Nello sforzo comune di difendere la teoria marxista e il patrimonio politico della Sinistra comunista, proseguiamo il lavoro di assimilazione teorica vitale per il partito

La rivoluzione proletaria è internazionale e internazionale sarà la trasformazione  socialista dell’economia (3)

(In collegamento con i rapporti tenuti alla riunione generale di milano del 17-18 dicembre 2016)

(«il comunista»; N° 150; Settembre 2017)

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Sulla dittatura del proletariato

 

Fa parte del nostro lavoro di riconquista del patrimonio teorico, programmatico e politico generale del marxismo, e dell’opera di restaurazione del marxismo portata avanti dalla corrente della Sinistra comunista d’Italia alla quale apparteniamo, affrontare di volta in volta le questioni e i loro diversi aspetti secondo lo svolgersi dell’attività di partito nelle situazioni reali, per quanto embrionale il partito sia in quel dato periodo. Al tema della rivoluzione proletaria e della trasformazione socialista dell’economia abbiamo dedicato più riunioni generali e ne dedicheremo ancora, tanto la sua importanza è centrale per noi; e, come abbiamo già detto, trattiamo il tema al di là dei resoconti delle singole riunioni, sviluppandolo attraverso la ripresa di testi marxisti e di lavori di partito.

 

Distruggere il potere statale borghese, vera escrescenza parassitaria

 

Ora, dopo aver dato spazio alla Critica del programma di Gotha di Marx e al Discorso di Bordiga al congresso di Marsiglia del Partito comunista francese del 1921,  riprendiamo il filo da Stato e rivoluzione di Lenin (dal n. 148 di questo giornale), e precisamente dai paragrafi 4 (L’organizzazione dell’unità nazionale) e 5 del III capitolo (La distruzione dello Stato parassita) (1). Qui Lenin riprende la critica al federalismo di stampo anarchico e proudhoniano, rifacendosi a Marx e alla Comune di Parigi; citiamo con Lenin  i passi di Marx:

«In un abbozzo sommario di organizzazione nazionale che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare è detto chiaramente che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo borgo...». Le comuni avrebbero eletto la “delegazione nazionale” di Parigi. «Le poche ma importanti funzioni che sarebbero ancora rimaste per un governo centrale, non sarebbero state soppresse, come venne affermato falsamente in mala fede, ma adempiute da funzionari comunali, e quindi strettamente responsabili...»; e ancora: «L’unità della nazione non doveva essere spezzata, anzi doveva essere organizzata dalla costituzione comunale, e doveva diventare una realtà attraverso la distruzione di quel potere statale che pretendeva essere l’incarnazione di questa unità, indipendente e persino superiore alla nazione stessa, mentre non era che un’escrescenza parassitaria. Mentre gli organi puramente repressivi del vecchio potere governativo dovevano essere amputati, le sue funzioni legittime dovevano essere strappate a una autorità che usurpava una posizione predominante sulla società stessa, e restituite agli agenti responsabili della società» (K. Marx, La guerra civile in Francia, ed. Rinascita, 1950, pp.73-74).

Per Lenin, come per noi, non ci sono dubbi: egli afferma infatti che qui Marx «non parla affatto del federalismo in opposizione al centralismo», come sosteneva Bernstein, commentando lo stesso scritto di Marx nel suo libro Le premesse del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, e stravolgendone completamente le tesi, «ma della demolizione della vecchia macchina dello Stato borghese esistente in tutti i paesi borghesi»! La deformazione di questa tesi di Marx ha resistito perfino tra i critici di Bernstein, come Plekhanov per la Russia e Kautsky per l’Europa che pure lo hanno confutato; ma, sottolinea Lenin, attribuire a Marx del “federalismo” giocava a favore dell’opportunismo perché lo confondeva con Proudhon, fondatore dell’anarchismo. Su una cosa Marx e Proudhon sono però d’accordo: sulla demolizione dell’attuale macchina statale, ma questa specifica concordanza gli opportunisti non la vogliono vedere, perché è esattamente su questo punto che essi si sono allontanati dal marxismo. E Lenin precisa: «Marx dissente sia da Proudhon che da Bakunin appunto a proposito del federalismo (per non parlare poi della dittatura del proletariato). In linea di principio, il federalismo deriva dalle vedute piccoloborghesi dell’anarchismo. Marx è centralista. E in tutti i passi citati non si troverà la minima rinuncia al centralismo. Soltanto gente imbevuta di una volgare “fede superstiziosa” nello Stato può scambiare la distruzione della macchina borghese con la distruzione del centralismo!».

Facendo un riferimento alla situazione rivoluzionaria in Russia, Lenin parla di centralismo democratico e con ragione, dato che le classi rivoluzionarie, all’epoca della rivoluzione antizarista, erano necessariamente due: il proletariato e i contadini poveri (da cui la formula di Lenin della dittatura democratica del proletariato e dei contadini poveri). Ma si spinge oltre, disegnando questa prospettiva [le sottolineature sono di Lenin]: «il proletariato e i contadini poveri si impadroniscono del potere statale, si organizzano in piena libertà nelle comuni e coordinano l’azione di tutte le comuni per colpire il capitale, spezzare la resistenza dei capitalisti, rimettere a tutta la nazione, a tutta la società la proprietà privata delle ferrovie, delle officine, della terra ecc., non è questo forse centralismo? Non è forse il centralismo democratico più conseguente, e, con ciò, un centralismo proletario?» (2).

Quest'ultimo passaggio è di grande importanza: il centralismo democratico più conseguente non è altro che il centralismo proletario. La posizione della sinistra bolscevica era la seguente: in Russia la borghesia si era dimostrata socialmente impotente, quindi andava rifiutata come alleato politico nell'insurrezione e nel governo provvisorio; il proletariato doveva trovare un altro alleato: la classe contadina oppressa dalla dominante nobiltà feudale. La prospettiva rivoluzionaria non poteva perciò che essere questa: all'insurrezione condotta da operai nelle città e dai contadini nelle campagne succederà come governo, con l'esclusione dei partiti borghesi, la «dittatura democratica degli operai e dei contadini». La rivoluzione in Russia non poteva che poggiare su queste due classi: il proletariato e i contadini poveri, e i compiti storici non potevano sfuggire alla necessità di superare la profonda arretratezza economica. Perciò socialmente la rivoluzione sarebbe stata borghese, e politicamente sarebbe stata democratica, «in quanto non si sarebbe avuto un governo di classe, ma un governo di popolo: proletari, contadini e altre classi povere» (3). Per quanto “democratica”, «sarebbe stata una dittatura in quanto i nuovi borghesi padroni di terre e di fabbriche sarebbero stati fuori dall’alleanza dei partiti di governo». Dopo questa rivoluzione non si sarebbe cominciata la costruzione del socialismo: Lenin ha detto cento volte che «il contadino piccolo proprietario non è, né può essere, socialista», e «per formare le premesse di un socialismo della terra occorre uno sviluppo industriale esteso in ampiezza dieci volte più di quello che la Russia aveva al tempo della rivoluzione» (4). La rivoluzione si doveva fermare in Russia? Doveva fermarsi ai compiti nazionali borghesi? Mai. «Al culmine del programma che Lenin tracciava a tale tipo di rivoluzione, stava, insieme alle varie riforme di struttura “senza fare a meno delle fondamenta del capitalismo”, un ultimo ma non minore vantaggio: portare la conflagrazione rivoluzionaria in Europa» (5). E, come abbiamo infinite volte affermato e dimostrato, il possibile passaggio della Russia alla trasformazione socialista anche in economia poteva essere fatto soltanto grazie alla vittoria della rivoluzione e della dittatura proletarie in Europa.

       Ma torniamo a Stato e rivoluzione. Lenin sintetizza così i punti centrali delle tesi marxiste sullo Stato: «”Distruzione del potere statale”, questa “escrescenza parassitaria”, “amputazione”, “demolizione” di questo potere, “il potere dello Stato ormai diventato superfluo”: è in questi termini che Marx parla dello Stato, giudicando e analizzando l’esperienza della Comune». Lenin continua a riferirsi a Marx e alla sua analisi dell’esperienza della Comune di Parigi, sottolineando che, grazie ai numerosi attacchi opportunisti e falsificatori al marxismo, a distanza di quasi mezzo secolo dagli scritti di Marx, «bisogna ricorrere quasi a degli scavi archeologici per far penetrare nella coscienza delle grandi masse il marxismo non deformato» (6). E, oggi, a distanza di cent’anni da Stato e rivoluzione, quanto in profondità bisogna scavare ancora per riportare alla luce l’invariante struttura teorica del marxismo!...

Perché la Comune di Parigi è stata il punto di riferimento per Marx e per tutti i marxisti autentici nel delineare i caratteri di base della dittatura del proletariato? Perché è stata la prima esperienza nella storia di un governo della classe operaia. Lo afferma Marx, che Lenin cita, nel suo scritto sulla Comune: «La molteplicità delle interpretazioni che si danno della Comune e la molteplicità degli interessi che nella Comune hanno trovato la loro espressione, mostrano che essa fu una forma politica fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti forme di governo erano state unilateralmente repressive. Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro» (7).

Fermiamoci un momento. Qui si tratta di evidenziare un’altra caratteristica del marxismo, e cioè della teoria che mette al centro il movimento materiale verso un’organizzazione sociale superiore, un’organizzazione sociale non più basata sulla divisione della società in classi, ma sulla società di specie, sulla società che unisce dialetticamente, superandoli o negandoli, i due opposti e  cioè lo sviluppo delle forme di produzione da una società divisa in classi ad un’altra sempre divisa in classi e la rottura definitiva con la divisione in classi delle società sviluppate. Per il marxismo, il comunismo non è una “scoperta”, un’idea da realizzare con forme politiche e sociali definite preventivamente, ma il prodotto storico del movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Lenin infatti, dopo aver ripreso la citazione di Marx che abbiamo riportato poco sopra, scrive: «Da tutta la storia del socialismo e della lotta politica Marx trasse la conclusione che lo Stato è condannato a scomparire e che la forma transitoria dello Stato in via di sparizione (transizione dallo Stato al non-Stato) sarà “il proletariato organizzato come classe dominante” In quanto alle forme politiche di questo avvenire, Marx non si preoccupò di scoprirle. Si limitò all’osservazione esatta della storia francese, alla sua analisi e alla conclusione che scaturiva dall’anno 1851: le cose marciano verso la distruzione della macchina dello Stato borghese. E quando il movimento rivoluzionario di massa del proletariato scoppiò, Marx, nonostante l’insuccesso del movimento, nonostante la sua breve durata e la sua impressionante debolezza, si mise a studiare le forme ch’esso aveva rivelato. La Comune è la forma “finalmente scoperta” dalla rivoluzione proletaria sotto la quale poteva prodursi l’emancipazione economica del lavoro. La Comune è il primo tentativo della rivoluzione proletaria di spezzare la macchina dello Stato borghese; è la forma politica “finalmente scoperta” che può e deve sostituire quel che è stato spezzato» (8).

Nel IV capitolo di Stato e rivoluzione, Lenin rimette le mani alla critica delle interpretazioni opportuniste del marxismo riguardo la questione dello Stato. E, nel farlo, riprende una serie di scritti e di lettere di Engels e di Marx, oltre ad alcune Prefazioni redatte da loro nelle quali sono contenute preziosissime precisazioni.

Ad esempio, una considerazione fra le più notevoli negli scritti di Marx e di Engels – come scrive Lenin – è contenuta nella lettera di Engels a Bebel del 18 (28) marzo 1875 (9). Criticando il progetto del programma di Gotha (10), a proposito del passaggio dalla formula dello “Stato popolare libero” a quella dello “Stato libero” in esso contenuto, Engels scrive:

«Lo Stato popolare libero si è trasformato in Stato libero. Secondo il senso grammaticale di queste parole, uno Stato libero è quello che è libero verso i suoi cittadini, cioè è uno Stato con un governo dispotico. Sarebbe ora di farla finita con tutte queste chiacchiere sullo Stato, specialmente dopo la Comune che non era più uno Stato nel senso proprio della parola. Gli anarchici ci hanno abbastanza rinfacciato lo “Stato popolare”, benché già il libro di Marx contro Proudhon e in seguito il Manifesto del Partito comunista dicano esplicitamente che con l’instaurazione del regime socialista lo Stato si dissolve da sé [sich auflöst] e scompare. Non essendo lo Stato altro che un’istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per tener soggiogati con la forza i propri nemici, parlare di uno “Stato popolare libero” è pura assurdità: finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dell’assoggettamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà allora lo Stato come tale cessa di esistere. Noi proporremo quindi di mettere ovunque invece della parola Stato la  parola Gemeinwesen, una vecchia eccellente parola tedesca, che corrisponde alla parola francese Commune».

A dimostrazione dell’invarianza del marxismo, nella Prefazione all’edizione tedesca del Manifesto del Partito comunista, del 24 giugno 1872, dunque venticinque anni dopo la sua prima apparizione, Marx ed Engels ribadivano la giustezza dei principi generali in esso contenuti – principi generali validi ancor oggi e per tutto il periodo che ci distanzia dalla vittoria rivoluzionaria della dittatura proletaria in Europa e nel mondo – ma affermano che «l’applicazione pratica di questi principi dipenderà sempre e dovunque [sempre e dovunque, tempo e spazio, sottolineato da noi, NdR] dalle circostanze storiche del momento; quindi non si dà alcuna importanza particolare alle misure rivoluzionarie proposte alla fine della sezione seconda» (11). Ed è in forza dell’esperienza storica, concreta, della lotta rivoluzionaria, che Marx ed Engels si prendono la responsabilità di affermare che, del Manifesto del Partito comunista, «qua e là si potrebbe correggere qualche particolare». Qual è stata l’esperienza storica reale, concreta che ha «invecchiato in vari punti» il programma di quelle misure? La Comune di Parigi, 1871. In questa Prefazione, infatti, si legge nei passi successivi: «Di fronte all’immenso progresso della grande industria negli ultimi venticinque anni e all’organizzazione in partito della classe operaia che con quella è progredita, di fronte alle esperienze pratiche della rivoluzione di febbraio prima, e poi ancora molto più della Comune di Parigi, nella quale il proletariato ha tenuto per la prima volta il potere politico, per due mesi, questo programma è oggi invecchiato in vari punti. La Comune ha, specialmente, fornito la prova che “la classe operaia non può semplicemente prender possesso della macchina statale bell’e pronta e metterla in moto per i propri fini” (si veda la Guerra civile in  Francia, Indirizzo del consiglio generale dell’Associazione Internazionale degli operai, edizione tedesca, p. 19, dove questo concetto è svolto più ampiamente)» (12).

Come succede sempre, i critici opportunisti hanno sempre interpretato i passi di Marx ed Engels e di tutti i marxisti autentici, in modo che il loro rigore e la loro coerenza rivoluzionaria fossero attenuati, ammorbiditi, confusi, falsati. E per interpretarli in questo modo, il metodo usato di solito è quello di estrapolare i brani togliendoli dal loro contesto più generale e senza tener conto di tutto il lavoro generale prodotto nei diversi ambiti, è quello di prendere un passo a sé stante e piegarlo all’interpretazione voluta. Lenin è stato un campione ineguagliabile della critica all’opportunismo e alle molteplici versioni che di volta in volta gli opportunisti più rappresentativi sfornavano; spesso, egli andava a scovare anche in un aggettivo o in una formulazione di un concetto utilizzati da Marx o da Engels, la possibilità di un'intepretazione distorta se non del tutto contraria a ciò che in realtà Marx o Engels volevano sostenere. Nel suo quaderno intitolato Il marxismo e lo Stato (13), Lenin, a proposito dello Stato e dei compiti della rivoluzione proletaria in campo politico, coglie la possibilità di una mala interpretazione proprio dal passo della Prefazione del 1872 che abbiamo appena richiamato, dove si dice che la Comune ha provato in pratica che la classe operaia non può semplicemente prendere possesso della macchina dello Stato bella e pronta e metterla in movimento per i propri fini. Lenin scrive che «questo passo, preso a sé, non è chiaro; sembrerebbe fornire una scappatoia all’opportunismo dando, a prima vista, la possibilità di interpretarlo nel senso che se non è possibile “impadronisrsi” (in Besitz nehmen) “semplicemente” della “macchina dello Stato bella e pronta”, ciò significherebbe che le rivoluzioni non sono necessarie, bisogna essere più cauti con esse, bisogna dedicare più attenzione all’idea non della presa del potere, ma dello sviluppo lento, dell’integrazione ecc. ecc.»; e afferma: «Una tale interpretazione è arcifalsa. Marx in realtà ha in mente esattamente il contrario: la rivoluzione del proletariato non può “semplicemente” impadronirsi della macchina statale “pronta”, la rivoluzione deve spezzarla, questa macchina pronta, e sostituirla con una nuova» (14).

Tornando ai brani di Engels riprodotti dalla sua lettera a Bebel in cui criticava il progetto del programma di Gotha, Lenin, sempre nel suo quaderno Il marxismo sullo Stato, commentava in questo modo il passo sullo “Stato popolare libero” che abbiamo riportato sopra:

«E’ questo forse il passo più significativo e, probabilmente, il più violento, per così dire “contro lo Stato”, in Marx ed Engels.

(1)  “Sarebbe ora di farla finita con tutte queste chiacchiere sullo Stato”.

(2) “La Comune non era più uno Stato nel senso proprio della parola” (e che cos’era? Una forma transitoria dallo Stato al non-Stato, evidentemente!).

(3) Gli anarchici ci hanno abbastanza “rinfacciato” (in die Zahne geworfen – letteralmente = sbattuto sui denti) lo “Stato popolare”. (Marx ed Engels, vale a dire, provavano vergogna di questo palese  errore dei loro amici tedeschi: - comunque lo consideravano, e nelle circostanze di allora avevano certamente ragione, un errore imperdonabilmente meno importante di quello degli anarchici. NB questo!!).

(4) Lo Stato “si dissolve da sé ('si scioglie') e scompare...” (cfr. più tardi “si estingue”) “con l’instaurazione del regime sociale socialista...”.

(5) Lo Stato è “un’istituzione transitoria”, necessaria “nella lotta, nella rivoluzione...” (necessaria al proletariato, si capisce)...

(6) Lo Stato è necessario non per la libertà, ma per la repressione (? Niederhaltung non è repressione, propriamente, ma impedire la restaurazione, mantenere sottomessi) degli avversari del proletariato.

(7) Quando ci sarà la libertà, non ci sarà più Stato. Di solito i concetti di “libertà” e “democrazia” sono considerati identici e vengono usati spesso in cambio l’uno dell’altro. Molto spesso i marxisti volgari (Kautsky, Plekhanov e compagnia in testa) ragionano proprio in questo modo. In realtà la democrazia esclude la libertà. La dialettica (il processo) dello sviluppo è la seguente: dall’assolutismo alla democrazia borghese; dalla democrazia borghese a quella proletaria; da quella proletaria a nessuna.

(8) “Noi” (cioè Engels e Marx) proporremmo di dire “ovunque” (nel programma) invece di “Stato”, “comunità” (Gemeinwesen), “Commune”!!!».

E Lenin si preocupa di mettere subito in chiaro che cosa ci distingue dagli anarchici e che cosa ci distingue dagli opportunisti. Dopo aver concluso che di questi 8 «ricchissimi concetti» gli opportunisti non ne hanno capito nemmeno uno, afferma: «Dagli anarchici ci distingue (?) l’utilizzazione dello Stato adesso e (â) al momento della rivoluzione del proletariato (“dittatura del proletariato”) – punti importantissimi per la pratica, subito. (...) Dagli opportunisti ci distinguono verità più profonde “più eterne” circa (??) il carattere “temporaneo” dello Stato, circa (ââ) il danno delle “chiacchiere” su di esso ora, circa (ãã) il carattere non del tutto statale della dittatura del proletariato, (ää) circa la contraddizione tra Stato e libertà, (??) circa l’idea (concetto, termine programmatico) più corretta della “Comune” in luogo dello Stato, (ææ) circa lo “spezzare” (Zerbrechen) la macchina burocratico-militare» (15). Ecco come, in pochissime righe, Lenin riassume i punti essenziali di critica alle posizioni di base di tutti gli opportunisti, non solo di ieri ma anche di oggi e di domani, sul problema dello Stato.

Il tema è troppo importante e vale la pensa di insistere, seguendo, dallo stesso scritto sul marxismo e lo Stato, la critica di Lenin. A proposito della Critica al programma di Gotha di Marx, riferendosi alla lettera di Marx a Bracke del 5 maggio 1875 nella quale affermava che insieme ad Engels, alla conclusione del Congresso di Gotha, avrebbe pubblicato «una breve dichiarazione in cui affermeremo che siamo completamente lontani dal detto programma di principio e che non abbiamo niente a che fare con esso», «un programma che, secondo la mia convinzione, deve essere assolutamente respinto e che demoralizza il partito» (16), Lenin evidenzia questi passaggi della Critica al programma di Gotha:

«”La società odierna” è la società capitalistica, che esiste in tutti i paesi civili, più o meno libera di aggiunte medioevali, più o meno modificata dallo speciale svolgimento storico di ogni paese, più o meno evoluta. Lo “Stato odierno” invece muta con il confine di ogni paese. Nel Reich tedesco-prussiano esso è diverso che in Svizzera, in Inghilterra è diverso che negli “Stati Uniti”. “Lo Stato odierno” è dunque una finzione».

«I diversi Stati dei vari paesi civili, malgrado le loro variopinte differenze di forma, hanno tutti in comune il fatto che essi stanno sul terreno della moderna società borghese, che è soltanto più o meno evoluta dal punto di vista capitalistico. Essi hanno perciò una serie di tratti sostanziali in comune. In questo senso si può parlare di uno “Stato odierno” in contrapposto al futuro in cui la presente radice dello Stato, la società borghese, sarà perita» (17). Se mai ce ne fosse stato bisogno, anche in questo passaggio vi è la negazione della “via nazionale al socialismo” poiché, aldilà di tutte “le variopinte differenze di forma”, in tutti i paesi “civili” la base comune è la stessa, la moderna società borghese, il modo di produzione capitalistico, ed ogni Stato attuale, “odierno”, è uno Stato borghese che, per mezzo della rivoluzione proletaria va abbattuto, spezzato, aldilà delle differenze di forma da paese a paese, per instaurarvi la dittatura del proletariato!

«Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni statali? A questa questione si può rispondere solo scientificamente: e componendo migliaia di volte la parola “popolo” con la parola “Stato”, non ci si avvicina alla soluzione del problema neppur di una spanna» (18). Ma qui ci vuole un inciso, visto che Marx, parlando del «futuro ordinamento statale della società comunista», sembra cadere in contraddizione dato che nella società comunista è prevista l’estinzione dello Stato. Lenin risponde deciso: No, nessuna contraddizione, anche se nella verve polemica Marx ha utilizzato una terminologia che può indurre a crederlo; e, per dimostrarlo, Lenin fa uno schema delle tre fasi in cui lo Stato, secondo la teoria marxista, passa rivoluzionariamente da una all’altra, applicando magnificamente la dialettica: «I. Lo Stato è necessario alla borghesia (nella società capitalistica vi è lo Stato in senso proprio). – II. Lo Stato è necessario al proletariato (nella fase di transizione: dittatura del proletariato, lo Stato è di tipo transitorio, non-Stato in senso proprio). – III. Lo Stato non è necessario, esso si estingue (società comunista: estinzione dello Stato)». Traducendo questi “passaggi” sul piano della democrazia, prendendo per buono l’obiettivo di giungere alla cosiddetta “democrazia piena” [oggi si direbbe “vera democrazia”], Lenin li descrive, in corrispondenza con lo schema precedente, in questo modo: «I. Democrazia solo per i ricchi e per un esiguo strato del proletariato (democrazia solo come eccezione, mai piena...). – II. Democrazia per i poveri, per i 9/10 della popolazione, repressione con la forza della resistenza dei ricchi (democrazia quasi piena, limitata solo dalla repressione della resistenza della borghesia). – III. Piena democrazia, che diventa abitudine e perciò si estingue, lasciando il posto al principio: “ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi biosgni” (democrazia realmente piena, che diviene abitudine e perciò si estingue... La piena democrazia è uguale all’assenza di democrazia. Non è un paradosso, è la verità)» (19). Quando ancora la democrazia e le rivendicazioni democratiche avevano una giustificazione storica nelle vaste aree in cui la rivoluzione borghese non aveva ancora spalancato al capitalismo le porte di uno sviluppo senza freni, come all’epoca in Russia, Lenin – al pari di Marx ed Engels – insisteva sulla necesità di inserire i compiti della rivoluzione borghese in quelli della rivoluzione proletaria, nella prospettiva di una lotta rivoluzionaria internazionale che facesse fare al proletariato, e alle masse contadine povere che doveva guidare, il famoso passaggio dal regime borghese alla dittatura del proletariato, dallo Stato borghese al non-Stato proletario, indirizzando il movimento storico rivoluzionario verso l’ultimo passaggio necessario, dalla dittatura del proletariato e, quindi, dalla società in cui il proletariato come classe dominante, distruggendo la sovrastruttura politica del capitalismo (spezzando la macchina burocratico-militare), avviava la trasformazione sociale ed economica dal capitalismo al comunismo, dalla società divisa in classi alla società senza classi, dalla società capitalista in cui vige lo Stato in senso proprio alla società comunista in cui lo Stato si è estinto, in cui – per dirla con altre parole, ma sempre di Lenin – la “democrazia realmente piena” si estingue: assenza dello Stato, significa assenza della democrazia.

I brani successivi della Critica al programma di Gotha, di Marx, che Lenin riprende, prima del nostro inciso, sono questi: «Tra la società capitalista e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato (il corsivo è di Marx). Il programma non ha niente a che fare né con quest’ultima, né col futuro Stato della società comunista». E a proposito del programma di Gotha, il cui punto sullo Stato della società comunista è stata già chiarito da Lenin come dalle righe precedenti, Marx afferma che le rivendicazioni politiche di questo programma «non contengono nulla oltre all’antica litania democratica nota in tutto il mondo: suffragio universale, legislazione diretta, diritto del popolo, armamento del popolo ecc. Esse sono una pura eco del partito popolare borghese, della Lega per la pace e la libertà (...) Queste rivendicazioni sono a posto solo in una repubblica democratica» (20).

Sappiamo bene quanto le litanie democratiche abbiano ancor oggi presa sulle masse proletarie e, proprio per questa ragione, non smetteremo mai di dare battaglia a tutte le posizioni e a tutti i concetti che dai principi della democrazia borghese discendono e che intossicano da moltissimo tempo i proletari di tutto il mondo. Sappiamo d’altra parte che il vettore principale dell’intossicazione democratica delle masse proletarie è la mezza classe piccoloborghese, una vera bestia nera dei comunsti rivoluzionari. Lenin a questo proposito, in uno scritto del 1918 intitolato “Le preziose ammissioni di Pitirim Sorokin” (un socialista-rivoluzionario di destra che si dimise all’epoca da quel partito e dall’Assemblea Costituente, non sapendo più dare “ricette politiche efficaci né a sé né agli altri”, e ritirandosi dalla “politica”) (21), coglie l’occasione per mettere ancor più in evidenza  le caratteristiche non solo politiche ma anche di comportamento della democrazia piccoloborghese, caratteristiche che riscontriamo ancor oggi come fosse ieri. Ad un certo punto Lenin scrive: «La fede nell’universale azione salvatrice della “democrazia” in genere, l’incomprensione della natura della democrazia borghese, storicamente limitata per la sua utilità e necessità, questa fede e questa incomprensione si sono perpetuate per decenni, per secoli in tutti i paesi e, con forza particolare, in seno alla piccola borghesia. La grande borghesia ne ha viste di tutti i colori e sa bene che la repubblica democratica, come ogni altra forma statale in regime capitalistico, è solo una macchina per schiacciare il proletariato. Il grande borghese sa tutto questo perché conosce intimamente i dirigenti effettivi e le molle più nascoste (che spesso sono più segrete proprio per questo) di qualsiasi macchina statale borghese. Per la sua posizione economica e per tutte le sue condizioni di vita il piccolo borghese ha minore capacità di far propria questa verità e si culla nell’illusione che la repubblica democratica significhi la “democrazia pura”, lo “Stato popolare libero”, il potere del popolo fuori o al di sopra delle classi, la pura manifestazione della volontà di tutto il popolo ecc., ecc. La solidità di questi pregiudizi del democratismo piccoloborghese dipende inevitabilmente dal fatto che egli è estraneo alla lotta di classe più acuta, alla Borsa, alla “vera” politica» (22).

 

Il socialismo e il famoso scontrino

 

C’è una parte della Critica al programma di Gotha che riguarda l’analisi economica della futura società, non nel senso becero di coloro che pensano che la società comunista vada instaurata di sana pianta secondo un’idea precedentemente formata, ma per come la società comunista emergerà dalla società capitalistica che ne forma le basi economiche e storiche. Lenin richiama infatti alcuni brani dei punti 3 e 4 del testo di Marx per metterne in evidenza gli elementi caratteristici e portare la critica che Marx fece alle formule di Lassalle, del tipo “reddito integrale del lavoro”, contro tutti i rappresentanti opportunisti che collegano le proprie formule, del tutto ambigue e slegate dai concetti economici determinati, a rivendicazioni che in sostanza non colpiscono il modo di produzione capitalistico e, quindi, in ultima analisi, la società eretta su di esso, ma titillano le illusioni tipiche della democrazia sui diritti uguali per tutti, sulla “giusta” ripartizione del reddito del lavoro ecc.

Marx, dunque, seguendo l’ipotesi di come organizzare l’economia nella società socialista, critica l’idea lassalliana del “reddito integrale del lavoro”, dimostrando, se la formula va intesa nel senso del “reddito collettivo del lavoro” (che è il prodotto sociale complessivo), la necessità di dover  detrarre da quel prodotto sociale complessivo: la copertura per reintegrare i mezzi di produzione consumati, un fondo di riserva o di assicurazione contro infortuni, danni causati da avvenimenti naturali ecc., le spese per l’amministrazione, per le scuole, la salute pubblica ecc., per arrivare ad affermare quanto segue:

«Quella con cui abbiamo da fare qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla propria base, ma, viceversa, come emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le “macchie” della vecchia società dal cui seno essa è uscita. Perciò il produttore singolo riceve, dopo le detrazioni, esattamente ciò che le dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità individuale di lavoro. Per esempio: la giornata di lavoro sociale consta della somma delle ore di lavoro individuale; il tempo di lavoro individuale del singolo produttore è la parte della giornata di lavoro sociale fornita da lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro sociale. Egli riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’altra» (23).

E sullo scontrino di Marx vale la pena fermarsi un attimo. Nella Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, a questo proposito, si afferma che lo scontrino, con cui il lavoratore ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente, è «la SOLA equivalenza che resta ancora in gioco. Quanto dura lo scontrino? La sua grande caratteristica è questa: esso non è, come la moneta, equivalente generale; è solo consumabile, non è accumulabile, e nemmeno tesaurizzabile. Dura quanto il pane ad ammuffire o il burro ad irrancidire; poniamo, per restare a questo schema simbolico, che gli si dia la validità di una settimana» (24). Dunque siamo nella stadio inferiore della società comunista, lo stadio della dittatura del proletariato, lo stadio del non-Stato, lo stadio in cui «il mercantilismo è finito» e, perciò, permetterà successivamente, con lo sviluppo delle forze produttive e con l’abitudine da parte degli uomini a non sottostare più alle leggi del mercato, del valore e del capitale, ma a lavorare per la società e, quindi, anche per se stessi, l’organizzazione e l’amministrazione sociale senza bisogno di coercizione, di repressione, di guerra e, quindi, senza più bisogno di una macchina statale che, nel frattempo, si sarà estinta lasciando il posto ad una razionale organizzazione sociale della produzione, della distribuzione e dei rapporti sociali alla quale tutti i membri della società potranno dedicarsi, occupando una parte del proprio tempo quotidiano all’organizzazione sociale senza bisogno di dover ricorrere agli specialisti perché tutti saranno in grado di svolgere le funzioni sociali necessarie.

L’appropriazione privata della produzione sociale è abolita, la produzione sociale complessiva è dell’intera società e, in una prima fase della trasformazione sociale dal capitalismo al comunismo, nella fase del comunismo inferiore, detto socialismo, domina ancora «lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di cose di eguale valore. Contenuto e forma sono mutati perché, cambiate le circostanze, nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché d’altra parte niente può passare in proprietà del singolo all’influori dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio di equivalenti di merci: si scambia una quantità di lavoro in una forma contro una uguale quantità in un’altra. L’uguale diritto è qui perciò ancora sempre, secondo il principio, il diritto borghese, benché principio e pratica non si azzuffino più, mentre lo scambio di equivalenti, nello scambio di merci, esiste solo nella media, non per il caso singolo. Nonostante questo progresso, questo ugual diritto reca ancora sempre un limite borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l’uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro» (25). Lenin commenta, riassumendo quanto sostiene Marx, che, in realtà, questa uguaglianza del diritto presuppone l’ineguaglianza, l’ineguaglianza di fatto, l’ineguaglianza tra gli uomini, perché uno è forte, l’altro è debole ecc. (gli individui “non sarebbero individui diversi” se non fossero “disuguali”: l’uno riceverà più dell’altro.

«Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista, quale è uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa condizionato, della società» (26). Il concetto delle diverse fasi della società comunista, dal travaglio del parto, alla prima fase e alla fase più elevata della società, era stato già ampiamente spiegato nell’Antidühring nel capitolo dedicato al Socialismo. Qui Lenin sottolinea la distinzione tra la prima fase (fase inferiore della società comunista), nella quale la distribuzione dei beni di consumo è proporzionale alla quantità di lavoro prestata da ciascuno alla società, nella quale, quindi, la disuguaglianza nella distribuzione è ancora forte e «l’angusto orizzonte del diritto borghese non è ancora del tutto superato» per cui non si può non constatare che vige ancora una forma di costrizione: «chi non lavora non mangia»; e la fase successiva e ultima (fase superiore della società comunista), nella quale il lavoro è diventato un bisogno, la norma, senza alcuna costrizione, mentre le forze produttive si saranno sviluppate in modo elevato e, perciò. «Ognuno darà secondo le sue capacità e riceverà dal fondo sociale secondo i suoi bisogni». Quando sarà possibile ciò? Appunto quando il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico scomparirà, quando la divisione in classi della società scomparirà, quando l’abitudine al lavoro sarà una cosa normale, quando le forze produttive si saranno sviluppate a tal punto da permettere una sufficiente abbondanza di prodotti per tutte le necessità, presenti e future, della popolazione mondiale, ecc. «E’ chiaro – conclude Lenin nei suoi appunti – che l’estinzione completa dello Stato sarà possibile solo a questo stadio superiore» (27).

Prima di terminare questa puntata vogliamo riportare un passo di Engels a proposito della società socialista rappresentata come «regno dell’eguaglianza». Nella lettera a Bebel del 18 (28) marzo 1875, riguardo la critica al programma di Gotha, che abbiamo già citato sopra sulla questione dello «Stato popolare libero», Engels, fra le altre critiche, si intrattiene sulla frase del programma che dice: «“Eliminazione di ogni diseguaglianza sociale e politica”, è anch’essa una frase molto dubbia, invece di “soppressione di tutte le differenze di classe”. Tra paese e paese, tra provincia e provincia, perfino tra località e località sussisterà sempre una certa diseguaglianza di condizioni di esistenza, che si potrà ridurre a un minimo, ma non si potrà mai sopprimere del tutto. Gli abitanti delle Alpi avranno sempre condizioni di vita diverse da quelle degli abitanti della pianura. La rappresentazione della società socialista come regno dell’eguaglianza è una rappresentazione francese unilaterale, derivante dal vecchio “libertà, uguaglianza, fratellanza”, è una rappresentazione che era giustificata a suo tempo e a suo luogo come una determinata tappa dello sviluppo, ma che oggi dovrebbe essere superata come tutte le unilateralità delle vecchie scuole socialiste, perché esse creano soltanto confusione e perché si sono trovate forme più precise di esposizione della questione» (28).

Quell’oggi si riferisce al 1875, ma, come dicevamo, le litanie democratiche resistono nel tempo fino a quando la base economica capitalistica della società non verrà distrutta e sostituita con il comunismo. L’illusione di una totale eguaglianza tra gli esseri umani non tiene mai conto delle loro condizioni reali di esistenza, ma di fatto nasconde l’enorme diseguaglianza economica e sociale tra la classe possidente, la classe capitalistica che sfrutta e opprime la stragrande maggioranza della popolazione mondiale e la classe proletaria, la classe dei lavoratori salariati che produce la ricchezza sociale ma non possiede nulla. Un’illusione che fa il paio con «l’affratellamento internazionale dei popoli», frase presa in prestito dalla borghese Lega per la libertà e la pace che, costituitasi nel 1867 a Ginevra, sosteneva il libero scambio e la costituzione degli Stati uniti d’Europa; non per nulla, la I Internazionale, su spinta di Marx, condusse contro di essa una lotta decisa. Nella società divisa in classi, nella società capitalistica non sarà mai possibile l’affratellamento dei popoli, come dimostrano più di duecento anni di sviluppo del capitalismo.

(3 – continua)

 


 

(1)   Vedi Lenin, Stato e rivoluzione, Ed. Riuniti, Roma 1970, pp. 115-118.

(2)   Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 118.

(3)   Cfr. il “filo del tempo” L’Orso e il suo grande romanzo, in “il programma comunista” n. 3 del 1953.

(4)   Ibidem.

(5)   Ibidem.

(6)   Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 119.

(7)   K. Marx, La guerra civile in Francia, ed. Rinascita, 1950, pp.76-77.

(8)   Lenin, Stato e rivoluzione, cit., pp. 120-121.

(9)   Questa lettera fu resa nota da A. Bebel nel secondo volume delle sue memorie, Ricordi della mia vita, pubblicato nel 1911, ben 36 anni dopo che Engels gliel’aveva scritta e inviata. A proposto di questa lettera del 18 marzo 1875, Lenin, riferendone nel suo quaderno Il marxismo e lo Stato (vedi oltre), dichiara che essa ha «un’importanza eccezionale a proposito dello Stato».

(10) K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma 1976. Questo manoscritto, insieme alla lettera a W. Brake del 5 maggio 1875, fu reso noto da Engels pubblicandolo nella rivista di Kautsky Die Neue Zeit, nel 1891, in vista del Congresso di Erfurt della socialdemocrazia tedesca, il cui progetto di programma fu anch’esso criticato da Engels e di cui tratteremo più avanti. Questo testo è pubblicato ne “il comunista”, n. 146, dicembre 2016.

(11) Marx-Engels, Manifesto del Partito comunista, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, Appendice, a) Prefazione all’edizione tedesca del 1872, p. 308.

(12) Marx-Engels, Manifesto del Partito comunista, cit., Appendice, a) Prefazione all’edizione tedesca del 1872, pp. 308-9.

(13) Il marxismo sullo Stato, di Lenin, è contenuto in un volumetto delle Edizioni Progress, Mosca, nella traduzione in italiano condotta sul 33° volume della V edizione delle Opere complete di V.I. Lenin, uscite a cura dell’Istituto di marxismo-leninismo presso il CC del PCUS, e pubblicata dagli Editori Riuniti, Roma-Edizioni Progress, Mosca nel 1976 sotto il titolo Stato e rivoluzione. Il marxismo sullo Stato. Stranamente  il quaderno “Il marxismo sullo Stato” non ha mai trovato posto nei 45 volumi delle Opere complete di Lenin pubblicate dagli Editori Riuniti.

(14) Ibidem, p. 127. A proposito di quello che Marx sosteneva al riguardo, Lenin fa riferimento anche alla lettera di Marx a Kugelmann,12 aprile 1871, in cui scriveva: «Se tu rileggi l’ultimo capitolo del mio “18 Brumaio”, troverai che io affermo che il prossimo tentativo della rivoluzione francese non consisterà nel trasferire da una mano ad un’altra la macchina militare e burocratica, come è avvenuto fino ad ora, ma nello spezzarla (corsivo di Marx), e che tale è la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare sul continente. In questo consiste pure il tentativo dei nostri eroici compagni parigini» (p. 128). Concetto ben presente anche nell’«Indirizzo» del Consiglio generale dell’Internazionale, scritto il 30 maggio 1871.

(15) Ibidem, pp. 147-148.

(16) Cfr. Lettera di Marx a W. Bracke, 5 maggio 1875, in Critica al programma di Gotha, cit., pp. 19-20.

(17) Cfr. Critica al programma di Gotha, cit., p. 43.

(18) Cfr. Critica al programma di Gotha, cit., p. 43.

(19) Cfr. Il marxismo sullo Stato, di Lenin, cit., pp. 151-153.

(20) Cfr. Critica al programma di Gotha, cit., pp. 44-45.

(21) Cfr. Lenin, Le preziose ammissini di Pitirim Sorokin, 20 novembre 1918, Opere, Editori Riuniti, Roma 1967, vol. 28, pp. 185-193.

(22) Ibidem, pp. 188-189.

(23) Cfr. Critica al programma di Gotha, cit., p. 30.

(24)Vedi Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, edizioni il programma comunista, Milano 1976, p. 672.

(25) Cfr. Critica al programma di Gotha, cit., pp. 30-31.

(26) Ibidem, p. 32.

(27) Cfr. Il marxismo sullo Stato, di Lenin, cit., p. 155.

(28) Ibidem, p. 157.

 

 

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