Il populismo, ideologia piccoloborghese e reazionaria, è antiproletario quanto la democrazia borgheseLe posizioni 

(«il comunista»; N° 149;  Giugno 2017)

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Da qualche anno è di moda etichettare determinati movimenti politici o certe posizioni politiche con il termine di populista. Che abbia attinenza diretta con il popolo è evidente, ma, in genere, al termine “populista”, commentatori e media assimilano la caratteristica di demagogia, in quanto il populismo - attraverso appelli moralistici rivolti ad una indistinta massa popolare per difendere le “tradizioni”, la “cultura”, il benessere, le abitudini e l’identità nazionali o di razza -, tende a promettere cose che non verranno mai mantenute. Mai mantenute, in realtà, non tanto perché i populisti non le vogliano mantenere, ma perché la spinta economica capitalistica e gli interessi delle classi dominanti e delle loro diverse frazioni, insieme alle inevitabili contraddizioni che i contrasti sociali e di classe generano, sono talmente incontrollabili che nessuno di quegli appelli  potrà mai trasformarsi in risultato concreto se non eccezionalmente, in periodi di tempo limitati e certamente non attraverso le forme della democrazia, ma attraverso le forme dell’aperto totalitarismo capitalistico (come il fascismo e il nazismo dimostrarono).

Generalmente, il populismo è considerato, proprio per questi motivi, di destra e, perciò, tendenzialmente antidemocratico. La democrazia viene considerata, in genere, “di sinistra” per il fatto di venire contrapposta al fascismo, al totalitarismo, alla dittatura.

In realtà, con il succedersi delle società nella storia, gli stessi termini originari hanno assunto significati ideologici e politici diversi e, giungendo alla società borghese, la democrazia è diventata una concezione in grado di contenere aspetti del tutto diversi e contraddittori; viene declinata nei modi più disparati, maggioritaria, vera, nuova, diretta, dal basso, dall’alto, partecipata, presidenziale, parlamentare, blindata, popolare, proletaria e chi più ne ha più ne metta. Nella democrazia borghese - basti guardare agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, alla Francia o all’Italia - le forme più aperte di coinvolgimento del popolo, dei cittadini, alla vita politica, si condensano nelle elezioni, cioè in quella rappresentanza dei diversi interessi di parte esistenti nella società che sono i raggruppamenti politici, organizzati più o meno strutturalmente in partiti, in associazioni o in movimenti. Ma ciò che determina il vero operato delle rappresentanze politiche nelle istituzioni democratiche sono gli interessi economici specifici che le esprimono (e che le finanziano e le sostengono). Da questo punto di vista è sbagliato pensare che la classe dominante borghese sia un’associazione del tutto omogenea di capitalisti e di suoi rappresentanti che si muove unitariamente e sempre all’unisono. In una società basata sulla proprietà privata e sull’appropriazione privata della produzione sociale, la norma è la concorrenza, il contrasto, la lotta per accaparrarsi quote di profitto e di mercato più grandi sottraendole ai concorrenti con tutti i mezzi leciti e illeciti; più che di “unione” tra borghesi si deve parlare di “alleanza” tra gruppi o frazioni che può cambiare e trasformarsi in contrasto e scontro, a seconda della modificazione dei rapporti economici, finanziari e politici tra quei gruppi o frazioni. 

Ciò che unisce veramente i borghesi non è il “bene comune”, il “bene della nazione”, l’interesse di tutto il popolo, ma la difesa di un sistema di sfruttamento – del lavoro salariato – dal quale tutti i borghesi ricavano il loro profitto. Inoltre, i lavoratori salariati, costituendo in tutti i paesi capitalisticamente sviluppati la maggioranza della popolazione e avendo concretamente interessi economici e sociali del tutto opposti a quelli dei capitalisti, hanno dimostrato nella storia non solo di ribellarsi allo sfruttamento capitalistico ma anche di lottare con metodi rivoluzionari per cancellarlo dalla faccia della terra; per queste ragioni essi rappresentano un pericolo per il potere della classe borghese dominante e la difesa da questo pericolo accomuna tutti i borghesi, tutti i capitalisti, grandi o piccoli, che abbiano in mano le leve del comando delle aziende, dello Stato centrale o delle istituzioni periferiche. Dunque, ciò che unisce i borghesi sono fondamentalmente due fattori: gli affari dai quali trarre maggior profitto, in patria o sui mercati esteri a seconda della forza delle proprie aziende; il mantenimento del sistema di sfruttamento del lavoro salariato e la sua difesa dagli attacchi del proletariato in lotta per i propri interessi di classe e, tanto più, se con mezzi e metodi  rivoluzionari.

Lo sviluppo del capitalismo, in realtà, non ha soltanto allargato il mercato a tutto il pianeta, costituendo sempre più il campo decisivo della concorrenza intercapitalistica e interimperialista, ma ha di fatto reso indispensabile per ogni capitalista, per ogni gruppo o trust capitalistico, se vuole mantenere e sviluppare i propri profitti, il metodo delle alleanze, degli accordi sia sul piano economico e finanzario sia sul piano politico e diplomatico. Così quel che appare come base caratteristica dello sviluppo capitalistico è la rete di interessi intrecciata fra aziende – non necessariamente dello stesso settore economico – fra holding, fra Stati; ed è su quella rete di interessi che la  borghesia costruisce la sua forza economica, sociale, politica sui diversi mercati e teatri della concorrenza. La borghesia, dalla nascita, lotta contro le vecchie classi dominanti, contro le borghesie straniere, contro il proletariato e contro le frazioni della sua stessa classe che si frappongono allo sviluppo delle frazioni più potenti; e continuerà a lottare contro tutti finché non verrà definitivamente rovesciata come classe dominante e cancellata come semplice classe sociale, cosa che potrà essere attuata soltanto attraverso la lotta rivoluzionaria della classe proletaria che, a livello internazionale, cancellando il potere di classe della borghesia cancella anche il suo stesso potere di classe e, con ciò, ogni divisione in classi della società.

 

Democrazia: da rivendicazione rivoluzionaria a maschera del potere borghese

 

Democrazia, etimologicamente, provenendo dal greco, significa “potere del popolo”, potere di tanti, contrapposta quindi a Oligarchia, potere di pochi, potere di una élite.

Nell’antica Grecia il “popolo” che doveva possedere il potere politico (il potere deliberativo) era costituito dai cittadini pleno iure, ossia solo i cittadini possidenti (quindi non gli schiavi, gli stranieri ecc.) che avevano il pieno diritto di votare, e da questo punto di vista questi cittadini erano tutti uguali e partecipi all’assemblea che decideva. Parliamo di una società antica, schiavista, divisa in classi con interessi contrastanti, dove il concetto di uguaglianza era materialisticamente molto limitato, e riguardava in particolare i cittadini uomini che erano i soli ad avere ed esercitare i diritti politici mentre le cittadine donne, oltre a non avere diritti politici, avevano dei diritti giuridici ma molto limitati. Il concetto di uguaglianza a livello economico, sociale, politico, culturale sarà in realtà per moltissimo tempo estremamente limitato al genere maschile e ai possidenti. Bisogna giungere allo sviluppo economico capitalistico perché il popolo prenda parte alla vita politica della società, poco per volta naturalmente, fino a premere sulle ormai logore paratie di contenimento della società feudale, facendole saltare, per liberare lo sviluppo economico del nuovo modo di produzione e, sulla sua scia, per rendere liberi dai vincoli personali, sociali e giuridici tutti coloro che erano occupati, volenti o nolenti, in attività lavorative, dagli artigiani agli operai ai contadini: tutti diventano cittadini, tutti anelanti alla libertà, all’uguaglianza, alla fraternità come recitano le grandi parole che la rivoluzione francese ci ha trasmesso.

Ma il modo di produzione capitalistico, sviluppando nella società una struttura economica basata sulla proprietà privata (ereditata dalle società di classe precedenti) e sull’appropriazione privata della produzione sociale (vera caratteristica esclusiva della società borghese), ha trasformato la liberazione delle masse di lavoratori dai vincoli e dall’oppressione caratteristici del feudalesimo, in una nuova forma di schiavitù e di oppressione, la schiavitù salariale. Il proletario moderno è colui che non possiede nulla, se non la sua forza lavoro, che è obbligato a vendere al capitalista se vuole sopravvivere in una società in cui ogni prodotto, risultato di lavorazione industriale, agricola o di semplice raccolta naturale, è merce da vendere o da comprare, ed ogni attività lavorativa, ma anche ogni attività di divertimento, di ozio e di svago sono regolate dal mercantilismo, così come ogni attività di tipo culturale, sportivo, religioso, di carità e di aiuto sociale.

La democrazia moderna, la democrazia dell’epoca borghese, e soprattutto dell’epoca imperialista, non solo non è fondata sull’uguaglianza e, tanto meno, sulla fratellanza, ma è lontana mille miglia dalla libertà, parola magica che nelle società divise in classi vuol dire tutto e non vuol dire niente.  Indiscutibilmente per un lungo periodo la rivendicazione della democrazia politica, ed economica, ha condensato la spinta rivoluzionaria della nuova classe borghese che lottava contro le classi dominanti delle vecchie società feudali e asiatiche; e per un periodo ancora lungo, durante lo sviluppo del capitalismo all’esterno dell’Europa, grazie alla colonizzazione dell’intero pianeta, la rivendicazione della democrazia, col suo portato di indipendenza politica e di autodecisione dei popoli, ha costituito, per una buona parte dei paesi soprattutto dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, l’obiettivo nazionalrivoluzionario che faceva fare un passo avanti alla storia mettendo, nello stesso tempo, in difficoltà il dominio delle potenze imperialistiche sul mondo.

Liberté, egalité, fraternité sono grandi parole intorno alle quali la borghesia rivoluzionaria a fine Settecento e primi Ottocento è riuscita a mobilitare le grandi masse proletarie e contadine per rovesciare il potere dell’aristocrazia e del clero, liberando l’economia capitalistica già esistente dai limiti troppo stretti e intollerabili in cui i poteri feudali la costringevano. Ma quella “liberazione” apriva, dal punto di vista politico e sociale, l’era della libera intraprendenza economica, della libera concorrenza, del libero mercato, tutte “libertà” che potevano essere esercitate ad una condizione fondamentale: avere la libertà di sfruttare senza limiti la forza lavoro resa disponibile dalla rovina dell’economia feudale e delle sue istituzioni, avere la libertà di comprare o vendere la terra, uno dei mezzi di produzione basilari per la società, avere la libertà di investire e di far circolare senza limiti i capitali in denaro accumulati. Insomma, la mistificazione dell’eguaglianza, formalmente solo giuridica, tra capitalisti, proletari, preti, contadini, avvocati, burocrati, artisti ecc. ecc., per i quali il proprio voto vale 1 come il voto di qualsiasi altro elettore, fa da base alla mistificazione della libertà, grazie alla quale ogni individuo ha la stessa possibilità di decisione di qualsiasi altro individuo, senza distinzione di censo, posizione sociale, patrimonio personale ecc.: come dire che “la legge” della classe dominante borghese “è uguale per tutti”, che, tradotto nella realtà, significa che la legge della classe dominante borghese difende gli interessi della classe dominante borghese, come dimostrato dai fatti ad ogni pié sospinto, contro gli interessi delle altre classi sociali. Difesa del tutto valida anche nel caso in cui, talvolta, qualche rappresentante della classe dominante viene sorpreso in attività "illegali" e per questo motivo represso.    

Va detto che, nonostante l’enorme quantità di fatti che dimostrano che la democrazia borghese e le sue leggi non riescono ad impedire la dilagante corruzione, la dilagante criminalità, la dilagante povertà, la dilagante impotenza a prevenire disastri e catastrofi, il mito della democrazia resiste ancora. Ma il contenuto di quel che era la democrazia liberale dell’Ottocento, dopo due guerre imperialsitiche mondiali e la sequenza terribile di guerre di rapina locali dal 1945 in avanti e che continua nella sua tragica realtà, si è completamente polverizzato, svelando in realtà il vero volto del regime borghese, il volto del totalitarismo capitalista. Un totalitarismo di tipo economico e finanziario che nei paesi più sviluppati si può permettere di investire consistenti capitali per mantenere in piedi la macchina propagandistica della democrazia e le sovrastrutture politiche, religiose e sociali che ne giustificano l’esistenza, mentre nei paesi capitalisticamente meno sviluppati si mostra sempre più chiaramente - nonostante spesso quei paesi siano delle repubbliche democratiche - il volto dell’autoritarismo e della repressione di ogni anche più semplice libertà individuale.

Che cosa rimane della democrazia tanto declamata? E’ una parola vuota e il suo uso rivela l’obiettivo opportunista e, in sostanza, reazionario di continuare l’opera di intossicazione del proletariato al fine di impedirgli di riconoscere non solo i suoi veri nemici di classe, ma anche se stesso.

 

Il populismo, da ideologia velleitaria e parasocialista a strumento della reazione borghese

 

Il populismo, secondo il marxismo, è l’ideologia politica che nega la divisione in classi della società e, quindi, la lotta fra le classi antagoniste. Il populismo concepisce soltanto una particolare forma di antagonismo sociale: da un lato la maggioranza dei cittadini – il famoso popolo – e, dall’altro, una piccola minoranza di “privilegiati”, quella che i giornalisti amano chiamare “casta”. Questa ideologia sostiene, in sintesi, che “il popolo” (in quanto maggioranza assoluta rispetto alle élite) è portatore di valori positivi, mentre le minoranze elitarie sono facilmente corrotte e corruttibili, perciò rappresentano valori negativi.

