Rosa Luxemburg: 15 gennaio 1919, massacrata dalla sbirraglia socialdemocratica

(«il comunista»; N° 157; Gennaio 2019)

 Ritorne indice

 

 

Prima di ripubblicare l’articolo intitolato L’ordine regna a Berlino, l’ultimo scritto da Rosa Luxemburg  e apparso nel giornale Die Rote Fahne il 14 gennaio 1919, ribadiremo la giusta visione marxista sia sulla questione del partito politico del proletariato sia sulla questione dei rapporti tra il partito e la classe. Vogliamo, però, ora ricordare che il 15 gennaio, il giorno dopo in cui apparve quell’articolo, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht furono catturati e poi assassinati; ed è storia nota che l’ordine di assassinarli venne dato dal governo socialdemocratico Ebert-Scheidemann che si incaricò di preservare l’ordine borghese in Germania contro ogni pericolo rivoluzionario da parte delle masse proletarie e che si era ripromesso di eliminare definitivamente il gruppo Spartaco a cominciare dai suoi capi. D’altra parte, è stato lo stesso Noske, incaricato dal governo Ebert-Scheidemann delle operazioni militari di difesa contro l’imminente insurrezione operaia di gennaio, il cui scoppio, in realtà, fu provocato dal governo stesso, a dichiarare, in un suo scritto: «Sia pure! Qualcuno deve essere il cane sanguinario (Bluthund), non mi sottraggo alla responsabilità!» (1).

Paul Frölich, nella biografia che scrisse di Rosa Luxemburg, descrive così quella terribile notte:

«La sera del 15 gennaio verso le nove Karl e Rosa, insieme a Wilhelm Piek, vennero arrestati nel loro ultimo rifugio in Wilmersdorf (Mannheimer Strasse 53) da un drappello di soldati sotto il comando del sottotenente Lindner e dell’albergatore Mehring, membro del consiglio dei cittadini di Wilmersdorf. Gli arrestati dapprima dettero delle false generalità, ma vennero segnalati da una spia che aveva saputo ottenere la fiducia di Liebknecht. Karl venne portato prima al quartier generale del consiglio dei cittadini e poi all’hotel Eden. Qui fu presto raggiunto da Rosa Luxemburg e da Pieck accompagnati da una grossa scorta militare. All’hotel Eden l’assassinio di Karl e di Rosa era già stato deciso e organizzato sotto il comando del capitano Pabst. Al suo arrivo Liebknecht ricevette due colpi alla testa con il calcio di un fucile. Le bende necessarie gli vennero rifiutate. Rosa Luxemburg e Pieck vennero accolti con grida selvagge e insulti disgustosi. Mentre Pieck restava in un angolo del corridoio sotto sorveglianza, Rosa e Karl vennero trascinati dal capitano Pabst per un “interrogatorio”. Dopo poco portarono via Liebknecht. Mentre abbandonava la casa venne abbattuto a colpi di calcio di fucile dal soldato Runge. Poi venne trascinato in un’automobile su cui salirono il luogotenente capitano Horst von Pflugk-Harttung, il capitano Heinz von Pflugk-Harttung, i sottotenenti Liepmann, von Ritgen, Stiege, Schultz ed il soldato Friedrich, tutti appartenenti al corpo di Pabst. Avevano l’ordine, in apparenza, di trasferire i prigionieri nel carcere giudiziario di Moabit. Presso il Neuer See nel Tiergarten, in un posto poco illuminato, la macchina ebbe, a quanto fu detto, una panne. Liebknecht, semisvenuto, venne trascinato fuori dalla macchina e, scortato da sei uomini tutti armati di pistola senza la sicura e di granate a mano, venne portato un poco più in là. Dopo pochi passi, col pretesto che aveva cercato di fuggire, venne ucciso, cioè assassinato. Dopodiché la macchina fu di nuovo in grado di funzionare. Il cadavere venne portato a un pronto soccorso e consegnato come cadavere di uno “sconosciuto”.

«Poco dopo Liebknecht, Rosa Luxemburg venne portata fuori dall’albergo dal tenente Vogel. Davanti all’uscita aspettava Runge che aveva avuto dai tenenti Vogel e Pflugk-Harttung l’ordine di abbattere Rosa Luxemburg: con due colpi di calcio del fucile le fracassò il cranio. Più morta che viva, Rosa venne gettata su una macchina. Alcuni ufficiali balzarono su. Uno la colpì alla testa con il calcio del fucile. Il tenente Vogel la uccise con un colpo di pistola al cervello. Il cadavere venne portato al Tiergarten e qui, per ordine di Vogel, venne gettato dal ponte Liechtenstein nel canale Landwehr. Nel maggio 1919 è ricomparso a riva» (2); e la stessa fine doveva colpire anche Leo Jogiches e molti altri spartachisti (tra 1.500 e 3.000) caduti nelle mani dei carnefici.

Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, da comunisti e capi rivoluzionari quali erano, sapevano perfettamente di rischiare la vita, tanto più dopo che era stata sconfitta l’insurrezione operaia dei primi di gennaio. Una insurrezione, che seguiva il bagno di sangue dell’ottobre/dicembre 1918, e che non potè contare su una direzione politica alla Lenin, salda teoricamente ed esperta praticamente, dato che il partito operaio tedesco usciva lacerato dal tradimento della socialdemocrazia di fronte alla guerra mondiale, e spaccato poi in diverse correnti, dal riformista di destra SPD all’USPD del “Pane e sapere per tutti! Pace e libertà per ogni popolo!”, alla Lega di Spartaco che fonderà il Partito comunista di Germania (Lega di Spartaco). Gli spartachisti propagandavano e si appellavano alla rivoluzione proletaria, ma credevano ancora nel recupero della vasta base operaia del partito socialdemocratico da cui si erano scissi, con la sola lotta contro i “vertici”, e credevano nelle elezioni democratiche nelle quali si illudevano che il proletariato, inteso come massa proletaria in generale, avrebbe avuto un’occasione in più per “prendere coscienza” dei suoi compiti storici e muoversi rivoluzionariamente nel modo più adeguato.

Come è sempre successo a tutti i rivoluzionari, è successo anche a Rosa Luxemburg (e ai capi spartachisti assassinati come lei): dopo essere stata calunniata, diffamata, incarcerata e brutalmente assassinata, è stata trasformata in icona inoffensiva. Da anni, e naturalmente anche in questo gennaio in cui cade il centenario del suo assassinio, i più loschi figuri dell’opportunismo socialdemocratico e staliniano si sono presi il lusso di commemorare la sua morte inneggiando alla difesa della democrazia e della pace; facendone, anzi, una martire immolatasi in difesa di quei “valori” anche nella rivoluzione!

La Sinistra comunista d’Italia non è mai stata tenera, come non lo è mai stata nemmeno Rosa Luxemburg, nella polemica e nella critica al riformismo e al socialdemocratismo che infestavano i partiti socialisti prima, durante e dopo la guerra imperialista mondiale del 1914-1918. Ma, nello stesso tempo, come abbiamo scritto nella Storia della sinistra comunista, rilevava nello spartachismo una «immaturità le cui radici affondavano nel corso travagliato della sua formazione negli anni di guerra (e, in parte, nel periodo prebellico, come va detto per concludere che lo spartachismo non riuscì mai a svincolarsi completamente dal passato secondinternazionalista)» (3). Al fondo del pensiero della Luxemburg, c’era «la visione di una classe operaia che lungo la via crucis – il Golgothaweg, per dirla con le sue parole – di erramenti, accecamenti, tradimemti e resurrezioni, avrebbe infine riconquistato nell’azione il tesoro perduto delle sue finalità massime, del suo programma, della sua “coscienza” teorica, e quindi avrebbe ritrovato se stessa nella sua globalità, recuperando e rigenerando non solo il partito, ma i molti partiti generati dal suo grembo e smarritisi lungo l’accidentata strada. Così, lo sciopero generale o di massa, suprema lezione per la Luxemburg del 1905 russo anche per l’Occidente, avrebbe ringiovanito per contraccolpo le strutture anchilosate delle organizzazioni sindacali e ridato slancio al partito caduto nel greve sonno di un’ortodossia puramente accademica, in realtà fradicia di opportunismo. Così, la ripresa delle lotte di classe malgrado e contro la pace sociale durante la guerra imperialistica avrebbe bruciato le scorie della scandalosa abiura dei “capi” e fatto balzar fuori dalle sue ceneri la fenice di una nuova Internazionale veramente socialista; partecipe di questo processo, la Sinistra ne sarebbe stata la rigeneratrice teorica più che l’anima, l’avrebbe non tanto anticipato quanto seguito; comunque avrebbe atteso di farsene dettar l’iniziativa dalle “masse”. Una simile visione, che da un lato, come osserva Lenin, fa della rivoluzione un processo puramente oggettivo e dall’altro sfuma inconsciamente nell’idealismo, sembra ignorare che la presa rivoluzionaria e l’esercizio del potere (mai concepiti dalla Luxemburg, sia bene inteso, come fatti... parlamentari) non sono il punto d’arrivo del ciclo attraverso il quale la classe nella sua interezza prende coscienza della sua missione storica materialmente determinata e non saputa, ma ne sono il primo requisito, l’indispensabile punto di partenza; quella spietata lacerazione del tessuto sociale e politico che sola permetterà, attraverso un lungo e difficile processo, di raggiungere il traguardo del comunismo» (4).

Ancora una volta si presentava sullo scenario una visione del processo storico rivoluzionario in cui il partito veniva ridotto ad un organismo il cui compito doveva essere quello di registrare i fatti, di registrarli secondo una teoria ben definita, e di appellarsi alle “coscienze” dei proletari per stimolarne l’azione,  mentre il compito di guida politica e organizzativa del movimento proletario, dell’insurrezione, della rivoluzione e della dittatura proletaria a potere politico conquistato, veniva demandato interamente alla classe del proletariato, alla sua totalità o, perlomeno, alla sua maggioranza. Ma, il divenire storico procede per rotture, per fratture e lacerazioni sociali profonde, nelle quali le forze sociali, le classi, si muovono le une contro le altre certamente in un processo oggettivo, ma è questo stesso processo oggettivo, in cui gli antagonismi di classe generano elementi di organizzazione e di direzione della lotta, che produce i particolari organismi che assumono il compito di guida politica delle forze sociali in lotta fra di loro: i partiti politici. E, nel caso del partito politico del proletariato, il suo processo di formazione avviene in un modo del tutto diverso da quello nel quale si sono formati i partiti politici delle classi dominanti precedenti, fino alla classe dominante borghese. Nelle società di classe storicamente precedenti, fino alla società capitalistica, è stato lo sviluppo economico della società stessa a precedere il dominio politico delle classi che ne rappresentavano già la forza economica reale. Le forme capitalistiche sono apparse e si sono sviluppate attraverso il mercantilismo, le scoperte geografiche, le invenzioni tecniche legate alla produzione associata, imponendosi man mano nei diversi paesi secondo lo sviluppo dello stesso modo di produzione capitalistico. La borghesia, come forza sociale, è esistita e si è sviluppata all’interno della società feudale, all’interno di forme politiche e sociali che ad un certo punto non riuscivano più a contenere la pressione oggettiva dello sviluppo capitalistico. Solo molto tempo dopo l’apparizione del modo di produzione capitalistico è emersa, per la classe che lo rappresentava – la borghesia –, la necessità di distruggere le forme politiche medievali in cui era costretto per poter svilupparsi in “piena libertà” e su tutto il pianeta. La rivoluzione sociale, del feudalesimo contro la società schiavista, del capitalismo contro la società feudale, è avvenuta prima della rivoluzione politica attraverso la quale le classi che rappresentavano il modo di produzione superiore prendevano il potere politico. La classe borghese è diventata, quindi, la classe dominante della società moderna molto tempo dopo che il capitalismo, in quanto modo di produzione, si è dimostrato un modo di produzione superiore, più potente di qualsiasi altro modo di produzione precedente. Per la classe proletaria non sarà così, perché, a differenza della classe borghese, la classe del proletariato non rappresenta un modo di produzione già radicato e in pieno sviluppo – il socialismo, o comunismo che dir si voglia – ma ne rappresenta soltanto lo sbocco storico inevitabile dato il contraddittorio sviluppo economico dello stesso capitalismo che, per questo, costituisce le basi economiche del socialismo. Il proletariato, perciò, per assolvere il suo compito storico rivoluzionario, dovrà necessariamente fare prima la rivoluzione politica, conquistare il potere politico, distruggere lo Stato borghese e instaurare la propria dittatura di classe. Ma tutto ciò non potrà avvenire se non sotto la guida del partito politico proletario, del partito comunista che è quel particolare organismo che rappresenta la coscienza storica della classe rivoluzionaria, della classe del proletariato. E non è per caso che le classi dominanti borghesi si diano tanto da fare per corrompere le organizzazioni operaie, soprattutto i suoi partiti politici, rendendole opportuniste e collaborazioniste: senza un partito di classe, saldo e intransigente sul piano teorico e su quello della prassi, la classe proletaria non sarà mai in grado, non solo e non tanto di dare “l’assalto al cielo”, ma di conquistare effettivamente e mantenere il potere politico e di instaurare la propria dittatura di classe volta a rivoluzionare non solo il paese, o i paesi in cui la vinto, ma tutto il mondo.

Perciò l’impostazione che diede la Luxemburg, e gli spartachisti in generale, al proprio partito – aldilà del coraggio personale e della indubbia qualità teorica – è stata un’impostazione errata, del tutto insufficiente. La coscienza della propria missione storica il proletariato potrà raggiungerla non prima, ma dopo, e anche molto tempo dopo, aver conquistato il potere politico ed aver avviato la propria dittatura di classe.

