Ma quali pensioni con “Quota 100”?

(«il comunista»; N° 158; Marzo 2019)

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Il DL n. 4/2019 ha introdotto la “quota 100” che consente a chi, nel triennio 2019-2021, raggiunge un’età anagrafica di almeno 62 anni e un’anzianità contributiva minima di 38 anni di conseguire il diritto alla pensione anticipata. Può perciò fare domanda per la pensione anche chi ha 63 anni più 38 di contributi, 64 più 38, 65 più 38, 66 più 38: fino al 2021 età e contributi non saranno rivisti. Chi non rientra in questi requisiti continua ad andare in pensione con la legge “Fornero” che prevede 67 anni di età minima con minimo 20 anni di contributi, o con 42 anni e 10 mesi di contributi versati a prescindere dall’età anagrafica (41 e 10 mesi per le donne). Il requisito di vecchiaia salirà nei prossimi anni perché verrà adeguato alla speranza di vita…, mentre quello di anzianità contributiva viene bloccato dal governo fino al 2026, ma ritornano le cosiddette “finestre” (in pratica ci sarebbero voluti 5 mesi in più dopo l’adeguamento alla “speranza” di vita, 43 anni e 2 mesi, però obbligando il lavoratore ad andare in pensione quando si apre la finestra, cioè 3 mesi dopo, perciò, di fatto, si andrà in pensione con 43 anni e 1 mese, mentre nel pubblico impiego la finestra si apre addirittura dopo 6 mesi).

Fuori dai toni propagandistici del governo “Lega-Cinquestelle”, la quota 100 non elimina affatto la legge “Fornero” varata dal governo Monti nel 2011, che sostanzialmente rimane integra; infatti, chi vuole uscire anticipatamente rispetto a quanto prevede la legge “Fornero” deve subire dei tagli all’assegno di pensionamento, tagli via via più alti, a seconda che manchino da 1 a 5 anni rispetto ai requisiti della “Fornero”.

Ad esempio, un lavoratore che ora paga 500 euro mensili di contributi – con le regole “Fornero” – avrebbe preso 1.200 euro di pensione; uscendo un anno prima, il lavoratore non verserà più 6.000 euro di contributi (500 euro x 12 mesi) e, ricevendo 1.200 euro di pensione per un anno in poiù rispetto al "dovuto" (1.200 euro x 12 mesi), l'esborso INPS sarebbe di 14.400 euro in più. 6.000 euro di contributi mancati + 14.400 euro di pensione versati in più, porta ad una somma di 20.400 euro di cui lo Stato si priverebbe, e che perciò verrebbero a pesare sul lavoratore prelevandoli ratealmente e direttamente ogni mese dalla sua pensione. Se va in pensione a 63 anni, visto che l’aspettativa di vita per gli uomini di quell’età è di 83 anni (20 anni in più), prenderà circa 1.000 euro in meno l’anno rispetto alle regole “Fornero”, quindi la sua pensione sarà più bassa di 80 euro ogni mese, per tutta la vita. Se va in pensione due anni prima, l’assegno sarà decurtato di 160 euro al mese e così via per ogni anno anticipato rispetto alla “Fornero” (La Nuova Venezia, 31.1.2019).

Inoltre, il minimo di 38 anni di contributi penalizza sopratutto le donne, un tetto troppo alto tenuto conto dei buchi contributivi dovuti ai periodi di cura dei familiari. I dipendenti pubblici, oltretutto, dovranno accettare di avere all’immediato solo una parte del Tfs (trattamento di fine servizio) anticipato dalle banche (con interessi pagati dallo Stato per il 95% e per il 5% dal pensionato).

Della “Fornero” rimane il cardine centrale dell’adeguamento all’innalzamento dell’aspettativa di vita che viene bloccato solo temporaneamente per la pensione anticipata e i precoci (quelli che hanno iniziato a lavorare prima dei 18 anni e hanno almeno 41 anni di contributi).

 

Dunque per lavoratori precari e i giovani proletari non cambia niente: la prospettiva, “se va bene”, è sempre di andare in pensione a 70 anni con un assegno da fame.

 

Per i proletari di oggi non “cambia” nulla se non, andando in pensione qualche anno prima, il fatto di dover accettare un taglio alla pensione che è già misera; per i proletari futuri, tenendo conto di un lavoro   sempre più precario e alternato alla disoccupazione, e una pensione che, dal 1996 si basa sui contributi versati lavorando, la fame è già assicurata dallo Stato borghese.

Ai proletari, come sempre, non resta che lottare non solo per avere un salario in grado di affrontare il costo della vita senza stringere continuamente la cinghia, ma anche per avere la pensione (che non è altro che un salario “differito”) allo stesso livello del salario, a prescindere da un lavoro continuativo o meno e dai contributi pretesi dallo Stato borghese. La rivendicazione di una pensione in grado di far vivere dignitosamente un proletario e la sua famiglia, dopo quarant’anni e oltre in cui la sua forza lavoro e la sua salute sono state logorate e debilitate, non può non essere oggettivamente legata alla rivendicazione per un aumento sostanzioso del salario. Non sarà mai possibile che la pensione mediamente aumenti mentre il salario mediamente diminuisce, senza una durissima lotta contro gli interessi dei capitalisti. E che la lotta deve e dovrà essere durissima lo mostrano i rapporti di forza tra la classe proletaria e la classe capitalista, ancora estremamente favorevoli ai capitalisti per le ragioni che i proletari intuiscono facilmente: al potere economico e politico dei capitalisti, al potere dello Stato borghese che non è altro se non il comitato d’affari dei capitalisti, si unisce un altro “potere” molto più infido, quello dell’opportunismo, il cui compito è di tenere sistematicamente diviso il proletariato in mille strati diversi, di facilitare con la sua politica collaborazionista non solo la divisione all’interno del corpo proletario, ma la concorrenza tra proletari, giovani e anziani, maschi e femmine, autoctoni e stranieri.

