Gli effetti prolungati della crisi capitalistica spingono i proletari più combattivi ad organizzarsi spontaneamente sul terreno dell’antagonismo di classe, cioè del contrasto di interessi tra proletari e borghesi

(«il comunista»; N° 156; Novembre 2018)

 Ritorne indice

 

 

In vista delle scadenze di lotta di ottobre di quest’anno indette da diversi organismi del sindacalismo di base, il giorno 28 settembre si è tenuta a Napoli, presso la “mensa occupata” dell’Università Centrale, ( in un primo momento doveva essere fatta nel Palazzo Corigliano poco distante ) un’assemblea generale di vari spezzoni dei movimenti antagonisti, dei comitati di quartiere e dei  disoccupati “7 novembre”. L’assemblea era indirizzata al sostegno, alla promozione ed alla costruzione di un unico fronte di lotta anticapitalista,  con manifestazioni da attuarsi nei giorni 10, 26 e 27 dello stesso mese, contro le ulteriori  misure  antiproletarie che il neogoverno si appresta a  varare. La scadenza del 10 ottobre 2018  riguardava in particolare la questione abitativa. La casa è sicuramente un problema nazionale, ma in una città come Napoli, ad altissima densità di popolazione e dove i proletari vengono sempre più confinati nelle periferie-ghetto, la questione degli sfratti diventa un problema molto sentito, quanto di quello della disoccupazione. Secondo una circolare del Viminale i futuri sgomberi non stati vincolati a soluzioni alternative, facilitando così l’intervento della polizia. Negli anni scorsi si sono avute diverse proroghe degli sfratti, ma l’attuale misura governativa sembra accelerare le procedure di tipo repressivo atte a renderli effettivamente  esecutivi. Queste procedure repressive si estenderanno anche in altri settori. Infatti a ciò si aggiunge  un’ulteriore misura coercitiva, per la verità gia esistente virtualmente, che riguarda le manifestazioni di piazza per cui l’occupazione stradale sarà considerato  reato penale punibile dai sei ai dodici anni di carcere! La borghesia sa di non potere evitare la lotta dei proletari, ma cerca di mettere in atto tutti i possibili provvedimenti  atti a scoraggiare, o quanto meno ritardare, la reazione diretta e autonoma della classe proletaria.

La seconda scadenza in calendario è quella del 26 ottobre 2018, con una manifestazione del cosiddetto sindacalismo di base contro le misure governative considerate, a ragione, la continuazione di quelle dei governi precedenti. In assemblea sono state lanciate aspre critiche alla manovra dell’esecutivo,  soprattutto all’introduzione sterile del cosiddetto reddito di cittadinanza, visto un po’ come una rimodulazione del già esistente reddito di inclusione con un salario un po’ meno misero, ma al prezzo di una maggiore ricattabilità dei proletari e soprattutto come un’ulteriore bastonata a quello che è rimasto dei CCNL. Nello specifico, la strategia della borghesia resterà quella già collaudata, e cioè la contrapposizione  sempre più estesa dei contratti atipici, sempre più precari e senza la garanzia di continuità lavorativa dei nuovi assunti, o comunque di quelli che saranno utilizzati in vario modo come forza lavoro, ai contratti preesistenti e meno penalizzanti dei lavoratori già occupati e più anziani che spariranno definitivamente con il pensionamento di questi ultimi. L’altro cavallo di battaglia del governo Lega-Pentastellato - l’abolizione della famigerata legge Fornero - veniva giustamente attaccata come un’altra grande mistificazione. La cosiddetta “quota cento” o “quota 41”, infatti, se andrà in porto, farà i conti con misure che hanno comunque già ridimensionato il salario da pensione a prescindere. Col metodo contributivo, la pensione viene calcolata con i contributi realmente versati dal momento dell’assunzione. Questo metodo sostituirà gradualmente quello retributivo, cioè la pensione calcolata tenendo conto in percentuale delle ultime retribuzioni percepite dal lavoratore, considerato ormai una misura da privilegiati, che, insieme, all’abolizione della ricongiunzione gratuita per chi ha maturato i contributi in casse diverse e sostituita dal cosiddetto “cumulo contributivo”, ha penalizzato e penalizzerà sempre più i lavoratori. In tutti gli  interventi in assemblea non poteva mancare  un’aspra critica alla politica razzista della Lega verso gli immigrati a cui si opponeva la  rivendicazione del diritto di asilo e di soggiorno per tutti coloro che sbarcano sulle nostre coste e lo smantellamento del lavoro schiavizzato in cui versano ormai decine di migliaia di immigrati. Questa manifestazione, in programma per il giorno 26, intende coinvolgere tutte le principali città.

L’ultimo appuntamento proposto, quello del 27, chiuderebbe il ciclo di scadenze con una manifestazione di carattere “internazionale” e “unitaria”, ma questa volta a Roma.

Tra gli aderenti all’iniziativa merita una particolare attenzione il movimento dei disoccupati definito “7 novembre”. Questo giovane movimento dei senzalavoro nasce nelle periferie di Napoli, nel rione Traiano nella zona di Fuorigrotta-Soccavo, zona ad alta densità proletaria e dove purtroppo il lavoro, per tradizione si “inventa”. Questo movimento che si è esteso anche in altre zone della città con l’apertura di altre sedi e ha raggiunto il centro storico.

Dalla spinta delle contraddizioni capitalistiche sempre più acuta  nasce un ennesimo movimento di disoccupati con un profilo prettamente da “sinistra antagonista”. Il loro grido di battaglia è quello storico del salario garantito, lavoro o non lavoro, e il diritto alla casa. Il basarsi sulle proprie forze senza delegare nessuno e senza accontentarsi delle briciole confidando solo sulla lotta unitaria del proletariato è alla base della loro impostazione politica. Infatti non mancano convergenze con i movimenti per il diritto alla casa e contro gli sfratti e con quelli antirazzisti, protagonisti di varie iniziative. Ed è per questo che la loro adesione a questa assemblea è stata, secondo noi, un po’ il motore propulsore  dell’iniziativa soprattutto dal punto di vista dell’impatto numerico.

Presenti con un loro volantino anche i SI COBAS-Napoli e Caserta, che, unitamente ad alcuni elementi  generici, inneggiavano ad un “fronte di lotta anticapitalista”.

In conclusione, tirando le somme, si tenta di ricostruire un ennesimo coordinamento unitario che vede protagoniste nuove realtà a cui si aggiungono soggettività di vecchia data. Ma non basterà, come non è bastato in passato, creare un’accozzaglia di firme e scendere in piazza con rivendicazioni pur sacrosante. I limiti e le contraddizioni che denunciammo a suo tempo, durante e dopo i passati tentativi di coordinamento, che finirono con un nulla di fatto tra la disgregazione e il disorientamento dei proletari, si presenteranno nuovamente e non saranno superati se non si imboccheranno metodi e mezzi caratteristici della lotta di classe. E’ indispensabile, come base di chiarezza e di unificazione delle forze, la formazione di una piattaforma di lotta in cui vengano enunciate le varie vertenze e problematiche senza corporativismi e, soprattutto, superando la logica delle liste chiuse del movimento dei disoccupati, perché l’allargamento della lotta a un numero sempre maggiore di proletari, ed anche e soprattutto ad altri settori, non può che avvantaggiare lo scontro con la borghesia.

Ma per questo obiettivo sarà indispensabile coinvolgere i proletari ancora occupati per strapparli alla concorrenza fra proletari e metterli sempre più oggettivamente in contrapposizione alla politica riformista e democratoide dei sindacati tricolore. Sarà soprattutto indispensabile, per il sindacalismo di base, non farsi intrappolare dalla logica corporativa e concertativa, in una parola collaborazionista, di CGIL, CISL e UIL, superandola, non solo a parole, ma con azioni classiste, unificanti, e ispirate esclusivamente da rivendicazioni di difesa degli interessi dei lavoratori salariati, occupati o meno che siano. Lo stesso sciopero deve tornare ad essere un’arma della lotta di classe e non lo sfogatoio impotente in cui decenni di collaborazionismo interclassista lo hanno ridotto: solo quando sarà organizzato senza preavviso, su obiettivi classisti e senza limiti di tempo, lo sciopero potrà tornare ad essere la manifestazione di una forza reale, capace di resistere alla pressione e alla repressione del padronato e dello Stato borghese che ne rappresenta, sempre, su qualsiasi piano e in ogni occasione, gli interessi. Solo in quel modo l’azione di sciopero sarà capace di attirare forze proletarie di altri settori e di altre città sull’unico terreno effettivamente antagonista alla classe dominante capitalistica, il terreno della lotta di classe; solo così l’azione di sciopero sarà in grado di ottenere dei risultati, non importa se temporanei, limitati e parziali, ma tali da incoraggiare a perseguire sulla stessa strada. Per giungere a questo traguardo c’è ancora molta strada da fare, sia dal punto di vista della definizione di piattaforme di lotta classista sia da quello di un’organizzazione proletaria indipendente che duri nel tempo, strada verso cui intendono dirigersi i tentativi come quelli di cui stiamo parlando, a condizione di non cadere nelle trappole dell’opportunismo, o del puro sindacalismo di categoria o di etichetta, o nella febbre ultimatista del “tutto e subito”. La  ripresa della lotta di classe non è certo dietro l’angolo, ma sin da oggi le avanguardie sono tenute a denunciare e lottare politicamente contro quelle tendenze inculcate da decenni di opportunismo e riformismo borghese dei falsi partiti operai e dei sindacati tricolore.

 Top

 


 

 

Alcuni estratti dai volantini e prese di posizione degli organismi proletari che hanno partecipato all’assemblea pubblica indetta per il 28 settembre 2018 a Palazzo Corigliano, Napoli (ma tenuta alla mensa dell’Università centrale)

 

 

Nel volantino diffuso dagli organizzatori dell’assemblea che si è tenuta il 28 settembre,  è ben presente la reazione alle mosse dei governi precedenti e dello stesso nuovo governo sulla questione della lotta “alla povertà” e “all’immigrazione”, anche se vestita della pericolosa velleità “ultimatista” del “vogliamo tutto, lo vogliamo subito”.

Il fatto di cercare di “unire” organismi con basi, storie e obiettivi differenti – in una situazione in cui “da solo” nessun organismo avrebbe visibilità e incidenza – è certamente comprensibile, anche se cercare di mettere insieme organismi immediati o sindacali molto diversi tra di loro, contando sul fatto che contemporaneamente si presentano problemi importanti come la casa, il lavoro, il salario, l’ambiente ecc., assomiglia più al bisogno di “far numero” che a quello di unire forze proletarie intorno ad un’unica piattaforma di lotta che contenga le risposte non solo alle necessità immediate della classe proletaria, ma anche a quelle future, e internazionali.

Non saremo certo noi a pretendere che organismi immediati giungano a definire programmi politici di lungo respiro, cosa che compete soltanto ad un partito politico; noi siamo già attrezzati, il nostro programma è dettato dalla dottrina marxista e, in quanto tale, richiede la formazione di un partito politico proletario, ben oltre, e completamente diverso, rispetto qualsiasi organizzazione economica e immediata del proletariato, tanto più rispetto a qualsiasi organizzazione politica succube dell’ideologia borghese di una democrazia che funziona soltanto a favore degli interessi generali della classe dominante borghese.

La corrente della Sinistra comunista d’Italia, da cui proveniamo, ha dimostrato lungo la sua storia la coerenza teorica e politica col marxismo di cui ha sempre rifiutato aggiornamenti, innovazioni, ritocchi, interpretazioni personali e, quindi, borghesi; in forza di questa intransigenza essa è stata l’unica corrente a contrapporsi, e resistere nel tempo, alla devastazione stalinista del movimento comunista internazionale e della dottrina marxista. Ma non è questo il luogo per affrontare il tema del partito di classe e dei suoi rapporti con gli organismi immediati del proletariato. 

Nella situazione in cui il proletariato è precipitato da decenni e in cui le stesse organizzazioni sindacali classiste del proletariato sono state distrutte, ogni tentativo di riorganizzazione di classe, per limitato e parziale che sia, merita attenzione e sostegno da parte nostra, pur sapendo che questi tentativi possono andare incontro al fallimento, come è già avvenuto in moltissimi casi precedenti; la loro frammentazione e la loro scomparsa ne è purtroppo la dimostrazione. Ciononostante, la vecchia talpa di Marx lavora: l’antagonismo materiale insito nel modo di produzione capitalistico, tra interessi proletari e interessi borghesi, spinge comunque, prima o poi, strati proletari più sensibili e combattivi a non piegarsi sotto la pressione e la repressione della classe borghese dominante; un antagonismo che produce e produrrà sempre tensioni sociali e che non verrà mai superato ed eliminato se non dalla lotta rivoluzionaria vittoriosa del proletariato internazionale.

Data la devastazione prodotta dal collaborazionismo sindacale e politico in cent’anni dalla rivoluzione d’Ottobre e dall’attività dei partiti comunisti non ancora stalinizzati e da quella dei sindacati rossi, ogni tentativo da parte proletaria di sottrarsi alla soffocante pressione delle organizzazioni sindacali e politiche votate alla difesa dell’economia nazionale e della patria, è una boccata d’ossigeno, un segno che nella classe operaia vi sono strati che non sono sepolti completamente nel pantano della collaborazione interclassista.

 

 

Casa, lavoro, reddito, salario!

Vogliamo tutto!

Lo vogliamo adesso!

 

 

Sui temi del reddito, della precarietà, della disoccupazione, del diritto alla casa, del ritiro della legge Fornero e del JobsAct e quindi, in generale, sui temi della povertà e del lavoro, chi ha vinto le elezioni il 4 marzo ha fatto le proprie fortune – dopo decenni di governi di centro-sinistra e centro-destra che hanno portato avanti solo politiche di austerità, sfruttamento e smantellamento dello Stato “sociale”.

Questi temi sono sempre più offuscati e nascosti dal bombardamento mediatico contro gli immigrati, distraendo pericolosamente l’attenzione. Come se fossero questi la causa delle condizioni di vita e di lavoro alle quali siamo ridotti e senza dire una parola sull’escalation alla guerra e alle spese militari.

In questo clima di guerra tra poveri che alimenta aspettative popolari mal riposte, crediamo sia urgente riprendere la parola oltre la nostra e le nostre singole vertenze, insufficienti rispetto alla situazione che viviamo.

Sappiamo bene che i nostri interessi ed i nostri bisogni non hanno nulla a che vedere né con chi propone un capitalismo globale, che in questi decenni ha massacrato le nostre condizioni di vita e di lavoro, né con chi ci propone il ritorno al nazionalismo.

Per noi la “sicurezza” è un tetto sotto cui campare, un salario e un reddito con cui vivere, città vivibili e quartieri non devastati dall’inquinamento e dalle camorre in giacca e cravatta. In tutto il paese aumenta l’esercito di disoccupati e di poveri; oltre 5 milioni di persone sono al di sotto della soglia di povertà, mentre continuano licenziamenti e disoccupati, ricatti e morti sul lavoro, precarietà e sfruttamento.

E chi si ammazza tutti i giorni per andare a lavorare non riesce ad arrivare alla fine del mese. A meno che non si voglia credere ai dati falsati del JobsAct, servito solo per garantire la libertà di licenziamento, l’obbligo di fedeltà da parte del lavoratore all’azienda e incentivi alle imprese che assumevano (la gran parte di loro con interesse quindi a far emergere quelli che già lavoravano a nero).

In più, le poche ed uniche manovre, come il Reddito di inclusione, un’elemosina di Stato più che una manovra contro la povertà, sono state del tutto insufficienti e nei fatti hanno escluso la gran parte dei “poveri” nonostante i tentativi di “allargamento” dei requisiti.

La situazione al Sud è ancor più grave, una vera e propria bomba sociale.

Negli ultimi 16 anni, 1 milione e 853 mila persone hanno lasciato il Mezzogiorno: la metà sono giovani tra i 15 e i 34 anni, quasi un quinto di laureati, il 16% dei quali si è trasferito all’estero (quasi 800 mila non torneranno).

Per questo invitiamo tutti ad organizzarsi per discutere e costruire un fronte unico degli sfruttati, in connessione con le mobilitazioni e gli scioperi dei lavoratori, dalla logistica ai braccianti, con i movimenti per la difesa dei territori contro grandi opere e devastazione ambientale, con i coordinamenti contro la guerra e l’escalation militare, con i movimenti di lotta per la casa, con le donne ed il movimento contro la violenza e discriminazione di genere che ci saranno in autunno.

Per contrastare realmente la disoccupazione, l’emergenza abitativa, la precarietà, il supersfruttamento, le umiliazioni continue sui posti di lavoro, sarà bene confidare solo sulle nostre forze e sulla lotta unitaria e non delegare il nostro futuro o farci bastare qualche briciola.

 

Verso la giornata di lotta del 10 ottobre

Verso lo sciopero generale del 26 ottobre

Per un fronte di lotta unitario

Per una mobilitazione, a Napoli, del Sud in autunno!

 

Gli organismi locali che hanno aderito all’iniziativa:

 

Movimento di lotta per il lavoro “disoccupati 7 novembre”; Si Cobas-Napoli e Caserta; Laboratorio politico Iskra; CSOA Officina 99; CSOA SKA; Magnammece ‘o pesone; Comitato Vele Scampìa; Movimento di lotta per la casa benevento; Asia-USB; Comitato di quartiere Montesanto sgarrupato; Comitato di lotta ex Taverna del Ferro.

 

 

*     *     *

Top

 

Nella società capitalistica, il padronato e la classe borghese nel suo insieme concepiscono lo sfruttamento del lavoro salariato come unica fonte di sopravvivenza per le masse proletarie; diffondono, di conseguenza, l’idea che i soldi per sopravvivere si guadagnino soltanto facendosi sfruttare e che per guadagnarli bisogna sottomettersi alle esigenze del capitale, privato o pubblico che sia; è ovvio, perciò, che il salario venga erogato soltanto contro lavoro e che qualsiasi somma venga data a chi non è sfruttato quotidianamente nelle galere del capitale, è data solo per attenuare in qualche modo le tensioni sociali che si formano quando il fenomeno della disoccupazione (e quindi della povertà assoluta) prende dimensioni importanti facendo saltare quel livello di “pace sociale” che è necessario affinché gli affari e i profitti dei capitalisti si svolgano senza particolari intoppi.

D’altra parte, i proletari, i lavoratori salariati, vengono abituati fin dalla più tenera età a guadagnarsi il pane faticando, sotto sfruttamento perpetuo, tanto da trasformare il lavoro salariato in una specie di vanto, un privilegio, una posizione di cui andare fieri grazie alla quale possono provvedere alla famiglia e ai figli.

Da moderni schiavi salariati, i proletari sono educati a pensare che il lavoro, per come lo conoscono in questa società, cioè il lavoro salariato, il lavoro sottomesso ai rapporti capitalistici di produzione, sia l’unica attività umana possibile e in grado di rispondere alle esigenze di vita di tutta l’umanità; da moderni schiavi salariati, quindi, si è indotti a vergognarsi se non si lavora, se si prendono soldi non con un lavoro “regolare”, ossia con quel lavoro che la legge borghese definisce “regolare”; ma la società borghese mostra ai suoi schiavi salariati che la stessa classe dominante è la prima a calpestare le proprie leggi, le proprie regole, i patti e gli accordi, quando di mezzo ci sono affari e profitti sottoposti ad una guerra di concorrenza sempre più acuta ed estesa. 

Di fronte alle crisi economiche che periodicamente colpiscono il sistema capitalistico, quella guerra di concorrenza si fa sempre più brutale e chi ci va di mezzo, soprattutto, è la grande massa di proletari, di quegli schiavi salariati di cui i capitalisti si liberano quando non servono più allo scopo di difendere meglio il tasso medio dei loro profitti. La disoccupazione, in realtà, non è mai stata un fenomeno temporaneo della società capitalistica: è congenita al modo di produzione capitalistico, è una tara che gli attuali rapporti di produzione si portano appresso inesorabilmente. Ecco perché i capitalisti demandano al loro Stato, alle loro istituzioni politiche centrali e locali, il compito di affrontare il problema della disoccupazione proletaria. Si capisce, però, che la preoccupazione dei movimenti di lotta dei disoccupati, ereditata in realtà dalle abitudini del riformismo classico, è quella di individuare delle fonti pubbliche certe dalle quali prelevare le risorse economiche per dare lavoro ai disoccupati, e sottoporle alla “controparte” del momento come “soluzione”, in quanto strutture pubbliche, qui ed ora, per risolvere il problema della disoccupazione se non in toto, almeno in parte.

In realtà la rivendicazione chiaramente classista per i disoccupati, visto che un lavoro può essere dato soltanto dalle aziende capitalistiche – private o pubbliche –, è quella di un salario erogato comunque, a fronte di un lavoro reale o meno, aldilà della struttura erogante individuata: il problema di fondo per il proletario è avere un salario di sopravvivenza (il famoso “salario minimo” col quale affrontare i bisogni elementari di vita suoi e della famiglia), non tanto quello di assicurarsi un posto di lavoro in questa o quell’azienda... sapendo che non è lo schiavo che sceglie il padrone, ma è esattamente il contrario. Lo schiavo può però scegliere di lottare per non morire di fame, per non precipitare nella miseria più nera, per non essere più schiavo.

Dei disoccupati, i sindacati tricolore, i sindacati che privilegiano il buon andamento dell’economia aziendale e nazionale, che poggiano la loro forza sugli interessi di uno strato particolare del proletariato – l’aristocrazia proletaria – cioè lo strato di proletari più conservatore e amato dai capitalisti, se ne occupano solo formalmente, mai seriamente, perché la pressione che la massa proletaria occupata può esercitare con la sua lotta sui capitalisti o sullo Stato è un elemento di forza reale che può mettere a repentaglio i buoni affari dei capitalisti e che, se utilizza i mezzi e i metodi della lotta di classe – in difesa esclusiva degli interessi di classe proletari – può mettere in difficoltà seria il fronte dei capitalisti e lo stesso Stato, mentre, nello stesso tempo, rafforzebbe il proprio schieramento di lotta, conquistando un’esperienza classista che sistematicamente gli viene negata dai sindacati e dai partiti opportunisti e collaborazionisti.

Perciò ogni organismo di lotta che tenta di organizzare i disoccupati deve giustamente guardare alla congiunzione coi proletari occupati perchè la lotta degli uni è la lotta degli altri; oggi più di ieri, il posto di lavoro non è più “sicuro”, non lo si passa più di padre in figlio come poteva avvenire nell’epoca dell’espansione economica, decine e decine di anni fa; oggi il disoccupato fa vedere al proletario occupato quel che gli può succedere da un momento all’altro, come il migrante che fugge dalla miseria, dalla fame e dalle guerre fa vedere ai proletari autoctoni a quale livello di bestiale sfruttamento può giungere il sistema capitalistico. La lotta di classe si fa sempre più necessaria.

Quel che segue è il contenuto del volantino del «Movimento di lotta per il lavoro “Disoccupati 7 novembre”».

 

 

Lavoro o non lavoro, dobbiamo campare.

Spegni la televisione, accendi il cervello.

No alla guerra tra poveri: organizzati, lotta!

 

 

- Clausole sociali nei capitolati d’appalto per garantire che sui Lavori di rigenerazione ambientale ed urbani da Bagnoli a Scampìa previsti con i nuovi accordi tra Comune Governo e Regione, come il Patto per il Sud, venga assunta una percentuale sicura e certa di disoccupati della città e dei nostri territori

- Utilizzo dei fondi europei (4 miliardi che ha in cassa la Regione Campania) ed altri finanziamenti per lavori di pubblica utilità e bisogni sociali, dal recupero e riqualificazione delle periferie, aree verdi, spazi abbandonati, apertura di siti culturali e monumenti chiusi se non negli orari di culto, cooperative per servizi delle persone, per il riutilizzo delle eccedenze alimentari alle famiglie bisognose

- Programmi metropolitani del lavoro a partire dall’ampliamento delle piante organiche dei servizi pubblici

- Nuovi percorsi di aggiornamento e formazione per l’inserimento al lavoro

- Soluzioni immediate e dare un salario minimo garantito ai disoccupati o un reddito per campare

In questi anni siamo andati avanti e fatto passi in avanti concreti, unisciti alla lotta ed al movimento!

Il Manager della Tim per un anno di lavoro prende una buona uscita di 60.000 euro al giorno, qui ci sono milioni di famiglie che non hanno reddito. Il governo Renzi/Gentiloni ha speso per tre anni di guerra in Afghanistan 420 milioni di euro nel 2014, 185 milioni nel 2015, 179 milioni nel 2016. Una guerra che da 15 anni ha provocato solo morte e distruzione e per cui sono stati spesi 784 milioni. Per le spese militari quasi 50 milioni al giorno ovvero 17,7 miliardi all’anno (esclusi costi di carabinieri e polizia); e poi vogliono farci credere con le loro televisioni e i loro giornali che il problema sono gli immigrati in quanto tali per fare la guerra tra poveri, mentre speculano proprio loro sull’immigrazione.

Non credere ai padroni: i soldi ci sono, andassero a prenderli dalle grandi opere inutili e dannose, dai grandi eventi vetrina, dai finanziamenti alle scuole private, dalle tasse non fatte pagare a chi evade milioni di euro all’anno, dalle guerre per i loro sporchi profitti, dalle enormi ricchezze dei vari padroni, da Marchionne a Della Valle.

 

Movimento di lotta per il lavoro “Disoccupati 7 novembre”

 

 

*     *     *

 Top

 

Quest’altro volantino è del “SICobas– Napoli-Caserta”, partecipante all’organizzazione dell’assemblea del 28 settembre e propugnatore dello sciopero generale nazionale del sindacalismo di base del 26 ottobre, e della manifestazione nazionale a Roma del 27 ottobre contro quello che ormai viene definito “razzismo di Stato” data la politica anti-immigrati, particolare caratteristica dell’attuale governo Lega-5 Stelle. 

Gli obiettivi di queste iniziative sono certamente molto ambiziosi: la costituzione di un “Fronte di lotta anticapitalista” al quale chiamare le molteplici sigle del sindacalismo di base, e l’appello ad uno sciopero nazionale generale degli stessi organismi di base che “blocchi il paese” per mettere in primo piano “la vera e fondamentale questione sociale: quella delle condizioni dei lavoratori, di tutta la classe lavoratrice, al di sopra delle false divisioni fra categorie, sesso, religione e nazionalità”(come si può leggere nell’Appello del SI-Cobas del 13 ottobre), sono obiettivi verso i quali si vogliono indirizzare le lotte locali e parziali che vedono protagonisti gli organismi del sindacalismo di base e verso i quali si tenta di coinvolgere gli iscritti ai sindacati tradizionali del collaborazionismo tricolore. 

Non c’è dubbio che, in questi ultimi anni, di fronte al peggioramento continuo delle condizioni proletarie di esistenza, all’abbattimento reale dei salari, alla diffusione della precarietà permanente e del lavoro nero con il conseguente sfruttamento bestiale di ogni proletario da parte di qualsiasi capitalista, grande o piccolo, nel settore privato come nel settore pubblico, all’aumento degli infortuni e delle vittime sul lavoro (veri assassinii prevedibilissimi), le sole organizzazioni che si sono effettivamente opposte, e che hanno lottato perchè questo generale peggioramento si fermi, sono soltanto quelle del sindacalismo di base. Le centrali sindacali tradizionali, legate come sono alla collaborazione di classe con il padronato e con lo Stato borghese, sono sempre più un intralcio alla stessa lotta operaia di difesa immediata: esse, invece di opporsi e combattere contro la concorrenza tra proletari, innestata ed alimentata costantemente dalle forze del capitale e della conservazione sociale, se ne sono fatte il principale veicolo, e non da oggi, assumendosi il compito di cogestire – in funzione degli interessi dell’economia aziendale e nazionale, quindi del profitto capitalistico – la crisi economica in accordo con tutte le istituzioni borghesi, e il compito di gestire il controllo sociale per conto della stabilità e della conservazione capitalistica.

Data l’impossibilità, da parte degli operai più combattivi e sensibili alla causa generale della classe operaia, di influenzare le strutture locali e nazionali dei maggiori sindacati tradizionali (CGL, CISL, UIL, in particolare) perché cambiassero le politiche e le pratiche dettate dal collaborazionismo in politiche e pratiche dettate dagli interessi esclusivamente della classe operaia, ogni spinta alla lotta al di fuori del collaborazionismo, per non essere soffocata fin dalle origini, doveva trovare uno sbocco organizzativo indipendente dalle strutture sindacali tradizionali. Ma questo sbocco organizzativo non poteva nascere già unitario, di classe; è nato dal basso, come è storicamente inevitabile, dalle esigenze limitate e parziali espresse dai proletari in ogni unità aziendale, poggiando su esperienze anch’esse limitate e parziali, connotandosi nel proprio processo di sviluppo attraverso particolarismi oggettivi. La ripresa della lotta operaia sul terreno del genuino antagonismo di classe non avviene per semplici atti di volontà, tanto meno la sua diffusione a livello nazionale o internazionale. Può avvenire solo attraverso il processo di sviluppo di tutte le contraddizioni che la società capitalistica ha prodotto, e produce, in ogni ambito della vita sociale, quindi non solo specificamente lavorativa. Inevitabile perciò la frammentazione delle esperienze operaie, e la molteplicità dei tentativi organizzativi della lotta di difesa sui più diversi terreni e sui più diversi piani. Le divisioni nell’ambito del sindacalismo di base, perciò, non sono che l’espressione di una maturazione lenta ed estremamente contraddittoria dei fattori oggettivi che spingono il proletariato a riconquistare il suo terreno di classe, a riconoscersi come classe che ha interessi non solo immediati e parziali, ma soprattutto generali e internazionali da opporre con forza agli interessi immediati e generali, nazionali e internazionali della classe borghese dominante.

Il Fronte di Lotta Anticapitalista, per il quale lavorano alcune organizzazioni del sindacalismo di base, vuole rappresentare un passo avanti nella direzione della ripresa della lotta di classe. Ma, come avviene per ogni singola organizzazione operaia di lotta che si mette al di fuori e contro le politiche e le pratiche del collaborazionismo sindacale, avverrà anche ai livelli superiori della lotta operaia: è dalla lotta che nascono e si formano le organizzazioni operaie, non il contrario. Ecco perché parliamo di maturazione dei fattori economici e sociali, dunque oggettivi, che stanno alla base della riorganizzazione classista del proletariato. L’organizzazione di classe, dunque l’organizzazione che si basa su piattaforme, programmi di lotta, metodi e mezzi classisti, è assolutamente basilare per la difesa effettiva degli interessi immediati e generali della classe operaia, ma la sua attività, per quanto tenace e costante nel tempo, non può che poggiare sugli elementi materiali e oggettivi delle contraddizioni del capitalismo e della sua organizzazione sociale, contraddizioni la cui maturazione – affinchè diventino fattori favorevoli alla ripresa generale della lotta di classe – dipende dalla combinazione complessa di elementi economici, politici, sociali, militari, ideologici, a loro volta giunti al punto di scoppiare e di polarizzare oggettivamente i componenti delle classi antagoniste nei rispettivi schieramenti storici. Ecco perché la fuga in avanti nella costituzione di un Fronte di lotta anticapitalista che raduni alcune sigle sindacali (ma, sebbene con altre caratteristiche, sarebbe lo stesso anche sul piano politico), può essere deviante rispetto alla necessità di radicare in modo solido e nel tempo l’attitudine proletaria ad assimiliare comportamenti, obiettivi, metodi e mezzi di lotta classisti, tali da renderli permanenti ed espressione naturale dell’antagonismo cosciente nei confronti di tutto ciò che rappresenta e che si muove in funzione della conservazione borghese. Ciò nondimeno, l’aspetto positivo del sindacalismo di base – aldilà delle numerose sigle in cui è frammentato – è che mette in primo piano la necessità di lottare per la difesa concreta delle condizioni di lavoro e di vita proletarie utilizzando obiettivi e mezzi della lotta di classe ispirati alla solidarietà di classe fra proletari di qualsiasi categoria, settore, sesso, nazionalità, ispirati dunque alla lotta contro la concorrenza fra proletari, fattore fondamentale del dominio borghese e capitalistico su tutto il proletariato.

 

 

Verso lo sciopero generale del 26 ottobre 2018.

Per un Fronte di Lotta Anticapitalista!

 

 

La crisi capitalistica pone ogni lotta parziale per la difesa e il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro proletarie dinanzi ad un bivio: o si pone nell’ottica di una più ampia e generale battaglia anticapitalista e internazionalista, o si autocondanna alla testimonianza e, quindi, alla sconfitta, pertanto il processo di sviluppo di un fronte anticapitalista è non solo necessario, ma anche praticabile.

Le illusioni elargite a piene mani dal governo “giallo verde” vanno aggredite nell’immediato, mettendone a nudo le contraddizioni e smontandone pezzo dopo pezzo l’impianto demagogico e reazionario. Terminata la solita sequela di promesse elettorali a tutto e tutti, appare già in maniera chiarissima la natura di classe del duo Salvini-Di Maio e la loro subordinazione alla fame di profitti di padroni e padroncini e alla loro volontà di esportare ovunque il modello di sfruttamento “Marchionne-Amazon”.

La retorica pentastellata di un “reddito di cittadinanza” che va configurandosi sempre più come un cavallo di Troia utile a conseguire il triplice obiettivo di costringere, da un lato, i disoccupati ad accettare ogni forma di sfruttamento e di precarietà e, dall’altro, a completare lo smantellamento delle tutele e dei CCNL, per chi un lavoro ce l’ha, opponiamo una battaglia generale per il salario pieno e garantito a tutti i proletari occupati e disoccupati e, infine, a dividere i proletari attraverso il criterio razzista dell’esclusione da questa misura di tutti coloro che non sono “italiani”.

Nel frattempo, col varo del “pacchetto-sicurezza”, Salvini completa il lavoro già iniziato dal PD e da Minniti, attaccando frontalmente non solo le occupazioni a scopo abitativo, ma anche il diritto di sciopero sui luoghi di lavoro, prevedendo (articolo 25 del DL) che chi organizza picchetti fuori dalle fabbriche e ai magazzini possa essere condannato con la reclusione fino a 12 anni!. Si tratta di una chiara misura repressiva tesa a colpire in primo luogo il movimento dei facchini della logistica, che in questi anni ha strappato importanti tutele e conquiste salariali proprio grazie agli scioperi e ai picchetti.

Alla barbarie del razzismo leghista opponiamo una mobilitazione generale per il diritto d’accesso, di soggiorno e di asilo a chiunque sbarchi sulle nostre coste in fuga dalle guerre e alla ricerca di un futuro migliore per sé ed i suoi familiari, e per il definitivo smatellamento del sistema di schiavitù, di miseria e di morte in cui versano oggi migliaia di lavoratori immigrati nelle campagne del Sud Italia e nell’intera filiera agroalimentare.

All’illusione nazionalista e sovranista dei “No-Euro” opponiamo un serio lavoro di coordinamento e collegamento delle lotte e degli scioperi su scala europea e internazionale.

Alla repressione, ai licenziamenti politici e all’isteria securitaria opponiamo una campagna per il diritto di sciopero, di critica e di opinione, contro gli sgomberi e gli attacchi agli spazi sociali e alle occupazioni a scopo abitativo, per dire no ai DASPO e al ricatto delle sanzioni amministrative, per la libertà di tutti i compagni e gli attivisti incarcerati, condannati o sotto processo a seguito di lotte sociali, politiche e sindacali.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice