IRAQ

Migliaia di giovani protestano contro la disoccupazione, il carovita, l’assenza di servizi pubblici e contro la diffusissima corruzione a livello politico e governativo.

I giovani manifestano, le forze dell’ordine borghese sparano

(«il comunista»; N° 162 ; Dicembre 2019)

 Ritorne indice

 

 

Le manifestazioni di protesta contro i governi in Sudan, in Algeria, in Egitto, in Giordania, in Libano svoltesi fin dal mese di settembre hanno raggiunto in ottobre anche l’Iraq, soprattutto la capitale Bagdad e le province meridionali del paese, Basra, Maysan, Dhi Qar, Muthanna, Bassora, Nassiriya, Hillah, Najaf, Amara, Diwaniya. Nel sud del paese, in effetti, nonostante la presenza delle grandi compagnie petrolifere, la disoccupazione resta alta, i servizi sociali sono pressoché inesistenti e i contadini se ne vanno dalle campagne a causa del drastico abbassamento del livello dei due grandi fiumi, Tigri ed Eufrate.

In alcune città come Nassiriya, Amara e Najaf, i manifestanti hanno dato fuoco ad alcuni palazzi governativi. Scontri violentissimi si sono avuti in quasi tutte le città: manifestazioni partite pacificamente, ma decise ad entrare nei palazzi pubblici per gridare la propria rabbia, si sono trasformate ben preso in scontri violenti nei quali le forze di repressione governative, accompagnate spesso da gruppi armati “sconosciuti” e dall’azione di veri e propri cecchini, hanno sistematicamente sparato contro la folla. Nei primi quattro giorni di protesta, si contavano ufficialmente 72 morti, più di 3000 feriti e 540 arrestati (1). E’ evidente che le manifestazioni contro il governo di Adel Abdul Mahdi sono state affrontate fin dall’inizio con una violenza che non lascia dubbi sulla volontà politica dell’attuale governo di stroncare con la forza un movimento che si è rivelato, fin dai suoi primi passi, molto diverso da quello che nel 2011 passò sotto il nome di “primavera araba”. Ad oggi, 31 ottobre, si contano non meno di 250 morti e 8000 feriti; solo a Karbala, città santa dell’islam, il 29 ottobre le milizie armate sciite hanno compiuto una strage con 18 morti (2). Ma le strade e le piazze, da Bassora a Baghdad, continuano a riempirsi di rivoltosi.

Tutti i reportage dei vari media (stampa e TV) segnalano proprio questa differenza. Nel 2011, il movimento di rivolta che partì dalla Tunisia e raggiunse poi l’Egitto, estendendosi poi a quasi tutti i paesi arabi, si riconosceva in un obiettivo principale: far cadere il “dittatore” di turno: Bel Alì in Tunisia, Mubarak in Egitto. Con la loro caduta, il movimento di rivolta – basato sempre sulle condizioni di estrema miseria della stragrande maggioranza della popolazione – credeva che con la caduta del tiranno e l’apertura di una nuova e democratica fase del paese, i problemi economici e di vita sociale e politica sarebbero stati risolti. Il vero potere, però, non era in mano al tiranno di turno e al suo clan, ma all’insieme della classe dominante borghese, di cui il tiranno faceva sicuramente parte, ma che, in rapporto con gli imperialismi euroamericani che la sostenevano, ritenne più conveniente per il mantenimento del potere economico e politico la defenestrazione di un Ben Alì e di un Mubarak, fomentando con forza l’illusione che la nuova democrazia instaurata con tutto il suo apparato elettorale e parlamentare avrebbe calmato la popolazione, restaurato la pace sociale grazie alla quale avrebbe potuto continuare a fare i suoi affari e a sfruttare la classe proletaria come prima, anzi, più di prima. Che una funzione decisiva la svolse l’esercito – nei paesi a capitalismo arretrato è l’unica forza organizzata e concentrata a difesa degli interessi del capitale – lo ha poi dimostrato ampiamente l’Egitto di al-Sisi. Le illusioni democratiche non potevano che andare a sbattere rovinosamente contro la realtà di capitalismi che, per restare all’altezza delle loro relazioni con gli imperialismi più forti e padroni del mercato mondiale, non possono che sfoderare le stesse armi utilizzate in precedenza dai tiranni caduti: repressione, incarcerazioni, assassinii mirati, sequestri e sparizioni di esponenti politici che non si piegano al nuovo ordine ecc. E in tutto questo le diverse formazioni confessionali – sunnite e sciite, in particolare, ma tra di loro divise da interessi locali fino a farsi la guerra – giocano il solito duplice ruolo: di pacificatori dello spirito e sostenitori di alcune fazioni borghesi e di aizzatori alla violenta imposizione di un fondamentalismo islamico attraverso il quale controllare territori, risorse e gruppi umani da sfruttare. I borghesi lottano sempre contro altri borghesi, per affermare i propri interessi di gruppo, che vestano la divisa militare, l’abito talare, la giacca e cravatta parlamentare o il maglioncino da imprenditore moderno, ma tutti insieme lottano sicuramente contro i proletari tutte le volte che questi ultimi accennano a mobilitarsi in difesa dei propri interessi di classe.

I movimenti di protesta e di rivolta attuali sono, come dicevamo, differenti, non tanto dal punto di vista delle illusioni democratiche – queste, purtroppo, sono dure a morire – quanto da quello della propria composizione e degli atteggiamenti di fondo. In Iraq questo si è rivelato più che in altri paesi. Sono movimenti che, almeno finora, non si fanno guidare dai partiti di opposizione esistenti, tendono a sfuggire anche dalla guida degli imam (in Libano in particolare) e non si fidano più dell’esercito. Le nuove generazioni che scendono in strada non hanno vissuto l’epoca di Saddam Hussein e della sua sistematica repressione; hanno meno paura delle conseguenze dei loro atti, se si vuole sono più “incoscienti”, ma grazie a questa loro incoscienza non hanno timore a battersi a mani nude contro le pallottole, e con le loro azioni mettono in mostra ancor di più la brutalità dei governanti e dello Stato. Si battono non basandosi sui principi del corano, ma da laici; si battono non per portare i loro leader al parlamento o al governo, ma per abbattere il potere politico attuale: non occupano i palazzi governativi ma li incendiano. Questo vero e proprio primitivismo, espressione di una rabbia profonda per le pessime condizioni di esistenza immediata e per la percezione di un futuro ancora peggiore, può naturalmente essere incanalato su diverse strade. Una di queste è certamente quella di una “democrazia dal basso”, supportata dalla forte richiesta delle dimissioni del governo di Abdul Mahdi, con tanto di morti e feriti per ottenerle, ma a fronte delle quali dimissioni non vi è nessuna proposta politica se non quella di affidare a qualche personaggio “del popolo” il compito di provvedere al cambio della guardia. E questa è la vera debolezza di questi movimenti di protesta e di rivolta, in tal senso davvero popolare anche se vi sono coinvolti sicuramente i proletari.

L’Iraq è il quarto produttore di petrolio al mondo (il secondo nel gruppo Opec, dopo l’Arabia Saudita) e il dodicesimo paese più corrotto, secondo Transparency International (3); una persona su cinque vive al di sotto della soglia di povertà e la disoccupazione giovanile è intorno al 25%. Questi sono i dati ufficiali che, come sappiamo, fotografano la realtà sempre per difetto. Ma a due anni da quella che viene considerata la sconfitta dell’Isis, e a 16 anni dall’invasione americana del 2003, qual è la situazione economica e politica irachena? Disastrosa, è la risposta che tutti gli esperti borghesi danno. Paese ricco di petrolio, e sommamente corrotto; una ricchezza che si accumula nelle mani di una piccola parte della popolazione – quella borghese e, come dicevamo, non importa se veste la divisa militare, gli abiti da politico, da imprenditore o da religioso – e la povertà che dilaga sulla sua stragrande maggioranza. La rivolta, prima o poi, se la dovevano aspettare e certamente se l’aspettavano. Ciò che ha sorpreso i borghesi arabi, e anche i borghesi di casa nostra, è appunto la durata di queste rivolte e il fatto di essere sfuggite, e di sfuggire ancora, al controllo da parte di organizzazioni partitiche o religiose con le quali, ovviamente, è sempre possibile, prima o poi, un accordo, anche se normalmente lottano le une contro le altre. In realtà, al parlamento iracheno il partito di opposizione più importante è il partito religioso che fa capo a Moqtada Sadr, leader sciita del Movimento Sadrista, il quale, vista la durata delle proteste cerca ora di cavalcarle dando ultimamente loro il proprio sostegno “politico” e chiedendo anch’egli le dimissioni di Abdul Mahdi, naturalmente in vista di sostituirlo al governo...

Ma le richieste di dimissioni del governo attuale, di nuove elezioni, nell’illusione di utilizzare la democrazia a favore delle masse proletarie e povere del paese, si scontreranno con una forte disillusione, come è già successo dopo Saddam Hussein, e come succede ogni volta che un nuovo personaggio politico sale al governo. Troppi sono gli interessi in contrasto tra le diverse fazioni borghesi, tra sunniti e sciiti, tra i diversi capi tribù e, non ultime, le diverse fazioni curde del nord Iraq. L’Iraq, come la Siria, costituisce un punto strategico nella mappa mediorientale, non solo per le sue riserve di petrolio, di gas e di minerali, ma anche per la posizione geografica. Entrambi i paesi costituiscono una specie di ventre molle del Medio Oriente tra la Turchia a Nord, l’Iran a Est e l’Arabia Saudita a Sud, cioè tra le tre potenze regionali che hanno interesse ad estendere la propria influenza su Siria e Iraq una a scapito dell’altra. E, come dimostrano le guerre del Golfo e le continue guerre intestine, sull’intera area insistono i più forti imperialismi del mondo, dai più vecchi come la Gran Bretagna e la Francia, agli Stati Uniti e ai più recenti come la Russia e, non ultima, la Cina che è diventata, tra l’altro, uno dei principali partner commerciali dell’Iraq, oltre all’India, la Turchia e gli USA. Gli interessi contrastanti dei capitalismi regionali si intrecciano inevitabilmente con gli interessi contrastanti degli imperialismi che dominano sul mercato mondiale, producendo in questo modo una ragione di permanente instabilità e di drammatica insicurezza per tutte le popolazioni dell’area. Lo sviluppo economico di ogni paese dell’area, dipendendo dai rapporti col mercato internazionale e dai capitali che vengono o meno investiti per l’industrializzazione, segna continuamente un andamento schizofrenico: per qualche anno gli indici di crescita possono salire in positivo, come è avvenuto in Iraq quando, nel 2011, la crescita economica segnava un +11% su base annua grazie soprattutto al settore petrolifero (per il quale aveva superato la produzione di 2,5 milioni di barili al giorno), ma anche nel campo dell’industria delle costruzioni e dell’agricoltura e, grazie alle due “città sante” di Najaf e Karbala, anche del turismo religioso e dei servizi. Ma questa crescita è stata in parte interrotta dalla guerra dell’Isis contro tutti e di tutti contro l’Isis, per poi riprendere dopo la sua sconfitta, arrivando a produrre più di 4 milioni di barili di petrolio al giorno. Alla crescita economica, di cui beneficiano esclusivamente le compagnie petrolifere e i capitalisti impegnati nei settori economici più lucrosi, non corrisponde, però, un livello di vita più alto per i proletari e per i contadini poveri; infatti la povertà e la disoccupazione colpiscono una parte molto ampia della popolazione e le manifestazioni di protesta e le rivolte a cui si sta assistendo da più di un mese sono l’evidente dimostrazione dello sfruttamento bestiale al quale sono sottoposte queste masse di lavoratori. L’Iraq, inoltre, è un paese demograficamente molto appetibile per i capitalisti: una parte consistente della popolazione ha un’età che va dai 15 ai 50 anni, che, per il capitale, rappresenta la forza lavoro ideale. Non stupisce, perciò, che siano proprio i giovani a riempire le strade e le piazze, perché sono i più sfruttati e i più colpiti dalla disoccupazione.

A questi giovani non manca certo il coraggio di affrontare polizia, esercito, cecchini, milizie armate, e la spinta che li porta in strada ogni volta ha basi materiali molto forti: sono senza lavoro e non vedono un futuro. Dei governanti borghesi, dei capitalisti, delle élites politiche e culturali, non si fidano perché non sono in grado di prospettare soluzioni affidabili e immediate; ciò nonostante esso chiedono democrazia, elezioni, e che le stesse classi che stanno al potere cambino personale politico e governativo e diano loro una speranza di vita. Ci mettono la rabbia, il coraggio, l’incoscienza, il proprio sangue e questo dovrebbe scuotere le coscienze di coloro che hanno il potere economico, politico e militare.

Ma la realtà capitalistica si snoda su tracce completamente diverse: le leggi del capitalismo hanno guidato ieri Saddam Hussein e i suoi alleati e i suoi nemici, poi hanno guidato tutti coloro che sono saliti al governo di un paese martoriato dalle guerre, e poi hanno guidato i più recenti governanti un tempo benvoluti dal popolo e oggi scoperti corrotti in modo insopportabile; ma le stessi leggi guideranno i nuovi governanti che sostituiranno Abdul Mahdi e domani anche Moqtada Sadr o chi per lui. Sostanzialmente non cambierà nulla; l’economia continuerà ad altelenare in su e in giù, la corruzione non sparirà, le repressione delle proteste si ripresenterà nelle forme più diverse, la disoccupazione e la miseria continueranno ad attanagliare gli stomaci e le viscere delle masse lavoratrici. La strada appare senza vie d’uscita.

Ma un’alternativa esiste e concerne proprio la classe lavoratrice, la classe proletaria dal cui sfruttamento sistematico i capitalisti ricavano i loro profitti: una classe che deve ritrovare se stessa, che deve sforzarsi di riconoscere non solo le proprie esigenze immediate, ma i soli mezzi e metodi di lotta che possono dare una risposta non temporanea, non effimera alla questione sociale: i mezzi e i metodi della lotta classista. Non basta lottare con coraggio contro un nemico superarmato e senza scrupoli, ed è drammaticamente illusorio fare affidamento a classi e forze sociali che congenitamente hanno interessi completamente opposti agli interessi della classe proletaria. Si tratta di utilizzare la propria forza, il proprio coraggio, la spinta a rivoltarsi contro il regime borghese che di volta in volta, magari con le sembianze socialiste riformiste piuttosto che con le sembianze del predicatore religioso, riesce a cambiare faccia per attuare la stessa politica antioperaia e repressiva pur di salvaguardare i profitti capitalistici, per organizzarsi come classe proletaria, in modo indipendente, ad esclusiva difesa dei propri interessi di classe, unificando i proletari di ogni settore, di ogni categoria e di ogni credo religioso in un’unica lotta anticapitalistica, e perciò antiborghese. Per giungere a questo risultato i proletari devono fare un salto di qualità, rompere con l’interclassismo che li porta a versare il proprio sangue per interessi delle classi dominanti, nazionali e internazionali, e contare sulle proprie forze. Per non cadere sistematicamente nelle illusioni di un regime che non cambierà mai, i proletari devono tirare le lezioni dalla loro stessa lotta immediata e imparare a riconoscere i nemici di classe come tutti coloro che ne usano la forza per i propri interessi di parte e contro di loro.

La prospettiva per i giovani e non più giovani proletari iracheni, come per i proletari siriani, libanesi, egiziani, algerini, giordani, sudanesi e di tutti i paesi, si biforca, inesorabilmente: o lottano per far salire al potere altri rappresentanti dei poteri borghesi, magari all’inizio meno corrotti o corruttibili, ma sempre rappresentanti del capitale dominante, e si predispongono ad una vita incerta e di miseria mettendola nelle mani dei propri nemici di classe che la useranno per le proprie guerre di concorrenza e per le proprie guerre guerreggiate, o lottano per se stessi, per la propria classe, per gli interessi della classe produttrice per eccellenza e che, nella storia, rappresenta il vero futuro della società: della società umana, non della società borghese! Sul terreno di questa lotta i proletari, superando lo sfogo di rabbia giustificatissimo ma immediato, faranno le esperienze che servono per la propria emancipazione, esperienze pratiche, politiche e sociali, ed è su questo terreno che sorgerà il bisogno di essere rappresentati politicamente come classe in generale, al di sopra delle differenze etniche, professionali, di età o di genere; sorgerà il bisogno di un partito che abbia un programma politico completamente opposto a quello di tutti i partiti borghesi, un programma non nazionale, ma internazionale, nel quale la lotta di classe proletaria inciderà nella società attuale a tal punto da spezzare completamente tutti gli apparati di dominio borghese e capitalistico, a partire dallo Stato. Questo partito non potrà che essere comunista, rivoluzionario e internazionalista e sarà tanto più forte quanto più la lotta proletaria avanzerà sul terreno di classe; un partito che è cosciente del fatto che i proletari prima di tutto combattono la borghesia di casa propria, ma che questa lotta ha un futuro solo se inserita in una lotta internazionale perché la condizione di lavoratore salariato accomuna tutti i proletari, di qualsiasi paese, perciò gli interessi proletari di classe sono interessi che superano i confini di qualsiasi Stato capitalistico.

    

- Contro ogni comunanza di obiettivi e interessi tra proletari e borghesi!

- La repressione borghese si combatte con l’organizzazione di classe!

- La lotta proletaria deve imboccare la strada dell’indipendenza di classe!

- No alla bandiera nazionale, sì alla bandiera rossa!

- Per la ripresa della lotta di classe!

- Per la costituzione del Partito Comunista Internazionale!

 

31 ottobre 2019                      

 


      

(1) Cfr. www.ilpost.it/2019/10/05/iraq-scontri-proteste/

(2) Cfr. https://nena-news.it/iraq-la-repressione-non-ferma-i-giovani. Vedi anche https://www.lemonde.fr/international/article/2019/10/28/sans-pays-pas-d-ecole-la-jeunesse-irakienne-rejoint-le-mouve ment-de-contestation_6017200_3210 .html

(3) Cfr. www.ilpost.it /2019/10/25/sono-ricominciate-le-proteste-in-iraq/

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice