Rivolta in Ecuador

Contro le esigenze della borghesia nazionale e internazionale,

la classe proletaria deve alzare la testa

(«il comunista»; N° 162 ; Dicembre 2019)

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Dall’inizio di ottobre in Ecuador è in corso un’ondata di proteste, manifestazioni, blocchi stradali, blocchi di città, scioperi e assalti ai centri di polizia. Fino ad ora, il punto di massima tensione sembra essere stato raggiunto nei giorni scorsi, quando lo sciopero generale, indetto dai principali centri sindacali del paese, ha fatto fuggire da Quito il governo Moreno, che si è rifugiato a Guayaquil, seconda città del paese e prima per importanza economica.

Dietro queste proteste, il governo Moreno, il FMI, la Confederazione degli Stati americani ecc. vedono la mano dell’ex presidente Correa, che vorrebbe tornare nel paese, dato che non è in grado di farlo attraverso la via elettorale. Ma la realtà è che, al di là dalla partecipazione alle mobilitazioni di elementi vicini all’ex presidente del paese, il motivo principale della ribellione, che è ancora in corso, è il rifiuto intransigente - da parte dei contadini indigeni, dei proletari e delle masse diseredate del paese - delle misure che il Fondo Monetario Internazionale e la borghesia nazionale ecuadoriana hanno posto sul tavolo per accedere a prestiti internazionali e finanziamenti di emergenza e arginare la cattiva situazione economica dell’Ecuador.

In effetti, di fronte al deficit di bilancio e all’altissimo debito pubblico dell’Ecuador, che raggiunge il 60% del PIL e che è conseguenza, soprattutto, della caduta del prezzo delle materie prime (prodotti agricoli e petrolio) che l’Ecuador esporta negli Stati Uniti e in Europa, il Fondo Monetario Internazionale si è impegnato, nel marzo di quest’anno, a concedere un prestito di 4,2 miliardi di dollari per i prossimi tre anni. A questo importo, verranno aggiunti altri 6 miliardi di dollari, circa, provenienti da diversi enti finanziari americani ed europei. Ma la condizione per liberare questo denaro è l’adozione da parte del governo ecuadoriano delle già note misure di taglio della spesa e di austerità economica.

Quindi il governo Moreno ha imposto, all’inizio di questo mese, la liberalizzazione del prezzo del carburante, la liberalizzazione delle importazioni, una riforma fiscale che limita la tassazione sui grandi patrimoni, una riduzione, per i dipendenti pubblici, del 20% del loro salario e del 50% dei giorni di ferie. E, inoltre, una riforma del lavoro che consiste nella riduzione del costo aziendale dei licenziamenti, nella flessibilità del modello di contratto che consenta la deregolamentazione delle condizioni di assunzione, la liquidazione della pensione a carico del datore di lavoro e, infine, la riduzione del salario minimo.

Tutte queste misure colpiscono direttamente le condizioni di vita delle masse popolari, dei contadini e dei proletari. In particolare, la liberalizzazione del prezzo del carburante, eufemismo dietro al quale si nasconde la fine delle sovvenzioni per il diesel, colpisce principalmente gli agricoltori indigeni che vendono i loro prodotti in mercati distanti molti chilometri dalla zona di coltivazione, mentre il resto delle misure colpisce duramente il proletariato peggiorando le sue condizioni di lavoro e di esistenza, riducendolo sempre più a una condizione di semi-indigenza in cui neppure avere un lavoro garantisce di non vivere in miseria.

Contro queste misure, il cosiddetto “movimento indigeno” ha scatenato un’ondata di proteste che da dieci giorni tengono il paese in tensione, mentre si contano già cinque morti e oltre ottocento feriti. La principale organizzazione trainante è la Confederazione nazionale indigena ecuadoriana (CONAIE), dietro alla quale si collocano i principali sindacati del paese. Questa organizzazione, creata negli anni ’80 del secolo scorso, ha al suo attivo la direzione di fortissime proteste contro praticamente tutti i governi dell’Ecuador degli ultimi trent’anni, avendo dato luogo a manifestazioni di massa come quelle del 1997 (rovesciamento del presidente Abdalá Bucanam) o del 2005 (rovesciamento del presidente Lucio Gutiérrez), che ne hanno fatto l’organizzazione sociale di riferimento nel Paese. Infatti, in Ecuador, un paese in cui si riconoscono 14 nazionalità indigene, il 25% della popolazione può essere considerata di questa origine, anche se l’80% del totale è meticcio, il che rende questo tipo di organizzazioni, che hanno una base locale limitata alle cosiddette “popolazioni autoctone”, capace di una grande influenza tra le masse proletarie e semiproletarie delle grandi città del paese.

La popolazione indigena è per lo più contadina, dedita alla monocoltura di alcuni dei prodotti che il paese esporta (broccoli, patate, cipolle, grano, orzo ecc.) e ha sofferto in modo particolare per la spoliazione delle terre avvenuta nel paese dalla metà del XX secolo, generando un immenso strato sociale di diseredati che sopravvivono a stento nelle campagne e nelle città con un’economia di sussistenza in cui l’eccedenza è venduta nei mercati locali e, quindi, è incredibilmente sensibile alle variazioni dei costi di produzione, come l’aumento del prezzo del petrolio che ci sarà quando non verrà più sovvenzionato.

La classe proletaria ecuadoriana, che è composta dai lavoratori di grandi concentrazioni urbane come Guayaquil, Quito, Cuenca o Santo Domingo, non ha mai avuto uno sviluppo, una forte concentrazione sulla base dell’organizzazione del lavoro capitalista come li hanno avuti i proletari in Argentina, Brasile o Messico. Al suo fianco sopravvive, estremamente mescolato, un immenso strato di semiproletari, dediti a qualsiasi attività, salariata o no, in città il cui sviluppo industriale non è mai stato molto elevato, a parte il settore petrolifero o delle costruzioni. Ma la sua forza sociale risiede, più che nel numero, nelle condizioni stesse di sottosviluppo economico del paese, che rendono miserabili le condizioni di vita della maggior parte della popolazione, legandola a forme sociali arretrate anche per società propriamente capitaliste.

Le rivolte dell’Ecuador sono conseguenza delle turbolenze economiche mondiali, che si alimentano sulle spalle dei paesi più deboli del capitalismo internazionale, succhiando le loro risorse a prezzo stracciato, imponendo condizioni draconiane nei negoziati per ottenere prestiti finanziari... Di fronte alla propria debolezza nel mercato internazionale, la borghesia locale stritola sempre più sia i proletari che le altre classi sociali subalterne del paese. Ma, nonostante queste rivolte abbiano un’origine così chiara nel tipico funzionamento del modo di produzione capitalistico, non sono, di per sé, una risposta apertamente anticapitalista e antiborghese... La loro base sociale è una miscela eterogenea di contadini indigeni, di piccoli produttori di merci agricole e artigianali e di proletari, ed è diretta da un’organizzazione di tipo nazionalista che cerca di incanalare queste classi sociali sradicate nel solco politico borghese del paese; un’organizzazione, in realtà, che ha una lunga tradizione di collaborazione con governi come quello di Rafael Correa, per il quale ha lavorato allo scopo di spegnere qualsiasi movimento autonomo della classe proletaria nelle città.

In mezzo a questo miscuglio eterogeneo di classi e mezze classi non proletarie, il proletariato ecuadoriano deve far sentire la sua voce. Non saranno le riforme indigeniste, basate sulla partecipazione parlamentare e sul rispetto delle “forme ancestrali di vita” (cioè dello sfruttamento di una classe sulle altre), a impedire che i proletari e gli stessi contadini indigeni crollino in miseria. Gli ultimi trent’anni e l’esperienza di paesi come il Brasile o la Bolivia, dimostrano che i governi riformisti come quello di Lula o di Evo non possono fare altro che continuare a saccheggiare le terre degli indios, a sottomettere i cosiddetti “popoli nativi” a condizioni di vita sempre più precarie man mano che tutte le loro risorse vengono, presto o tardi, messe in vendita e la loro sussistenza viene sempre più legata al corso del mercato capitalista internazionale e alle esigenze degli imperialismi regionali e internazionali. E, naturalmente, queste stesse esperienze mostrano che i proletari dell’Ecuador, e di qualsiasi altro paese dell’America Latina, hanno molto da perdere rinunciando alla loro indipendenza di classe di fronte a organizzazioni di tipo interclassista che non intendono far altro se non sostenere democraticamente lo Stato borghese, ottenendo concessioni costituzionali che non impediscono affatto lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale. La classe proletaria non può rimanere sotto il tallone della collaborazione tra le classi. Il rapido deterioramento delle sue condizioni di esistenza, che non farà che aumentare nei prossimi anni, la sempre più intensa repressione a cui è soggetta in tutto il subcontinente latinoamericano ecc., devono mostrarle che è fondamentale scendere nelle strade a combattere come una forza nettamente distinta, con le sue esigenze e rivendicazioni, con i suoi fini e con i suoi mezzi di lotta.

I disordini degli ultimi giorni in Ecuador mostrano che nei prossimi anni la realtà sociale dei paesi dell’America Latina sarà tutt’altro che tranquilla. Questa situazione, in cui l’instabilità sarà la norma, fornirà una preziosa occasione perché il proletariato prenda la testa della lotta che veda, al suo fianco, i contadini poveri indigeni e molti altri strati di diseredati. Per far ciò, dovrà innalzare la bandiera della lotta di classe, che è per sua natura antiborghese, e quindi antidemocratica, e che comporta il rifiuto di tutti i possibili compromessi con la borghesia e la piccola borghesia locali, interessate solo alle riforme che hanno la funzione di contenere temporaneamente le esigenze dei principali poteri imperialisti e che contribuiscono al tentativo di formare uno Stato borghese forte. Dovrà unire sotto questa bandiera tutte le classi sociali che subiscono i torti quotidiani che caratterizzano il capitalismo in qualsiasi regione del mondo, in particolare quelle che si trovano alla periferia dell’economia mondiale, ma con un programma chiaramente anticapitalista, lontano da qualsiasi rivendicazione reazionaria, identitaria, così come da qualunque forma di lotta basata sulla partecipazione parlamentare.

Il proletariato ecuadoriano deve imparare le lezioni che questa rivolta sociale offrirà. Solo la sua lotta di classe può portare alla vittoria, non solo per sé, ma anche per il resto delle masse popolari che si battono nelle strade. E il suo risveglio può essere un esempio non solo in Ecuador, ma anche nel resto dell’America Latina e nelle stesse superpotenze europee e americane, dove vive più di un milione di emigrati ecuadoriani  e dove sta imparando che le delizie del mondo sviluppato non sono per i proletari.

 

Viva lotta dei proletari ecuadoriani!

Per la ripresa della lotta indipendente della classe operaia!

Per la difesa intransigente delle loro condizioni di vita e di lavoro!

 

12 ottobre 2019

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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