L'antimilitarismo rivoluzionario nel solco della continuità teorica e politica del marxismo

(«il comunista»; N° 150; Settembre 2017)

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E' uscito il reprint n. 11 de "il comunista", giugno 2017, dedicato al tema dell'antimilitarismo rivoluzionario. In esso sono raccolte le nove puntate in cui il tema è stato pubblicato nel vecchio giornale di partito, "il programma comunista", nel 1978.

L'opuscolo è di 82 pagine e costa  10 euro (+ spese di spedizione). 

Pubblichiamo qui di seguito l'introduzione.

 

INTRODUZIONE

 

«Nell’epoca imperialistica il militarismo è conseguenza diretta della concorrenza fra Stati. La conquista di nuovi mercati porta all’aumento della produzione, alla produzione per il mercato estero e alla sua difesa armata. Nella fase decadente del capitalismo (che non corrisponde affatto ad una fase di debolezza) l’enorme produzione spinge ogni paese alla frenetica ricerca di nuovi mercati o alla sottrazione di quelli esistenti alle esportazioni altrui. Il capitalismo internazionale si arma, e nel farlo, trova uno sfogo ulteriore alla sua orgia produttiva. Il militarismo permea di sè tutta la società; gli eserciti assurgono a fini in sè, si legano alla produzione e ne rispecchiano il corso. La guerra diventa un elemento obbligatorio dell’esistenza della società capitalistica, la cui massima espressione di efficienza e potenza si manifesta appunto in questo che costituisce insieme il punto di arrivo e il punto di partenza del suo andamento ciclico», così  scrivevamo nell’articolo “Armamenti, un settore che non è mai in crisi” (1); e aggiungevamo: «Il militarismo crescente della società implica una compenetrazione fra esercito, governo e industria, che si scambiano uomini e programmi in uno schema ben al di sopra della volontà di singoli ministri, partiti, organismi escutivi in genere. Così, in periodi di crisi, si accentua la tendenza dell’industria ad accaparrarsi le commesse militari, o addirittura a suscitare, con una pressione sugli individui e sui programmi, un “bisogno” legato all’esigenza sua di produrre»; e le armi e i sistemi d’arma prodotti vanno utilizzati, vanno consumati, per poter continuarne la produzione e la vendita. Quale consumo migliore della guerra?

Mettendo in risalto questi aspetti non abbiamo scoperto nulla; abbiamo semplicemente condensato una conclusione coerente con quanto la teoria marxista ha sempre sostenuto, e messo in lucida evidenza fin dall’Antiduhring di Engels. Combattendo la posizione anarchica che considera il militarismo come un fenomeno del tutto a sè stante, slegato da quella compenetrazione fra esercito, governo e industria richiamata sopra e, quindi, come un fenomeno che si può correggere e riformare all’interno stesso della società capitalistica e contro il quale sviluppare una lotta fatta di una serie di atti individuali determinati da singole “volontà coscienti”, il marxismo ha opposto la concezione materialistica e dialettica della storia delle società umane secondo la quale, come sottolinea Engels, “il militarismo soggiace alla dialettica del suo proprio sviluppo”, uno sviluppo determinato dalle esigenze stesse dello sviluppo capitalistico, nell’ambito quindi della lotta di concorrenza mondiale fra gli Stati svolta sulla base dell’iperfollia produttiva tipica del capitalismo, iperfollia che si intoppa ciclicamente nelle crisi di sovrapproduzione le quali, a loro volta, richiedono soluzioni che soltanto lo scontro armato di grandi dimensioni fra gli Stati può – con le sue massicce distruzioni – rimettere in funzione a pieno ritmo la produzione e, quindi, la valorizzazione dei capitali.

Il militarismo porta necessariamente alla guerra fra Stati? No, la guerra fra gli Stati è il risultato inevitabile dei processi economici e sociali del capitalismo molto complessi e che sviluppano contraddizioni sempre più acute, contraddizioni che si accumulano nel tempo fino ad un punto di rottura: nel capitalismo, la pace, sostiene Lenin, è una tregua tra le guerre. Ma con lo sviluppo del militarismo, e il contemporaneo sviluppo dell’industria degli armamenti, lo Stato borghese si attrezza non solo per affrontare la lotta di concorrenza sul mercato mondiale contro gli altri Stati borghesi, ma anche per rispondere alla tendenza inesorabile del capitalismo alla concentrazione capitalistica e alla centralizzazione del controllo sociale militarizzando l’intera società. Inoltre, lo sviluppo dell’industria degli armamenti, svolge anche, sul piano economico, una funzione sussidiaria rispetto alle altre merci che stentano a trovare sbocco nei mercati. 

Il militarismo è una delle componenti dell’imperialismo, non l’unica. La storia delle crisi e delle guerre capitalistiche dimostra che il potere borghese non è in grado di trovare una soluzione – sia essa politica od economica – grazie alla quale superare una volta per tutte ogni possibile crisi, ogni possibile guerra. Nella società capitalistica, come è inevitabile lo scoppio di crisi economiche e finanziarie, così è inevitabile la scoppio della guerra: ed è esattamente per affrontare nella posizione di forza concentrata migliore possibile questa “inevitabilità”, che il potere borghese sviluppa il militarismo, attraverso il quale si assicura la continuazione della propria politica, come affermava von Clausewitz, dall’uso di mezzi pacifici all’uso di mezzi militari.

Contro il militarismo borghese, il marxismo ha definito una linea di lotta politica e sociale che parte dal principio che abbiamo ripreso poco sopra: il capitalismo non risolverà mai le sue contraddizioni, se non sviluppando fattori di crisi più generali e più violente, diminuendo di fatto i mezzi per prevenirle (Manifesto, 1848).

Una delle contraddizioni dell’imperialismo, che è la fase più sviluppata possibile del capitalismo, consiste nel dare l’assoluta prevalenza del capitale finanziario sul capitale industriale, e quindi alla tendenza del capitale finanziario a sfuggire ai limiti “aziendali” e “nazionali” del capitale industriale aprendo, così, enormi squarci ai santi confini di ogni “patria”. Ma ogni borghesia nazionale non può sopravvivere se non affonda le sue radici sul mercato nazionale e se non difende i suoi interessi nazionali con lo Stato nazionale; il principio stesso della proprietà privata richiede confini ben precisi, confini che vanno difesi da altre proprietà private. E i confini dello Stato nazionale borghese sono i confini entro i quali le proprietà private esistenti dei capitalisti che formano la classe borghese nazionale si difendono dalle proprietà private dei capitalisti delle altre borghesie nazionali. La borghesia, come sostiene il Manifesto del 1848, è sempre in lotta: lotta contro le borghesie straniere, lotta all’interno della propria classe tra frazioni concorrenti (capitalisti industriali, finanziari e proprietari terrieri, ognuno contro gli altri), lotta contro il proletariato dal cui sfruttamento ricava la sua vera ricchezza. Non le sarebbe possibile portare avanti questa lotta se non controllando la vera forza di controllo sociale che è lo Stato nazionale, organismo che, nello stesso tempo, è forza militare concentrata e capitalista collettivo dalla potenzialità di investimento capitalistico impossibile, in genere, per una singola azienda, per quanto grande sia; ed anche nei casi delle famose “multinazionali” – che altro non sono se non aziende che hanno una base economico-finanziaria in un determinato paese, il cui Stato ha il compito di difenderne gli interessi internazionali, e dalla quale dipende una serie numerosa di aziende collocate in diversi paesi come lunghi tentacoli grazie ai quali succhiare plusvalore e sovraprofitti dalla loro complessa attività – l’azione dello Stato borghese fondamentalmente non cambia: resta sempre il supremo difensore dei loro interessi, in patria come all’estero.

Ed è proprio la irresistibile corsa mondiale alla valorizzazione del capitale che spinge ogni capitalista ad identificarsi con la difesa degli interessi del capitalismo nazionale, e a contare sullo Stato nazionale non solo come il miglior difensore dei suoi profitti, ma anche come il più decisivo agente dei propri interessi a livello mondiale. Nell’epoca imperialista la lotta di concorrenza mondiale riguarda ormai ogni capitalista, grande, medio o piccolo che sia, perché sono partecipi, volenti o nolenti, di una rete di interessi che va al di là dei confini di ogni singola azienda, per quanto grande o piccola essa sia. Il capitalismo, nel suo sviluppo incessante, più incrementa la produzione e più acutizza i fattori di crisi di sovrapproduzione; più la sovrapproduzione intasa i mercati, più si alzano i livelli di tensione economica, finanziaria e politica, e più si avvicina il punto di rottura degli equilibri che, con la forza, gli Stati più potenti tentano di mantenere almeno tra di loro. Ma la “pace” che gli Stati più potenti riescono a prolungare tra di loro non impedisce che, nel resto del mondo, e soprattutto nelle zone in cui storicamente si sono creati i maggiori fattori di conflitto economico e politico, la guerra guerreggiata sia la situazione più “normale”, come, ad es., il Medio Oriente dimostra dalla fine del secondo macello imperialistico in poi.

Con lo sviluppo dei fattori di crisi, inevitabilmente si diffonde e si sviluppa anche il militarismo, e non solo nei grandi paesi capitalisti che dominano sul mercato mondiale, ma in tutti i paesi del mondo; e sempre più spesso, in particolare nei paesi a capitalismo arretrato, è proprio l’esercito, che impersona la forza più organizzata dello Stato, a rappresentare la più sicura funzione di controllo sociale e di difesa degli interessi borghesi nazionali; sia quindi come forza di controllo e di repressione interna, sia come forza militare da contrapporre ad altri Stati in caso di conflitto armato o di guerra vera e propria.

Va messo però in chiaro un aspetto non secondario della questione: la guerra non scaturisce automaticamente dalla crisi, ciò non toglie che il militarismo aumenti di intensità come se andasse in un certo senso contro-tendenza. Militarismo non è, d’altra parte, sinonimo di “dittatura militare”; quest’ultima può rendersi necessaria alla classe borghese in determinati periodi in cui la democrazia politica, con tutti i suoi orpelli elezionisti e parlamentaristi, non riesce più ad assicurare il controllo sulle grandi masse proletarie e queste, sfuggendo a quel controllo, tendono a porsi sul piano della più decisa lotta di classe. Il militarismo è la forma che la politica borghese prende in quanto, in generale, la democrazia non riesce più a nutrire appieno la vita economica, politica e sociale del paese, non riesce più a rivestire le contraddizioni sociali più acute con quel manto ideologico fatto di illusioni e speranze che frenano una rabbia sociale che tende ad aggregarsi, frammentandola in mille rivoli e respingendola nell’ambito della vita individuale.

Il militarismo – come sostenuto da sempre dalla nostra corrente, ribadendo una tesi classica del socialismo internazionale non degenerato nel revisionismo – è un “male comune a tutti gli Stati borghesi” in quanto è conseguenza del regime capitalistico e della sfrenata concorrenza industriale e commerciale (2). Il militarismo colpisce gli Stati democratici e quelli non democratici, e non solo quelli in cui vi sono sopravvivenze dinastiche, feudali o autocratiche, ma anche quelli democratici più avanzati. “Le condizioni del militarismo, quale esso è oggi sotto tutti i suoi aspetti, tecnici, economici, politici e morali, sono in rapida sintesi i seguenti: sviluppo intenso e razionale della grande industria moderna; grande potenzialità finanziaria della macchina statale; organizzazione amministrativa che permetta di sfruttare tutte le risorse della nazione (coscrizione obbligatoria, sistema tributario moderno); possibilità di ottenere la concordia ed il consenso della quasi totalità dei cittadini, ciò che presuppone un regime politico liberale e l’attuazione di riforme sociali” (3). E questo ci porta a sottolineare che la democrazia comporta più militarismo, più potenziale bellico (4).

Che la guerra si addice alla democrazia, lo dimostriamo, una volta ancora, attraverso i bilanci dinamici prodotti dal lavoro del nostro partito. “Le lezioni della prima grande guerra universale cominciano ad essere imponenti, e tuttavia tutto un ciclo dovrà passare e una nuova grande guerra sopraggiungere e travolgere i continenti, senza che gli inganni delle superstizioni opportuniste possano essere evitati. Il binomio caro alla banale retorica borghese, che associa dispotismo e potenza guerriera, autocrazia ed invincibilità, dipinge i moderni stati liberali del capitalismo come pacifici e disarmati, come inadatti alla guerra ad oltranza, trova una smentita clamorosa nell’andamento del primo conflitto. Francia, Inghilterra, la stessa Italia, e poi l’intervenuta America, paesi di vantata libertà e di governo parlamentare, traversano la guerra praticamente intatti, e con vantaggi e conquiste. Prima a cedere sarà la Russia, e la seguiranno le ‘feudali’ Germania, Austria, Turchia, sebbene assai più della prima abbiano adottata la tecnica moderna industriale a fini bellici” (5). Quindi, sui fronti di guerra 1914-18 una prima sentenza viene emessa: “sono gli agnellini democratici a stravincere, sventrando gli stati dispotici con artigli d’acciao” (6).

E che succede nel secondo conflitto mondiale? La storia ripete la stessa sentenza. “Le potenze statali fasciste di Germania e Italia sono travolte e annientate, assieme al Giappone imperiale, dalla soverchiante superiorità militare delle armate che innalzano il vessillo della Libertà. Si confronti il Giappone atomizzato con l’intatta America; ed ancora le ferite inferte alla Germania nel suo potenziale umano ed industriale e la sua finale lacerazione con il danneggiamento subito dagli apparati di Francia e Inghilterra, il cui territorio non conobbe mai l’efficienza annientatrice che cancellò Dresda dalla faccia della terra. Si tirino le somme anche tenendo in conto i milioni di cadaveri russi: l’unica potenza borghese ad uscire provata e ferita dalla seconda guerra mondiale , nel campo degli Stati vincitori, è l’unica potenza non democratica quanto a regime politico interno. I baffi di Stalin non reggono il confronto con le sottane di Marianna... (7).

Qual è allora il “segreto” dei regimi democratici rispetto a quelli non democratici? Lo Stato borghese in regime democratico ha la possibilità di dispiegare una maggiore efficienza bellica in quanto agisce in modo da potenziare al massimo grado “tanto la preparazione della guerra quanto la capacità di resistenza della nazione in guerra” (8); ciò significa che l’esito dello scontro bellico non dipende solo dal potenziale economico messo in campo, ma anche dalla profonda collaborazione interclassista con la quale le forze dell’opportunismo legano le masse proletarie alla classe borghese dominante, grazie alla quale collaborazione la forza di resistenza durante la guerra cresce a dismisura, tanto da preparare, a sua volta, il terreno alla ricostruzione post-bellica, svolgendosi in questo modo in un lungo periodo di conservazione borghese.

Ritenere, quindi, che il regime democratico favorisca la pace e, perciò, sostenere la sua difesa contro ogni tendenza a sostituirlo con regimi di tipo fascista, vuol solo dire fare il gioco della conservazione borghese mettendosi dalla parte della classe dominante e degli interessi dell’imperialismo nazionale contro il proletariato e i suoi interessi di classe.

La classe borghese dominante ha anch’essa tirato qualche lezione dalla sua storia e dalla storia delle lotte rivoluzionarie del proletariato, e sa che nella  prospettiva di lungo periodo la classe proletaria verrà spinta dall’estremo peggioramento delle condizioni della sua esistenza a ribellarsi contro un potere che non si dimostra capace di attutire le conseguenze su di esso dei colpi della crisi sociale e che dimostra, al contrario, di difendere contro lo stesso proletariato soltanto i propri privilegi, sottoponendolo ad un dispotismo sempre più duro nelle fabbriche e in ogni posto di lavoro e ad un dispotismo sociale “militarizzando” la sua vita quotidiana, preparandolo, di fatto, alla guerra borghese e ai suoi inevitabili massacri.

La classe borghese dominante sa che è in tempo di pace che deve preparare il proletariato alla guerra. La fine della cosiddetta “guerra fredda” tra i campi mondiali contrapposti, quello occidentale capitanato dagli Stati Uniti e quello orientale capitanato dalla Russia, secondo le fantasie ideologiche e politiche di Sua Maestà la “Democrazia”, avrebbe dovuto aprire un periodo di lunga pace tra gli Stati e tra i popoli. Che ciò non sia avvenuto, per i marxisti era facilmente prevedibile, ma è diventato evidente ormai a tutti. Non c’è giorno che passi che non si registrino atti di guerra in centinaia di luoghi al mondo; e queste guerre continue, di bassa o di alta intensità, a seconda dei fattori di scontro che si sono accumulati nel tempo, hanno comunque rappresentato, e continuano a rappresentare, una valvola di sfogo per i capitali degli Stati più potenti che sono, d’altra parte, anche i maggiori produttori di armi al mondo. La funzione sussidiaria dell’industria degli armamenti di cui si diceva più sopra, ha continuato ad essere svolta grazie a questa terribile continuità della politica di guerra; una politica che non ha ancora spinto le grandi potenze imperialistiche ad entrare direttamente in conflitto armato per rimodellare un ordine mondiale secondo rapporti di forza completamente diversi da quelli che hanno retto finora, ma che ha comunque svolto una funzione economica di un modo di produzione che sfugge inesorabilmente al controllo e alla volontà della classe borghese che lo rappresenta, ma che ne trae comunque tutti i vantaggi.

La risposta allo sviluppo degli armamenti e all’aumento del militarismo, non potrà mai essere né la democrazia, né il disarmo, né una politica di contenimento della forza militare indirizzata all’esclusiva “difesa” del paese dagli “aggressori” esterni. Nè tantomeno la cosiddetta “lotta al terrorismo” che ha preso le sembianze di un “nemico” che è esterno e nello stesso tempo interno, grazie alla quale ogni Stato borghese giustifica il proprio rafforzamento militare (spendendo cifre colossali in armamenti) e una politica di blindatura sociale al proprio interno.

Il capitalismo è congenitamente aggressivo: ha aggredito sul piano economico per distruggere non solo i modi di produzione precapitalistici prendendone il posto e per sviluppare l’economia con mezzi tecnici e innovazioni tecnologiche sempre più rivoluzionarie, ma per allargare il mercato fino all’intero globo terracqueo che è il luogo nel quale si concretizza la valorizzazione del capitale, vero scopo finale del capitalismo. Ha aggredito e aggredisce sul piano politico e militare, attraverso gli Stati nazionali, gli altri Stati che non si piegano al suo inesorabile sviluppo o che non si assogettano agli interessi degli Stati borghesi più potenti. La spinta oggettiva del capitalismo non è quella di “difendersi”, ma quella di “aggredire”: si aggredisce il mercato, si aggredisce la concorrenza, si aggredisce il nemico; si può vincere o perdere, ma la borghesia non può essere diversa da quella che è, e che il Manifesto del 1848 ha definito con esattezza storica: classe sociale che lotta in permanenza, contro classi della società precapitalistica, contro frazioni della propria classe, contro borghesie straniere, contro il proletariato. Lotta per conquistare e per difendere ciò che ha conquistato. La pace, l’armonia, il lento scorrere naturale della vita non sono per la borghesia: essa è preda permanente della frenesia iperproduttiva  e della spietata ricerca di profitto, ed è perciò che l’oppressione, la repressione, la guerra sono le caratteristiche naturali del suo dominio di classe sulla società.

La lotta contro la guerra borghese e, quindi, l’antimilitarismo di classe che il proletariato è chiamato storicamente a condurre, non potrà mai avere una minima prospettiva di successo se non inserita nel quadro della lotta di classe antiborghese ed anticapitalistica nella quale esso si riconosce come classe antagonista al cento per cento dell’intera classe borghese, democratica o fascista che sia.

Certo, il militarismo non è un fenomeno specifico del capitalismo; ogni società divisa in classi ha espresso una sua forma di militarismo corrispondente al modo di produzione esistente e agli interessi delle classi dominanti. Ed è un fatto ormai noto, come metteva in evidenza Karl Liebknecht, che il capitalismo ha sviluppato una sua specifica forma di militarismo che corrisponde infatti alla difesa di un modo di produzione specifico: è la massa della produzione che, nella dinamica del regime borghese, impone ad un certo punto la distruzione in massa di installazioni, mezzi di produzione, prodotti e uomini “eccedenti”; quindi la guerra, nel capitalismo, non è più condotta da eserciti di veterani e professionisti, volontari o mercenari, come gli eserciti feudali, in cui il feudatario metteva a rischio la propria vita, ma coinvolge tutta la massa del popolo. “Il militarismo borghese, per ragioni che si identificano con l’intimo meccanismo dell’economia capitalistica, è caratterizzato dalla coscrizione obbligatoria, in forza della quale la guerra moderna può risucchiare nel suo vortice la popolazione fino all’ultimo uomo valido; coscrizione obbligatoria che è sinonimo di reclutamente ed armamento generalizzato di tutto il popolo” (9). E Liebknecht scriveva: “Alla fase dello sviluppo capitalistico corrisponde nel migliore dei modi l’esercito fondato sulla coscrizione generale, e ciò sebbene sia un esercito tratto dal popolo, non un esercito del popolo, ma un esercito contro il popolo, o un esercito che viene sempre più manipolato in tale direzione” (10). 

E’ ben vero che nei recenti sviluppi del militarismo imperialistico si è fatta strada la tendenza a rimpiazzare con eserciti di professionisti le tradizionali forme basate sulla coscrizione obbligatoria. Le classi dominanti borghesi possono vagheggiare quanto vogliono una simile soluzione come fosse la soluzione a loro più conveniente; ma non possono e non potranno mai adottarla fino in fondo e per sempre: “sono e saranno costrette, infatti, fino all’ultimo a far ricorso nelle loro guerre – e tanto più nelle guerre generalizzate – all’armamento generale di tutto il popolo, l’unica forma di reclutamento che possa rispondere efficacemente alla domanda di annientamento su vasta scala di risorse materiali ed umane che la guerra moderna reca con sè” (11).

Nella inevitabile necessità della classe dominante borghese di coinvolgere tutto il popolo alla guerra, alla sua preparazione e al suo svolgimento e, quindi, ad armare le masse proletarie e contadine che vengono lanciate nei ripetuti massacri sui fronti di guerra, vi è in effetti una contraddizione che la borghesia non riesce facilmente a risolvere a proprio esclusivo vantaggio. I proletari formano il grosso di ogni esercito, vengono trasformati in soldati, istruiti all’uso delle armi e abituati agli scontri armati. E questa formazione può essere rivolta dai proletari contro la propria borghesia invece che contro i proletari dell’esercito “nemico”. Tale cambio di direzione non avviene in automatico, né in virtù di una propaganda pacifista e disarmista, ma poggia su linee di rottura aperte dalle stesse distruzioni e dagli stessi massacri della guerra. In Italia, nell’ottobre del 1917, lo “sciopero militare” che fu la rotta di Caporetto rilevò una netta opposizione dei proletari alla guerra borghese e alla sua continuazione sul fronte stesso di guerra, in corrispondenza di un periodo in cui i proletari delle città, spinti da condizioni di vita tremende, diedero vita ad una serie di manifestazioni che culminarono nei moti dell’agosto 1917 a Torino, vera e propria azione di guerra di classe – come si può leggere nel capitoletto “La Sinistra in Italia davanti alla guerra  mondiale” di questo opuscolo – azioni che avrebbero potuto svilupparsi  in direzione della rivoluzione proletaria (come avvenne in Russia) se anche in Italia fossero maturate le condizioni non solo oggettive, ma anche soggettive (influenza determinante del partito di classe rivoluzionario, e superamento da parte del proletariato delle illusioni democratiche) che avrebbero permesso al proletariato di elevare la propria lotta dal livello della difesa “di classe” a quello dell’offesa rivoluzionaria, passando per la disgregazione dell’esercito e l’organizzazione di classe, legale e illegale, guidata dal partito rivoluzionario.

Questo cambio di direzione non ci fu in Italia, né in Germania e, tentato in Ungheria, non riuscì a mantenere salda la rotta rivoluzionaria inzialmente impressa; a dimostrazione che la persistente intossicazione democratica e l’opera quotidiana dell’opportunismo camaleontico nelle file proletarie sono ostacoli ben più duri da superare di quanto non apparissero all’epoca agli stessi bolscevichi.

La nostra corrente di Sinistra comunista ha tratto le lezioni fondamentali da tutto il corso degenerante e degenerato dell’opportunismo, nella veste dell’anarchismo della prima ondata, nella veste del socialdemocratismo della seconda ondata e nella veste dello stalinismo, e del post-stalinismo, della terza ondata storica dell’opportunismo.

Ebbene, negli articoli che seguono e che formano l’opuscolo che qui presentiamo, vi sono una serie di richiami alla linea rossa che lega la lotta antimilitarista di classe dei partiti rivoluzionari nel periodo delle guerre coloniali dei primi del Novecento, ai Congressi di Basilea e alla sinistra di Zimmerwald, alla lotta di Luxemburg e Liebknecht contro il militarismo tedesco, alla lotta dei bolscevichi e della sinistra comunista d’Italia fino alle tesi dell’Internazionale comunista; una linea che ha sempre avuto come caratteristica definita la prospettiva della rivoluzione proletaria e della conquista rivoluzionaria del potere politico, nella quale prospettiva non poteva che esserci l’azione disgregatrice dell’esercito borghese da parte del proletariato, la lotta contro la propria borghesia nazionale in pace come in guerra, e la lotta indipendente di classe al fine di preparare il proletariato all’assalto rivoluzionario per la conquista del potere guidato dal suo partito di classe rivoluzionario. Una linea politica che si condensa molto bene nella famosa parola d’ordine di Lenin: trasformare la guerra imperialista in guerra civile, cosa che il proletariato russo guidato dal partito bolscevico di Lenin attuò mostrando la via a tutti i proletari del mondo, ma che non riuscì al proletariato europeo nonostante la persistente attività antimiliarista e rivoluzionaria, in particolare in Germania e in Italia.

Non mancano, inoltre, le critiche alle posizioni classiche dell’opportunismo che sposano le tesi pacifiste, disarmiste e nazionaliste borghesi riducendo il tema della lotta contro la guerra, e contro il militarismo, ad un fatto solamente ideologico e di “coscienza individuale”, cosa che, di fronte all’imminenza dello scoppio della guerra, viene praticamente sotterrata dalle questioni cosiddette “reali” che la borghesia riconduce alla “aggressione” da parte di altri Stati, alla difesa dei “sacri confini”, alla difesa della “democrazia”, della “libertà”, della “civiltà”...

 


 

(1)   Cfr . il n. 2 dei Quaderni  del programma comunista, giugno 1977, pp. 19-20, e p. 25.

(2)   Vedi “Ciò che diviene evidente”, articolo pubblicato nell’Avanti!, 17.9.1915, ora in Storia della Sinistra comunista, vol. I, p. 290.

(3)   Ibidem.

(4)   Cfr Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, Ed. Il programma comunista, p. 106 (par. 26, “La guerra si addice alla democrazia”).

(5)   Ibidem, p. 105.

(6)   Cfr il nostro Antimilitarismo di classe e guerra, Reprint il comunista, 1994, p. 31.

(7)   Ibidem.

(8)   Ibidem.

(9)   Ibidem, p.33.

(10) Cfr. K. Liebknecht, Il militarismo capitalistico, in “Scritti politici”, Feltrinelli editore, Milano 1971, p. 81.

(11) Cfr. Antimilitarisno di classe e guerra, cit. p. 33.

 

 

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