Gli insegnamenti da trarre a cent'anni dalla Repubblica Ungherese dei Consigli

(«il comunista»; N° 160 ; Luglio 2019)

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In collegamento con la trattazione della questione della dittatura del proletariato e in corrispondenza del centenario della rivoluzione ungherese del 1919 che instaurò la Repubblica dei Consigli, riprendiamo l'articolo che il partito pubblicò nel 1979 nell'allora giornale di partito "il programma comunista" (1) rivendicando come il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo è la disciplinata e ferma dittatura della sola classe proletaria. L'esempio della rivoluzione proletaria russa del 1917 doveva mostrare al partito comunista ungherese, guidato da Béla Kun, non solo che il potere politico doveva essere conquistato dal proletariato, ma soprattutto che la dittatura di classe che si opponeva alla dittatura della borghesia doveva essere esclusivamente della classe proletaria e che il partito che doveva esercitarla doveva essere esclusivamente il partito comunista.

Nell'Ottobre 1917, il proletariato, alleato con le masse contadine povere che erano rappresentate politicamente dai socialisti rivoluzionari, conquistò il potere; instaurò necessariamente la dittatura democratica degli operai e dei contadini, ma, nell'affrontare i gravi problemi economici e militari dovuti all'arretratezza economica della Russia e alla guerra civile scatenata dalle guardie bianche e dalle potenze imperialiste che le appoggiavano, i bolscevichi dovettero cacciare dal governo i socialisti rivoluzionari di sinistra, alleati provvisori che boicottarono la politica e le misure decise dal partito proletario, e dovettero accentrare la dittatura esclusivamente sulla classe operaia, nonostante i compiti economici  fossero ancora quasi esclusivamente capitalistici. La grande strategia del bolscevismo volle finirla con la guerra mondiale (con la pace di Brest-Litovsk) anche a costo di pagare un prezzo salatissimo in termini di territori ceduti all'imperialismo tedesco, e trasformare nel senso più ampio la guerra imperialista in guerra civile, non solo nell'insurrezione per la conquistadel potere, ma per tutto il periodo successivo di dittatura proletaria nel quale non si illudeva certo di poter attuare le misure socialiste, all'interno, e di organizzare la lotta rivoluzionaria del proletariato in tutti gli altri paesi, senza che le forze reazionarie interne e le forze imperialiste esterne non tentassero di abbattere con tutti i mezzi il potere sovietico appena conquistato.

"La chiusura della guerra era un traguardo fondamentale - si legge nella 'Struttura economica e sociale della Russia d'oggi' - forse il più vitale, di una lunghissima lotta, che durava dal 1914 e in un certo senso dal 1900. Era indispensabile che questo caposaldo fosse a qualunque costo stabilito: la guerra imperialista e zarista è finita: il tradimento socialsciovinista è stato stritolato; ed era tanto un caposaldo della rivoluzione russa quanto, e sopra ogni altra cosa, della rivoluzione internazionale. Non sarebbero mancate lotte e guerre civili per la difesa della rivoluzione e delle vittorie di Ottobre: Lenin lo sapeva e chiaramente lo disse. Ma Brest fu una tappa del cammino che doveva condurre dalla guerra imperialista alla guerra civile in ogni paese, come dichiarato nel 1914, e anche prima, dal marxismo rivoluzionario" (2). Gli esserre, come venivano chiamati i socialisti rivoluzionari allora, si opposero alla pace di Brest-Litovsk e dall'opposizione passarono alla rivolta, dal 5 luglio 1918, durante il V congresso panrusso dei Soviet; uccisero l'ambasciatore tedesco Mirbach per riaccendere la guerra, cannoneggiarono il Cremlino: la prima controrivoluzione interna prese i colori dei socialisti rivoluzionari. Il partito bolscevico, sempre dalla 'Struttura', "senza la minima esitazione dispone la liquidazione dell'avventura, che viene attuata in pochi giorni: quest'ultimo residuo alleato, quest'ultimo oggetto coibile di 'blocco' e di 'fronte unico', tra l'orrore di tutto l'opportunismo mondiale e la gioia dei marxisti rivoluzionari di non fiacca pelle di ogni paese, viene posto fuori della legge rossa e schiacciato come un nido di serpi. Essi dovevano ancora, fedeli al loro metodo terrorista, consacrato ormai alla controrivoluzione, assassinare il 30 agosto il valoroso bolscevico Uritsky, grave perdita per il partito, e con la mano della Fanny Kaplan cacciare nella spalla di Lenin stesso una palla di pistola, che forse ne abbreviò l'esistenza. Si aprivano in quel momento uno dopo l'altro i fronti dell'intervento esterno, della guerra civile; il 17 agosto tagliando corto ad un'altra noiosa pratica viene tolta di mezzo su ordine del governo bolscevico ad Ekaterinburg, ove i bianchi stanno per arrivare, la famiglia imperiale; e non è da credere che qualcuno sia stato lasciato scappare fuori". Alla domanda fondamentale: che deve fare il partito rivoluzionario, appena giunto al potere?, la risposta non poteva che essere una sola: "duramente e lungamente combattere, per non perderlo. Lotta che, per ambo le parti, non può lasciar quartiere ai battuti". Ma questa lezione non fu raccolta dal partito comunista ungherese.

In Ungheria, la borghesia, approfittando della sconfitta dell'impero asburgico nella guerra mondiale, fondò la sua indipendenza con l'aiuto del partito socialista che aveva ancora una forte influenza sul proletariato ungherese. La borghesia, giunta al potere, dopo i tentativi non riusciti di governi di coalizione borghese-socialdemocratica, fondava la Repubblica popolare ungherese chiamando in soccorso il proletariato in difesa dei confini "nazionali" dalla sopraffazione dell'Intesa che "regalava" territorio ungherese all'alleata Romania. Nella situazione di crisi caotica dell'immediato dopoguerra, e nell'incapacità di risolvere i suoi problemi nazionali, la borghesia ungherese non poteva che cercare di portare il proletariato, che le stesse conseguenze della guerra aveva mobilitato sul terreno rivoluzionario, dalla sua parte. E, per cercare di evitare che la conquista del potere da parte del proletariato avvenisse con la violenza rivoluzionaria in uno scontro armato che avrebbe irrigidito, rafforzandolo, il fronte proletario, predisponendolo a collegarsi con l'armata proletaria russa, la borghesia ungherese fece una mossa che si dimostrò molto abile: consegnò, senza nemmeno un colpo di fucile, il potere ai socialdemocratici che, a loro volta, offrirono alla minoranza comunista (che la borghesia aveva imprigionato) di partecipare al governo dei "Commissari del popolo". La trappola era scattata e, purtroppo, funzionò: i comunisti ungheresi ebbero l'ingenuità di accettare, entrando in minoranza, nel marzo 1919, di far parte del nuovo governo presieduto dai socialdemocratici. Dal giugno 1919 il nuovo "Consiglio" è composto in maggioranza da comunisti, ma le manovre interne dei socialdemocratici ed esterne dell'Intesa, iniziate fin dalla costituzione del governo dei "Commissari del popolo" e proseguite per tutto il periodo, compreso quello del governo "comunista", finirono per isolare il partito comunista dalle masse proletarie che la stessa coalizione di governo socialdemocratico-comunista aveva confuso, impedendo ai comunisti di attuare in piena indipendenza la politica antiborghese che li distinguevano. Poco più di tre mesi dopo l'andata al governo, i comunisti, subiti diversi rovesci sia sul fronte militare che su quello sociale, dovettero cedere il potere al socialdemocratici che, a loro volta, annullata in questo modo la possibilità dei comunisti di proseguire nella lotta rivoluzionaria contro tutti i nemici di classe - borghesia nazionale, socialdemocratici e imperialisti esterni - passarono la mano alla borghesia e alla dittatura dell'ammiraglio Horty che non si farà nessuno scrupolo nell'attuare una spietata repressione.

La lezione della rivoluzione russa non fu raccolta dal giovane partito comunista ungherese che cadde nell'illusione di poter cambiare visione, mentalità e atteggiamento della socialdemocrazia sciovinista.

L'esperienza della rivoluzione ungherese del 1919 mise in evidenza un altro fattore, quasi sempre tenuto in sottordine, ma che nella lotta rivoluzionaria si è dimostrato invece particolarmente importante sia per il suo rafforzamento sia per il suo indebolimento. Questo fattore è rappresentato dalle masse femminili. Avremo modo di tornare su questo particolare aspetto, ma ora vale la pena citare un passo dalle Tesi dell'Internazionale Comunista al suo terzo congresso del 1921, su "I partiti comunisti e l'organizzazione delle donne", nel quale si mette in evidenza l'importanza decisiva di attirare nella lotta del proletariato le masse di lavoratrici e come esempio riporta proprio la sconfitta della rivoluzione ungherese. Al punto 3 di queste Tesi si legge infatti:

"Dovunque si presenta il problema della conquista del potere, i partiti comunisti devono rendersi conto del grave pericolo rappresentato per la rivoluzione da quelle masse di lavoratrici - massaie, operaie e contadine - che non furono attratte nel movimento, non vennero sottratte all'influenza della concezione capitalistica del mondo, della chiesa e dei pregiudizi borghesi, e non furono, in un modo o nell'altro, inserite nel grande movimento liberatore del comunismo.

"Le masse femminili dell'Occidente e dell'Oriente, che non sono ancora state attratte nel movimento, rappresentano indubbiamente un sostegno del capitale e un oggetto di propaganda controrivoluzionaria.

"L'esperienza della rivoluzione ungherese, durante la quale le masse femminili prive di coscienza di classe hanno avuto una parte così deplorevole, deve essere un ammonimento per i proletari di tutti i paesi, che  si sono messi sulla via della rivoluzione sociale. D'altronde l'esperienza della repubblica soviettista [di Russia, NdR] ha dimostrato quanto sia importante il concorso delle operaie e delle contadine, tanto nella difesa della repubblica quanto in tutti i campi dell'organizzazione soviettista. I fatti stanno a comprovare quale importante ruolo abbiano svolto le operaie e le contadine della repubblica soviettista nell'organizzare la difesa delle retrovie, nella lotta contro la diserzione e contro tutte le forme di controrivoluzione, di sabotaggio ecc. L'esperienza della repubblica soviettista deve essere valorizzata dai proletari di tutti i paesi" (3).

 

Ma ora passiamo al testo pubblicato nel 1979, col titolo "A sessant'anni dalla Repubblica ungherese dei Consigli", al quale facciamo seguire altri testi.

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A sessant'anni dalla Repubblica ungherese dei Consigli

 

"La caduta della prima repubblica sovietica in Ungheria (alla prima che è crollata seguirà una seconda vittoriosa) ha dimostrato, con particolare evidenza, come sia grande, immenso il pericolo che può derivare da un male di questo genere [ vale a dire il riconoscimento verbale della dittatura proletaria e il suo misconoscimento nei fatti]. Una serie di articoli, nell'organo centrale del Partito comunista austriaco, La Bandiera Rossa (Die Rote Fahne, di Vienna), ha rivelato una delle cause fondamentali di questo crollo: il tradimento dei 'socialisti, che a parole sono passati dalla parte di Bel Kun e si sono dichiarati comunisti, ma di fatto non hanno attuato una politica corrispondente alla dittatura del proletariato, ma hanno tentennato, esitato, sono ricorsi alla borghesia, e in parte hanno sabotato direttamente la rivoluzione proletaria e l'hanno tradita. I briganti dell'imperialismo (cioè i governi borghesi dell'Inghilterra, della Francia ecc.), che con la loro potenza mondiale avevano accerchiato la Repubblica sovietica ungherese, schiacciarono selvaggiamente, per mezzo dei carnefici rumeni, il governo sovietico ungherese approfittando naturalmente delle incertezze che si verificavano nel suo seno.

"Non v'è dubbio che una parte dei socialisti ungheresi sia passata sinceramente dalla parte di Bela Kun e sinceramente si sia dichiarata comunista. Ma la sostanza non muta affatto: una persona che si dichiara 'sinceramente' comunista e che, in realtà, invece di fare una politica implacabilmente ferma, inflessibilmente decisa, illimitatamente audace ed eroica (solo una simile politica corrisponde al riconoscimento della dittatura del proletariato), tentenna e esita, una persona simile, con la sua mancanza di carattere, con le sue esitazioni, con la sua irresolutezza compie lo stesso tradimento di un vero traditore. Dal punto di vista individuale, la differenza fra il traditore per debolezza e il traditore per intenzione e per calcolo è grandissima; ma dal punto di vista politico non esiste differenza, perché la politica decide in realtà la sorte di milioni di persone, e questa sorte non cambia per il fatto che milioni di operai e di contadini poveri siano stati traditi da traditori per debolezza o da traditori per profitto".

(Lenin, Note di un pubblicista, 14.2.1920 in Opere, XXX, p. 318).

 

Il 21 marzo 1919 veniva proclamata a Budapest la Repubblica dei Consigli di operai, contadini e soldati. A 100 anni di distanza [nell'articolo originale, essendo del 1979, gli anni di distanza erano 60] è ancora impossibile ricostruire con un minimo di obiettività i particolari della sua brevissima esistenza (cadde il 1° agosto 1919): quel che si sa di certo, e la sola cosa che vada ricordata come perenne insegnamento, è un'ulteriore conferma della funzione necessariamente controrivoluzionaria esercitata dalla socialdemocrazia in forme diverse a seconda delle circostanze.

Fallito il tentativo del governo di coalizione radicalborghese-socialdemocratico, formatosi nel novembre 1918 al crollo della monarchia asburgica, di difendere gli interessi nazionali ungheresi placando o reprimendo nello stesso tempo i movimenti sociali nelle città e nelle campagne, e posto di fronte all'ultimatum dei governi dell'Intesa per il ritiro dell'esercito a 50-80 km dal confine a favore della Romania, il presidente della neonata Repubblica popolare ungherese, conte Karoly, si era dimesso "cedendo il potere al proletariato dei Popoli d'Ungheria" e chiedendo aiuto al proletariato mondiale perché "giustizia fosse fatta". Lo stesso 21 marzo, i socialdemocratici magiari traevano dal gesto dittatoriale dell'Intesa la conclusione ad essi 'insolita' che a dittatura si può contrapporre soltanto dittatura, e offrivano ai comunisti, i cui maggiori esponenti avevano arrestato un mese prima, di unificare i due partiti e assumere congiuntamente 'tutto il potere' in nome dei Consigli dei delegati operai, contadini e dei soldati.

I comunisti ebbero l'ingenuità di stringere la mano tesa entrando a far parte in minoranza del nuovo governo dei Commissari del Popolo presieduto dal socialdemocratico Sandor Gabai, con Bela Kun al commissariato per gli esteri. Solo il 14 giugno un nuovo Consiglio composto in assoluta prevalenza da comunisti prenderà le redini del potere (ma in nome del Partito Socialista Comunista Unito!): troppo tardi comunque per impedire alle manovre interne dei socialdemocratici, ed esterne dei governi dell'Intesa, di sabotare le operazioni militari in Slovacchia prima e in Romania poi, e per rimediare alla mancata distruzione del vecchio esercito e della vecchia burocrazia imperiali. Che la "dittatura" si trovasse infine isolata anche nei confronti delle classi su cui nominalmente poggiava, ma che non vedevano sostanzialmente mutata la loro situazione, è comprensibile anche se doloroso: ma il fatto non è solo che i comunisti si erano essi stessi legati le mani accordandosi con i socialdemocratici e dando credito alla loro 'conversione', il che aveva ritardato o reso impossibili i necessari interventi radicali nell'economia, ma si erano esposti, del tutto indifesi, alle pugnalate nella schiena dei falsi amici interni e degli aperti nemici esterni. Così, sullo stesso terreno militare, quelle che erano state all'inizio fulgide vittorie si convertirono in gravi rovesci e infine in precipitose ritirate: il 1° agosto il Consiglio si dimetteva; il nuovo governo  socialdemocratico costituito il 6 agosto cederà il posto subito dopo a un governo interamente borghese e, il 20 dello stesso agosto, all'aperta dittatura dell'ammiraglio Horty. Sull'Ungheria si abbatterà un feroce, spietato terrore bianco: il terrore rosso, Budapest non l'aveva quasi neppur conosciuto...

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IL PERIODO DI TRANSIZIONE DAL CAPITALISMO AL SOCIALISMO È LA DISCIPLINATA E FERMA DITTATURA DELLA SOLA CLASSE PROLETARIA

 

Lenin, che aveva accolto con profonda inquietudine la notizia dell'accordo concluso il 21 marzo da Bela Kun con i socialdemocratici, ma aveva dovuto piegarsi di fronte al fatto compiuto sperando solo che i suoi timori fossero smentiti, indirizzò il 27 maggio agli operai ungheresi un vibrante Saluto che resta una delle pagine più alte da lui dedicate al tema della dittatura, e della sua necessità per il trionfo della lotta di emancipazione del proletariato. Non possiamo meglio commemorare l'anniversario della sfortunata Comune ungherese, che con il Saluto di Lenin, qui riprodotto per intero.

 

Saluto agli operai ungheresi

 

Compagni,

le notizie che riceviamo dai dirigenti dei Consigli ungheresi ci riempiono di entusiasmo e di gioia. In Ungheria da poco più di due mesi soltanto esiste il potere dei Consigli, ma nel campo dell'organizzazione il proletariato ungherese, a quanto pare, ci ha già sorpassati. Ciò è comprensibile perché in Ungheria il livello generale della cultura è superiore; inoltre il numero degli operai industriali in confronto a tutta la popolazione è infinitamente più alto (tre milioni a Budapest su otto milioni di abitanti dell'attuale Ungheria); infine il passaggio al sistema dei Consigli, alla dittatura del proletariato è stato in Ungheria incomparabilmente più facile e pacifico.

Quest'ultima circostanza è particolarmente importante. In Europa la maggioranza dei dirigenti socialisti, tanto della tendenza socialsciovinista quanto della tendenza kautskiana, educati da decenni di capitalismo relativamente "pacifico" e di parlamentarismo borghese, si sono talmente impantanati nei pregiudizi puramente piccoloborghesi, che non possono comprendere il potere sovietico e la dittatura del proletariato. Il proletariato non è in grado di compiere la sua missione storica mondiale di liberazione se non elimina dal suo cammino questi dirigenti, se non li spazza via. Costoro hanno creduto, interamente o a metà, alle menzogne borghesi sul potere sovietico in Russia e non hanno saputo distinguere il contenuto della democrazia nuova, proletaria, della democrazia per i lavoratori, della democrazia socialista, incarnata nel potere sovietico, dalla democrazia borghese, dinanzi alla quale essi s'inchinano servilmente chiamandola "democrazia pura" o "democrazia" senz'altro.

Questi uomini ciechi, imbevuti  di pregiudizi borghesi, non hanno compreso la svolta d'importanza storica mondiale dalla democrazia borghese alla democrazia proletaria, dalla dittatura borghese alla dittatura proletaria. Hanno confuso questa o quella particolarità del potere sovietico russo, dello sviluppo storico di questo potere, in Russia, col potere sovietico nel suo significato internazionale.

La rivoluzione proletaria ungherese aiuta anche i ciechi a recuperare la vista. In Ungheria la forma di transizione verso la dittatura del proletariato è assolutamente diversa da quella russa: dimissioni volontarie del governo borghese, ristabilimento immediato dell'unità della classe operaia, dell'unità del socialismo sulla base del programma comunista. L'essenza del potere sovietico si rivela oggi ancora più chiaramente: in nessuna parte del mondo è oggi possibile alcun altro potere. sostenuto dai lavoratori con il proletariato alla loro testa, che non sia il potere sovietico, che non sia la dittatura del proletariato.

Questa dittatura presuppone l'uso implacabilmente duro, rapido e deciso della violenza per schiacciare la resistenza degli sfruttatori, dei capitalisti, dei grandi proprietari fondiari e dei loro tirapiedi. Chi non l'ha capito, non è un rivoluzionario; deve essere cacciato dal posto di dirigente o di consigliere del proletariato.

Ma non la sola violenza, e neppure principalmente la violenza, è l'essenza della dittatura proletaria. La sua essenza fondamentale sta nell'organizzazione e nella disciplina del reparto più avanzato dei lavoratori, della loro avanguardia, del loro unico dirigente: il proletariato. Il suo scopo è di creare il socialismo, di eliminare la divisione della società in classi, di trasformare tutti i membri della società in lavoratori, di privare di ogni base qualsiasi sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Questo scopo non può essere raggiunto di colpo; esso esige un periodo abbastanza lungo di transizione dal capitalismo al socialismo, sia perché la riorganizzazione della produzione è cosa difficile, sia perché occorre del tempo per operare trasformazioni radicali in tutti i campi della vita, e infine perché la forza enorme dell'abitudine alla gestione piccoloborghese e borghese può essere vinta soltanto attraverso una lotta lunga e tenace. Ed è per questo che anche Marx parla di tutto un periodo di dittatura del proletariato, come periodo di transizione dal capitalismo al socialismo [K. Marx, Critica al programma di Gotha, 1875, NdR].

Nel corso di tutta quest'epoca di transizione si opporranno a questo rivolgimento tanto i capitalisti, insieme ai loro numerosi accoliti fra gli intellettuali borghesi, che resistono scientemente, quanto una immensa massa di lavoratori, contadini compresi, su cui pesano ancora troppo le abitudini e le tradizioni piccoloborghesi, che in generale resistono inconsciamente. I tentennamenti di questi strati sono inevitabili. Come lavoratore, il contandino tende veros il socialismo, preferendo la dittatura degli operai alla dittatura della borghesia. Come venditore di grano, il contadino tende verso la borghesia, verso la libertà di commercio, cioè tende verso il passato, verso il capitalismo "abituale", "tradizionale".

La dittatura del proletariato, il potere di una sola classe, la forza della sua organizzazione e della sua disciplina, il suo potere centralizzato, che si appoggia su tutte le conquiste della cultura, della scienza, della tecnica del capitalismo, la sua proletaria familiarità con la mentalità di ogni lavoratore, la sua autorità di fronte al lavoratore della campagna o al piccolo produttore, dispersi, meno evoluti, meno fermi in politica: questo è necessario perché il proletariato possa guidare i contadini e tutti gli strati piccoloborghesi in generale.

Tutte le chiacchiere sulla "democrazia" in generale, sull'"unità", oppure sull'"unità della democrazia del lavoro", sull' "eguaglianza" di tutti "gli uomini del lavoro", ecc. ecc., tutte queste chiacchiere alle quali si abbandonano così facilmente i socialsciovinisti imborghesiti e i kautskiani, qui non servono a nulla. Gettano solo polvere negli occhi, accecano la coscienza, perpetuano la vecchia ignoranza, l'inerzia, l'abitudinarismo del capitalismo, del parlamentarismo, della democrazia borghese.

L'abolizione delle classi è il risultato di una lotta di classe lunga, difficile, ostinata, che dopo l'abbattimento del potere del capitale, dopo la distruzione dello Stato borghese, dopo l'instaurazione della dittatura del proletariato non scompare (come s'immaginano i rappresentanti volgari del vecchio socialismo e della vecchia socialdemocrazia), ma cambia soltanto le sue forme, diventando sotto molti aspetti ancora più accanita.

E' nella lotta di classe contro la resistenza della borghesia, contro l'inerzia, l'abitudinarismo, l'indecisione, i tentennamenti della piccola borghesia che il proletariato deve affermare il proprio potere, rafforzare la sua influenza organizzatrice, realizzare la "neutralizzazione" degli strati che temono di staccarsi dalla borghesia e seguono il proletariato in modo troppo incerto; deve consolidare la nuova disciplina, la disciplina fraterna dei lavoratori, il durevole legame dei lavoratori con il proletariato, il loro raggruppamento intorno al proletariato, questa nuova disciplina, che è la nuova base dei rapporti sociali e che deve sostituire la disciplina della servitù della gleba, la disciplina della fame, della "libera" schiavitù salariata sotto il capitalismo.

Per abolire le classi è necessario un periodo di dittatura di una sola classe, e precisamente di quella fra le classi oppresse che è in grado non soltanto di rovesciare gli sfruttatori, non soltanto di schiacciare implacabilmente la loro resistenza, ma di rompere spiritualmente con tutta l'ideologia democratica borghese, con tutto il vaniloquio piccoloborghese sulla libertà e l'eguaglianza in generale (di fatto, come da tempo dimostrato da Marx, questo vaniloquio significa "libertà ed eguaglianza" dei proprietari di merci, "libertà ed eguaglianza" del capitalista e dell'operaio).

E non basta. Fra le classi oppresse, è in grado di abolire le classi con la propria dittatura solo quella che è stata istruita, unita, educata, temprata da decenni di lotta economica e politica contro il capitale; soltanto quella classe che ha assimilato tutta la civiltà urbana, industriale, la civiltà della grande produzione capitalistica, che ha la risolutezza e la capacità di difenderla, di conservarla, e di sviluppare ancor più tutte le sue conquiste, di renderle accessibili a tutto il popolo, a tutti i lavoratori; soltanto quella classe che saprà sopportare tutto il peso, le prove, le avversità, i grandi sacrifici che la storia inevitabilmente impone a colui che rompe col passato e si apre audacemente una strada verso un nuovo avvenire; soltanto quella classe nella quale gli uomini migliori sono pieni di odio e di disprezzo verso tutto ciò che è piccolo-borghese e filisteo, verso quelle qualità tanto fiorenti fra la piccola borghesia, i piccoli impiegati, gli "intellettuali"; soltanto quella classe che si è "temprata alla scuola del lavoro" e che sa ispirare rispetto, per la sua capacità di lavorare, a ogni lavoratore, a ogni persona onesta.

 

Compagni operai ungheresi

voi avete dato al mondo un esempio ancor migliore di quello della Russia sovietica, perché avete saputo unire subito, sulla piattaforma della vera dittatura proletaria, tutti i socialisti. Vi attende ora il compito più meritorio e più difficile: resistere alla dura guerra contro l'Intesa. Siate fermi! Se ci saranno tentennamenti fra i socialisti che ieri si sono uniti a voi, alla dittatura del proletariato, oppure fra la piccola borghesia, reprimete implacabilmente questi tentennamenti. La fucilazione: ecco la giusta sorte del vile in guerra.

Voi fate l'unica guerra legittima, giusta, veramente rivoluzionaria, la guerra degli oppressi contro gli oppressori, la guerra dei lavoratori contro gli sfruttatori, la guerra per la vittoria del socialismo. In tutto il mondo, tutto quanto c'è di onesto nella classe operaia è dalla vostra parte. Ogni mese avvicina la rivoluzione proletaria mondiale.

Siate risoluti! La vittoria sarà vostra!

 

Lenin  27-V-1919

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Vogliamo, a questo punto, richiamare l'attenzione dei lettori su due articoli apparsi ne Il Soviet, del febbraio e del marzo 1919  nel primo dei quali (Il bolscevismo, pianta d'ogni clima) si rivendicava il bolscevismo come fenomeno internazionale e non russo, come volevano gli opportunisti di allora, padri del successivo stalinismo che ridusse il processo storico dell'Ottobre 1917 ad un fatto locale della nazione; nel secondo (La marea rossa) salutava con entusiasmo la proclamata dittatura proletaria anche in Ungheria. La ignobile stampa borghese - si legge nel cappello alla riproduzione del secondo articolo nella Storia della Sinistra comunista, vol. I - nel suo smarrimento cercava di falsare il gioco e negava che fosse scoppiata una vera rivoluzione pretendendo che il conte Karolyi, il capo del governo ungherese, avesse senza lotta ceduto il potere ai rossi di Bela Kun. Il Soviet sostiene che non si tratta di una commedia, ma di una vera rivoluzione con tutti i più tremendi caratteri.

Nell'articolo Il bolscevismo, pianta d'ogni clima, si respingeva la tesi secondo cui bolscevismo russo e socialismo fossero due cose ben diverse e che la fondazione de Il Soviet "dimostrava" che anche in Italia il bolscevismo aveva attecchito, naturalmente "contro" il socialismo; si sosteneva invece che:

"Bolscevismo e socialismo sono la stessa cosa, e che per combattere il pregiudizio patriottico e il sofisma della difesa nazionale noi non abbiamo atteso che Lenin e i bolscevichi, nostri compagni di fede e di tendenza da lunghi anni, riuscissero a trionfare in Russia; e anche senza il loro glorioso e luminoso esempio, il giorno che le vicende storiche ci avessero portato alla vittoria, avremmo fatto come loro hanno fatto. Appunto perché noi ed essi lavorammo e lavoriamo per lo stesso programma, per la lotta di classe che nega la solidarietà nazionale, per il socialismo rivoluzionario, per la conquista del potere e per la dittatura dei lavoratori, dei senza-patria.

"Perché questa dottrina e questo metodo non furono improvvisati nel 1917, su commissione del Kaiser, come solo l'incommensurabile asinità dei professori di discipline sociologiche poté credere, ma fin dal 1847 erano stati proclamati dall'Internazionale Socialista; e noi che, come l'ala sinistra dei socialdemocratici russi, siamo stati e siamo contro tutte le posteriori revisioni del marxismo, a quel programma ci siamo ispirati, anche quando l'idiozia avversaria ci ha attribuito finalità e complicità coi turchi, o col papa, o coi tedeschi.

"Il bolscevismo vive in Italia, e non come articolo d'importazione, perché il socialismo vive e lotta ovunque vi sono sfruttati che tendono alla propria emancipazione.

"In Russia esso ha fatto la sua prima grandiosa affermazione, e noi, ritrovando negli svolgimenti formidabili della rivoluzione russa intero il nostro programma, abbiamo scritta in testa a queste colonne la magica parola slava: SOVIET, assurta a simbolo della Rivoluzione internazionale.

"E che la sua luce accechi e confonda sempre più i logori arnesi intellettuali della difensiva capitalistica!".

Il secondo articolo, La marea rossa, dedicato specificamente alla rivoluzione ungherese, è netta la rivendicazione fondamentale della conquista del potere e dell'instaurazione della dittatura proletaria, rivendicazione che distingue decisamente i comunisti rivoluzionari da tutti i socialisti "a metà" - come li chiamò Lenin -  e gli opportunisti socialdemocratici e kautskiani. L'andata al potere dei comunisti, in Ungheria, avvenne con un passaggio pacifico del potere dalle mani borghesi alle mani socialdemocratiche e comuniste, e ciò venne rappresentato dalla stampa borghese come una commedia. Nella realtà storica, la lotta di classe divampata in Ungheria (e in Germania, in Polonia, in Austria, in Italia, in Francia) come conseguenza della grande guerra imperialista - e che in Russia, già durante la guerra, nel 1917, si sviluppò nella doppia rivoluzione del febbraio, come rivoluzione politicamente borghese, e nell'ottobre, come rivoluzione politicamente proletaria - aveva contribuito ad indebolire la borghesia che ereditò il potere dalla monarchia asburgica ormai sconfitta e decotta, ma che non riuscì a organizzare rapidamente il proprio potere.

Sotto la pressione della lotta proletaria, disorientata, giocò una carta che nessuno s'aspettava, quella del passaggio pacifico dei poteri ai partiti che avevano un'effettiva influenza sul proletariato, il socialdemocratico e il comunista. Era il 21 marzo 1919, e Il Soviet del 30 marzo 1919 pubblica il suo articolo che subì, sebbene in pieno regime democratico, una vigliacca censura che ne cancellò la conclusione. Ma il contenuto della parte pubblicata non può essere frainteso, e resta in piedi l'entusiasta saluto che i comunisti italiani mandarono ai proletari ungheresi. 

 

La marea rossa

 

Inattesa e fulminea giunge la notizia di un'altra vittoria della Rivoluzione mondiale: in Ungheria il governo borghese del conte Karolyi cede il potere al proletariato massimalista, che instaura il regime dei Soviet e si mette in diretta comunicazione coi compagni di Russia.

L'Intesa vincitrice perde il controllo della situazione, non solo non può più dirigerla ma nemmeno comprenderla; e quanto essa compie per conseguire un dato effetto, produce l'effetto precisamente opposto.

La storia non registra forse esempio di situazione così difficile e sgradita per il vincitore di una lunga e terribile guerra.

La borghesia occidentale sente la nostalgia di un avversario tradizionale quale era la borghesia degli Imperi centrali, che si poteva costringere a battaglia militare e battere secondo le vecchie regole e le antiche risorse della grande politica.

Ma, dopo la clamorosa vittoria, l'avversario, il vinto, si è dileguato, e al suo posto si leva arbitro del mondo, giudice terribile del vinto e del vincitore, il socialismo mondiale.

Nuovo e tremendo avversario, le cui prime minacce si credette disperdere con la guerra e che ora risorge temprato e inesorabile dai campi dilaniati dalla strage.

Mentre lo si vuole abbattere o almeno costringere nella Russia ove già trionfa, esso supera i fronti militari territoriali, traversa i cordoni sanitari e dilaga magnifico, irresistibile, per questa vecchia Europa sanguinosa.

I governi, la stampa della borghesia - pervasi dalla stessa aria incosciente che condusse l'imperialismo germanico al suicidio di Brest-Litovsk - smarriti e perplessi dinanzi alla grandiosità degli avvenimenti, risuscitano con la fantasia l'avversario antico di cui rimpiangono la mancanza, e cercano di far credere che il cammino della Rivoluzione sia... una commedia, ad uso e consumo di quell'imperialismo austro-tedesco-magiaro che ormai più non esiste.

Una commedia! Già le notizie posteriori mostrano che la guerra di classe è in pieno sviluppo e il gesto di Karolyi non l'ha scongiurata, come non poteva indurre la borghesia capitalistica e terriera ad accettare tranquillamente la dittatura espropriatrice del proletariato.

Per la stampa borghese tutto è una commedia. Essa non vuol vedere la storia. L'enorme ingranaggio della Rivoluzione Russa era per lei mosso dall'oro di Berlino. La Rivoluzione Ungherese, la lotta terribile tra Spartaco e i social-kaiseristi di ieri è per essa un trucco artificiale delle oscure potenze che congiurano contro la pacifica celebrazione retorica e sbafatoria del trionfo bellico per il quale lor signori hanno versato tanto... inchiostro.

La Nemesi storica si vendica così della borghesia. Quando essa uscì trionfante dalla grande Rivoluzione francese e i suoi principi sovvertitori si spandevano per il mondo, invano le classi aristocratiche e feudali inorridirono e imprecarono, invocarono i fulmini del loro Dio spodestato, e male dissero all'opera diabolica della giovane borghesia volterriana spregiudicata e iconoclasta.

Oggi il ciclo storico della borghesia si chiude sotto i nostri occhi, come lo vide chiudersi il vaticinio formidabile di Carlo Marx. Dinanzi alle nuove potenze della Rivoluzione proletaria socialista la classe borghese sente tremare le ragioni del suo dominio e indietreggia smarrita. Il suo giovane senso della storia che ne faceva centotrenta anni addietro una forza di propulsione della società si cambia nel balbettamento degli organismi decrepiti. No, non è la Rivoluzione, è una commedia! Anche Maria Antonietta e Luigi XVI sorridevano incoscienti al passaggio delle urlanti colonne dei sanculotti!

Ma la storia non si esorcizza. Non la esorcizzarono i preti della Santa Alleanza, non la esorcizzeranno i sacerdoti della Plutocrazia borghese.

[Censura]

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Purtroppo, come si è detto, le grandi speranze sollevate in tutto il mondo dalla rivoluzione ungherese non si realizzarono: il crollo del regime sovietico a Budapest fu anzi preceduto da quello dell'effimera Repubblica dei Consigli a Monaco il 2 maggio e da un fallito putsch a Vienna il 15 giugno. Troppo pesava su tutta l'Europa, non solo centrale, il ritardo nella formazione e nell'intervento attivo del partito rivoluzionario: generose nel loro slancio, eroiche fino al sacrificio, le masse proletarie erano tuttavia condannate a battersi senza una guida sicura o, peggio, ad essere tradite dai loro falsi pastori riformisti, pronti a far leva sulle incertezze e sulle immaturità delle nuove leve comuniste.

Il Soviet, organo della nostra Frazione astensionista, non esitò un attimo a tirarne le lezioni per la classe operaia italiana e di tutto il mondo in un articolo di Amadeo Bordiga intitolato La restaurazione borghese in Ungheria e apparso nel nr. 33 del 10.8.1919, che di seguito  riproduciamo (4).

La notizia della grave sconfitta dopo pochi mesi non scuote la convinzione dei comunisti rivoluzionari, ed il commento de Il Soviet si riporta all'argomento che fu oggetto di un telegramma di Lenin a Budapest, e che sarà ricordato nella discussione al Congresso del PSI a Bologna nell'ottobre successivo, dove la sola Sinistra comunista sentiva l'urgenza di rompere in modo definitivo con i riformisti e con tutti i falsi sinistri, condannando irrevocabilmente il metodo socialdemocratico che non solo era ed è il metodo della "pacifica conquista" del potere, ma si dimostrò a Berlino, a Monaco, a Budapest il metodo della violenza antiproletaria.

I comunisti ungheresi commisero l'errore di ammettere nel governo sovietico il Partito Socialdemocratico, anziché annientarlo come i russi avevano fatto. Questo tragico esempio conferma come sia rovinosa l'illusione di cercare maggiore forza nelle alleanze e nella pretesa unità proletaria, mentre sono la scissione, la rottura e la lotta contro i partiti degeneri, che sole possono salvare la rivoluzione.

 

La restaurazione borghese in Ungheria

 

L'Intesa può bene essere soddisfatta, e cantare vittoria. Il regime comunista in Ungheria è caduto dopo cinque mesi di vita. La piccola fiamma rossa che il proletariato aveva acceso nel bel mezzo d'Europa accanto alla immensa face che splende luminosa nel suo estremo orientale è spenta.

Il travolgente pericolo bolscevico non incombe più.

La rivoluzione è arrestata. Noi già avvertivamo in un precedente articolo questo procedere del moto rivoluzionario che non segue un corso regolare di costante progressione, ma che va avanti a sbalzi, si arresta e può anche momentaneamente rinculare per riprendere poi una rapida andatura. Se consideriamo lo stato attuale del movimento rivoluzionario in raffronto a quello di pochi mesi addietro dobbiamo riconoscere che esso è non solo fermato, ma in ritirata.

La caduta del regime comunista, oltre ad essere di per sé un indizio di questo cedere terreno, avrà la sua ripercussione sfavorevole e dannosa su tutto il movimento.

Tutti i fanatici dell'azione, tutti i sentimentali, tutti quelli che seguono le facili illusioni di trionfi improvvisi e che solo per questo si gettano nel vortice rivoluzionario, si ritrarranno sconfortati.

Tutti i tiepidi che molto a denti stretti si mostravano amici sinceri del regime bolscevico pel solo fatto che esso trionfava progressivamente, ora parleranno a bocca bene aperta e ne trarranno ben diverso linguaggio. Ci libereremo forse dei massimalisti della centesima ora, e sarà un gran bene.

La borghesia cercherà di trarre il massimo profitto da questa sua ripresa di energia e dalla vittoria.

I suoi vari governi, mentre continueranno a mentire sfacciatamente e a velare con ipocrite frasi il vero, insisteranno nell'azione contro la Russia rivoluzionaria.

Non è improbabile che alcuno di essi si faccia animo fino a confessare apertamente il proprio programma di strozzamento del regime comunista russo. Già infatti il tono del linguaggio degli uomini di governo inglesi e francesi è più forte e più esplicito. Ciò non deve e non può sorprendere se si pensi alla gravità del duello che la borghesia combatte ed in cui essa ha piena coscienza di giocare la sua esistenza. Se le potesse riuscire di spazzare via anche il regime russo, non avrebbe per questo chiuso la partita, che rimarrebbe sempre aperta fino a che essa non fosse sconfitta, ma certo allontanerebbe questa ora fatale.

Noi che, avendo piena e sicura fede nel nostro ideale che non può non trionfare, possiamo appunto per questo seguire con serenità gli avvenimenti che si svolgono, dobbiamo cercare di trarre da essi quegli insegnamenti che possono essere utili a guidarci nelle lotte, che in un prossimo domani dovremo ingaggiare.

Soprattutto dobbiamo trarre insegnamenti dalle sconfitte per riconoscerne le cause e scorgere in esse i possibili errori commessi da evitare.

Per quanto scarse siano le notizie sulle vere condizioni in cui si è effettuato ed è vissuto il governo comunista in Ungheria, sembra certo che, a differenza da quanto è stato praticato in Russia, nella quale i comunisti hanno agito da soli combattendo contro ogni altro partito, specie per modo di dire affine, ivi vi è stato accordo tra comunisti e socialisti democratici.

Qualche cosa di analogo si verificò in Baviera, in cui il governo risultò di coalizione tra i gruppi socialisti più avanzati ed i comunisti, ossia spartachiani.

Questa coalizione, anziché dare forza al governo dando ad esso un più largo appoggio nelle classi popolari, è stata la grande debolezza in quanto l'attuazione del programma e la soffocazione dei movimenti avversari non sono state praticate con quella decisione indispensabile nell'ora difficile.

La dittatura del proletariato ha funzionato male proprio perché non tutti coloro che erano chiamati a questo funzionamento, erano decisi partigiani di essa.

I socialisti democratici, da non confondersi coi comunisti e bolscevichi, ovunque o sono stati fin dall'inizio a questi contrari o si sono alleati alla borghesia, o peggio ancora, quando si sono alleati ai comunisti, li hanno costantemente traditi. Ciò tanto in Baviera quanto in Ungheria.

Non altrimenti si può comprendere come ritiratisi quivi i comunisti siano rimasti a capo del governo ungherese i socialisti e proprio quelle persone che erano al governo insieme ai comunisti, e che, mentre l'Intesa ha con tutte le sue forze combattuto questi, ha riconosciuto il governo successivo, salvo crearne dopo uno tutto borghese.

Evidentemente l'accordo coll'Intesa è avvenuto non dopo l'uscita dei comunisti, ma preesisteva ed è servito a preparare la caduta di quelli. Che cosa è questo se non un tradimento operato nel seno dello stesso governo? Tradimento non so se dovuto a qualità personali degli uomini che lo hanno compiuto, ma certo conseguenza di una profonda diversità di programma.

Il nuovo governo socialista rivoluzionario ungherese, composto in parte di individui che facevano parte del precedente governo comunista senza pur essere tali, ha per primo suo atto deciso il ripristino della proprietà privata che l'altro aveva dichiarato di voler abolire.

Quanto è avvenuto in questi paesi ove si è verificata una rivoluzione proletaria, deve servire di ammaestramento.

La profonda diversità di programma tra comunisti e ogni altra gradazione di socialisti (usurpatori di tal nome) non consente un'azione comune.

I comunisti hanno una meta chiara che indica loro un metodo chiaro, che essi soli possono seguire perché scaturisce dal fine da raggiungere. Essi non possono che praticare la intransigenza più assoluta, quella che un avversario in malafede quale l'on. Labriola chiama settaria - in mala fede non perché egli sia convinto del contrario, ma perché questa qualifica serve a lui per gettare nella classe operaia il discredito sul metodo e sulle persone che lo seguono.

Debbono respingere ogni alleanza che sarebbe perniciosa, e battere da soli la strada maestra che dovrà condurli alla vittoria, che non consiste nei facili ed effimeri successi, ma nell'integrale e razionale realizzazione del loro programma organico.

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In un articolo precedente, pubblicato sempre ne Il Soviet, il 27 luglio 1919, intitolato Chi non è con noi è contro di noi (5), e riferito allo sciopero generale internazionale in sostegno della Russia e dell'Ungheria rivoluzionarie, si attaccano i socialisti inglesi e francesi che lo sabotarono. E' aspra la critica non solo ai socialisti inglesi e francesi - d'altra parte facevano parte della Seconda Internazionale che fallì vergognosamente di fronte alla guerra imperialista del 1914-1918 - ma anche alla direzione del PSI che, nell'illusione di realizzare un'azione comune anche con quei partiti, pensava di "rafforzare" il movimento operaio internazionale scendendo a compromessi con i riformisti, mentre in realtà lo indeboliva. Lo sciopero vide in ogni caso una grande partecipazione in Italia, in Austria, in Germania, ma la Sinistra comunista d'Italia ribadì comunque, anche con questo articolo, la necessità che ovunque le forze rivoluzionarie si dovevano tenere ben separate dai socialdemocratici di ogni paese, perché questi operano da traditori della causa rivoluzionaria, e non da sostenitori, come gli esempi dei socialisti rivoluzionari in Russia, e dei socialdemocratici in Baviera e in Ungheria dimostravano ampiamente. Il breve articolo citato, infatti, chiude così:

"In conclusione, abbiamo oggi un valido argomento di più a favore del vero metodo intransigente, e quando d'ora innanzi cercheremo all'estero degli alleati, li cercheremo tra i lavoratori comunisti aderenti con noi alla III Internazionale, e mai al di fuori di questo campo.

"Chi non è con noi è contro di noi!

"Con una bussola tanto sicura, non bisognava smarrirsi!".

 

Perché in Ungheria i comunisti non si tennero ben separati dai socialdemocratici e non condussero una serrata lotta sia ideologica che politica e pratica contro di loro, ma, al contrario, accettarono la loro offerta di partecipare ad un governo che la borghesia, finita la guerra imperialista e caduto l'assolutismo asburgico, non ebbe la forza di formare al momento, mostrandosi disorganizzata e incapace e decidendo, quindi - per non perdere l'occasione storica di gestire, da dietro le quinte, il potere non solo economico ma anche politico -, di cedere le redini del governo all'unica forza che aveva effettiva influenza sul proletariato e sui contadini poveri, il Partito Socialdemocratico (PSDU). Ma questo partito non poteva non considerare la possibilità che i comunisti di Béla Kun, appoggiati dalla Russia sovietica, avrebbero costituito una pericolosa spina nel fianco, anche se come partito si era costituito da pochi mesi, nel novembre del 1918, e non aveva ancora un'influenza determinante sul proletariato e sulle masse contadine ungheresi. 

Le lotte sociali che si stavano sviluppando in Ungheria già dalla fine della guerra, con l'organizzazione nelle città dei primi soviet sull'esempio russo, la caduta della monarchia imperiale asburgica e la debolezza politica della classe borghese ungherese (il suo maggior rappresentante, campione dell'indipendenza ungherese da Vienna e del riformismo borghese era in realtà un aristocratico, il conte Karolyi), unite all'ondata di simpatia che la vittoriosa rivoluzione socialista d'Ottobre faceva emergere in tutto il proletariato europeo, costituivano il terreno oggettivamente favorevole al movimento proletario rivoluzionario anche in Ungheria. Il governo Karolyi si trovò a malpartito nel giro di pochissimi mesi, in particolare quando il 20 marzo 1919 gli imperialisti dell'Intesa, su sollecitazione del presidente del consiglio francese Clemenceau, imposero al governo magiaro la creazione di un ampio corridoio nella parte orientale del paese sotto il controllo diretto dell'Intesa, allo scopo di impedire una eventuale saldatura fra l'esercito ungherese con l'Armata rossa, e di consegnare alla Romania quesgli stessi territori coinvolgendola in questo modo in un'offensiva antiungherese e antibolscevica allo stesso tempo. Contro questa vera e propria occupazione militare di una parte dell'Ungheria scoppiarono manifestazioni anche violente a Budapest e in altre città, di fronte alle quali il governo Karolyi, non avendo la forza di opporsi all'Intesa, né intendeva sottomettersi ai diktat delle potenze imperialiste, preferì dimettersi e consegnare il potere governativo ai socialdemocratici che già lo appoggiavano fin dall'inizio.

Béla Kun e gli altri dirigenti del partito comunista, rientrati dalla Russia in novembre in Ungheria - dove dal 1916 erano finiti prigionieri insieme a mezzo milione di soldati ungheresi, e dall'Ottobre 1917, liberati, si unirono nella rivoluzione bolscevica - erano stati incarcerati dopo che alcuni poliziotti furono uccisi durante una manifestazione operaia di strada. Ed è in carcere che gli inviati del partito socialdemocratico andarono a consultare Béla Kun offrendogli la partecipazione al governo, contando sul fatto che anche i comunisti ungheresi - in un certo senso, come in Russia - avrebbero lottato per l'indipendenza dell'Ungheria; avrebbero, inoltre, consentito al governo ungherese di appoggiarsi alla Russia sovietica che all'epoca era l'unica forza che si opponeva decisamente alle forze imperialiste dell'Intesa e, naturalmente, all'impero tedesco che, pur sconfitto nella guerra mondiale, manteneva ancora attraverso gli ufficiali dell'esercito e i proprietari terrieri un'influenza non secondaria su tutti i paesi dell'Est Europa, dalla Cecoslovacchia, all'Austria, dall'Ungheria alla Bulgaria alla Romania.

Béla Kun e gli altri dirigenti comunisti accettano di entrare nel governo coi socialdemocratici e accettano perfino la fusione coi socialdemocratici del PSDU, costituendo il Partito Socialista d'Ungheria, decretando in questo modo il loro errore più grave. Errore che al momento non apparve così grave, ma solo determinato da un compromesso ritenuto necessario per la particolare situazione che si era creata in Ungheria. I comunisti, infatti, andavano al potere senza insurrezione violenta e abbattimento violento del potere borghese, imponendo addirittura ai socialdemocratici condizioni che mai avrebbero accettato né in Ungheria né in qualsiasi altro paese: proclamazione della Repubblica sovietica ungherese, chiamata Repubblica dei Consigli operai, soldati e contadini poveri; proclamazione del diritto all'autodeterminazione per le minoranze interne e l'unione dei popoli liberati sotto forma di una federazione socialista; disarmo della borghesia, organizzazione dell'Esercito Rosso e della milizia popolare; nazionalizzazione di tutte le aziende industriali con più di 20 operai, delle banche, dei trasporti, dei mezzi di comunicazione, del commercio estero e di quello all'ingrosso; confisca, senza indennizzo, delle terre la cui superficie superasse i 100 holds (1 hold = 0,57 ha) appartenenti ai proprietari terrieri, sia laici che ecclesiastici, e la loro gestione nella forma della collettivizzazione; separazione di Stato e Chiesa, e di Chiesa e scuola; miglioramento generale delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori; alleanza strategica con la Russia sovietica (6). Questo, in sintesi, il programma che i comunisti ungheresi "imposero" ai socialdemocratici a fronte della loro partecipazione al governo, allo scioglimento del loro partito e alla fusione coi socialdemocratici in un unico partito.

Quel che appariva come un'occasione storica favorevole al movimento rivoluzionario ungherese, e al movimento rivoluzionario mondiale, con la creazione di una seconda Repubblica socialista dopo quella russa, perdipiù nel cuore dell'Europa, si doveva in realtà dimostrare una tragica illusione. Sulla carta, i socialdemocratici avevano accettato tutto il programma e la corrispondente simbologia: proclamazione della dittatura del proletariato, della nazionalizzazione dell'industria, delle terre e delle banche, e pure il disarmo della borghesia. Ma nei fatti, quel programma, pur attuato in diverse sue parti, si dimostrò talmente fragile da essere spazzato via dopo soli 133 giorni di governo comunista. Persa l'indipendenza organizzativa, tattica e politica del partito, i comunisti dipendevano inevitabilmente dalla situazione economica e sociale determinata dalla guerra mondiale e dalle sue conseguenze e, soprattutto, si erano resi obiettivamente complici dei socialdemocratici del fallimento del movimento rivoluzionario in Ungheria.

Béla Kun, in un'intervista al corrispondente della rivista americana "Liberator", nel marzo 1920, alla domanda: Perché vi siete alleati, all'inizio della rivoluzione, con i socialdemocratici non rivoluzionari?, rispose:

"Bisognava tener presente che il nostro partito era piccolo e non avrebbe potuto compiere la rivoluzione da solo. D'altra parte, noi non accordammo alcuna concessione ai socialdemocratici; furono loro ad accettare il programma bolscevico. Speravamo di eliminare, una volta avvenuta la fusione, i loro elementi più conservatori. Alcuni, in effetti, abbandonarono il partito, ma altri, rispettando in apparenza le idee comuniste, ci attaccavano alle spalle, rivelandosi peggiori dei controrivoluzionari, i quali almeno agivano apertamente. In realtà, quelli che all'inizio si mostrarono sostenitori della dittatura e del comunismo furono coloro che ne provocarono la caduta. (...) Questi socialdemocratici - e lo dicono essi stessi, d'altra parte, oggi - si sono prestati alla creazione del sistema dei Consigli solo per fini nazionalistici e per difendere il territorio. Quando il tanto idolatrato programma di Wilson non consentì loro di salvaguardare la 'integrità territoriale', essi cercarono di fare la stessa cosa sulla base del programma bolscevico. Noi comunisti, invece, ci attenemmo allo spirito del programma non tanto per salvaguardare le frontiere dell'Ungheria, quanto per favorire la rivoluzione internazionale. (...)" (7).

Non c'era dubbio che Béla Kun e i comunisti ungheresi volessero favorire la rivoluzione internazionale, ma la tattica adottata fu, drammaticamente, la tattica sbagliata, già tentata in Baviera e fallita. L'impazienza rivoluzionaria, basata su fattori materiali reali costituiti dalla situazione economica e sociale ungherese oggettivamente favorevole, non tenne conto del fattore soggettivo, il partito di classe, che in Ungheria, sebbene si fosse fondato sul programma bolscevico e sull'esperienza che Béla Kun e altri dirigenti comunisti ebbero personalmente partecipando attivamente alla rivoluzione d'Ottobre e al primo anno di vita della Repubblica sovietica russa, non ebbe la possibilità reale di farsi le ossa sulla lotta intransigente contro la socialdemocrazia, contro le illusioni democratiche, e sull'esperienza pratica prolungata nelle lotte operaie, fianco a fianco con gli operai. Come affermerà Lenin, la rivoluzione istruisce, certamente, ma anche la rivoluzione deve essere "istruita", guidata, dal partito di classe poiché, se il peso delle decisioni rivoluzionarie si sposta soprattutto sulle masse e sul loro movimento, il partito rischia di accodarsi alle masse, rischia di cercare la forza dirigente che ancora non ha in altre forze politiche più influenti di lui sulle masse. Ed è quel che avvenne in Ungheria.

Béla Kun, alla domanda fatidica se la rivoluzione scatenata in Ungheria fosse stata prematura, dà una risposta che per certi versi è corretta ma per altri esprime quell'impazienza di cui abbiamo appena parlato. Egli, infatti, afferma:

"Questa rivoluzione non è stata prematura; al contrario, è stata una necessità economica. L'Ungheria è molto più matura per il comunismo di qualsiasi altro paese al mondo", e qui la sopravalutazione della situazione è evidente, anche se è vero, come afferma Béla Kun, poco più avanti: "dopo la disintegrazione della monarchia austro-ungarica, era il proletariato ungherese ad essere il più organizzato, mentre la borghesia era incapace di far fronte alla volontà della classe operaia". Non si dà, però, il giusto peso al fatto che il proletariato industriale ungherese era sì per la maggioranza organizzato nei sindacati, ma che i sindacati erano diretti dai socialdemocratici e gestiti non certo in funzione della rivoluzione, ma in funzione della ricostruzione postbellica della nazione secondo le prospettive borghesi; inoltre, l'iscrizione al sindacato conteneva automaticamente l'iscrizione al Partito Socialdemocratico, anche per gli operai che non erano socialdemocratici, cosa che gonfiava numericamente il numero degli iscritti al partito, ma non ne determinava una effettiva forza. Il proletariato, d'altra parte, era concentrato soprattutto a Budapest, e questo, in un certo senso, isolava la capitale dal resto del paese agrario e contadino, un po' come Parigi all'epoca della Comune.

Il Partito Comunista, il cui gruppo dirigente si era formato, durante la guerra, in Russia tra i prigionieri di guerra ungheresi, non nacque da una scissione all'interno del Partito Socialdemocratico e, quindi, da una prolungata lotta ideologica e pratica al suo interno, ma dal piccolo gruppo di militanti che, pur avendo ricevuto una formazione politica direttamente dai bolscevichi durante la rivoluzione russa, non potevano contare su una lotta radicatasi nelle file proletarie ungheresi. Per quanto la vittoria della rivoluzione proletaria in Russia influenzasse positivamente le masse proletarie europee, non si poteva certo pensare che bastasse far leva sulle gravi condizioni di vita dei proletari e, soprattutto, dei contadini poveri in guerra e nell'immediato dopoguerra per riuscire a strappare dai loro cuori e dalle loro menti le idee patriottiche, nazionaliste, piccoloborghesi prodotte dal vento democratico che soffiava sulla caduta della monarchia asburgica e dall'ambizione contadina di possedere un pezzo di terra.

A Béla Kun e compagni, l'offerta dei socialdemocratici per un'alleanza di governo sembrò una debolezza borghese di cui approfittare, un'occasione da non perdere, persa la quale si sarebbe perso il "treno della rivoluzione" in Ungheria e in Europa, anche se i socialdemocratici venivano chiaramente assimiliati ai carnefici Sheidemann e Noske che trucidarono Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. "Scheidemann e i suoi accoliti hanno realizzato la pacificazione tra le classi all'inizio della guerra - scrive Béla Kun nell'ottobre 1918 (8) - in un momento in cui il militarismo era fortissimo. Il PSDU vuole invece, anima e corpo, vendere la classe operaia e la rivoluzione proprio nell'ora in cui il militarismo austro-ungarico è crollato (ma non per merito di questo partito). Questo partito si degrada e cade ancora più in basso della cricca degli Scheidemann". Ma è proprio con questo partito che concorderà la partecipazione al governo; un partito che continuerà a lavorare contro la rivoluzione, e contro i comunisti ungheresi, mentre a parole aveva accettato il programma "bolscevico", e che  lascerà il governo ai comunisti, quando la situazione politica, sociale e militare sarà ormai del tutto compromessa. Le effimere vittorie militari in Slovacchia, dove si tenterà di instaurare anche lì una Repubblica sovietica, verranno cancellate rapidamente dagli attacchi dell'esercito romeno, fortemente sostenuto dalla Francia, mentre l'Armata Rossa che tentava l'aggancio con l'Esercito "Rosso" ungherese veniva bloccata dalle Guardie Bianche di Denikin in Ucraina. L'esercito ungherese tentò di fermare l'offensiva romena, ma il tradimento dello stato maggiore ungherese portò alla sua sconfitta sul fiume Tibisco. Il governo "comunista" ormai era alle strette.

Il 1° agosto 1919 i socialdemocratici ottennero le dimissioni del governo di Béla Kun, sostituendolo con un governo cosiddetto "sindacalista"che sciolse immediatamente l'Esercito "rosso", revocò la nazionalizzazione delle banche e delle aziende industriali e liquidò tutte le misure che nel frattempo il governo rivoluzionario era riuscito ad avviare (giornata lavorativa di 8 ore, laicizzazione della scuola, nazionalizzazione delle aziende agrarie superiori ai 55 ettari ecc.). Si aprì in questo modo la strada alla spietata reazione borghese che, con l'entrata a Budapest dell'ammiraglio Horthy, alla testa delle sue truppe, il 16 novembre 1919, iniziò il periodo del tristemente famoso Terrore bianco (1500 rivoluzionari furono giustiziati con processi farsa e altri 6000 furono eliminati sommariamente senza alcun processo; circa 70.000 finirono nei campi di concentramento e oltre 100.000 emigrarono).

 

*     *     *

 

Come abbiamo sempre sostenuto, è dalle sconfitte che i comunisti rivoluzionari devono trarre i maggiori insegnamenti. Una delle cause fondamentali della sconfitta della rivoluzione proletaria ungherese è da cercare nella tattica del fronte unico politico, perché è esattamente questo che è stato l'accordo tra il partito comunista e il partito socialdemocratico, nell'illusione di poter sfruttare, con una supposta abilità politica, il seguito tra gli operai e i contadini che i socialdemocratici avevano e che i comunisti non avevano soprattutto perché non  ebbero il tempo reale per radicare la loro azione tra le masse. E' ben vero che in determinate fasi storiche i giorni e i mesi possono condensare il valore di anni, ma il lavoro del partito comunista tra le masse - altro insegnamento basilare da trarre - deve iniziare di lunga mano, molto prima dell'appuntamento storico con i fattori favorevoli alla rivoluzione. Cosa che il partito comunista ungherese non fece, anche perché la situazione oggettiva precipitò rapidamente. Ma una cosa i comunisti ungheresi potevano fare: non allearsi mai con i socialsciovinisti, con i kautskiani, con gli opportunisti di ogni risma. Cosa ben diversa avvenne in Russia, quando i bolscevichi governarono con i socialisti rivoluzionari di sinistra - che avevano un'influenza importante soprattutto tra i contadini poveri - i primi mesi di una dittatura proletaria che aveva enormi compiti economici e sociali borghesi da espletare, ma nei confronti dei quali ebbero sempre una posizione nettamente distinta, del tutto indipendente dal punto di vista teorico, programmatico, politico e organizzativo. Mai i bolscvichi si sarebbero fusi coi socialisti rivoluzionari di sinistra allo scopo di "conquistare la maggioranza delle masse"; alleati sì, per necessità oggettiva in difesa della rivoluzione d'Ottobre, ma sempre all'erta rispetto al loro atteggiamento pratico che non ci mise molto a dimostrarsi controrivoluzionario quando, rispetto alla linea di Lenin per la pace di Brest-Litovsk, gli esserre uscirono dal governo e, nel luglio 1918, alla ratifica del trattato di pace, passarono alla rivolta contro il potere bolscevico (9).

Come ribadito nell'articolo sulla "Restaurazione borghese in Ungheria", tra comunisti e le altre formazioni politiche cosiddette socialiste e rivoluzionarie non vi può essere né azione comune, né tantomeno fusione in un unico partito:

"La profonda diversità di programma tra comunisti e ogni altra gradazione di socialisti (usurpatori di tal nome) non consente un'azione comune.

"I comunisti hanno una meta chiara che indica loro un metodo chiaro, che essi soli possono seguire perché scaturisce dal fine da raggiungere. Essi non possono che praticare la intransigenza più assoluta (...).

"Debbono respingere ogni alleanza che sarebbe perniciosa, e battere da soli la strada maestra che dovrà condurli alla vittoria, che non consiste nei facili ed effimeri successi, ma nell'integrale e razionale realizzazione del loro programma organico".

 

Da allora e da ancor prima, l'accusa di settari, "talmudici", astratti, ci insegue. Ma la storia dà ragione a noi contro i non-settari, i non-dogmatici, i cosiddetti concreti. I fatti recano costanti smentite alle loro pretese teorie, costanti conferme alla nostra vera dottrina. E la tragedia è che il proletariato paghi con fiumi di sangue, con lunghi decenni di persecuzione e con il rinvio della vittoria sul nemico di classe, quindi con la periodica ricaduta nel cataclisma della guerra fra gli Stati, la fiducia riposta nei metodi democratici, gradualisti, legalitari e nei loro portavoce.

Perciò quelle pagine di storia vivente parlano a noi, e devono parlare a tutti i proletari, come altrettante pagine di scienza.

 


 

(1) Cfr. A sessant'anni dalla Repubblica ungherese dei Consigli, il programma comunista, n. 7, 7 aprile 1979.

(2) Cfr. Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, edizioni il programma comunista, Milano 1976, punti 113 e 114, pp. 240-241.

(3) Cfr. I Partiti comunisti e l'organizzazione delle donne, III congresso dell'Internazionale Comunista, in Il marxismo e la donna, edizioni Il Formichiere, Milano 1977, punto 3, p. 171.

(4) Cfr. Storia della Sinistra comunista, vol. I bis, edizioni il programma comunista, Milano, pp. 87-89

(5) Cfr. Storia della Sinistra comunista, vol. I bis, edizioni il programma comunista, Milano, pp. 82-84.

(6) Cfr. storieinmovimento.org/ wp-content/uploads/ 2016/07/ Zap28_10-Schegge4.pdf; ed anche: www. homolaicus.com/ storia/ contemporanea/ ungheria/ ungheria_19/3.html

(7) Cfr. Intervista rilasciata al corrispondente del "Liberator", marzo 1920, in "Béla Kun. Professione: rivoluzionario. Scritti e discorsi 1918-1936", Rubettino Editore, 1980, Soveria Mannelli (CZ), pp. 148-149.

(8) Cfr. Il dado è tratto, articolo di Béla Kun pubblicato nella rivista ungherese "Rivoluzione sociale", Mosca, 23 ottobre 1918, in "Béla Kun. Professione: rivoluzionario. Scritti e discorsi 1918-1936", cit., p. 89.

(9) Cfr. a questo proposito la Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, cit.pp. 240-241

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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