Storicamente il populismo, come ideologia e organizzazione politica, nacque in Russia, dopo l’abolizione della servitù della gleba nel 1861, come risposta politica alla permanente repressione del potere zarista. E’ stata un’ideologia che rappresentava il disagio sociale della piccola borghesia urbana e rurale, con la quale si tentava di spingere il vasto contadiname russo alla ribellione e alla rivoluzione contro lo zarismo; di fatto, al di là delle differenti correnti del populismo russo, tutti concepivano la comunità rurale russa come base per l’emancipazione dal potere dell’autocrazia e, insieme alla comunità rurale russa, concepivano la piccola bottega artigiana, la piccola produzione come la base sana della società perché lì, secondo questa concezione, risiedeva la laboriosità, la proprietà dei mezzi di produzione e di distribuzione utile all’attività tecnica lavorativa, lì risiedeva quel legame diretto tra produttore e prodotto che il capitalismo stava distruggendo per sempre. Vi si mescolavano, inoltre, concetti anarchici e parasocialisti e, come era tipico dell’epoca, il populismo si fece conoscere soprattutto per le azioni terroristiche (come l’attentato allo zar Alessandro) attraverso le quali “il popolo” doveva difendersi dal prevalere del capitale e dei borghesi capitalisti ai quali l’autocrazia, volente o nolente, aveva aperto la strada; ma, in seguito alla fortissima repressione da parte del potere zarista, si sviluppò un populismo legalitario che chiedeva allo stesso zar (e quindi allo Stato da esso rappresentato), che in precedenza voleva uccidere, di sviluppare una forma economica non basandosi sulla grande industria ma sulle comunità rurali.

Il populismo, di fronte all’incedere inesorabile del modo di produzione capitalistico, del suo progresso tecnico e del suo aumento della produttività, velleitariamente cercava di sbarrargli il passo facendo leva sul presupposto che “il popolo” in quanto tale, grazie alla sua laboriosità e alle sue tradizioni storiche, è di per sé una forza; sul presupposto che la “volontà” del popolo – che costituisce la maggioranza – è la “giusta volontà” e nel quale non esistono differenze di classi e lotta fra le classi, ma esistono individui legati gli uni agli altri dal lavoro collettivo e dall’agire unanime, come fossero uniti da destini storici speciali. Inutile dire che il populismo astrae completamente dalle cause profonde dello sviluppo dell’economia sociale, quindi dai rapporti di produzione, e che perciò, anche quando avanzava critiche giustissime al capitalismo e alla borghesia, non era mai in grado di formulare un programma storico di emancipazione sociale reale come invece fece il marxismo che, col materialismo storico e dialettico e col determinismo economico, ha introdotto nella concezione della storia e nella spiegazione dello sviluppo delle società umane quegli elementi che hanno fatto della teoria marxista la scienza sociale per definizione.

Che l’idelogia populista sia di natura tipicamente piccoloborghese è quindi evidente. La piccola borghesia si trova tra le classi fondamentali della società capitalistica – i proprietari fondiari e i capitalisti (che fanno parte della classe borghese dominante) e il proletariato – e subisce inevitabilmente l’influenza dei rapporti di forza tra di esse, oscillando continuamente ora verso la grande borghesia, ora verso il proletariato. Resta in ogni caso valida e ferma l’osservazione che fece Marx nel suo scritto “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”, e cioè che non bisogna credere «che la piccola borghesia abbia per principio di mettere in prima linea un interesse egoistico di classe. Essa crede invece che le condizioni particolari della sua emancipazione siano le condizioni generali con le quali soltanto la società moderna può ottenere la propria liberazione e può evitare la lotta di classe» (1). L’illusione della piccola borghesia è appunto quella di sottrarsi alle conseguenze della lotta di classe tra proletariato e borghesia; ma quando questa lotta irrrompe sulla scena, essa, per interesse materiale ed economico immediato, sta dalla parte della difesa della proprietà privata e dello scambio mercantile, dunque della borghesia.

L’ideologia piccoloborghese è figlia, contemporaneamente, dei pregiudizi delle vecchie classi sociali vinte dalla borghesia, del mondo economico della piccola produzione e della piccola proprietà privata, e del mercantilismo attraverso il quale tessere relazioni tra piccoli produttori e piccoli bottegai. E’ un’ideologia reazionaria perché la ruota della storia non può essere girata all’indietro e perché, per difendere il mondo della piccola produzione e della piccola proprietà privata, la piccola borghesia è spinta a combattere contro tutto ciò che rappresenta un pericolo per il suo piccolo mondo, in particolare la lotta di classe del proletariato, perché in questa lotta essa vede – giustamente! – la sua fine definitiva.

Nel corso dello sviluppo del capitalismo, e delle sue crisi, la piccola borghesia ha goduto di una serie di vantaggi economici e di privilegi sociali nei periodi di espansione economica, ma ha sofferto la rovina nei periodi di crisi. E’ l’oscillazione tra periodi di espanzione e periodi di crisi economica che la fa oscillare verso posizioni di estrema reazione e posizioni radicali ed anche di carattere terroristico; in realtà essa non è in grado di difendere propri obiettivi storici per la semplice ragione che non ne ha, ma è spinta dai mutevoli rapporti di forza tra le due classi principali della società ad appoggiare o a farsi strumento di una o dell’altra classe nel tentativo di salvare la sua posizione sociale, il suo mondo della piccola produzione e della piccola proprietà privata. Perciò essa è destinata - più resiste nel tempo il regime borghese e, quindi, più si fa dispotico ed autoritario il suo potere sociale e politico - a diventare la forza reazionaria per eccellenza a difesa della conservazione sociale.

Il populismo di oggi ha ben poco a che vedere col populismo della metà dell’Ottocento o con quello dei primi decenni del Novecento. All’epoca in cui i grandi paesi capitalisti erano governati coi metodi della democrazia liberale, il populismo non era che una tendenza politica del riformismo e, perciò, poteva anche tingersi dei colori del “socialismo” o del “cristianesimo” visto il suo ideale di “popolo” (il “popolo lavoratore”, pittosto che il “popolo di dio”). Oggi, alla stessa stregua del riformismo, anche il populismo subisce tutti gli effetti di un lungo logoramento sia sul piano ideologico che su quello politico e sociale. Tutti i partiti dichiaratamente borghesi, di destra o di centro che siano, e tutti i partiti di cosiddetta sinistra – ormai borghesi anch’essi fino al midollo – contengono concetti e forme di propaganda che vengono definiti “populisti” ma che sarebbe probabilmente più giusto definire semplicemente popolari, nel senso più negativo del termine, poiché il loro contenuto è fatto soltanto di frasi ad effetto, di slogan, di pregiudizi, di luoghi comuni; e, in quanto “popolari”, sicuramente riferibili al concetto di democrazia diventato ormai così vuoto, confuso, annebbiato, usato in qualsiasi salsa, tanto da aver perso del tutto la sua caratteristica storica, ma non, purtroppo per la classe operaia, la capacità di attirare ancora nei suoi inganni i proletari di mezzo mondo. Ma sul concetto di “popolare” torneremo in un prossimo articolo

Che si tratti della Lega Nord o del Movimento 5 Stelle, del Partito Democratico o di Forza Italia, di Macron e il suo “En marche” o di Podemos, il populismo va per la maggiore; ognuno ne utilizza degli elementi, a secoda delle convenienze immediate.  Ma, come i partiti tradizionali e della “vecchia politica”, anche i nuovi Movimenti, i nuovi Partiti si assestano sulla stessa linea di continuità della conservazione sociale: per quanto si combattano tra di loro per giungere al governo del paese e per mettere le mani sulle casse dello Stato, essi sono comunque accomunati dalla missione storica borghese per eccellenza: controllare e influenzare le masse proletarie affinchè la loro rabbia e la loro reazione violenta per le condizioni di vita sempre più insopportabili non superino i limiti entro i quali il potere borghese riesce ancora a controllarle, con la repressione anche più dura all’occorrenza; affinché esse siano sempre riconducibili sul terreno in cui la rinascita della lotta di classe – perché la lotta di classe rinascerà inevitabilmente – venga soffocata e rigettata. A questo servono soprattutto i partiti, le istituzioni, i metodi e i meccanismi democratici: a debilitare il proletariato in modo che non possa riconoscersi come l’unica forza di classe in grado di capovolgere completamente la situazione, ponendo finalmente in cima ai suoi obiettivi di lotta quello dell’emancipazione dalla schiavitù del lavoro salariato e, quindi, il cammino rivoluzionario necessario per attuarla.

   


 

 (1) Cfr. K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, De Luigi Editore, Roma 1944, pp. 50-51.

 

 

Partito comunista internazionale

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