E prima ancora che il proletariato si muova sul terreno effettivo della lotta rivoluzionaria, due decisive fratture storiche devono avverarsi: «1) prima (allora, ma ancor più oggi) assai prima della grande journée, frattura tra l’avanguardia cosciente, anche se esile, e la maggioranza della classe ancora inquadrata in organizzazioni politiche e a maggior ragione economiche compromesse col regime; quindi, fra il partito rivoluzionario e i partiti opportunisti; 2) nella fase di ascesa verso l’insurrezione, frattura tra le grandi masse spinte all’assalto del potere borghese non dalla coscienza delle finalità da raggiungere, ma da determinazioni materiali più forti di ogni consapevolezza immediata e l’ottusa, recalcitrante, reazionaria retroguardia di aristocrazie operaie frammiste a sottoproletariato e a frange proletarizzate ma infide di piccola borghesia. Questo processo di decantazione in seno al proletariato non è un fatto di “coscienza” né della totalità e neppure della maggioranza della classe; è un problema di incontro fra il partito-avanguardia, portatore di una coscienza e conoscenza che il proletariato potrà raggiungere solo dopo, e molto tempo dopo aver agito rendendo possibile la conquista del potere, e la crisi sociale; in corrispondenza ad esso, è un problema di incontro fra la previous organization del partito (per dirla con Marx) e la classe nelle sue falangi combattenti, tanto più combattive quanto meno frenate dalla “coscienza” dei vantaggi materiali che dovrà sacrificare e che eroicamente sacrificherà» (5).

Aver rovesciato i termini del materiale e storico scontro di classe tra proletariato e borghesia e della coscienza di questo scontro, facendo precedere la rivoluzione proletaria dalla “presa di coscienza” della necessità e delle finalità della rivoluzione da parte del proletariato, ha di fatto deviato le azioni degli spartachisti, li ha resi esitanti nei confronti degli opportunisti della prima fase, i socialdemocratici maggioritari, e degli opportunisti della seconda fase, gli indipendenti, illudendoli di poter ricevere dalle masse proletarie la direzione in cui dirigersi e quelle tempestive decisioni che solo il partito avrebbe dovuto indicare e prendere; di fatto si trovarono al seguito e non alla guida delle masse. Ma di tutto questo mai la Sinistra comunista d’Italia ha incolpato personalmente la Luxemburg o Liebknecht; il giudizio critico veniva dato, allora, e successivamente, da rivoluzionari a rivoluzionari, constatando che la debolezza della sinistra spartachista era determinata dalla fortissima pressione dell’opportunismo kautskiano, ben radicato nel partito tedesco e nel proletariato tedesco, e dalla forza d’inerzia di un ambiente ostile: fu una tragedia collettiva, i cui presupposti vanno trovati nel tradimento della II Internazionale di fronte alla guerra imperialistica, nella quale pochi riuscirono a non precipitare: il partito bolscevico di Lenin, la sinistra comunista d’Italia e poco più.

Ma ora veniamo all’articolo di Rosa Luxemburg.

 

 

*     *     *

 

L’ordine regna a Berlino

 

«Ordine regna a Varsavia», comunicò alla Camera parigina il ministro Sebastiani nell’anno 1831 (6), quando la soldatesca di Suworow (7) dopo il terribile assalto al sobborgo Praga aveva fatto irruzione nella capitale polacca e aveva cominciato la carneficina degli insorti.

«Ordine regna a Berlino!» annunzia trionfante la stampa borghese, annunziano Ebert e Noske, annunziano gli ufficiali delle «truppe vittoriose», a cui la plebaglia piccoloborghese di Berlino acclama e sventola i fazzoletti! La gloria e l’onore delle armi tedesche sono salvi di fronte alla storia mondiale. I miserabili sconfitti delle Fiandre e delle Argonne hanno riabilitato il loro nome con una splendida vittoria du 300 «spartachisti» del Vorwärts (8). I tempi della prima gloriosa invasione tedesca in Belgio, i tempi del generale von Emmich, il vincitore di Liegi, sbiadiscono davanti alle gesta di Reinhardt (9) e compagni nelle strade di Berlino. Parlamentari, che volevano trattare la consegna del Vorwärts, massacrati e deturpati coi calci di fucile dalla soldatesca governativa, sino a renderne impossibile il riconoscimento dei cadaveri; prigionieri posti al muro e assassinati in modo da farne schizzare tutto attorno teschi e cervello: chi, in considerazione di così gloriose gesta, pensa ancora alle ignominiose disfatte di fronte a francesi, inglesi e americani? Il nemico si chiama «Spartaco», e il luogo dove i nostri ufficiali sanno vincere, Berlino; Noske, l’«operaio», ha nome il generale che sa organizzare vittorie rifiutate a Ludendorff (10).

Chi non ripensa all’ebbrezza di vittoria della muta dell’«ordine» a Parigi, al baccanale della borghesia sui cadaveri dei comunardi, di quella stessa borghesia, che aveva appena vergognosamente capitolato di fronte alla Prussia e consegnato la capitale del paese al nemico esterno per darsela a gambe come l’ultimo vigliacco! Ma contro i proletari parigini male armati, affamati, contro le loro donne e i loro bimbi inermi – come rifulse di nuovo il coraggio virile dei figli di papà della borghesia, della «gioventù dorata», degli ufficiali! Come si scatenò il valore dei figli di Marte, già umiliati dal nemico esterno, in bestiali efferatezze sugli inermi, i prigionieri, i caduti!

