Repubblica di Catalogna o Spagna unita: false alternative

(«il comunista»; N° 151; Dicembre 2017)

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FACENDOSI TRASCINARE DALLA BORGHESIA E DALLA PICCOLA BORGHESIA, CATALANE O SPAGNOLE CHE SIANO, IL PROLETARIATO NON FA CHE RAFFORZARE LE CATENE CHE LO LEGANO ALLO SFRUTTAMENTO CAPITALISTA.

DI FRONTE AGLI APPELLI REAZIONARI DI UNA “REPUBBLICA CATALANA” O DI UNA “SPAGNA UNITA” VI È UNA SOLA VIA: IL RITORNO ALLA LOTTA DI CLASSE!

 

 

Con la "dichiarazione di indipendenza" da parte del Parlamento di Catalogna, l’intervento ambiguo del governo autonomo e la detenzione in Spagna o la fuga di alcuni membri destituiti del governo, il cosiddetto "processo" sembra essere giunto al suo culmine.

Il governo spagnolo ha iniziato ad applicare l’articolo 155 della Costituzione, che gli consente di assumere le competenze che erano prerogativa della Generalitat catalana, anche se non ha assunto un suo controllo completo né ha liquidato l’autonomia di cui godeva: ha unicamente preso sotto il suo controllo il comando della polizia autonoma e delle finanze, ma in realtà era già su questa strada prima del referendum con lo scopo proprio di evitarlo.

Innanzitutto sono stati arrestati i leader di Omnium Cultural e della Assemblea Nazionale Catalana, le due entità politiche che hanno capeggiato la mobilitazione sociale in favore dell’indipendenza della Catalogna. E poi, è stata incarcerata anche una buona parte del Governo della Generalitat, con in testa Oriol Junqueras, vicepresindente all’economia. Durante questo periodo, organizzazioni di carattere civico come Sociedad Civil Catalana e gruppi di estrema destra ad essa legati, hanno promosso manifestazioni a Barcellona in difesa dell’unità della Spagna, in buona parte terminate con autentiche razzie nelle strade.

Da parte sua, il blocco indipendentista ha proclamato fino all’ultimo la sua minaccia di dichiarare l’indipendenza della catalogna: dopo il referendum e alcune settimane di temporeggiamento, che mostrano che non c’era alcuna ferma determinazione a mettere in atto questo obiettivo, la maggioranza "nazionalista" del Parlament catalano (PDeCAT e CUP) ha votato a favore di un testo ambiguo che soltanto un’interpretazione molto elastica può immaginare che porti all’indipendenza catalana. Dopo oltre 5 anni di "processo", un referendum, uno "sciopero generale" per il quale sono stati chiamati a mobilitarsi in difesa del "paese" borghesi, piccoloborghesi e proletari, il Parlament catalano ha finito per dare corpo a qualcosa di simile alla dichiarazione di una effettiva indipendenza mediante il quale si continuava a chiamare alla mobilitazione in difesa delle istituzioni politiche catalane per convertirle in enti indipendenti dalla Spagna attraverso un cosiddetto "processo costituente". Dopodiché, i deputati nazionalisti se ne andavano a dormire mentre davanti alla Generalitat si celebrava un concerto pro-indipendenza che si è concluso, "secondo i dettami della legge", a mezzanotte.

Dopo due giorni, prima dell’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione da parte del Governo di Madrid, la totalità del Governo catalano e la presidenza del Parlament hanno accettato il fatto compiuto e si sono ritirati dai propri incarichi. Qualche giorno dopo sono arrivate le imputazioni, i mandati di cattura e la fuga di Puigdemont e parte del Governo catalano in Belgio dove hanno chiesto, anche se non formalmente, asilo politico...

E’ evidente che tutti questi avvenimenti sono una farsa: al di là del tono drammatico con cui i programmi televisivi e la stampa trattano ogni piccola variazione da un lato o dall’altro, non c’è dubbio che non siamo di fronte ad un conflitto aperto e irresolvibile fino alla distruzione di uno dei due contendenti. Il Parlament di Catalogna dichiara l’indipendenza, la sospende, si offre per un negoziato, torna a dichiararla... per poi accettare la sua dissoluzione e il carcere. Il Governo centrale spagnolo minaccia, spazza via qualche deputato autonomista però lascia intatta l’autonomia e l’insieme delle leggi che, da 25 anni, hanno segnato il cammino che culmina con l’indipendentismo, poi convoca le elezioni e concede dal primo momento che i membri dell’estinto governo catalano possano candidarsi.

Ma la crisi catalana, sotto sotto, rappresenta il punto di ebollizione di un conflitto nascosto, molto più complesso e profondo della sceneggiata indipendentista o dell’apparente autoritarismo del Governo di Madrid. Il tono tragicomico delle ultime settimane, quando l’unica realtà concreta sono state le teste rotte dalla polizia spagnola e i giovani pugnalati dalle bande di estrema destra che scorazzavano a proprio piacimento per la Catalogna, nasconde un conflitto serio e rilevante. Non è l’indipendenza della Catalogna (o l’unità della patria spagnola, vista dall’altro lato) quel che è in gioco in questo ultimo periodo. La Repubblica Catalana non è mai stata il nodo della questione per quanto lo abbiano preteso i bottegai della CUP. Si è trattato, in realtà, del culmine di tensioni nascoste che attraversano lo Stato spagnolo e che la crisi economica e sociale ha fatto affiorare già da qualche anno. Non sono la situazione catalana e la dichiarazione di indipendenza, ma il generale equilibrio politico dello Stato spagnolo costruito dalla Transizione (cioè dalla fine del franchismo) che è stato alterato dalle forze materiali che spingono il capitalismo e le sue forme politiche e sociali verso la crisi, situazione dalla quale è difficile per il capitalismo rimontare perché è la stessa crisi economica che acutizza la concorrenza tra le differenti fazioni borghesi.

Nel 1978, anno dell’entrata in vigore della Costituzione spagnola, il vecchio Stato uscito dalla Guerra Civile aprì le sue forme politiche e giuridiche sostanzialmente per poter includere le correnti socialdemocratiche e staliniste, incaricate di controllare il proletariato nel nuovo regime democratico, costituendo nello stesso tempo un legame tra il proletariato e lo Stato e le fazioni nazionaliste periferiche, essenzialmente catalane e basche. In questo modo si garantiva, da un lato, l’avvio del meccanismo democratico che, col suo gioco parlamentare e istituzionale, costituisce il perno del dominio della classe borghese e, dall’altro lato, l’inclusione della rappresentanza politica della borghesia basca e catalana nello Stato. Se il proletariato, come unica "concessione", dovette accettare integralmente la nuova forma di Stato rinviando ogni sua esigenza politica ed economica, dal punto di vista dell’assetto territoriale del paese si giunse ad una formula di consenso che garantiva ai due principali partiti regionali, PNV e CiU, una posizione preminente nel Parlamento spagnolo insieme alla gestione del processo di decentralizzazione. Si otteneva così uno sforzo comune (capitanato dal PSOE, con l’ausilio del PCE) da parte di tutte le fazioni borghesi per placare la tensione sociale che, nelle fabbriche e nei quartieri, spingevaampi settori della classe proletaria alla lotta e, nello stesso tempo, favorire l’integrazione delle borghesie locali basca e catalana nel campo politico e giuridico spagnolo, riconoscendo il loro peso politico grazie alla loro forza economica. Questi furono i veri termini del patto della Transizione: repressione e inganno democratico per i proletari, e ruoli importanti per i borghesi di Euskadi e Catalogna nel governo del paese, pretendendo in questo modo di controllare tanto la conflittualità sociale crescente, quanto la tensione secolare derivata dallo sviluppo ineguale delle regioni del paese e la conseguente sopravvivenza di potenti forze centrifughe che, periodicamente, mettono in contrapposizione le borghesie di queste regioni.

A quarant’anni di distanza, l’equilibrio ottenuto con la Transizione, e raggiunto con il riordino dello Stato in seguito alla crisi del 1974, si è rotto. Va detto che, con questo compromesso, la classe borghese tentava di ammodernare la struttura statale accogliendo tanto le forze politiche proibite durante il franchismo (e che potevano forzare la classe proletaria a sopportare le esigenze della borghesia), il PSOE e il PCE, quanto le forze politiche che rappresentavano la borghesia basca e catalana che, per 40 anni, di fronte alla necessità di uno sforzo centralizzato che evitasse il collasso dello Stato come era successo negli anni ’30, avevano ceduto la propria rappresentanza istituzionale allo Stato centrale.

Oggi, la crisi capitalistica scoppiata nel 2007 ha fatto sì che i contrasti continui, sebbene larvati, fra le diverse fazioni delle borghesie locali, emergano in superficie mettendo in discussione i patti raggiunti dal 1978 in avanti.

Per quel che riguarda la borghesia catalana, la crisi particolarmente acuta sofferta dalla regione e che ha fatto barcollare il suo predominio economico in Spagna rispetto al dinamismo di altre zone del paese, l’ha spinta a porre nuove esigenze, in particolare sul piano del trasferimento delle competenze fiscali dallo Stato alla Generalitat. E’ su questo nodo che è montata la tensione che, d’altra parte, è sempre stata presente in un paese con una configurazione territoriale come la Spagna e in cui i regionalismi e i particolarismi locali non si potranno mai superare, se non con il superamento del capitalismo. Ma i regionalismi e i particolarismi, non solo mobilitavano le forze disponibili verso obiettivi che, pur non essendo "nazionalisti" nel senso classico del termine, si presentavano come tali, ma fomentavano anche la pressione delle classi piccoloborghesi, di fatto duramente colpite dalla crisi, e i cui più meschini sentimenti "nazionali" non sono mai scomparsi. E servivano, inoltre, a calmare – attraverso il movimento delle classi piccoloborghesi e delle loro esigenze di "più democrazia" e "indipendenza" – la tensione sociale accumulata da un proletariato vessato dalla disoccupazione e dai bassi salari.

Per quel che riguarda la borghesia del resto del paese, buona parte della quale (valenziana, andalusa... ma anche basca) ha un forte interesse ad inserirsi nei mercati controllati finora dalla borghesia catalana, come quello del trasporto di passeggeri e di merci nel Mediterraneo, essa gode del fatto che la "crisi catalana" ha permesso di focalizzare tutti i problemi di politica interna su un solo punto, mobilitando a sua volta un sentimento nazionale "spagnolo" (ma che praticamente stava scomparendo da quarant’anni) simboleggiato dalla "difesa dell’unità della Spagna". Così, attraverso il ricorso a grandi manifestazioni patriottiche, ha mostrato il suo lato provocatorio a fronte di qualsiasi manifestazione di tensione sociale: ha potenziato le forze d’urto di cui già disponeva e ne ha create di nuove dove ne era priva. Non c’è dubbio che queste forze, oggi esibite come forze "di strada" del "blocco costituzionalista", saranno utilizzate, domani, in caso di necessità, contro i proletari ogni volta che manifesteranno su posizioni classiste indipendenti da qualsiasi politica borghese.

Come sfondo costante di questi contrasti, al di là del circo messo in piedi dai media gonfiando ogni giorno il più piccolo dettaglio al livello di tragedia contribuendo, così, a dare più peso ai particolarismi locali e nazionali, vi è un’esigenza continua: la democrazia. I partiti e le associazioni catalaniste esigono il rispetto della democrazia, del voto del referendum, di nuove votazioni plebiscitarie... I partiti costituzionalisti spagnoli esigono il rispetto del quadro democratico del 1978, altre elezioni... Esattamente uguali, entrambi, con la stessa esigenza di democrazia..., mentre il conflitto reale si svolge sul terreno della concorrenza economica, della lotta per quote maggiori di mercato, per l’influenza su questo o quel settore produttivo e per la conseguente forza politica in grado di imporsi sul concorrente; e al proletariato si lancia un’unica consegna: democrazia, e non soltanto per indurlo a votare ("non importa per chi, ma l’importante è andare a votare"), ma perché lo si istiga a mobilitarsi nelle manifestazioni democratiche, nelle iniziative in difesa delle istituzioni, dei governi, del paese...

Per quanto la borghesia sia spinta a lottare al suo stesso interno, la sua politica verso la classe proletaria è sempre, tendenzialmente e in ogni luogo, la stessa: la democrazia, come mezzo per vincolarla alle sue esigenze nazionali, per unirla al carro della difesa della patria, del "bene comune", dell’economia, dello Stato... Democrazia come esigenza generale e comune a tutte le classi della società, deviando il proletariato dalla lotta per la difesa esclusiva dei suoi interessi di classe, dai suoi mezzi e metodi di classe, scontrandosi col suo principale nemico – la classe borghese – con tutti i mezzi, combattendo la concorrenza tra proletari di cui si nutre la borghesia al fine di rafforzare il proprio dominio sulla società.

La classe proletaria non può attendersi nulla né dalle esigenze "nazionaliste" catalane, né dalla "unità della Spagna", né dalla partecipazione alle istituzioni dello Stato, dai referendum o dalle elezioni sull’autonomia. Come non può attendersi nulla di buono né dalla borghesia catalana, che da sempre è stata all’avanguardia nello sfruttamento del proletariato in Spagna, né dalla piccola borghesia locale che trema nel vedere il suo piccolo commercio colare a picco.

E non può attendersi nulla di buono nemmeno dalla borghesia spagnola che esige la sottomissione di ogni interesse particolare, specie degli interessi di classe proletari, al "bene superiore" rappresentato dall’unità nazionale (ossia al bene superiore degli interessi generali della borghesia spagnola); e tanto meno dalla piccola borghesia spagnolista che, mentre sventola le bandiere costituzionaliste, spedisce i suoi figli a dar legnate nelle strade.

La classe proletaria ha un solo interesse generale: eliminare del tutto lo sfruttamento di cui si nutrono i capitalisti per mantenere e aumentare i loro profitti. Ma per poter raggiungere questo obiettivo essa deve compiere un primo passo obbligatorio: rompere con qualsiasi politica basata sulla collaborazione fra le classi, rigettare con tutta la forza possibile l’influenza che la piccola borghesia, repubblicana, nazionalista, spagnolista e centralista, esercita su di essa attraverso l’imposizione dei metodi di lotta democratica e istituzionali, metodi che la portano sistematicamente alla sconfitta. Rigettare, insieme a quell’influenza, qualsiasi particolarismo locale anche se elevato al rango di una bandiera per la quale lottare; qualsiasi difesa della patria, qualsiasi alleanza con la sua borghesia "nazionale".

Per vincere la classe proletaria può e deve contare soprattutto sulle sue proprie forze, iniziando a lottare sul terreno economico immediato, in difesa delle sue condizioni di lavoro e salariali e in ogni posto di lavoro, riorganizzandosi in associazioni classiste. La risposta dei proletari non deve essere di affratellamento con i capitalisti e con i governanti in difesa di un dominio politico che si dimostra sistematicamente antiproletario. Questa prospettiva, oggi, può apparire utopistica e poco "concreta", ma è l’unica che nei fatti può essere assunta per riannodare la lotta proletaria ai suoi reali interessi di classe, e agli interessi della propria causa storica che consiste nello spezzare una volta per tutte il regime dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, nel farla finita con il sistema capitalista che non può fare nient’altro che mettere al centro degli interessi sociali il capitale, la produzione di capitale, la valorizzazione del capitale obbligando gli esseri umani a soddisfare le esigenze del capitale e del mercato contro le esigenze di vita, le esigenze della vita sociale degli uomini.

 

Contro ogni particolarismo o localismo che divide la classe proletaria!

Contro la politica di collaborazione fra le classi imposta al proletariato!

Per la ripresa della lotta di classe!

 

5 ottobre 2017

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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