L’opportunismo non lavora soltanto per trovare costantemente un compromesso tra le esigenze capitalistiche e le esigenze proletarie, lavora soprattutto per sottomettere sistematicamente il proletariato, di ogni categoria e di ogni livello, alle esigenze immediate e future di ogni azienda e dell’insieme delle aziende che formano la famosa “economia nazionale”. Esigenze che si traducono in produttività più alta, in ritmi di lavoro più intensi, in tempo di lavoro giornaliero più lungo, in sacrifici di ogni genere volti verso l’obiettivo più importante che ogni azienda si dà: aumentare la competitivà delle proprie merci sul mercato. Ma più cresce, tra i capitalisti, la concorrenza sul mercato, più essi forzano i proletari ad accettare un maggiore sfruttamento, all’organizzazione del quale non pensano soltanto i capi di ogni azienda, ma anche i bonzi sindacali che spingono i proletari - per non subire il classico ricatto del posto di lavoro con cui tutti i capitalisti cercano di mettere i proletari con le spalle al muro - ad accettare di far proprio l’interesse comune tra proletari e padroni: il buon andamento dell’azienda, la sua capacità di battere la concorrenza ed espandersi nel mercato.

Lo stesso sviluppo del capitalismo dimostra che il mercato, al di là della competitività di questa o di quell’altra azienda, ad un certo punto entra in crisi perché non riesce ad assorbire, al prezzo che garantisca il tasso medio di profitto, una massa di prodotti sempre più grande che vi viene immessa; per quanto “competitive”, le merci sono condannate a questo destino: le più competitive emarginano, fino ad escludere dal mercato, quelle meno competitive, negando in questo modo il profitto ai capitalisti che le hanno portate nel mercato e trasformandosi, così, in merci invendute, in prodotti che nessuno compra o può comprare. L’intasamento del mercato, quindi, porta la società capitalistica alla crisi nella quale, come afferma il Manifesto di Marx-Engels, «viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovraproduzione» (1). Il fatto è che anche la forza lavoro salariata, il proletariato, è una forza produttiva della società, ed è nello stesso tempo merce, perciò subisce inevitabilmente la stessa sorte di tutte le altre merci: nelle crisi economiche del capitalismo la forza lavoro proletaria subisce lo stesso processo di sovraproduzione e così una parte sempre più numerosa della forza lavoro salariata disponibile sul mercato finisce per essere esclusa dalla produzione, emarginata, eliminata. Si acuisce, in tempo di crisi, anche la concorrenza tra proletari e, in assenza della lotta di classe, ciò porta ad un abbassamento generalizzato dei salari rispetto al costo della vita; se si abbassano i salari della forza lavoro attiva, si abbassano di conseguenza anche i salari “differiti”, le pensioni; solo la lotta operaia è riuscita, e riesce, a contenere questo abbattimento dei salari, ma, nella misura in cui la lotta operaia non ha il carattere di lotta di classe esprimendo una forza sociale molto più compatta nei confronti degli attacchi del capitale – come ormai succede da decenni – salari, pensioni, condizioni di lavoro, orari di lavoro, subiscono tutta una serie di attacchi di fronte ai quali i proletari si trovano impotenti.

Il capitale, da parte sua, attraverso le associazioni dei capitalisti e lo Stato borghese, per salvare i profitti e visto che le crisi di sovraproduzione sono generate dal suo modo di produzione, non ha altre vie da percorrere se non quella di spremere ancor di più la forza lavoro attiva, utilizzando tutte le armi economiche, sociali, politiche e militari di cui dispone, affinché la massa di lavoratori che viene gettata fuori dalle aziende sia essa stessa divisa in tanti compartimenti differenziati, aumentando così la precarietà del posto di lavoro, emarginando una parte della forza lavoro disponibile nella disoccupazione, garantendo a un'altra  parte una miseria di pensione, in modo da esercitare sulla forza lavoro salariata una generale pressione sia dal punto di vista dell’attacco alle condizioni di lavoro sia da quello delle condizioni di esistenza.

Ecco perché i proletari, per difendere le proprie condizioni sociali di esistenza, hanno bisogno di unirsi in quanto proletari, organizzandosi come classe, senza distinzioni di età, di genere, di nazionalità o di settore economico; l’unione deve esserci anche tra i lavoratori attivi, i disoccupati e i pensionati, superando la divisione e la concorrenza alimentate costantemente dai capitalisti e dal loro Stato borghese, ai quali non manca mai la collaborazione della folta genìa di sindacalisti e politicanti “di sinistra”.    

 


 

(1) Vedi il Manifesto del Partito Comunista, Marx-Engels, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, p.107.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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