livello mondiale tornava a girare vorticosamente approfittando delle grandi distruzioni di guerra – si potesse giungere alla regolamentazione, vieppiù definita, degli scambi commerciali e della circolazione delle merci, dei capitali e delle persone. La pace imperialista serve esattamente a questo: che ogni economia nazionale riprenda uno sviluppo accelerato in tutti i settori per riprodurre e valorizzare masse di capitale sempre più gigantesche; ma ogni economia “nazionale” è sempre più integrata, volente o nolente, nell’economia mondiale nella quale i paesi più potenti dominano su tutti gli altri paesi. Il capitalismo, nel suo stesso sviluppo, produce i fattori di crisi del proprio sistema che, nell’epoca del capitalismo maturo, danno origine alle crisi di sovrapproduzione capitalistica; e quando questa crisi di sovrapproduzione sopraggiunge non colpisce più soltanto un paese e i suoi eventuali paesi satelliti, ma colpisce gruppi di paesi diffondendosi facilmente a livello mondiale. E’ quel che è successo non solo nel 1975, ma anche nel 1982, nel 1987, nel 1991, nel 2001-2002 e nel 2007-2008, crisi che hanno colpito, con intensità diverse, certo, ma sempre tutti o una parte dei paesi di quella che si chiama ancora “Unione Europea”. Già dopo la crisi mondiale del 1975 i paesi europei che avevano avviato il Mercato Comune Europeo, si predisponevano ad allargare i membri della loro associazione nel tentativo di parare i colpi di quella stessa crisi. E per qualche decennio ancora, attraversando altre crisi di profondità e vastità inferiori, i paesi fondatori della cosiddetta Comunità Europea riuscirono a rappresentare non soltanto un mercato di primaria importanza, ma anche un obiettivo “politico” per i paesi che a loro volta uscivano da costrizioni politico-militari (grazie all’implosione dell’impero sovietico) e che erano assetati di relazioni economiche, commerciali, industriali, finanziarie e politiche attraverso le quali cercavano un loro riposizionamento nello scacchiere mondiale. Ma un’altra crisi profonda è arrivata, nel 2008, le cui conseguenze negative sono ancora vissute da grandissima parte dei paesi europei; conseguenze che generano non solo malcontento e tensioni sociali, ma movimenti politici che tentano di raccogliere quel malcontento nella funzione cosiddetta – ma anch’essa del tutto ingannevole – “anti-sistema”.

 

LE NUOVE FORME PICCOLOBORGHESI DI RAPPRESENTANZA DEL MALCONTENTO RIPESCANO LA VECCHIA FORMULA DELL’INTERCLASSISMO

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E’ innegabile che, rispetto al movimento fascista, formatosi subito dopo la prima guerra mondiale per raccogliere inizialmente il malcontento degli strati di piccoloborghesi e contadini rovinati dalla guerra, la borghesia italiana allora al potere passò da una considerazione ben poco benevola ad una considerazione di utilità imprevista, tanto da puntare su di esso al fine sia di bloccare e far indietreggiare il movimento operaio in ascesa sul terreno di classe e rivoluzionario, sia di rispondere alle difficoltà e agli impasses in cui si trovavano i partiti borghesi tradizionali nella situazione di caos generata dalla guerra e dalle sue conseguenze. Non allo stesso modo, è certo, ma qualcosa di simile avviene anche oggi, rispetto alla prolungata crisi capitalistica e al caos politico in cui sono precipitati i partiti parlamentari tradizionali (gonfi di corruzioni, malversazioni, latrocini, infiltrazioni mafiose ecc.) con la formazione di movimenti, cosiddetti “trasversali” perché pescano a destra, al centro e a sinistra, come il Movimento 5 Stelle e, prima di lui, la Lega Nord: movimenti che raccolgono un malcontento generalizzato, generato non solo da serie difficoltà economiche, ma anche dalla sfiducia molto diffusa verso i partiti parlamentari per le ragioni sopra ricordate. Questi movimenti, raccolgono, nello stesso tempo, le istanze nazionaliste più profonde, scavano nelle ragioni identitarie storiche del paese, delle regioni e perfino dei paesini, e tendono a riproporre un passato (ad esempio il regime fascista, a cui alcuni, a seconda delle convenienze elettorali, si riferiscono direttamente, altri molto indirettamente) nel quale, per riprendere uno slogan revanscista, “pur stando peggio, si stava meglio di oggi”, ma che finiscono sempre per riproporre sostanzialmente la ricetta dell’interclassismo, con gli argomenti di quello che oggi molto genericamente viene chiamato “populismo”.

Se ieri la grande maggioranza della popolazione era europeista, e gli stessi partiti di sinistra erano “eurocomunisti” – perché all’idea dell’Europa unita venivano associati vantaggi economici e sociali, anche se minimi – oggi, che l’Europa viene recepita come una tassa in più da pagare senza avere in cambio alcun vantaggio immediato, la reazione che monta è antieuropeista, e naturalmente vi è collegata l’idea di sganciarsi dall’euro per tornare alla moneta nazionale con la quale, si illudono, di poter avere molta più libertà nel commercio e nelle relazioni economiche internazionali.

Non è certo la prima volta che i personaggi politici più in vista si chiedono: quale Europa vogliamo? Quale Europa stiamo costruendo? E visto che tutte le volte che si mettono a confronto i dati economici dei paesi che ne fanno parte, le politiche delle istituzioni europee e i rapporti di forza tra i diversi paesi membri dell’Unione Europea, emergono soprattutto i contrasti e non la comunanza di interessi, allora i suggeritori ideologici, gli intellettauli, i “politologi” non possono fare altro che tirar fuori dalle loro riflessioni i più vecchi e rancidi temi che hanno sempre rappresentato il pensiero borghese: le radici storico-culturali, le identità, i valori della società, le abitudini di vita e le tradizioni dei popoli che abitano da sempre l’Europa!

A che cosa si riferiscono, dunque? Nel Corriere della sera del 10 aprile scorso si sintetizza così: «cristianesimo e illuminismo hanno forgiato il nostro destino», e conclude: “adesso serve un passo avanti fondato sull’appello alla sovranità popolare».

In questo prestigioso media della borghesia illuminata italiana emerge una orgogliosa alzata di voce: a proposito «dell’identità, ideologica o razziale che fosse», in nome della quale sono stati commessi orrori inenarrabili, si ammette che l’Europa è «uscita complessivamente sconfitta dalla guerra, e spartita di fatto tra America e Russia», ma si evidenzia che l’Europa, finora, si è vergognata di rivendicare le sue “radici” e che «per farci perdonare prima il fascismo e poi il comunismo», l’unica via è parsa “quella di sbiadire gli elementi costitutivi della nostra storia fino a cancellarli». E quali sarebbero questi elementi costitutivi della storia d’Europa che si intende riportare in auge? «Nel senso storico-culturale del termine, la nostra Europa nasce dall’incontro e dalla tensione tra la sua radice ebraico-cristiana e quella razionalistico-illuminista, con il decisivo apporto del diritto romano. Più precisamente, dalla secolarizzazione che l’illuminismo ha prodotto nei confronti del Cristianesimo, rendendone compatibili i principi con quelli della democrazia». Gran bel salto indietro nella storia: la borghesia rivoluzionaria aveva chiuso con il clero e l’aristocrazia; la borghesia reazionaria di oggi, mentre mantiene re e regine nel lusso per dare lustro alle propri corti, torna a sbandierare i princìpi religiosi con cui mantenere la presa sulle masse. 

Ma queste radici, secondo gli autori di questo articolo, non bastano a completare il quadro, perché quello che hanno chiamato «il concreto orizzonte storico, e anche culturale, filosofico» in cui si è verificato l’incontro-scontro tra la radice ebraico-cristiana e la radice illuminista, non può non prevedere il «rapporto tra latinità e germanesimo», dove la latinità avrebbe assorbito e poi trasmesso a tutto il continente il «germe fecondo della cultura greca» e il germanesimo avrebbe in qualche modo inglobato e trasformato elementi di “civilizzazione” anglo-francesi, provenienti da occidente, e russo-slavi, provenienti da oriente. A che serve ridipingere con questi brevi schizzi il quadro delle radici d’Europa? E qui salta fuori l’orgoglio dei popoli mediterranei: A rivendicare maggiore attenzione verso «il mondo latino e mediterraneo» nel tentativo di contrastare (pardon, gli autori parlano di “riequilibrare il rapporto”) l’atteggiamento supponente della Germania con cui Berlino si rivolge ai paesi mediterranei, quindi non solo Grecia, ma anche Italia e Spagna. Si ammette, ovviamente, che «senza il blocco tedesco l’Europa perderebbe gran parte della sua forza demografica ed economica», ma senza «la tradizione greca e latina, smarrirebbe la sua stessa anima»...

Beh, ecco come si alimentano i miti: ci si deve riferire all’anima, allo spirito che aleggia, ad un lontano passato di cui la storia ha sepolto caratteristiche sociali ed economiche superate dall’organizzazione economica successiva, ma di cui si vuol salvare la parte spirituale che si pretende senza tempo, eterna, e perciò riciclabile nella società moderna per modellarne una civiltà neutra a cui richiamarsi costantemente. Ma la civiltà moderna, la civiltà borghese, al di là dell’anima bella della cultura greco-latina, del primo cristianesimo antischiavista e della filosofia che con Hegel ha tentato di trasformare nella politica laica e nella modernità capitalistica il contenuto sociale del cristianesimo, è fatta soprattutto da un’economia che si basa sul capitale e sul lavoro salariato, cioè sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo nella forma di un moderno schiavismo; un’economia basata sulla proprietà privata – ereditata, peraltro, dalle società divise in classi precedenti – e sull’appropriazione privata della produzione sociale: e questa è la grande novità del capitalismo rispetto alle società precedenti. La vera anima della società borghese, nata e sviluppatasi in Europa e poi diffusasi in tutto il pianeta, è il concreto, rozzo, materialissimo capitalismo la cui caratteristica principale è la grande industria e il mercantilismo più sfrenato, con tutto il suo apparato militare e poliziesco concentrato nello Stato a sua difesa, e con tutto l’antagonismo di classe che emerge inesorabilmente dalle viscere di una società che, sebbene abbia semplificato la divisione in classi contrapposte, è comunque divisa in classi con la caratteristica di acutizzarne sempre più le differenze e i contrasti sociali.

«La nostra epoca, l’epoca della borghesia – si legge all’inizio del Manifesto di Marx-Engels – si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato.(...) classi di oppressori e classi di oppressi».

Se quelle radici identitarie avessero storicamente la reale forza di dirigere l’organizzazione sociale verso il superamento di ogni oppressione, di ogni sfruttamento, di ogni guerra, tale superamento sarebbe già stato avviato: in 230 anni dalla grande rivoluzione francese, c’è stato sicuramente un progresso economico e tecnico formidabile, in generale, ma tale progresso si è espresso nell’oppressione delle grandi masse proletarie in ogni paese e nella formazione di un gruppo di paesi più avanzati e potenti che dominano su tutti gli altri, che opprimono, perciò, intere popolazioni. Il capitalismo non poteva che svilupparsi in modo ineguale da paese a paese, a seconda delle risorse interne, dello sviluppo della produzione artigianale e manifatturiera, delle relazioni e degli scambi commerciali, ma quello sviluppo dipendeva in prima istanza dalla formazione e dallo sviluppo della grande industria. «La grande industria – si legge ancora nel Manifesto – ha creato quel mercato mondiale, ch’era stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria e, nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo. (...) la borghesia moderna è essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, d’una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico. (...) Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolita alla produzione e al consumo di tutti i paesi. (...) All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. (...) Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà [nella sua civiltà, NdR] tutte le nazioni, anche le più barbare».

Che rapporto ha avuto la borghesia con le radici storico-culturali dei paesi in cui ha raggiunto il dominio? Il Manifesto di Marx-Engels riconosce che «la borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria», ma in che cosa consisteva questa rivoluzione? 

«Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”. Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi». Ecco dove va cercata l’anima dell’Europa capitalistica!

Vogliamo fare qualche esempio: la Germania non è diventata quella potenza economica di livello mondiale che è grazie al misto di radici culturali anglo-francesi e russo-slave, ma per uno sviluppo economico-industriale di primaria importanza; la Gran Bretagna non è stata per duecento anni padrona del mondo grazie alle sue radici celtiche e anglo-sassoni, ma perché giunse alla trasformazione economica capitalistica prima di tutti gli altri paesi; gli Stati Uniti non sono diventati la prima economia del mondo grazie alle radici tribali dei nativi e alla colonizzazione europea, ma all’impianto diretto del capitalismo da parte degli immigrati europei in un paese gonfio di risorse naturali di ogni genere in cui non esistevano poteri feudali radicati da tempo come in Europa, ma un’economia di sussitenza e nomade come quella dei nativi americani facilmente eliminabile; la Francia non è diventata una potenza capitalistica e coloniale di primaria importanza grazie alle sue radici illuministe, ma in virtù del suo slancio borghese rivoluzionario col quale ha terremotato le economie di tutta Europa a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo.

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Che le borghesie europee non sappiano esattamente che pesci prendere rispetto ad una Unione che si rivela sempre più un bluff per alcuni e un vantaggio concreto per altri, è oramai assodato. La Brexit è stata semplicemente l’ufficializzazione di una separazione che il Regno Unito ha sempre vissuto nei confronti del continente europeo; ma da sempre, nell’Unione Europea, ogni paese si è fatto guidare dai propri interessi nazionali, subendo costantemente le decisioni che prendevano i paesi più forti (leggi Germania, Francia, Regno Unito); nello stesso tempo, allargando la rosa dei paesi-membri e, quindi, inserendo i paesi anche dell’Est-Europa dopo il crollo dell’URSS, non si faceva che accumulare interessi contrastanti e contraddizioni ai contrasti già esistenti e che già lavoravano alla disunione piuttosto che all’unione.

Con l’ultimo vertice europeo col quale si intendeva celebrare il 60° della nascita dell’ “Europa”, è emerso ancor più il vuoto: i partecipanti non hanno potuto fare altro che constatare che “l’Europa” procede a “velocità diverse”; dunque, la crescita economica – leggi: la valorizzazione del capitale e la produzione di profitto capitalistico – non è “pianificabile” in modo equilibrato tra tutti i paesi membri, ma sembra sia arrivato il momento – per evitare lo smembramento completo dell’Unione Europea – di accettare che ogni paese proceda secondo la forza economica che possiede e secondo la forza politica e militare di cui dispone per difendere i suoi interessi. L’imperialismo, ossia la politica estera delle potenze economiche mondiali, può anche giungere, come diceva Lenin, ad essere una politica di molte o, ipoteticamente, di tutte le potenze economiche che dominano il mondo; ma non potrà che essere l’espressione più alta della spietatezza con cui la borghesia capitalistica opprime le masse proletarie e interi popoli al solo fine di mantenere e aumentare il proprio potere, il proprio dominio. Non sono le rispettive radici culturali a guidare le azioni delle borghesie imperialiste: sono gli interessi economici e finanziari, del tutto egoistici, delle classi dominanti a guidare la loro politica, le loro azioni. Come nelle relazioni industriali e commerciali esistono le alleanze, le compartecipazioni, le fusioni al fine di allargare il raggio dei propri affari e accrescere la potenza dei propri capitali, così nelle relazioni tra paese e paese esistono gli accordi, i trattati di alleanza e di unione al fine di difendere nella lotta di concorrenza mondiale gli interessi considerati “comuni”; naturalmente fino a quando per qualche membro di quella “unione” gli interessi vitali cambiano. L’esempio dell’Italia nella prima e nella seconda guerra mondiale è emblematico: da alleato di un blocco di potenze è passato all’altro blocco, nemico dei suoi vecchi alleati; ma anche la Russia di Stalin e la Germania nazista hanno dato una dimostrazione del genere: da amici per spartirsi la Polonia sono passati ad essere nemici acerrimi, ma sempre per lo stesso obiettivo: spartirsi in modo diverso un bottino di guerra.

Rimane comunque il problema, per ogni borghesia, di continuare a coinvolgere il proprio proletariato e la propria piccola borghesia nello schieramento a difesa di interessi che deve far passare per “comuni” a tutto il popolo e per i quali ha escogitato da tempo una formula, di fatto del tutto vuota, ma di grande effetto: la difesa della sovranità popolare! Sovranità popolare e democrazia, sovranità popolare ed elezioni, vanno di pari passo. L’inganno generale è che con le elezioni il “popolo” crede di decidere da chi si farà governare meglio, mentre è dimostrato dalla storia che chi governa, in regime borghese, è sempre una o più frazioni della borghesia dominante; in genere quella frazione, o quelle frazioni, che, all’immediato, danno l’idea di difendere con più successo gli interessi generali del capitalismo e gli interessi particolari di quelle frazioni borghesi.

L’elezione di un Obama o di un Trump alla presidenza degli Stati Uniti, può aver sconvolto molti – un presidente nero nell’America bianca?, un presidente inaffidabile che nemmeno il suo stesso partito voleva sostenere? – ma in realtà non è che la dimostrazione che la “sovranità popolare” da un lato, e la figura del “presidente” dall’altro, non costituiscono elementi decisivi nella politica del paese, perché sono gli interessi capitalistici rappresentati dai trusts e dalle lobby finanziarie ad avere il coltello dalla parte del manico e a decidere quale politica il paese deve perseguire.   

Nella prospettiva di farsi sostenere dal popolo, e in particolare dal proletariato, ogni borghesia dominante sa che deve tener conto degli antagonismi di classe esistenti e che da questi antagonismi possono emergere tendenze anticapitalistiche, antiborghesi, classiste che, se raggiungono un certo livello di maturazione e consapevolezza nelle masse proletarie, esse possono concretamente rappresentare un pericolo per la “pace sociale”, per gli affari e per lo stesso potere politico borghese.

Sarebbe sbagliato credere che la borghesia, accecata dalla voglia di accumulare profitti e tranquillizzata dal fatto di dominare la società dopo aver sconfitto la rivoluzione comunista  quasi cent’anni fa, non abbia la capacità di tirare le lezioni dalla storia. E una delle lezioni che ha tirato è certamente quella che con la democrazia – formula così duttile da poter essere declinata con moltissime varianti, a seconda delle tradizioni di ogni paese e delle sue “radici storico-culturali” – dunque con l’inganno democratico, riesce ad ottenere più durevolmente il risultato che cerca: la conservazione del potere politico e della società capitalistica.

In casi come quello dell’Europa, al proletariato europeo, uscito dalle immense tragedie della guerra, la borghesia trovò opportuno, da un lato, servirsi del riformismo socialista classico e, in particolare, dello stalinismo che ne riassumeva le diverse anime, per influenzare la parte di proletari che vedevano nel “socialismo in un solo paese” l’obiettivo per cui sacrificarsi e lottare, dall’altro, servirsi del riformismo borghese e cristiano per influenzare quella parte di proletari che vedevano invece nella Unione Europea la possibilità di un miglioramento generale delle proprie condizioni e la soddisfazione di quello spirito internazionalista che faceva parte della vecchia tradizione proletaria, attraverso il quale superare il nazionalismo più acceso che fu alla base della propaganda di guerra.

I miti della democrazia e dell’Europa unita dovevano sostituire lo spettro del comunismo e dell’internazionalismo proletario che si aggirava per l’Europa. E così è stato. Ma davvero lo spettro del comunismo non turberà mai più i sonni dei borghesi? La storia di ogni società finora esistita – afferma il Manifesto di Marx-Engels – è storia di lotte di classi. Le lotte fra le classi sono forse scomparse dal mondo? Possono forse scomparire grazie all’impegno di governanti votati alla pace, alla crescita economica, alla difesa dei valori della società attuale? Chiacchiere, parole nel vento, idee menzognere che sanno di rancido, che le classi dominanti borghesi continuano a far girare fino a quando la lotta di classe del proletariato non metterà la propria classe dominante borghese di fronte al dilemma: capitalismo o rivoluzione, guerra o rivoluzione.

Stiamo sognando? Sì, sogniamo come sognarono i proletari russi che dalle trincee della guerra imperialista volsero i propri fucili contro i propri ufficiali e diedero l’assalto al Palazzo d’Inverno; sogniamo come sognarono i proletari italiani, tedeschi, austriaci, francesi, serbi, polacchi, ungheresi, americani e di tutto il mondo all’epoca della costituzione della Terza Internazionale, facendo sentire nella schiena degli oppressori di tutto il mondo il pericolo, finalmente, di perdere il potere politico ed essere gettati nel dimenticatoio della storia: sogniamo come sognarono i comunardi parigini che, soli contro due eserciti di professionisti della guerra, si batterono per l’emancipazione dallo sfruttamento capitalistico. E lottiamo, oggi con le armi della critica, ma pronti un domani a passare alla critica delle armi, affinché resista nel tempo il filo rosso della teoria marxista, arma indispensabile per la ricostituzione del partito di classe internazionale e per guidare le masse proletarie nella ripresa della lotta di classe e nella prospettiva della lotta rivoluzionaria a livello mondiale.

Le radici storico-culturali del proletariato, quelle che per noi sono le sole che hanno valore rivoluzionario, vanno cercate nelle lotte di classe e nelle lotte rivoluzionarie di un passato che non è sepolto, ma che riemergerà in forza non di idee e di fantastiche concezioni del mondo, ma delle contraddizioni materiali che la società capitalistica non riesce e non riuscirà mai a dominare.

«Con lo sviluppo della grande industria, dunque – afferma il Manifesto del partito comunista – viene tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili».

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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