Lo stupro del territorio in un’Italia idrogeologicamente e morfologicamente fragile ha fatto registrare altri disastri e altri morti. L’interesse capitalistico alimenta ed amplifica le continue catastrofi che punteggiano la storia di questa società

Solo la classe dei senza riserve, la classe del proletariato, con la sua lotta anticapitalistica è in grado di fermare i continui disastri ambientali e umani!

(«il comunista»; N° 150; Settembre 2017)

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Che l’Italia sia un paese ad alta fragilità idrogeologica lo si sa da sempre. Lo sapevano anche gli antichi romani che costruivano con molta più intelligenza e conoscenza del territorio di quanto non facciano oggi i super ingegneri al soldo del capitale. Ormai, anno dopo anno, non si registrano che danni incalcolabili alle persone, alle cose e all’ambiente, a causa di alluvioni, incendi, frane, smottamenti, ponti che crollano, case invase dal fango o che cedono perché costruite dove non avrebbero mai dovuto esserlo o perché costruite con materiali scadenti; per non parlare dei disastri registrati come conseguenze dei terremoti…

Ogni volta, dopo aver fatto la cronaca dei disastri e la conta dei morti, dei feriti e degli sfollati, si presenta il solito problema: la causa prima di questi disastri è la cementificazione costante, assurda e criminale. La chiamano “esagerato consumo del suolo”; noi lo chiamiamo stupro continuato del territorio!

Il sindaco di Livorno afferma che nella città di 160.000 abitanti ci sono 8.000 case sfitte e che l’amministrazione comunale era praticamente costretta ad autorizzare la costruzione di edifici perché i bilanci del comune  stavano in piedi sugli oneri di urbanizzazione! (1). E questo non riguarda soltanto Livorno, ovviamente, ma tutti i comuni italiani. Poveri amministratori pubblici... costretti a cementificare e, nello stesso tempo, a dar la colpa dei disastri alla cementificazione!...

Ogni volta si vanno a cercare “il colpevole” o “i colpevoli”: si dà la colpa ad autorizzazioni a costruire non in regola, ad abusi condonati sistematicamente, all’utilizzo di materiali scadenti, alla corruzione economica e politica, ad appalti pubblici condizionati da interessi privati e criminali, alle ruberie di amministratori pubblici che amministrano a proprio beneficio personale; insomma, la “giustizia borghese” procede solo e soltanto, quando decide di poter applicare le leggi per individuare le persone “colpevoli”. Ma spessissimo si tratta della stessa “giustizia borghese” che non viene applicata grazie ai molteplici sotterfugi e scappatoie che le stesse leggi consentono; il che significa che anche le leggi borghesi – se vogliamo restare nel campo delle colpe – hanno la loro parte di colpa. E se tutti hanno colpe, nessuno è colpevole e l’unica via d’uscita per la “giustizia borghese” è trovare un capro espiatorio...

A monte di tutto ciò, però, esiste un sistema economico basato sul profitto capitalistico, sulla proprietà privata e sull’appropriazione privata dei prodotti, che in realtà è causa prima di tutto ciò che ne consegue: sfrenata lotta di concorrenza tra capitalisti, spasmodica ricerca di accumulare profitti e ricchezze, profitti sempre più veloci da arraffare in qualsiasi campo, risparmi sempre più consistenti sui costi di produzione e sul costo del lavoro. Tutti questi atteggiamenti, tipici di ogni capitalista – se grande, gli effetti negativi sono vasti e durevoli, se piccolo, gli effetti negativi sono comunque disastrosi anche se limitati nello spazio e nel tempo – che poggiano non tanto sulla “cattiveria” di tizio o di caio, ma sul sistema mercantile e monetario, dunque sul sistema capitalistico, che mette al centro non la difesa e il benessere della vita della specie umana inserita armonicamente nella natura, ma la difesa del profitto capitalistico che comporta lo sfruttamento irrazionale e criminale delle risorse naturali, l’intervento sull’ambiente naturale per piegarne le caratteristiche alle esigenze del profitto immediato, lo sfruttamento senza alcuno scrupolo del lavoro umano rendendo l’uomo schiavo del mercato capitalistico e votando la sua vita al sacrificio sistematico a beneficio esclusivo del capitale, della sua valorizzazione e dei capitalisti che ne godono i privilegi. La causa vera, profonda di ogni disastro di questo tipo non è altro che il capitalismo e se non si sradica la vera causa di ogni disastro ambientale e sociale, le disgrazie non finiranno mai, ma aumenteranno.

Livorno, nella notte tra sabato 9 e domenica 10 settembre, è stata investita da una tempesta di pioggia, fulmini e vento che, rivelano i meteorologi, in poche ore ha rovesciato sulla città la stessa quantità di pioggia registrata negli ultimi otto mesi. Che questa tempesta sia stata un fenomeno eccezionale, non ci sono dubbi, come non ci sono dubbi che la siccità prolungata per parecchi mesi quest’anno sia stata un fenomeno altrettanto eccezionale, seccando a tal punto il terreno da renderlo quasi “impermeabile”. Fenomeni comunque previsti da tempo dai meteorologi che hanno messo in evidenza le loro caratteristiche di violenza e di durata, e il fatto che si possono presentare con una certa frequenza, ha dato modo alla pubblicistica di denominare questi fenomeni come bombe d’acqua; questi fenomeni hanno, in effetti, conseguenze disastrose sulle case e sulle persone che assomigliano molto ad un bombardamento. Ma i meteorologi non sono simpatici ai capitalisti, se non quando annunciano bel tempo... perciò non sono ascoltati un granché. A Livorno si sono contati danni calcolati provvisoriamente in più di 3 milioni di euro, sia alle case che alle attività economiche in città e anche agricole, e il conto dei morti è arrivato a 8, compresi i due dispersi che inizialmente non si trovavano. I quartieri della periferia sud della città, Montenero, Collinaia, Quercianella, Ardenza, Monterotondo, sono stati i più colpiti e sommersi dalla violenza dell’acqua che ha trasportato detriti e fango che hanno aggravato ancor più la situazione.

I giornali sostengono che questa catastrofe è stata la più grande e violenta da 50 anni; i più importanti fenomeni sono stati il terremoto del 1984 e l’alluvione del rio Ardenza (ancora lui) del 1990 che, però, non avevano suscitato tanta paura e non avevano fatto morti. Ma, evidentemente, non hanno insegnato nulla agli amministratori della città, come d’altra parte fenomeni simili, e anche più gravi, non hanno insegnato nulla a Genova, a Messina e in tantissime altre località in cui l’edilizia selvaggia si è accompagnata al tombamento dei torrenti e dei fiumi per dar modo alla speculazione di estendere i suoi artigli su qualsiasi area che potenzialmente desse l’opportunità di guadagnare molto investendo poco. A Livorno sono tre i torrenti – il rio Ardenza, il rio Ugione e il rio Maggiore – che, riempiti in pochissimo tempo di un volume eccezionale d’acqua, si sono lanciati vero lo sbocco al mare esondando dove trovavano pochi impedimenti e facendo letteralmente scoppiare  le coperture di cemento nelle quali sono stati costretti da piani urbanistici ispirati al facile incasso di tasse edilizie e non alla prevenzione delle conseguenze che certi fenomeni atmosferici possono provocare, come dimostra l’attuale disastro. Sopra i torrenti tombati hanno costruito case, garage, manufatti di vario genere e strade... che i torrenti hanno fatto saltare e distrutto. Non succedeva dal 1990, 27 anni fa, all’epoca dell’alluvione del rio Ardenza, ma la memoria dei borghesi, si sa, è molto lacunosa... il vil denaro non solo acceca, ma inebetisce totalmente e polverizza la memoria... 

I tempi della natura sono molto diversi dai tempi che servono al borghese per misura la quantità di profitto capitalistico che può intascare rispetto all’investimento effettuato... 50 anni nella storia della terra non sono niente, sono un battito d’ali; 50 anni nella storia del capitalismo sono, per i borghesi, un periodo lunghissimo in cui può succedere di tutto, per il bene o il male delle sue tasche. Il capitalista non ragiona sui tempi lunghi, sui tempi storici, sui tempi della natura, ma sui tempi di produzione del profitto capitalistico che sono tempi stretti, velocissimi e nei quali ogni capitalista può guadagnare o perdere con estrema facilità; basta osservare i listini di Borsa.

Il capitalista – e così il suo Stato, il suo governo, i suoi politici e i suoi amministratori pubblici – non ragiona nemmeno in termini di prevenzione, perché prevenzione significa investire oggi su qualcosa che non dà immediato profitto e perciò risulterebbe capitale sprecato; ma ragiona molto bene sulle disgrazie, sulle catastrofi, sui disastri perché questi, una volta avvenuti e fatti i calcoli dei danni, si presentano come opportunità per grossi affari sia in termini di emergenza sia in termini di ricostruzione, come succede dopo ogni terremoto, ogni alluvione, ogni frana, ogni “catastrofe naturale”. Dai capitalisti e dai suoi organi politici non si potrà mai avere un serio piano di prevenzione se questo non corrisponde, in cifra, ad un guadagno sicuro, quindi ad un profitto da intascare; è per questo motivo – sebbene siano passati decenni e decenni e i tecnici della meteorologia, del sistema idrogeologico, della vulcanologia e dei terremoti abbiano fornito i dati scientifici per poter prendere decisioni appropriate nei diversi campi di prevenzione ambientale – che finché la società sarà sottoposta al dominio del capitale e delle sue leggi, questa società non avrà alcuna possibiltà di assicurare alla specie umana un grado di prevenzione tale da ridurre al minimo possibile danni e morti in conseguenza dei fenomeni naturali.

Secondo Legambiente, in Italia, paese ad elevatissimo rischio idrogeologico, ci sono 7.145 comuni (l’88% del totale) che hanno almeno un’area classificata ad elevato rischio idrogeologico, con oltre 7 milioni di abitanti che vivono e lavorano in queste aree (2). Lo confessano gli stessi borghesi; secondo il capo della “Struttura di missione del governo per il dissesto idrogeologico” (3): «L’Italia sconta un ritardo storico sulle progettazioni, non ha la cultura della prevenzione», e un tecnico della stessa Struttura: «Il pericolo per le città italiane viene da sotto», cioè «da quei 12.000 chilometri di corsi d’acqua tombati» che passano sotto case e palazzi, «eredità soprattutto dell’urbanizzazione napoleonica che preferì ingabbiarli per ridurre miasmi e malattie, ma anche per trovare nuovi spazi su cui costruire», un’eredità su cui non è stato fatto alcun intervento risanatore, ma su cui si poggia da sempre l’ulteriore speculazione edilizia dovuta allo sfrenato e selvaggio sviluppo capitalistico. I casi più eclatanti riguardano Genova, con i suoi «54 chilometri di corsi d’acqua ingurgitati da gallerie dimostratesi pericolosamente troppo strette» e di cui si è parlato più volte in occasione delle esondazioni del Bisagno e del Fereggiano; e poi anche Milano, dove il fiume Seveso è stato tombato per una trentina di chilometri e per alcuni chilometri anche il fiume Olona; ma altri casi importanti si trovano a Firenze, a Massa e a Carrara, nel Salernitano, a Olbia, nel Messinese. In Sardegna, ad esempio, di cui si parla molto poco, ci sono paesi edificati sopra fiumi sotterranei: Tula, Bultei, Morez, Sennori, Ittiri, Semestene, Bornova. I disastri sono annunciati da decenni, ma da decenni mancano il risanamento e le misure di prevenzione.

C’è stato chi ha scritto che ci si era distratti a causa dell’uragano Irma e da quel che succedeva nei Caraibi e in Florida, e non ci si è accorti che stava arrivando un grosso pericolo anche sulle nostre coste; in verità un allarme c’è stato, ma per la Liguria, dove non si è scaricata nessuna terribile tempesta d’acqua e di vento, mentre si è scaricata sulla costa toscana tra Pisa e Livorno, e a Livorno il disastro è stato molto serio. E di fronte alla ormai dimostrata e conclamata inefficienza generale sul piano della reale prevenzione rispetto alle conseguenze dei fenomeni climatici e naturali di notevole violenza, che cosa fanno i governi, le amministrazioni pubbliche? Gridano... “al lupo!”, cioè danno «l’allarme» scegliendo il colore che appare formalmente più opportuno rispetto al tipo di fenomeno che sta sopraggiungendo: allarme arancione, allarme rosso: quale allarme era il più appropriato per quel che stava per succedere a Livorno? E’ stato dato l’allarme arancione, ma è sembrato, a tempesta avvenuta, insufficiente, almeno per Livorno, mentre per Pisa sembra che sia stato più che sufficiente. Sulla differenza del colore di allarme si sono innescate polemiche a non finire tra amministratori comunali e regionali, ma il nodo del problema non è quale allarme dare, ma che tipo di piano di prevenzione corrisponde al colore dell’allarme e se questo piano è davvero efficace nel prevenire il peggio. Rispetto a tutti i disastri che sono avvenuti, con le alluvioni, con i crolli in seguito ai terremoti, con le frane e gli smottamenti, è sistematicamente dimostrato che non esistevano, e non esistono, veri piani di prevenzione e che, anche quando questi esistevano, rimanevano sulla carta, imbrigliati nelle maglie di una burocrazia che tutto soffoca e tutto rallenta permettendo in questo modo il dilagare di ogni forma di corruzione e di speculazione.

Qual è stato l’intervento “emergenziale” dei poteri pubblici a Livorno? Basta ascoltare le testimonianze degli abitanti dei vari quartieri colpiti dalla furia dei torrenti esondati: centinaia di ragazzi, di giovani delle scuole, delle associazioni sportive, dei centri sociali, una specie di esercito spontaneo di volontari velocemente organizzati e accorsi per aiutare chi era ancora intrappolato dal fango e dall’acqua, per portare da bere e da mangiare, e soprattutto per spalare fango e detriti e liberare le strade e permettere ai mezzi di soccorso di passare. «Per fortuna che ci sono loro, perché di istituzioni qui non ne abbiamo viste», «Nella nostra strada saranno arrivati in 2-300, moltissimi sono studenti. Per fortuna che abbiamo loro», e poi ci sono stati gli stranieri richiedenti asilo, ospitati dal centro di accoglienza Athletic, una quindicina, che si sono messi spontaneamente a ripulire cortili e garage: «E’ accaduta la stessa cosa che avviene nel mio Paese», dice uno di loro per spiegare come mai è qui... Queste alcune testimonianze raccolte da “la Repubblica” del 12.9.2017. Per l’ennesima volta, le autorità pubbliche, coloro che dovrebbero essere preposte “al servizio pubblico”, che dovrebbero garantire la prevenzione e l’intervento immediato in casi come questo, vengono surclassate sistematicamente dalla spontanea solidarietà dei volontari, di persone comuni che mettono a disposizione le proprie energie, il proprio tempo e le proprie risorse per aiutare coloro che sono stati colpiti dal disastro. Cosa che si vede tutte le volte che succede quel che è successo a Livorno il fine settimana scorso, a dimostrazione che la tendenza naturale dell’essere umano, la sua tendenza sociale, è appunto quella di soccorrere chi è in pericolo senza mettere avanti il proprio interesse economico e il proprio tornaconto personale, ma della quale il sistema capitalistico sa solo approfittare in termini di soldi risparmiati e di soldi da investire a fronte soltanto di un tornaconto economico, o politico, o ideologico, da poter utilizzare successivamente per accumulare profitti, per ottenere voti, per aumentare l’influenza sulla massa...

La ricchezza della terra non sta nel sistema dell’affarismo borghese, ma «sta nel convergere dell’opera dell’uomo col risultato di lontanissimi processi fisico-geologici che acclimatarono le vegetazioni sul suolo», come è scritto in uno scritto del 1953 del nostro partito (4).

In una società in cui la merce, il denaro, il mercato, la proprietà privata, l’appropriazione privata della produzione sociale non esisteranno più e non esisterà più lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale perché il capitale sarà finalmente sepolto per sempre, al centro della vita sociale dell’uomo non sarà più il capitale, la sua produzione, la sua valorizzazione e, quindi, le esigenze delle aziende e del mercato, ma le esigenze e i bisogni degli uomini; la prevenzione rispetto a qualsiasi evento che metta in pericolo e danneggi la vita e l’ambiente avrà naturalmente la priorità. Le risorse tecniche e scientifiche, la ricerca e la produttività del lavoro saranno inserite in un processo di sviluppo continuo a tal punto che, davvero, si potranno ridurre al minimo assoluto le conseguenze dei fenomeni atmosferici e naturali violenti; la scienza sarà messa al totale servizio della conoscenza della natura e della razionale organizzazione sociale umana e non sarà più condizionata, distratta e violentata dall’interesse capitalistico e dalle leggi del mercato; la stessa specie umana – dopo aver superato, grazie ad un lungo processo rivoluzionario, in cui la classe proletaria sarà la vera protagonista della storia, i vincoli, le contraddizioni e le abitudini che la società capitalistica e borghese ha costruito per rendere e mantenere schiava la stragrande maggioranza della popolazione mondiale – avrà raggiunto un grado tale di conoscenza della natura, di armonia nella vita sociale e di capacità di previsione di tutti i fenomeni naturali, da poter guardare le condizioni di vita della società divisa in classi e dominata dallo sfruttamento capitalistico della forza lavoro umana come delle risorse naturali e dall’immenso spreco di energie vitali, come condizioni barbare, preistoriche, da studiare come reperti archeologici di una “civiltà” superata per sempre e che non tornerà mai più.

Oggi abbiamo sotto gli occhi il caso di Livorno, ma anche il caso degli uragani nei Caraibi e negli Stati nordamericani dell’Atlantico meridionale, come ieri avevamo sotto gli occhi il terremoto di Amatrice e quello dell’Aquila, per non andare indietro allo tsunami in Giappone del 2011, al terremoto di Haiti del 2010, al disastro di Katrina del 2005, o all’alluvione di Firenze del 1966, alla catastrofe del Vajont del 1963 o all’alluvione del Polesine del 1951: il denominatore comune, dal punto di vista dei danni e dei morti, non è tanto la «violenza della natura», quanto l’economia della sciagura

Dei disastri «naturali», nel 1953, dopo l’ennesima “catastrofe” provocata in Calabria da intense piogge, scrivevamo (5): «L’episodio ignobile del ripetersi sull’estrema Calabria, a due anni di distanza, di un sinistro che ha lo stesso procedimento, le stesse cause e gli stessi paurosi effetti, con gli stessi atteggiamenti di stupore, di ipocrita condoglianza e di stucchevole carità da parte della stampa e di tutta la “opinione” per poi passare, a cose raffreddate, alla stessa strafottente impotenza non ha affatto cause fisiche, ma soltanto cause sociali. (...) Quando poche nuvole passano davanti al nostro ossessionante sole, come mai è previsione sicura che le fognature delle città andranno a rigurgito infangando, infettando e scalzando tutto, i fiumi tracimeranno e gli argini si apriranno, dai fianchi dei monti e delle colline fiumane di melma, travolgendo abitazioni ed impianti, rasperanno la poca terra vegetale che andrà a rendere limaccioso e buio il mare azzurro e limpido (...)?». E, sottolineando le due caratteristiche principali del dominio borghese sulla società: l’attitudine congenita all’inerzia della burocrazia e l’attitudine congenita delle imprese capitalistiche al lucro, vi si afferma, nel primo caso: «L’ingranaggio e la prassi della pubblica amministrazione, con la pletora di personale e il crescente attrito degli intricati ruotismi, sempre più aumentano la loro inerzia passiva, e sempre più diventano adatti a cedere ad esigenze non di natura collettiva e “morale”, ma solo derivate da appetiti di speculazione e da manovre dell’iniziativa capitalistica», e nel secondo caso:  «Se un’impresa sa che facendo una strada realizzerà un forte lucro, impianta la pratica, presenta le istanze (o le fa presentare dall’ente o corpo ufficialmente qualificato), si mette sulla via delle trasmissioni del rugginoso ingranaggio, preme, spinge, sollecita, lubrifica, e in un lungo corso le ruote girano e l’opera si fa, magari se non serve a nulla, magari a mezzo, e quindi concretamente inservibile. La selezione tra opere necessarie e accessorie o superflue, la graduatoria tra opere urgenti e meno urgenti, la valutazione se si tratta di fare un passo avanti oppure di evitare semplicemente di farne uno, due o tre indietro, la burocrazia non la fa più: la fanno le imprese col loro criterio nettamente rovesciato», ossia col criterio del «gruppo che deve fare un affare».

Ciò che caratterizza la borghesia capitalistica è, appunto, la coltivazione delle catastrofi, perché «quando la stasi e la paralisi cronica dei normali procedimenti, il gelo dell’iniziativa di ufficio, ha dato i suoi effetti, e la sciagura si abbatte e la rovina sopravviene, la speculazione entra a bandiere spiegate nel clima della “emergenza”, le procedure si abbreviano e si saltano, gli stanziamenti sono demagogicamente varati subito dai ministri accorsi a dire coglionerie e far perdere tempo, mobilitando per scorte più agenti di quelli che ancora sono dedicati a salvare qualche pericolante, le imprese entrano in azione senza formalità e per direttissima» (6). La classe dominante borghese, completamente immersa nella ricerca del profitto capitalistico, non ha più alcuna capacità di riconoscere che la ricchezza della terra «sta nel convergere dell’opera dell’uomo col risultato di lontanissimi processi fisico-geologici che acclimatarono le vegetazioni sul suolo», e che, applicando alla terra le innovazioni tecniche e i ritrovati scientifici col solo criterio che conosce, quello dell’affare, quello del profitto capitalistico, è riuscita sicuramente, ad esempio, a mutare «aride sabbie in humus vegetale», ma «disboscando e dissodando» senza tener più conto di quella necessaria convergenza dell’opera dell’uomo con i risultati dei processi fisico-geologici millenari che hanno formato il pianeta, « alterò l’equilibrio antichissimo, stabile contro l’oscillazione stagionale e le ordinarie meteore, e produsse opposti effetti mutando foreste in pantani, selve di montagna in friabile ossatura di rocce nude» (7).

L’interesse borghese non è mai stato il “bene comune”, ma il bene del capitale, e se ciò comporta distruzione e catastrofe, meglio, si lucra di più!

Nell’Italia capitalistica dell’avidità, dell’abusivismo, della corruzione, le conseguenze drammatiche dei continui stupri del territorio sono da decenni la norma!

La via d’uscita è farla finita con il regime dei profitti capitalistici, con un regime che attua una politica piegata sistematicamente all’affare, alla speculazione, all’interesse privato. Solo la lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato sarà in grado di fermare i continui disastri ambientali e umani e indirizzare le grandi energie umane che il capitalismo sfrutta, stupra e uccide, nella direzione di una società di specie!

 

14 settembre 2017

 


 

(1)   Cfr. “il fatto quotidiano”, 12.9.2017.

(2)   Cfr. “il manifesto”, 12.9.2017.

(3)   Cfr. “la Repubblica”, 12.9.2017.

(4)   Vedi La coltivazione delle catastrofi, in “il programma comunista”, n. 20 del 1953.

(5)   Ibidem.

(6)   Ibidem.

(7)   Ibidem.

 

 

Partito comunista internazionale

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