«Ordine regna a Varsavia!». «Ordine regna a Parigi! », «Ordine regna a Berlino!». Così si rincorrono a distanza di mezzo secolo gli annunzi dei guardiani dell’«ordine» da un centro all’altro della lotta storico-mondiale. E i «vincitori» tripudianti non considerano che un «ordine» che ha bisogno di essere mantenuto con periodici sanguinosi massacri, va inevitabilmente incontro al suo destino storico, al suo tramonto. Che cosa è stata quest’ultima «settimana di Spartaco» di Berlino, che cosa ha portato, che cosa ci insegna? Ancora in mezzo alla battaglia, in mezzo agli ululati di vittoria della controrivoluzione, i proletari rivoluzionari devono rendersi ragione dell’accaduto, commisurare gli avvenimenti e i loro risultati alla grande scala della storia. La rivoluzione non ha tempo da perdere, essa infuria in avanti – al di là di tombe ancora spalancate, al di là di «vittorie» e di «disfatte» – incontro alle sue grandi mete. Seguire con consapevolezza le sue direttrici, le sue vie, è il primo compito dei combattenti del socialismo internazionale.

Era da attendersi da questa lotta una vittoria definitiva del proletariato rivoluzionario, la caduta degli Ebert-Scheidemann e l’istituzione della dittatura socialista? Certo no, se si prendono seriamente in considerazione tutti gli aspetti decisivi della questione. Il punto debole della posizione rivoluzionaria attuale: l’immaturità politica dei soldati, che si lasciano pur sempre adoperare dai loro ufficiali a fini antipopolari contro-rivoluzionari, è già una prova dell’impossibilità, in quest’urto, di una durevole vittoria rivoluzionaria. D’altra parte questa stessa immaturità dell’esercito è solo un sintomo della generale immaturità della rivoluzione tedesca.

Il contado, da cui proviene una grande percentuale della truppa, ora come prima è stato appena toccato dalla rivoluzione. Berlino è ancora come isolata dal Reich. Naturalmente in provincia i centri rivoluzionari – in Renania, sulle coste, nel Braunschweig, in Sassonia, nel Württemberg – stanno anima e corpo dalla parte dei proletari berlinesi. Ma anzitutto fanno ancora difetto un’uguale cadenza di marcia, di azione, che renderebbe incomparabilmente più efficaci la spinta e la combattività degli operai berlinesi. Inoltre – ciò che soltanto è un aspetto più profondo di queste insufficienze politiche della rivoluzione – le lotte economiche, la vera sorgente vulcanica che alimenta ininterrottamente la lotta di classe rivoluzionaria, sono appena allo stadio iniziale.

Da tutto questo risulta che non si può ancora contare in questo momento su una vittoria definitiva e durevole. E’ stata allora la lotta dell’ultima settimana un «errore»? Sì, se si fosse trattato di un «attacco» premeditato, di un cosiddetto «putsch»! Ma qual è stata l’origine dell’ultima settimana di lotta? La stessa di tutti i casi precedenti, del 6 dicembre (11), del 24 dicembre: una brutale provocazione del governo! Come nei casi precedenti la causa degli avvenimenti è stata una prima volta il bagno di sangue contro inermi dimostranti nella Chausseestrasse, e in seguito l’eccidio dei marinai, così questa volta si è trattato del colpo di mano contro la presidenza della polizia berlinese. La rivoluzione non opera liberamente, in campo aperto, secondo un piano astutamente preparato da «strateghi». I suoi avversari anche l’iniziativa, anzi, la esercitano di regola molto più della rivoluzione stessa.

Posti davanti al dato di fatto della sfacciata provocazione da parte del gruppo Ebert-Scheidemann, gli operai rivoluzionari furono costretti a prendere le armi. Sì, era per la rivoluzione questione di onore respingere l’attacco con ogni energia, per non incoraggiare la controrivoluzione a un’ulteriore spinta in avanti, né indebolire le file rivoluzionarie del proletariato e il credito morale della rivoluzione tedesca nell’Internazionale.

La subitanea resistenza proruppe poi spontaneamente dalle masse berlinesi con tale naturale energia, che subito di primo acchito la vittoria morale è rimasta dalla parte della «strada».

Ora, è intima legge vitale della rivoluzione di non arrestarsi mai alle posizioni raggiunte, inattiva, passiva. La miglior difesa è l’attacco. Questa elementare regola di ogni lotta regge a maggior ragione ogni passo della rivoluzione. E’ naturale e testimonia del sano istinto, della fresca forza interiore del proletariato berlinese, che esso non si sia sentito pago della reintegrazione di Eichhorn, che spontaneamente sia passato alla occupazione di altri posti-chiave della controrivoluzione: la stampa borghese, l’agenzia ufficiosa di notizie, il Vorwärts. Tutte queste misure risultavano nella massa dall’istintiva coscienza che la controrivoluzione dal canto suo non si sarebbe mostrata acquiescente alla sconfitta subita, ma avrebbe cercato una prova di forza generale.

Anche qui ci troviamo di fronte ad una delle grandi leggi storiche delle rivoluzioni, contro le quali si vanno a infrangere tutte le sofisticherie e le saccenterie di quei piccoli «rivoluzionari» di estrazione USP, che in ogni battaglia cercano solo pretesti per la ritirata. Una volta posto in chiaro il problema fondamentale di una rivoluzione – e in questa rivoluzione si tratta dell’abbattimento del governo Ebert-Scheidemann, come primo ostacolo alla vittoria del socialismo –, esso non fa che riaffacciarsi sempre di nuovo in tutta la sua attualità, e ogni singolo episodio della lotta fa emergere il problema in tutta la sua portata con la fatalità di una legge naturale, siano pure la rivoluzione ancora impreparata per il suo compimento e la situazione immatura. «Abbasso Ebert-Scheidemann!» – questa parola d’ordine si fa strada inevitabilmente ad ogni crisi rivoluzionaria, come l’unica formula esaustiva di tutti i conflitti parziali, e acutizza così di per sé, per una interna logica obiettiva, lo si voglia o no, ogni singolo episodio della lotta.

Da questa contraddizione, in una fase iniziale dello sviluppo rivoluzionario, tra aggravamento dei compiti e insufficienti condizioni per la loro realizzazione, risulta la conclusione formalmente negativa delle singole battaglie rivoluzionarie. Ma la rivoluzione è l’unica forma di «guerra» – anche questa è una particolare legge di vita – in cui la vittoria finale possa essere preparata solo attraverso una serie di «sconfitte»!

Che cosa ci mostra tutta la storia delle rivoluzioni moderne e del socialismo? Il primo divampare della lotta di classe in Europa: l’insurrezione dei setaioli lionesi del 1831 è finita con una grave sconfitta. Il movimento cartista inglese, con una disfatta. Il sollevamento del proletariato parigino nei giorni del giugno 1848 è terminato con una sconfitta schiacciante. La Comune di Parigi con una sconfitta paurosa. Tutta la strada del socialismo – per quel che riguarda le battaglie rivoluzionarie – è disseminata di patenti disfatte.

E pure irresistibilmente questa stessa storia passo passo porta alla vittoria finale!. Dove saremmo oggi senza quelle «sconfitte», dalle quali abbiamo attinto esperienza storica, scienza, forza, idealismo! Noi, che oggi siamo giunti immediatamente davanti alla battaglia finale della lotta di classe proletaria, poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, ognuna delle quali è parte della nostra forza e consapevolezza.

Avviene con le lotte rivoluzionarie l’esatto contrario che con le lotte parlamentari. Nello spazio di quattro decenni abbiamo avuto in Germania in sede parlamentare solo delle «vittorie», siamo passati addirittura di vittoria in vittoria. E il risultato ne fu, al momento della grande prova storica del 4 agosto (12): una disfatta politica e morale catastrofica, un crollo inaudito, una bancarotta senza esempi. Le rivoluzioni ci hanno finora portato sonore sconfitte, ma esse nella loro inevitabilità sono altrettante garanzie della futura vittoria finale.

Certo, ad Una condizione. Ci si chieda in quali circostanze ogni singola disfatta abbia avuto luogo, se essa sia risultata dal cozzo della combattività e delle masse lanciate in avanti contro i limiti costituiti dall’insufficiente maturità dei presupposti storici, o dalla paralisi della azione rivoluzionaria in conseguenza degli errori, le indecisioni, le interne debolezze.

Esempi classici di questi due casi sono da un lato la rivoluzione di febbraio in Francia, dall’altro la rivoluzione di marzo in Germania. L’eroica lotta del proletariato parigino nel 1848 è diventata la sorgente viva delle energie di classe di tutto il proletariato internazionale. Le miserie della rivoluzione di marzo costituiscono come una palla al piede per tutto lo sviluppo moderno della Germania. Esse agirono attraverso la storia particolare della socialdemocrazia ufficiale tedesca sino ai recenti eventi della nostra rivoluzione – sino alla drammatica crisi appena vissuta.

Come appare alla luce della suddetta questione storica la sconfitta di questa cosiddetta «settimana di Spartaco»? E’ stata una sconfitta d’una energia rivoluzionaria traboccante di fronte all’insufficiente maturità della situazione o invece delle debolezze e incertezze nell’azione?

Entrambe le cose! Il carattere ambivalente di questa crisi, la contraddizione tra la condotta energica, decisa, aggressiva delle masse berlinesi, e l’indecisione, la pusillanimità, l’incapacità della direzione berlinese è la particolare caratteristica di questo recente episodio.

La direzione è mancata. Ma essa può e deve essere creata a nuovo dalle masse e tra le masse. Le masse sono il fattore decisivo, sono la roccia sulla quale sarà edificata la vittoria finale della rivoluzione. Le masse sono state all’altezza della situazione, esse hanno fatto di questa «sconfitta» un anello di quella catena di sconfitte storiche, che sono l’orgoglio e la forza del socialismo internazionale. E perciò da questa «sconfitta» sboccerà la futura vittoria.

«Ordine regna a Berlino!». Stupidi sbirri! Il vostro «ordine» è costruito sulla sabbia. La rivoluzione già da domani «di nuovo si rizzerà in alto con fracasso» e a vostro terrore annuncerà con clangore di trombe

io ero, io sono, io sarò! (13).

 

*     *     *

 

«Eroicamente, pagando meravigliosamente di persona – scrivevamo nella Storia della sinistra comunista (14) –, Luxemburg e Liebknecht si erano ribellati all’ignominia dell’union sacrée: eppure, il leitmotiv di tutti i loro proclami, dal 1914 al 1918, è l’affermazione che non essi ma i capi hanno rotto col partito; è il partito che deve “dal basso” schierarsi con loro contro i dirigenti; è la base che deve scindersi dal vertice, prima che gli spartachisti, con la base, se ne scindano. Non sono loro a prendere l’iniziativa della scissione (non saranno espulsi prima del gennaio 1917), né, messi alla porta, saranno loro a respingere le offerte degli indipendenti; e non perché non abbiano il coraggio di assumersene la responsabilità – il coraggio personale è l’ultima cosa che si possa contestare ai galeotti del 1915-1918, ai martiri del gennaio 1919! – ma perché, nella loro tipica visione, questa iniziativa non spetta a loro bensì alla classe nel suo insieme: è l’atto finale, non il principio, della sua “catarsi, e, sìquesta, l’avanguardia politica è partecipe, sì, ma non protagonista. La socialdemocrazia li tollera nel proprio seno: vecchia volpe, sa che espellendoli anzi tempo conferirebbe loro un’aureola di popolarità temuta peggio del demonio: accettando di rimanervi, inconsciamente, essi ne fanno l’abile gioco. Una volta cacciati, trovano ospitalità nell’USPD (gli indipendenti) contro la concessione di una parvenza di “autonomia”, e ripercorrono lo stesso calvario – giacché di questo indubbiamente si tratta – contribuendo a perpetuare fra le masse l’equivoco di un partito convertitosi alla fraseologia rivoluzionaria solo per evitare la sciagura di un trionfo di Spartaco. Vi restano in tutti e due i mesi durante i quali Haase, Dittmann e Barth condividono con Ebert, Scheidemann e Landsberg la responsabilità di un potere che è di acciaio temprato per i proletari in tumulto, e di “gelatina” per i grandi borghesi, junker, generali e burocrati dell’ancien régime; solo dopo che la loro richiesta (15 dicembre) di un congresso straordinario dell’USPD è stata respinta, cominciano ad organizzarsi come gruppo a sé; solo dopo che lo scandaloso Congresso dei consigli operai (16-21 dicembre) si è rifiutato anche solo di ammettere alle sue sedute Liebknecht e Luxemburg, scomodi guastafeste, certo, in un’assemblea chiamata a liquidare le ultime parvenze di una “dualità di poteri” indicendo le elezioni all’Assemblea costituente per il 19 gennaio 1919; solo allora si costituiscono in Partito Comunista di Germania (Lega di Spartaco), o KPD(S), e lo fanno con mille esitazioni e perfino resipiscenze, per trovarsi pochi giorni dopo di fronte alla disperata constatazione di essere paurosamente in ritardo sul moto istintitvo, poderoso ma caotico, delle masse berlinesi, isolati e insieme travolti dalla marea, impotenti a dirigerla quanto a frenarla – come avevano potuto i bolscevichi nel luglio 1917 – prima di essere sommersi dal disastro, l’irrimediabile disastro del gennaio e del marzo».

Non è d’altra parte un caso che, nel suo articolo, Rosa Luxemburg si concentri in modo quasi ossessivo sulle sconfitte delle rivoluzioni proletarie, ma non accenni minimamente alle lezioni da trarre dall’unica effettiva rivoluzione proletaria vittoriosa, quella russa dell’Ottobre 1917; vittoriosa non solo grazie al moto istintivo, poderoso delle masse proletarie e contadine russe, ma grazie alla guida di un partito di classe – il partito bolscevico di Lenin – che si era preparato in lunghi anni di assimilazione teorica e di attività pratica tra le masse, tirando fino in fondo tutte le lezioni dalle sconfitte che la rivoluzione aveva accumulato nel tempo, come anche soltanto leggendo Stato e Rivoluzione è ampiamente dimostrato. Un partito che seppe non solo polemizzare con tutte le correnti opportuniste, ma seppe distinguersi e scindersi in modo intransigente negli svolti storici in cui uno dei primi compiti del partito di classe che bisognava difendere e salvare era quello di combattere ogni anche piccolo scivolone nella deviazione opportunista, fuori da ogni illusione democratica e del partito di massa.

  


 

(1) G. Noske, Von Kiel bis Kapp, Berlin, Verlag fur Politik und Wirtschaft, 1920, p. 68, riportato in Rosa Luxemburg, Scritti scelti, Edizioni Avanti! 1963, p. 652.

(2) Cfr. Paul Frölich, Rosa Luxemburg, BUR, gennaio 1987, pp. 445-447

(3) Vedi Storia della sinistra comunista 1919-1920, vol. II, cap. VIII, punto 10. Il “cammino di Golgota” dello spartachismo, p. 454, edizioni “il programma comunista”, Milano 1972.

(4) Ibidem, pp.454-455.

(5) Ibidem, p. 455.

(6) “L’ordre règne à Varsovie” sono le parole pronunciate dal ministro degli Esteri francese, Sebastiani, il 16 settembre 1831.

(7) In realtà il capo delle truppe russe non era Suworow, morto nel 1800, ma Ivan Fjodorowitsch Paskewitsch.

(8) Il Vorwärts era l’organo ufficiale del Partito Operaio Socialista della Germania, costituitosi dalla fusione delle due correnti socialiste tedesche, lassalliana ed eisenachiana, deciso al congresso di Gotha del 1875, il cui programma fu, come noto, criticato aspramente da Marx ed Engels.

(9) W. Reinhardt, era stato nominato ministro della Guerra  prussiano proprio in quei giorni.

(10) E. Ludendorff, era capo di stato maggiore dell’esercito durante la prima guerra mondiale.

(11) Nel novembre 1918 il vecchio potere prussiano venne scalzato dalla rivoluzione e fu alla socialdemocrazia sciovinista  che i proletari consegnarono il potere. Ma Ebert, socialdemocratico di destra, che sarà a capo del nuovo governo, stipulò un accordo con il quartier generale dell’esercito che, per obiettivo immediato, aveva quello di schiacciare gli operai di Berlino. «Il 6 dicembre la controrivoluzione tentò il suo primo colpo aperto. A Berlino e nella Renania vennero scoperte delle cospirazioni controrivoluzionarie. A Berlino truppe di soldati e “fedeli al governo” proclamarono Ebert presidente della repubblica e lo sollecitarono a fare un colpo di stato. Contemporaneamente venne arrestato, da un altro contingente di truppe, il comitato esecutivo dei soldati e degli operai. 200 uomini occuparono la redazione della “Rote Fahne”. Nella parte nord di Berlino venne sparato su una dimostrazione organizzata dalla lega dei soldati rossi e approvata dall’autorità, col pretesto che era stato progettato un putch spartachista: le vittime furono diciotti morti e trenta feriti. Un’inchiesta diretta da Eichhorn [capo della polizia di Berlino, socialdemocratico indipendente] dimostrò che tutti questi avvenimenti erano dovuti ad un piano unitario. Tutte le file si raccoglievano nelle mani del comandante militare Wels, del ministro della guerra e dell’ufficio affari esteri.

«La giornata del 6 dicembre fece vacillare fortemente la stima di cui godeva il governo. In seguito ad un appello della Lega di Spartaco centinaia di migliaia di persone protestarono per le strade di Berlino per gli attacchi controrivoluzionari. Tuttavia non venne presa nessuna misura per l’immediata difesa della rivoluzione» (P. Frölich, Rosa Luxemburg, BUR 1987, p. 413). L’altra provocazione, cui si riferisce Rosa Luxemburg, riguarda la vicenda che ebbe al suo centro l’attacco contro la divisione della marina popolare che alloggiava nel cuore di Berlino, nel castello, dominando il quartiere dove aveva sede il governo, e che aveva preso posizione a favore degli indipendenti, perciò contro i socialdemocratici di destra i quali, ancora forti nel congresso dei consigli, montarono una serie di calunnie nei confronti dei marinai. Gli spari contro una dimostrazione dei marinai spinsero questi ultimi a prendere in ostaggio il comandante della città, Wels.

«Questo fatto fornì il pretesto per l’aggressione. I marinai non avevano pensato ad una battaglia e al castello c’era solo la guardia abituale, formata da appena un centinaio di uomini. Essi tuttavia respinsero l’ultimatum loro inviato insieme a ipocrite promesse. La mattina del 24 dicembre, la vigilia di natale, cominciarono a sparare colpi di artiglieria sul castello e sulle scuderie, continuando per diverse ore. Ma era inutile. I marinai resistettero, e in loro aiuto accorsero la guardia operaia e numerosi operai. Delle donne si introdussero tra gli aggressori impedendo loro di condurre oltre l’impresa fratricida e inducendoli a deporre le armi. La sera l’attacco era fallito» (P. Frölich, Rosa Luxemburg, BUR 1987, p. 421). 

(12) Il 4 agosto 1914 è il giorno in cui il Partito socialdemocratico votò i crediti di guerra.

(13) Qui Rosa Luxemburg cita dalla poesia Die Revolution di F. Freiligrath.

(14) Vedi Storia della sinistra comunista 1919-1920, cit. pp. 456-457.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice