Proletariato e mezze classi

(«il comunista»; N° 162 ; Dicembre 2019)

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«Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato. (...) Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto più specifico». Queste parole sono del Manifesto del partito comunista di Marx-Engels, nel capitolo “Borghesi e proletari”; valevano allora, valgono oggi e varranno fino a quando la rivoluzione proletaria non abbatterà definitivamente non solo il potere politico borghese, ma anche la struttura economica capitalistica, avviando l’intera società alla formazione della società senza classi, alla società di specie.

«Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia, per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini medi. Quindi non sono rivoluzionari ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché cercano di far girare all’indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari, sono tali in vista del loro imminente passaggio al proletariato, non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, e abbandonano il proprio punto di vista, per mettersi da quello del proletariato» (sempre dal Manifesto di Marx-Engels, stesso capitolo). Nella società capitalistica sviluppata i rapporti degli ordini medi, di queste mezze classi, con le altre classi non sono cambiati; semmai, la piccola borghesia è diventata ancor più reazionaria proprio perché lo sviluppo del capitalismo avvicina sempre più il «momento nel quale scomparirà totalmente come parte indipendente della società moderna». I membri della piccola e media borghesia fanno sempre parte delle classi borghesi, perché anch’essi vivono sullo sfruttamento sistematico della forza lavoro proletaria, ma, a differenza della borghesia della grande industria e delle grandi concentrazioni di capitale, nel difendere i loro interessi immediati sono obbligati a combattere la classe borghese dominante che possiede il potere economico e politico della società e che inesorabilmente tende ad emarginarli in un’esistenza precaria, se non a precipitarli nella proletarizzazione. Essi, d’altra parte, sono destinati ad oscillare continuamente tra la classe borghese dominante e la classe proletaria che è la sola classe che produce tutti i valori di questa società, perché – come afferma il Manifesto di Marx-Engels – torna  sempre a formarsi da capo proprio in virtù del contraddittorio sviluppo ineguale del capitalismo sia in campo industriale che in campo agricolo. Nella dinamica sociale, il capitalismo si sviluppa, ma solo scontrandosi con le proprie crisi economiche, crisi di sovraproduzione, che, nella loro ciclicità, «mettono in forse sempre più minacciosamente l’esistenza di tutta la società borghese» perché in queste crisi «viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create». Basta ricordare la paura che suscitano nella borghesia di tutti i paesi i crolli di borsa, le grandi crisi di un mercato che non assorbe più l’enorme quantità di merci che escono dalle fabbriche; per non parlare delle guerre che, se da un lato risultano benefiche per il capitale perché vengono distrutte quantità enormi di prodotti invenduti e di forze produttive fornendogli l’occasione per rimettere in moto e rinnovare tutta la produzione, dall’altro rimette in discussione tutti gli equilibri politici e diplomatici precedenti e le relazioni tra gli Stati. Ma è proprio dalle crisi del grande capitale che gli ordini medi della società, la piccola e la media borghesia – da cui storicamente è nata la grande borghesia – riprendono in un certo senso un ruolo sociale, perché, da un lato, ritessono alla base la struttura economica e sociale borghese e, dall’altro, riprendono un ruolo politico decisivo, perché, essendo più vicini alle condizioni di esistenza del proletariato hanno più possibilità di influenzarlo e di indirizzarlo alla rinascita economica del paese.

La gestione del potere politico da parte della classe borghese dominante avviene attraverso i partiti e gli apparati istituzionali predisposti alla bisogna, sia in regime democratico che in regime apertamente totalitario. I partiti politici si formano intorno ad interessi particolari che possono essere generali, di classe, o specifici di gruppi sociali. Nel regime democratico – che, per la classe dominante borghese, si è dimostrato storicamente il più efficace per la difesa del proprio potere politico – a fianco dell’inflazione dello Stato c’è l’inflazione dei partiti. «Lo Stato capitalistico, sotto i nostri occhi di generazione straziata da tre paci borghesi a cavallo di due guerre universali imperialistiche – si può leggere in un filo del tempo del 1949 – , spaventosamente si gonfia, assume le proporzioni del Moloch divoratore di immolate vittime, del Leviathan col ventre gonfio di tesori stritolante miliardi di viventi» (1). Che questa non sia un’opinione dell’autore dei “fili del tempo”, Amadeo Bordiga, ma una conferma dell’analisi marxista del processo di formazione e sviluppo dello Stato, è dimostrato anche da quanto scrisse Lenin in «Stato e rivoluzione»: «L’imperialismo – epoca del capitale bancario e dei giganteschi monopoli capitalistici, epoca in cui il capitalismo monopolistico si trasforma in capitalismo monopolistico di Stato – mostra in modo particolare lo straordinario consolidamento della “macchina statale”, l’inaudito accrescimento del suo apparato burocratico e militare per accentuare la repressione contro il proletariato, sia nei paesi monarchici che nei più liberi paesi repubblicani» (2). I partiti borghesi servono esattamente per gestire l’inaudito accrescimento dell’apparato burocratico e militare, sia per difendere gli interessi generali del capitalismo, e del capitalismo monopolistico in particolare, sia per assicurare ai grandi monopoli la continuità nello sfruttamento e nella repressione delle masse proletarie, senza i quali il capitale non avrebbe la possibilità di accrescere la propria potenza e il proprio dominio sulla società. Ma nei paesi dove vige la democrazia, la funzione conservatrice e di difesa capitalistica che svolge lo Stato ha bisogno del coinvolgimento e della collaborazione dei partiti che rappresentano le masse popolari e, in particolare, le masse proletarie; e per questo coinvolgimento e questa collaborazione la classe dominante borghese è stata ed è disposta ad investire considerevoli risorse, tale è l’importanza che attribuisce al controllo delle masse proletarie, dalle quali cerca di ottenere il massimo risultato a favore del suo dominio. Attraverso i partiti operai riformisti e collaborazionisti, e le organizzazioni sindacali ad essi legate, riesce molto più efficacemente a far passare gli interessi del capitale come interessi “comuni a tutte le classi”, perciò anche alla classe proletaria. E sono proprio quelle risorse, destinate non solo a pagare con lauti stipendi e innumerevoli privilegi i deputati e i senatori dei parlamenti democratici, ma anche a costruire il complesso meccanismo di ammortizzatori sociali grazie ai quali vengono soddisfatti alcuni bisogni di base delle grandi masse, che vanno a formare un solido terreno per la fioritura di un'ampia varietà di forze opportuniste. Più è potente la borghesia nei paesi a capitalismo avanzato, più sono influenti le forze opportuniste, sia nella fase in cui sono pochi i grandi partiti a dividersi il compito di gestire il governo e l’opposizione, sia nella fase in cui il logoramento dei grandi partiti li ha portati al declino, se non alla scomparsa, e il potere governativo, e l’opposizione, vengono necessariamente messi nelle mani di coalizioni di molti partiti che nascono e muoiono a seconda degli interessi particolari in cui sono divisi i diversi strati sociali. In tutti i casi, la classe proletaria, sottoposta ad una continua pressione da parte delle forze borghesi e opportuniste, si trova invischiata in una rete confusa in cui agiscono decine e decine di organismi politici, sociali, economici, culturali, religiosi mossi da interessi particolari diversi ma tutti riconducibili alla conservazione sociale, alla difesa del capitalismo come modo di produzione, come struttura economica dell’intera società attuale.    

Le crisi economiche e finanziarie che si sono susseguite dagli anni ’80 del secolo scorso in poi, hanno logorato i vecchi partiti politici senza dar loro il tempo di organizzare una “trasformazione”. Come succede in campo economico, in un certo senso, avviene anche in campo politico: i vecchi “marchi” passano da una famiglia ad un’altra, da un’azienda ad un’altra; alcuni spariscono del tutto (in Italia il Partito Liberale, il Partito Repubblicano, il Partito monarchico ecc.), altri cambiano sigla (come la DC e il PCI) e i loro membri vengono catturati da qualche altra famiglia che non ha la forza di ricompattarli tutti sotto il proprio cappello, dando così la stura alla costituzione di una serie interminabile di organizzazioni politiche che, proprio a causa delle crisi economiche e finanziarie che sconvolgono gli equilibri economici e sociali precedenti, rincorrono gli interessi di gruppi economici e sociali più dimensionati e generati da una concorrenza che si fa sempre più acuta e che stratifica il corpo sociale nazionale in strati e sotto-strati, e sotto-classi, differenziati gli uni dagli altri; e così nascono e muoiono sigle e organizzazioni, in una lotta di concorrenza sul mercato dei voti seguendo le indicazioni dei professionisti del marketing.

La democrazia è la forma politica che incentiva la formazione di interessi particolari, mettendoli uno in concorrenza con l’altro, uno contro l’altro, ma sollecitandoli anche ad allearsi, a raggrupparsi per avere più forza, almeno temporaneamente, contro altri gruppi concorrenti. Il parlamento nazionale, insieme alla serie notevole di parlamentini regionali, provinciali, comunali, municipali, zonali, formano l’intricata rete nella quale vengono imprigionati tutti gli strati sociali che si illudono di poterli utilizzare per far prevalere gli interessi di un gruppo su quelli di un altro. D’altra parte, la formazione di organizzazioni politiche, nella società borghese ormai in via di putrefazione, si deve meno ad interessi “generali” e più ad interessi “particolari”, spinti o “dal basso” o “dall’alto”. In genere, gli interessi della grande borghesia tendono a concentrarsi in formazioni politiche costitute dall’alto – di destra, di centro o di sinistra, a seconda del clima politico generale e internazionale che si attraversa e dei rapporti di forza interborghesi e tra le classi –, ma con la capacità di orientare e influenzare una buona parte delle masse attraverso una politica sociale che vada incontro in qualche modo ai loro bisogni elementari, condita con la solita propaganda cultural-religioso-patriottica che serve sempre per giustificare i sacrifici che inevitabilmente vengono prima o poi chiesti, o imposti, per ragioni di economia nazionale, di salvezza nazionale se non addirittura di “difesa della civiltà”. Tramontato il periodo in cui i grandi partiti riuscivano a raggruppare le grandi masse, influenzandole in modo determinante, rappresentando gli interessi degli strati sociali medioborghesi, piccoloborghesi e del proletariato, si formano partiti più dimensionati che si fanno portavoce delle varie differenze economico-politico-sociali che caratterizzano appunto i diversi strati in cui li ha divisi la stessa società borghese, economicamente e socialmente.

Che siano grandi o più dimensionati, i partiti politici poggiano sulla struttura economica capitalistica che si è sviluppata nei monopoli, nei trust, nelle ormai famosissime multinazionali, e su un impianto politico che si è sviluppato nell’imperialismo moderno. Come in economia un numero ristretto di grandi aziende domina il mercato internazionale, così sul piano politico un numero ristretto di Stati imperialistici domina il mondo. Questo, da un lato, dimostra che il capitalismo ha ancora la forza di svilupparsi, sebbene con contraddizioni sempre più profonde e catastrofiche – come dimostrano i continui conflitti di guerra – e, dall’altro, che la borghesia dominante dei paesi imperialisti ha avuto ed ha la forza di legare a sé e ai propri destini le classi subalterne, e anche una parte delle masse salariate, secondo una fitta stratificazione di privilegi e di riserve che formano delle garanzie per le condizioni di esistenza che distinguono questa parte di lavoratori salariati dalla massa effettivamente proletaria, effettivamente senza alcuna riserva. Gli ammortizzatori sociali (ad esempio pensione, licenza matrimoniale, periodo di maternità, cassa integrazione, liquidazione, sussidio di disoccupazione ecc., classiche rivendicazioni del riformismo socialista che, però, è stato il fascismo ad attuare per primo al fine di legare a sé le masse proletarie) sono stati, e sono ancora, quella sorta di riserva con la quale il regime borghese ha esteso ad una massa più larga di lavoratori salariati una “garanzia” di cui godeva, in precedenza, soltanto lo strato di aristocrazia operaia. Rispetto ai proletari puri, ai senza riserve, questi ammortizzatori sociali si trasformavano in privilegio sociale, costituendo la base materiale dell’opportunismo e del collaborazionismo sindacale e politico. Queste concessioni alla massa dei lavoratori salariati da parte delle borghesie imperialiste segnavano, inoltre, più che le differenze di salario, una grande differenza tra i proletari dei paesi capitalistici avanzati e i proletari dei paesi capitalistici arretrati; non solo, stabilivano una divisione tendenzialmente verticale, nello stesso paese, tra proletari “garantiti” e proletari senza garanzie. Tali concessioni, che le borghesie imperialiste hanno generalizzato soprattutto dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, sono state anche il risultato della pressione esercitata dalle lotte operaie, sebbene organizzate dai sindacati tricolore; ma non va dimenticato che sono state fatte passare come “conquiste” di lotte operaie svolte sul terreno della collaborazione di classe con la borghesia e non sul terreno antagonistico della lotta di classe. Non facciamo questa distinzione per pignoleria, ma per spiegare che la stessa classe dominante borghese, sebbene non fosse sempre disposta a cedere sul piano delle concessioni e sebbene molte categorie operaie abbiano dovuto lottare duramente per essere equiparate a quelle che già godevano di determinate garanzie, aveva un forte interesse ad impiegare una parte del reddito nazionale a favore di tutte quelle misure sociali che rafforzavano la collaborazione di classe da parte del proletariato. Una collaborazione interclassista che non si limita al piano delle misure economiche, ma che trova la sua massima espressione politica nella stesura delle Costituzioni, che assumono, in questo modo, il ruolo di una carta dei principi unificante tutte le classi sociali, al di sopra di ogni differenza di classe e di antagonismo di classe. La concorrenza tra proletari che la borghesia incentiva sempre e con ogni mezzo, in realtà, non è in contrasto con il suo interesse a far funzionare la collaborazione tra le classi, perché attraverso la formazione di uno strato proletario più “garantito” rispetto alla massa generale dei lavoratori salariati, la borghesia piega alle proprie esigenze economiche, sociali, politiche, l’intera massa proletaria. Il proletariato, grazie all’opera opportunista e collaborazionista delle organizzazioni sindacali e dei partiti che si fanno passare per difensori dei lavoratori, resta così intrappolato nelle maglie di interessi che vengono sempre proposti come “comuni” a borghesi e proletari, ma che in realtà sono interessi esclusivamente borghesi. L’asservimento totale del proletariato alla borghesia dominante, così, è assicurato. 

 

DI FRONTE AD UN PROLETARIATO EMARGINATO, È LA PICCOLA BORGHESIA CHE PRENDE LA SCENA

 

Passato il trentennio di massima espansione economica del secondo dopoguerra, le risorse che lo Stato borghese utilizzava per mantenere l’apparato statale, l’amministrazione pubblica e il complesso impianto degli ammortizzatori sociali, andavano sempre più riducendosi. La grande attrazione esercitata dai grandi partiti (DC, PCI e PSI, ma anche PSOE e PP in Spagna,  PCF, PS e UDF in Francia, SPD e CDU in Germania ecc.) ha cominciato a declinare, le promesse elettorali risultavano sempre più  irrealizzabili, rendendo più evidenti le periodiche mazzate che, con le misure di austerità, colpivano di volta in volta i diversi strati più deboli della società. Quel che perdurava nel tempo, però, in un certo senso, era l’ideale democratico in generale, tradotto nelle Costituzioni repubblicane, e, soprattutto, la collaborazione interclassista tra proletari e borghesi che, in regime democratico post-fascista, è diventata il marchio di fabbrica di tutti i partiti, grandiborghesi, piccoloborghesi o “proletari” che fossero. Di fronte al  crollo dei grandi apparati di partito (da un lato troppo dispendiosi, dall’altro con meno risorse pubbliche da distribuire alle masse e ormai frammentati), i loro componenti si dedicavano, con sempre maggiore spavalderia, allo scambio di privilegi e di favori, alla corruzione e alla malversazione. Nello stesso tempo, aumentando la concorrenza nel gestire il denaro pubblico da parte dei partiti che andavano al governo - non solo dello Stato, ma anche delle regioni, delle province e dei comuni - aumentavano i passaggi degli esponenti politici da un partito all’altro, attirati dalla maggiore probabilità di salire sul carro del vincitore e, inevitabilmente, aumentavano anche i rapporti e le trattative con le organizzazioni malavitose e criminali che non avevano mai smesso di fare i loro affari nel sottobosco politico, sostenendo ora uno ora l’altro degli esponenti, ma che, diventando più forti e ramificate, temevano sempre meno di mostrare la loro potenza pubblicamente (in Italia questo fenomeno è particolarmente visibile).

In questo confuso quadro sociale e politico, il proletariato è stato certamente il più martoriato nelle sue condizioni di esistenza e di lavoro; ma le crisi a ripetizione del capitalismo hanno colpito anche ampi strati della piccola borghesia (commercianti, bottegai, contadini, piccoli produttori, artigiani, professionisti, specialisti, piccoli proprietari ecc.), facendo precipitare nel proletariato una parte di loro sempre più numerosa. La condizione economica di questi strati piccoloborghesi, pur assimilata a quella proletaria per incertezza del lavoro e, quindi, del guadagno, non ha però cambiato la loro mentalità, le loro abitudini e ambizioni sociali, e la loro speranza di tornare a vivere nella passata situazione di privilegio. Essi sono diventati dei vettori diretti delle illusioni e dei miti tipici della piccola borghesia (individualismo, proprietà privata, superiorità intellettuale, mito della competenza tecnica e della professionalità ecc.); sono diventati degli infiltrati borghesi nel corpo sociale proletario, sia sul piano del cosiddetto “stile di vita”, sia sul piano dell’orizzonte politico e culturale, costituendo in questo modo un ulteriore fattore di concorrenza e di divisione della classe proletaria. Se l’aristocrazia operaia di cui parlava Engels era costituita da operai che salivano la scala sociale grazie ad una maggiore istruzione, ad una specializzazione particolare e ad una paga più alta, l’aristocrazia operaia dei decenni più recenti è costituita anche da professionisti e specialisti piccoloborghesi precipitati a causa delle crisi economiche nel proletariato, divenendo una specie di sostanza oleosa che avvolge il proletariato e soffocandone le spinte materiali e spontanee alla lotta classista che la sua stessa condizione economica inevitabilmente genera.

 

COME È CAMBIATA LA COMPOSIZIONE DEL PROLETARIATO

 

Nei paesi capitalisti avanzati, la rivoluzione tecnica e tecnologica, attraverso la quale i sistemi di lavorazione e di produzione si sono via via semplificati e automatizzati, ha trasformato molte produzioni a tal punto da non aver più bisogno di impianti colossali e di raggruppare nella stessa fabbrica decine di migliaia di operai. Le grandi fabbriche di un tempo, nella metallurgia, nella chimica, nella siderurgia, nella cantieristica, nel tessile, nel calzaturiero, nell’editoria ecc., sono diminuite enormemente; le diverse lavorazioni che un tempo venivano svolte all’interno di quelle grandi fabbriche, sono state via via “esternalizzate”, creando quello che viene comunemente indicato come “indotto”, ossia una serie di medie e piccole fabbriche che si dedicano alla produzione soltanto di alcune parti che dovranno poi essere assemblate per avere il prodotto finito pronto per essere inviato al mercato. Non solo, le relazioni internazionali, i commerci e i rapporti tra i vari paesi hanno prodotto altri fattori di divisione e di concorrenza, soprattutto tra proletari: un prodotto targato made in Italy, o in Germany, in Spain, in France o in USA, è sempre più costituito da parti fabbricate in altri paesi dove la manopera operaia costa meno. Con lo sviluppo delle comunicazioni e dei trasporti, i pezzi che formano, ad esempio, un’automobile possono arrivare alla fabbrica “nazionale” da ogni parte del mondo. La classe operaia di un tempo, ben individuabile con le famose “tute blu” e ammassata in enormi fabbriche, è sempre più dispersa nel territorio. Il lavoro associato, che caratterizza la grande rivoluzione produttiva del capitalismo, con la riduzione delle grandi fabbriche in stabilimenti molto più dimensionati, sia in termini di edifici e di spazi occupati, sia in termini di numero di operai impiegati nelle diverse lavorazioni, non è certamente scomparso, ma occupa un numero sempre più ristretto di operai fabbrica per fabbrica e si è diffuso orizzontalmente su numerosissime industrie di medie e piccole dimensioni, le cui lavorazioni sono anch’esse facilitate dalle innovazioni tecniche applicate alla produzione. La stessa cosa avviene anche nel campo della distribuzione: i dipendenti dei grandi supermercati, dei grandi centri commerciali, delle grandi catene di negozi, o delle grandi compagnie di trasporto fanno riferimento nominalmente alla stessa azienda che ha molte filiali locali, ma in realtà sono separati non solo per categorie, mansioni, specializzazioni ecc., ma anche territorialmente; e ciò vale per qualsiasi ambito produttivo, distributivo, commerciale. Insomma, la classe operaia che un tempo era assimilata alle grandi fabbriche, quindi alle grandi concentrazioni di operai (che, in buona misura, facilitavano l’associazione e l’unione degli operai nei sindacati e nella lotta), viene sparpagliata sempre più su territori molto vasti e raggruppata in unità produttive più piccole e molto più controllabili dai padroni, dalla polizia e dai sindacati collaborazionisti.

Come sappiamo, il proletariato non è costituito soltanto dalla classe operaia delle fabbriche: è costituito da tutti i lavoratori salariati, che lavorano in qualsiasi azienda capitalistica, e, per noi, ne fanno parte tutti i disoccupati, i precari, i temporanei, gli stagionali, i rider ecc., e tutti coloro che vivono di un salario, anche se non regolare, quindi anche i lavoratori in nero, nel settore industriale come nel settore agricolo, commerciale, amministrativo, distributivo e dei servizi in genere.

Un tempo l’industria definiva l’attività urbana, mentre l’agricoltura definiva l’attività nelle campagne; la separazione tra città e campagna era netta; con lo sviluppo del capitalismo, dell’urbanizzazione e della rete di comunicazione tra le diverse città e tra la città e la campagna, la separazione netta tra centri urbani e campagna si è in parte ridotta; un tempo la campagna e il suo vasto territorio attorniava le città, come in una specie di “assedio”, ma lo sviluppo del capitalismo ha ampliato l’urbanizzazione e la cementificazione di parti considerevoli di campagna tanto da modificare il rapporto di estensione tra città e campagna, almeno in vaste zone di ogni paese a capitalismo avanzato europeo (altro discorso per i grandi paesi formati da vaste estensioni di territorio come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina). Oggi le grandi capitali si sono allargate in modo abnorme e, con la rete di strade che le collegano alle altre città, il tessuto urbano si estende per decine e decine di km. Questo non vuol dire che non esistano più le grandi aree di campagna di un tempo; vuol però dire che una parte considerevole di quelle grandi aree è stata occupata dall’attività industriale o semi-industriale in cui  l’agricoltura (allevamento di bestiame, coltivazione intensiva nelle serre, fertilizzazione forsennata dei terreni ecc.) si è trasformata spesso in agricoltura industriale, che comporta problemi simili a quelli delle città quanto a installazione di capannoni, stalle, edifici rurali e di trasformazione, oltre alla tossicità dei terreni e delle falde acquifere ecc.

Un tempo la distinzione tra classe operaia e lavoratori agricoli, determinata dalla separazione fisica tra città e campagna, era data anche dalla forte concentrazione operaia nelle fabbriche cittadine e dall'inevitabile dispersione dei lavoratori agricoli nei campi; oggi, nei paesi avanzati, questa separazione è diminuita di molto, sebbene resista ancora soprattutto nelle regioni in cui sopravvive l’agricoltura che usa metodi di coltivazione che, per essere redditizi, abbisognano di molte braccia umane pagate il meno possibile (pomodori, viti, olivi, arance ecc.) e che è praticata in zone poco agevoli per i mezzi meccanici, come le zone collinari e montane.

Inoltre, nei paesi capitalistici avanzati, sono aumentate enormemente le attività di servizio (commerciale, di trasporto, bancario, di comunicazione, di istruzione ecc.) rispetto alle attività produttive classiche. Queste attività, in parte – e per alcuni paesi in gran parte – sono state trasferite in altri paesi in cui l’abbondante classe proletaria a basso prezzo copre le esigenze di sfruttamento dei capitalisti che, se un tempo abitavano in città e sfruttavano i propri operai o i propri lavoratori agricoli nelle zone limitrofe, oggi possono farlo da una villa al mare attorniata da un grande parco in una zona esclusiva e comandando da lì le proprie attività in paesi lontani anche migliaia di chilometri. Il proletariato, dal punto di vista della tipologia del lavoro, oggi si presenta perciò in modo molto diverso rispetto a cinquant’anni fa, per non parlare di cent’anni fa. E la differenza non sta nella condizione di base, che è sempre la stessa – lavoratore salariato era e lavoratore salariato resta –, ma nella sua fisionomia: agli operai in tuta blu si aggiungono i proletari che lavorano in piccole e medie aziende, o negli uffici, nelle stalle, nelle serre, negli alberghi, nei depositi, nelle scuole, negli ospedali, nelle navi, nei cantieri edili, nelle centrali telefoniche, nell’editoria o nei call center o nelle mille e mille aziende che si occupano di un qualsiasi comparto produttivo o distributivo di una società che, sviluppandosi, ha ingigantito e gonfiato in modo assurdo tutte le attività finalizzate non solo alla produzione, ma, in generale, allo sfruttamento della forza lavoro salariata, al suo controllo e allo smercio dei prodotti che l’anarchico modo di produzione capitalistico immette continuamente nel mercato, che i prodotti siano materiali o immateriali.

Col declino delle grandi fabbriche, e quindi col crollo delle grandi concentrazioni di masse operaie in gigantesche unità produttive, sono emersi i teorici dell’operaio-massa che si confonde con il “popolo”, i teorici della scomparsa della classe operaia, della trasformazione del proletariato di un tempo in classe media sia per stile di vita che per ambizione sociale. Inutile dire che tali teorie tendevano a negare l’antagonismo di fondo, che il capitalismo genera, tra forza lavoro salariata e borghesia e che, sottolineando un cambiamento indiscutibile portato dalle varie rivoluzioni tecniche e tecnologiche alla produzione, alla distribuzione e alla comunicazione, indicavano nella sopravvivenza di strati operai in determinate produzioni (nei settori minerari, edilizi, metalmeccanici, chimici, siderurgici ecc.) una sopravvivenza di emarginazione rispetto alla “centralità” che un tempo riconoscevano alla classe produttrice per eccellenza, appunto la classe operaia. E’ d’altra parte caratteristica della piccola borghesia sostituire la centralità sociale costituita dalla classe operaia con la centralità sociale di se stessa, nell’ambizione di rappresentare il “giusto medio” data la sua propensione a salire la scala sociale verso la grande borghesia (con cui condivide la posizione sociale di sfruttatori della manodopera salariata) e la sua vicinanza sociale alla classe proletaria (di cui subisce la forza sociale costituita non solo dalla sua numerosità, ma anche dalla sua potenzialità di lotta). Ma, a differenza della grande borghesia, la piccola borghesia è molto più legata alla zona in cui vive e in cui ha la sua proprietà privata, città o campagna che sia e, al massimo, alla regione o alla nazione in quanto territorio più largo della sua zona d’origine nel quale fare i propri affari facilitati dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione e di trasporto. D’altra parte, il suo campanilismo, il suo provincialismo, poggiano su queste basi materiali che usa anche per influenzare i proletari della stessa area nel tentativo di attirarli nella propria sfera di interessi e per rafforzarne la difesa.

 

E’ LO STESSO SVILUPPO DEL CAPITALISMO CHE FORMA IL PROLETARIATO COME CLASSE INTERNAZIONALE  

 

La visione marxista non si è mai fermata alla situazione di un paese o di un gruppo di paesi; è sempre stata una visione internazionalista non solo per il proletariato, ma anche per il capitale. Il vero mercato per il capitale, infatti, è il mercato mondiale, e il grande bacino di forza lavoro, da cui pescare la quantità e la qualità dei lavoratori salariati necessari all’attività capitalistica delle diverse aziende, è ormai il mondo. Il capitale, e la borghesia, sono nati nel borgo, ma in quanto tali non potevano che svilupparsi, prima, a livello nazionale e, poi, a livello internazionale. Lo sviluppo capitalistico è inesorabile; per il capitale è vitale la creazione del proletariato, della forza lavoro salariata dal cui sfruttamento, sempre più intensivo e sempre più globale, reso sempre più sistematico grazie alle innovazioni tecniche applicate ai processi di produzione: senza lo sfruttamento intensivo ed estensivo del proletariato non ci sarebbe stato lo sviluppo dell’industria e, in particolare, della grande industria.

Nelle sue diverse fasi di sviluppo, il capitalismo si è spinto a conquistare il mondo e, quindi, a creare proletariati in tutti i paesi del mondo. Nella sua fase di sviluppo imperialistico, il capitale è diventato più potente; su quello industriale e commerciale si è imposto il capitale finanziario, che domina nei paesi più avanzati, contribuendo a frenare lo sviluppo industriale nei paesi colonizzati, ma, nello stesso tempo, ad aumentare lo sfruttamento delle popolazioni colonizzate e delle risorse naturali presenti nei paesi colonizzati a favore esclusivo dei profitti dei grandi capitali delle potenze colonizzatrici. Alla concorrenza tra merci prodotte e immesse nel mercato si è aggiunta la concorrenza tra capitali; alla sovraproduzione di merci si è aggiunta quella di capitali, sovraproduzioni che intasano il mercato, impedendo ulteriori valorizzazioni del capitale; perciò è interesse dello stesso capitalismo distruggere una parte delle merci e di capitali in sovrappiù per far spazio alle nuove merci e ai nuovi capitali. Ed è ormai noto che gli effetti più drammatici delle crisi di sovraproduzione vengono scaricati sui paesi più deboli e arretrati e sulle loro popolazioni. Questo fatto, se da un lato è un’ulteriore dimostrazione dell’impossibilità da parte del modo di produzione capitalistico di essere effettivamente l’economia che sviluppa costantemente le forze produttive - che invece vengono sistematicamente frenate e distrutte - dall’altro mette i paesi imperialistici più forti (la minoranza dei paesi) nella condizione di sfruttare i paesi capitalisti più deboli (la maggioranza dei paesi), di sfruttare cioè, oltre ai proletari del paese imperialista  non solo i proletariati dei paesi oppressi, ma anche tutte le classi sociali che ne fanno parte. I lunghi secoli della colonizzazione di tutti i continenti lo dimostrano.

L’appropriazione privata della produzione, caratteristica del capitalismo più ancora della basilare proprietà privata, è ancor più accentuata – e perciò rafforza i paesi imperialistici più forti – grazie alla proprietà privata dei capitali finanziari che per loro virtù sono internazionali. Ma la contraddizione tra capitali nazionali e capitali internazionali accompagna il contrasto tra la produzione “nazionale” (ottenuta con interi cicli produttivi nazionali e con impiego di forza lavoro salariata perlopiù nazionale) e la produzione “internazionale” (ottenuta con l’assemblaggio di parti prodotte in diversi paesi esteri e con impiego, perciò, di forza lavoro salariata di più paesi). I prodotti che finiscono sul mercato tendono a perdere la loro origine prettamente “nazionale” per assumere sempre più una caratteristica “internazionale”. Gli stessi produttori – gli operai, i lavoratori salariati – finiscono su un mercato del lavoro che è internazionale anche quando assume forme “nazionali”; infatti il loro salario “nazionale” è sempre più messo in correlazione, e concorrenza, con i salari più bassi esistenti nel mercato internazionle del lavoro. Da ciò si deduce che i proletari, per difendersi con più efficacia in ogni ambito nazionale, non solo devono cercare di unificare le lotte in ambito nazionale superando i limiti corporativi di azienda, di settore e di categoria, ma devono indirizzarsi verso la lotta internazionalista, ossia lottare contro la concorrenza fra proletari dei diversi paesi, cosa che può avvenire solo cominciando a lottare contro la concorrenza in casa propria, ossia – come afferma il Manifesto di Marx-Engels – a lottare contro la borghesia di casa propria.

Se la classe operaia dei paesi capitalisticamente avanzati ha modificato la sua fisionomia sociale, non solo a causa del ridimensionamento, o della scomparsa, delle grandi fabbriche, ma anche a causa di situazioni di crisi economica che la portano spesso a subire licenziamenti e disoccupazione, acquisisce però in forma sempre più sistematica la sua vera natura sociale di classe proletaria alla mercè delle sorti economiche dei capitalisti che la sfruttano. L’operaio, in qualsiasi paese sia nato e lavori, riscopre di essere un proletario nel vero senso della parola, cioè un senza riserve (anche il posto fisso per tutta una vita da operaio poteva essere scambiato, un tempo, per una garanzia, una “riserva”), possessore soltanto della sua forza lavoro grazie alla quale vive, o sopravvive, solo se trova lavoro e sempre più di frequente il lavoro se lo deve cercare molto lontano da dove è nato e cresciuto. D’altra parte, il fenomeno delle grandi migrazioni dei proletari, questi schiavi moderni, accompagna inesorabilmente il capitalismo nel suo sviluppo planetario.

Le grandi concentrazioni di operai di un tempo hanno dato base e forza all’associazionismo sindacale; il loro movimento, le loro lotte, i loro scioperi, esprimevano una forza sociale reale grazie alla quale è stato possibile ottenere concessioni importanti: dalla famosissima legge delle 10 ore giornaliere strappate dalle dure lotte della classe operaia inglese nell’Ottocento, alle normative di fabbrica che andavano incontro alle richieste di pause lavorative, di lotta alla nocività, per poi elevarsi nella lotta per gli aumenti salariali, per la giornata lavorativa di 8 ore ecc. Ma la frammentazione delle masse operaie in medie e piccole fabbriche ha facilitato la concorrenza tra proletari promossa dalla borghesia e fatta propria dalle organizzazioni sindacali opportuniste e collaborazioniste. La forza sociale degli operai, rappresentata dalle masse delle grandi fabbriche, non solo dava forza anche ai proletari delle medie e piccole aziende, ma dava forza alle centrali sindacali che li rappresentavano nei confronti del padronato e dello Stato, anche se la loro attitudine era opportunista. La scomparsa e il ridimensionamento delle grandi fabbriche, oltre a togliere “forza contrattuale” agli operai ed aumentare la concorrenza tra di loro, ha, in un certo senso, tolto forza anche alle centrali sindacali che li organizzavano e li rappresentavano le quali, pur di mantenere il ruolo di pacificatori sociali e di collaborazionisti aziendali e istituzionali passavano, dall’opera di sottomissione sistematica alle esigenze dell’economia aziendale e nazionale, al rispetto della pace sociale e, quindi, a diretto servizio dello Stato borghese in cui, d’altra parte, sono stati integrati. La forza con cui le centrali sindacali piegano le masse proletarie alle esigenze del capitalismo e alla pace sociale è data, in realtà, dalla copertura padronale e statale del loro operato e dai ricatti sotto i quali tengono le masse proletarie circa l’organizzazione del lavoro nelle aziende, la gestione del personale, la gestione dei livelli contrattuali, la gestione in generale della pianta organica di ogni azienda, dei cambiamenti di mansione, dei licenziamenti ecc.

E così i sindacalisti delle organizzazioni collaborazioniste si guadagnano il privilegio di collaborare strettamente con i padroni, e con lo Stato, nel decidere chi deve essere tenuto e chi licenziato, chi deve essere o meno spostato di mansione e di reparto, chi deve essere difeso davanti al padrone o davanti al magistrato e chi no ecc. Se eseguono bene il compito di controllori della massa operaia e di gestori della concorrenza tra proletari, tra fabbrica e fabbrica, tra autoctoni e immigrati, tra giovani e anziani, tra uomini e donne, e se dimostrano di essere efficienti nel far passare le esigenze capitalistiche nelle singole aziende e nel paese, e di essere in grado di mantenere la pace aziendale e la pace sociale, i padroni e lo Stato li premiano col privilegio di essere più garantiti e protetti rispetto a tutta la massa operaia. Ormai ogni proletario si rende conto di essere prigioniero di un sistema di sfruttamento contro il quale la sua lotta di resistenza quotidiana se la deve vedere non solo col padrone e i suoi guardaciurma – il che è ovvio, visto che sono loro che lo schiacciano in condizioni di lavoro e di esistenza intollerabili – ma anche con i sindacalisti collaborazionisti che usano la potenziale forza sociale dei proletari per garantirsi privilegi personali, ed usano la forza economica e sociale dei capitalisti, al servizio dei quali in realtà sono, soprattutto nelle situazioni di tensione e di sciopero. L’indebolimento del proletariato, in generale, è il risultato della pluridecennale opera di sabotaggio messa in atto dalle organizzazioni sindacali e politiche collaborazioniste, ma che si sono fatte e si fanno passare per organizzazioni “di difesa” dei lavoratori. Dopo decenni di scioperi del tutto inefficaci, di sabotaggi da parte delle centrali sindacali, di “negoziati” che non si concludono mai a favore dei proletari, ma a favore dei padroni; dopo decenni in cui le grandi organizzazioni sindacali si sono dedicate alla frammentazione delle lotte operaie e, in ultima analisi, alla grande disorganizzazione della lotta operaia, è inevitabile che il proletariato abbia via via perduto fiducia nella propria forza, nella propria lotta e tenda a demandare ai rappresentanti del padronato e dello Stato “soluzioni” – che non possono essere che contingenti – ai suoi problemi di vita e di lavoro.   

Il periodo di forzata collaborazione interclassista durante il fascismo e, poi, il lungo periodo di collaborazione interclassista durante la democrazia post-fascista, sono stati caratterizzati dal complesso sistema di ammortizzatori sociali che, se da un lato hanno in qualche modo difeso una parte consistente della massa operaia dal precipitare nella miseria più nera, dall’altro le hanno strappato dalla mente e dal cuore il senso di appartenenza alla propria classe e il senso della sua lotta indipendente, rendendo ancor più debole il movimento operaio. Nei fatti lo ha abituato ad avere da parte dello Stato borghese una risposta, sebbene non sufficiente, ma utile per superare i periodi di crisi e di affrontare i licenziamenti e la disoccupazione con qualche punto d’appoggio per non morire di fame; ma, intanto, lo ha intossicato a tal punto da non riuscire a riconoscersi come un reale antagonista di classe e, quindi, a lottare contro quella forma di dipendenza dall’azione del padrone e dello Stato ai quali viene demandata costantemente la ricerca della soluzione dei problemi che il proletariato incontra nella quotidianità. E’ innegabile che un proletariato così intossicato, così dipendente dalle droghe della democrazia, della collaborazione di classe, della legalità, della pace sociale, potrà ritrovare la forza di reagire sul terreno della lotta classista solo rompendo drasticamente con tutti gli apparati del collaborazionismo interclassista e con tutte le politiche di conciliazione utilizzate dai sindacati e dai partiti “operai” corrotti dalla borghesia, e immagazzinando nuove energie, nuove forze, dai proletari più giovani e degli altri paesi meno avanzati capitalisticamente, che entrano nel “mondo del lavoro” e che non hanno alle spalle un periodo altrettanto lungo di intossicazione democratica e collaborazionista.

 

LE MEZZE CLASSI E IL LORO RUOLO SOCIALE

 

Come si sa, la tendenza al gigantismo industriale, e commerciale, ha fatto da base alla creazione dei monopoli e ha aperto la strada al dominio del capitale finanziario. Questo però non ha voluto dire che la piccola e la media industria, o il piccolo e medio commercio, sarebbero scomparsi per sempre; si riducevano il loro numero e anche il loro peso nell’economia generale, ma essi continuavano a sussistere, pur subendo rovinose cadute ad ogni ciclo di crisi economica o di guerra, per rinascere in una certa misura proprio in seguito alle crisi economiche e alle guerre a causa delle quali le grandi fabbriche, le grandi aziende subivano tracolli che le obbligavano non solo a ridimensionarsi, o a trasformarsi, ma a rifugiarsi fra le braccia dello Stato che aveva così il compito di salvarne il futuro, dimostrando una volta di più che lo Stato borghese è al servizio soltanto della borghesia e del capitalismo.

Se è vero che, dal punto di vista generale, la società è divisa in due classi principali – borghesia e proletariato –, è altrettanto vero che, nella società capitalistica sviluppata, la cosiddetta classe media, che poi è l’insieme dei diversi strati di piccola borghesia, se svolge un ruolo economico non di importanza vitale per la società capitalistica, dal punto di vista politico e sociale svolge un ruolo molto importante che la grande borghesia non può svolgere direttamente. La grande borghesia, dunque il grande capitale, è naturalmente totalitaria, antidemocratica; non divide i propri capitali, i propri profitti con la classe piccoloborghese (anche se è da questa che storicamente è nata), tantomeno con il proletariato. Usa i propri capitali per mantenere e rafforzare il proprio potere politico, ed usa il proprio potere politico per orientare, a proprio beneficio, i capitali che lo Stato incamera dalle tasse e dalle mille gabelle che emette per sostenere le spese della sua macchina burocratica. Dunque, se la grande borghesia domina la società attraverso la democrazia e i suoi meccanismi non è perché vuole condividere il potere con la piccola borghesia e con il proletariato – che costituiscono la grande massa degli elettori – ma perché questo sistema – come abbiamo ripetuto mille volte – è quello che le permette di dominare meglio, con minori conflitti sociali. Ma il sistema democratico e parlamentare sollecita i gruppi sociali a farsi rappresentare da partiti e associazioni, e più la società è divisa in strati sociali differenziati, più i particolari interessi di questi strati chiedono di essere rappresentati: alcuni gruppi sociali riescono a raggiungere le percentuali di voto che permettono loro di andare al parlamento e partecipare così alla girandola delle alleanze; molti altri non ce la fanno, ma continuano ad esistere a ad agire nella società, alimentando in questo modo l’illusione che tutti i cittadini, tutte le esigenze di ogni abitante, possono trovare prima o poi la strada per pesare sulle decisioni locali o su quelle più generali che si discutono in parlamento. Che queste illusioni siano veicolate soprattutto dalla piccola borghesia per noi è scontato. Ma è proprio la frammentazione degli interessi e dei gruppi sociali piccoloborghesi, nel loro dimenarsi nella società, nelle istituzioni, negli ambiti burocratici, nei mercati, che permette loro di incrociarsi con la frammentazione in cui oggi si trova il proletariato, facilitando in questo modo il coinvolgimento del proletariato nelle illusioni piccoloborghesi e acuendo la concorrenza tra proletari. Questo vero e proprio lavoro sociale degli strati piccoloborghesi in funzione della conservazione sociale e della difesa del capitalismo, viene ripagato dalla grande borghesia con diversi tipi di privilegi e di prebende che costituiscono la rete di interessi che lega tutte le forze politiche parlamentari e tutti i gruppi economici e sociali a quella rete legati; legami che si presentano normalmente come favori personali, aprendo le porte alla corruzione, alla distrazione di denaro pubblico per interessi privati ecc. che, dall’alto del governo, senza soluzione di continuità, scendono fino alle comunità locali. In paesi come l’Italia, la rete dei corrotti e dei corruttori è sempre molto attiva, ma la permanenza di determinati ammortizzatori sociali che salvano una parte almeno di proletari e piccoloborghesi dalla miseria nera e dalla rovina completa riesce ancora a contenere la rabbia delle masse che, invece, in paesi come il Perù, il Cile, l’Iraq, l’Ecuador, l’Egitto ecc, si esprime con violenza e non solo per qualche giorno.

 

L’INTERCLASSISMO VA COMBATTUTO SEMPRE, IN OGNI SITUAZIONE

 

Il peso sociale del proletariato industriale, in ogni paese, non è determinato soltanto dal suo numero rispetto alla popolazione attiva non agricola. E’ determinato dalla sua organizzazione come classe indipendente e dalla sua rappresentanza politica nel partito proletario comunista. Se guardiamo il caso della Russia, nelle due rivoluzioni, 1905 e 1917, i due milioni di proletari industriali, oltretutto concentrati in poche città, sebbene città decisive, si confrontavano con decine di milioni di contadini. Il proletariato russo, influenzato, organizzato e diretto dal partito bolscevico, ha avuto il peso decisivo nella rivoluzione del 1917, sia nel febbraio sia, soprattutto, nell’ottobre, perché ha trascinato dietro di sé le grandi masse contadine in precedenza influenzate, organizzate e dirette dai partiti piccoloborghesi.

Il precipizio nel quale il proletariato è caduto a causa della controrivoluzione staliniana, ha facilitato il compito di illudere i proletari, dopo i giganteschi massacri della seconda guerra mondiale, che i partiti “comunisti” rinnegati hanno svolto nel diffondere il principio e le pratiche della democrazia borghese come il non plus ultra della civiltà e della giustizia sociale; ed ha facilitato l’altro importante compito, sia dei partiti falsamente operai che dei sindacati tricolore – dunque non diventati nel tempo, ma nati collaborazionisti - di deviare le spinte proletarie alla lotta classista negli alvei delle lotte interclassite. Quindi, quale ruolo potrà mai avere domani il proletariato industriale?

Il proletariato industriale ha avuto ed ha, episodicamente, dei sussulti; esplodono scioperi improvvisi, ma finiscono rapidamente; i proletari si ritrovano perlopiù isolati e separati dagli operai di tutte le altre industrie, non riempiono, se non raramente, le strade e le piazze con le loro bandiere rosse come un tempo: il proletariato è dato politicamente per morto, e questo già da parecchio tempo. Ma la classe dominante borghese ha tirato anch’essa delle lezioni dalla storia passata e, sebbene speri in cuor suo di non dover più affrontare un proletariato organizzato per attaccarla frontalmente e rovesciarla per mezzo della rivoluzione, se c’è qualcosa che teme più dei venerdì neri delle sue borse è proprio il proletariato rivoluzionario. La grande paura che ebbe la borghesia europea, e quindi la borghesia mondiale, finita la prima guerra mondiale, tra l’Ottobre rosso 1917 e il biennio 1919-1920 (il famoso biennio rosso), fu provocata proprio dalla sollevazione di un proletariato che non temeva più di scontrarsi con i carabinieri e la polizia nelle manifestazioni di strada, che non si fermava davanti ai propri morti uccisi negli scioperi come non si era fermato davanti ai propri fratelli di classe decimati al fronte di guerra dopo aver abbandonato le trincee; di un proletariato che aveva preso coscienza della propria forza di classe e che aveva trovato nel bolscevismo e nell’Internazionale comunista la sua vera guida rivoluzionaria. A quell’epoca, la combinazione tra l’opera pluridecennale dell’opportunismo socialdemocratico, la giovanissima formazione dei partiti comunisti in Europa subito dopo la guerra, la pressione economica insopportabile su vaste masse proletarie e l’azione delle bande fasciste foraggiate dai capitalisti e protette dalle forze militari dello Stato, fu una combinazione che permise alla borghesia di ogni paese di conservare il suo dominio economico e politico, isolando e strangolando la rivoluzione proletaria di Russia. L’opera devastatrice dell’opportunismo socialpatriottico, sociallegalitario, socialpacifista corrose la stessa Internazionale comunista che finì per degenerare drammaticamente, facendo precipitare il movimento comunista internazionale e il movimento proletario mondiale in un baratro dal quale ancor oggi non sono emersi. Vedendo le manifestazioni del 1° maggio ridotte a processioni addirittura meno partecipate di quelle religiose di Santa Rosa o della Madonna Nera, verrebbe da dire che gli operai ormai non sono più protagonisti di nulla, nemmeno del loro 1° maggio, della loro giornata di lotta internazionale. Che sia dunque vero che il proletariato industriale ha perso del tutto la sua funzione storica? E quale sarebbe la classe o il movimento sociale che lo avrebbe sostituito?

Le manifestazioni di massa che hanno riempito le piazze e le strade a Hong Kong, in Cile, in Perù, in Colombia, in Iraq, in Iran, in Libano, in Ecuador, in Bolivia, in Brasile, ad Haiti, ma anche in Egitto, in Algeria, e in Francia, in Italia e in tanti altri paesi, sembrano annunciare una nuova fase. Masse contadine, piccoloborghesi, proletarie e semiproletarie, mescolate assieme in una specie di mobilitazione di popolo, appaiono come la grande novità: pacificamente, ma anche violentemente, esse chiedono pane, lavoro, libertà, lottano contro l’aumento del costo della vita, contro la corruzione dei governi e dei politici, lottano per l’autonomia dei territori, contro l’inquinamento e il riscaldamento del clima, manifestano chiedendo un cambiamento. Ma lo chiedono agli stessi poteri borghesi contro cui manifestano; li vorrebbero più attenti alle loro esigenze, meno corrotti, più “democratici”; chiedono loro di non pensare solo al “presente”, ma anche alle generazioni “future”. Mescolano, partendo dai problemi che hanno fatto esplodere una rabbia diffusa, rivendicazioni economiche immediate e misure politiche che appaiono  decisive, quali le dimissioni di un presidente o di un governo. Le manifestazioni di massa di oggi ricordano, in parte, le manifestazioni del 2011 che presero il nome di “primavere arabe”, a causa delle quali effettivamente i presidenti-re, come Ben Alì in Tunisia e Mubarak in Egitto, dovettero abbandonare il potere, salvo, poi, non essere stati seguiti dal tanto sperato “cambiamento”, dall’agognato miglioramento della situazione delle masse proletarie e diseredate, cadute, in realtà, in nuove forme di oppressione e sfruttamento. E’ cambiata la guardia, ma non il sistema.

In effetti, la situazione di caos generale che caratterizza una gran parte dei paesi è dovuta alla concomitanza di diversi fattori, fra i quali gli effetti delle ultime crisi economiche che hanno colpito tutti gli strati inferiori della società, dalla piccola borghesia urbana al contadiname, dal proletariato al sottoproletariato, e anche strati della media borghesia, e al fatto che le istituzioni democratiche sono talmente logore da far trasparire, con grandissima evidenza, la corruzione e il malaffare come il modus operandi generalizzato di ogni potere esistente. Ciò che stupisce, ma che allo stesso tempo esalta, gli stessi partecipanti alle mobilitazioni è la spinta oggettiva che li muove nel protestare, la tanto osannata spontaneità, la tenuta nel tempo di queste proteste, il numero di persone coinvolte e il fatto che tutto avvenga soprattutto con spinte dal basso, in assenza di grandi partiti che organizzino coscientemente, dall’alto, quella tal mobilitazione con date rivendicazioni e con una tempistica preorganizzata, e che facciano da portavoce delle esigenze sentite dai partecipanti alle mobilitazioni. Aldilà della solita ricerca dei leader di questi movimenti da parte dei media e da parte dei poliziotti, è un fatto che in queste proteste si trovano fianco a fianco borghesi e proletari, padroni di casa che pretendono affitti esosi e proletari in cerca di lavoro, bottegai che non fanno credito a nessuno e contadini che si ammazzano di lavoro sui propri fazzoletti di terra, artigiani che sono costretti a mettere al lavoro moglie e figli per sbarcare il lunario e sottoproletari che il lavoro l’hanno perso da anni e vivono di espedienti; ma anche intellettuali che vogliono sentirsi partecipi di qualcosa di grande e non ancora “classificato” su cui magari elucubrare come “testimoni diretti”, o impiegati di primo o secondo livello che difendono la democrazia come fosse la cura di ogni malessere sociale e garanzia per il proprio benessere...

Che ruolo sociale e politico stanno giocando queste manifestazioni? Sono equiparabili al ruolo e al peso sociale che avevano le grandi manifestazioni di sciopero degli operai?

Da quello che appare, e visto che i grandi scioperi operai – che pure avvengono episodicamente, ma nel silenzio generale dei media – sembrano non costituire più il punto di riferimento, il polo d’attrazione delle proteste contro il disagio sociale che colpisce anche una buona parte degli strati piccoloborghesi, queste manifestazioni stanno diventando non solo il modo di esprimere un malcontento generalizzato, ma anche la fucina di una nuova “classe politica” che germoglia direttamente dal “popolo”, da tutti gli strati sociali che si sentono non rappresentati, non protetti, non garantiti nel presente come nel futuro. Una nuova “classe politica” che coniughi le richieste di un miglioramento generalizzato delle condizioni di lavoro e di vita con una giustizia sociale da attuare secondo la costituzione e le leggi esistenti,  e che ascolti le richieste di una “nuova” democrazia sull'onda della pressione di una “democrazia diretta” che punta a deviare lo sviluppo economico capitalistico attuale sulla via della difesa ambientale, del cosiddetto Green new deal, cioè di una sorta di programma di riforme che avrebbero lo scopo di legare la lotta per la difesa ambientale con la lotta contro le diseguaglianze sociali. I borghesi più illuminati, più sensibili alle variazioni degli stati d’animo delle masse, e più illusi che la società possa essere riformata, in generale, mantenendo in piedi il modo di produzione capitalistico e rendendo il regime democratico “più democratico”, stanno sostenendo con vigore queste manifestazioni, nella speranza evidentemente che, soprattutto le giovani generazioni, spaventate da un futuro messo in pericolo dalle guerre e dai disastri ambientali, continuino ad esprimere le loro preoccupazioni e il loro malcontento nel pieno rispetto della pace sociale, della democrazia, della costituzione e dell’autorità dello Stato. Non sia mai che i profitti del capitale vengano messi in pericolo da un proletariato risvegliatosi alla sua causa di classe, sociale e politica, e che riscopra i capitalisti e la loro società oppressiva e sfruttatrice come i veri nemici non solo nel presente ma anche per il futuro. Non sia mai che le masse di giovani che oggi manifestano per le strade di tutte le grandi città del mondo contro gli effetti più o meno evidenti del capitalismo, sia nell’ambiente che nella vita economica e sociale quotidiana, non scoprano che la vera lotta per la vita non è quella che chiede ai governanti borghesi di tornare sui loro passi, di frenare la spinta parossistica al profitto e di dedicare più attenzione e più risorse al disinquinamento, alla decementificazione, alla riforestazione e alla salvaguardia dei diritti dei popoli, ma quella che mette in discussione l’intero sistema politico ed economico capitalistico e che vede nel proletariato di ogni paese la classe che deve tornare a lottare per la difesa dei suoi interessi di classe, sia sul piano economico che sul piano politico generale.

 

IL PROLETARIATO RISORGERÀ COME CLASSE RIVOLUZIONARIA LOTTANDO CONTRO L’INTERCLASSISMO E CONTRO LA CONCORRENZA TRA PROLETARI

 

Possono queste mobilitazioni rappresentare un’occasione perché il proletariato riprenda a lottare sul terreno di classe? NO. Il terreno di classe è totalmente antagonista al terreno democratico e piccoloborghese su cui sono scesi a manifestare, anche violentamente, le masse in Cile, Ecuador, Perù ecc. L’interclassismo che caratterizza queste manifestazioni (anche in Iraq e in Egitto) non è una base da cui può emergere il classismo proletario. Il coinvolgimento di masse sempiroletarie e contadine povere, e anche di proletari, su questo terreno è un fatto che potremmo dire “naturale”, data la situazione in cui vince la rabbia spontanea di tutti gli strati sociali colpiti dalla crisi e dalle misure dei governi borghesi, e in cui manca del tutto l’organizzazione di classe del proletariato, l’unica che può rappresentare un polo d’attrazione sociale e politico antagonista a quello della borghesia. I proletari riusciranno ad organizzarsi in modo indipendente di classe solo rompendo con l’interclassimo, riconoscendo a se stessi una forza sociale indipendente in grado di trascinare gli altri strati sociali colpiti dalla crisi e dalle misure borghesi, e non di farsi trascinare. Da queste mobilitazioni i proletari devono far propria una lezione contro l’interclassismo, contro la collaborazione fra le classi, e questa lezione siamo soltanto noi, partito comunista marxista, che possiamo tirarla e, dall’esterno, portarla all’interno della classe proletaria, tanto più oggi ancora enormemente confusa nella sua stessa composizione di classe. Ci vorrà il tempo che ci vorrà, ma l’incontro tra la lotta proletaria e il partito proletario può avvenire solo sul terreno di una lotta che tende al classismo, all’indipendenza di classe da parte del proletariato, sul quale terreno il partito agisce con la sua propaganda e la sua azione nelle file proletarie, veicolando le lezioni tirate dalla storia delle lotte di classe; e le avanguardie del proletariato si avvicinano al partito perché sono spinte a trovare non solo le risposte ai problemi generati dalla lotta e dagli scontri con la borghesia e con le diverse forze della conservazione sociale, ma a trovare anche un preciso orientamento per le lotte successive, per il futuro stesso del suo movimento.

La riorganizzazione di classe del proletariato non significa, all’immediato, scontrarsi con gli strati semiproletari e contadini poveri. Questi strati sono effettivamente anch’essi colpiti duramente dalle misure governative e dalla crisi economica, ma verso di loro i comunisti, che parlano per conto della classe proletaria, devono farsi carico delle rivendicazioni che sono condivisibili dal punto di vista di classe perché sono apertamente antiborghesi, e perché difendono le condizioni di vita e di lavoro non solo proletarie, ma anche degli strati semiproletari e contadini poveri. Va propagandata – come si faceva al tempo dei bolscevichi –, fra i semiproletari e i contadini poveri, la lotta proletaria indipendente come l’unica che può effettivamente portare una prospettiva di difesa sul piano immediato a quegli strati sociali. Va propagandato, cioè, il fatto che non sono i mezzi e i metodi di lotta proposti dalla piccola borghesia o dalla borghesia – democrazia, salvaguardia dell’ordine stabilito, difesa dello Stato come ente al di sopra delle classi ecc. – quelli che riusciranno a sollevare dalla miseria, dalla fame e dalla emarginazione sociale gli strati semiproletari e contadini poveri, ma i mezzi e i metodi di lotta classisti che il proletariato dovrà adottare per contrastare in modo efficace, all’immediato, il peso dominante della borghesia e per porre, in futuro, il problema della conquista del potere politico.

Perciò, di fronte alla mobilitazione degli strati sociali piccoloborghesi e semiproletari rovinati dalla crisi economica e dalle misure economiche e sociali che i governi borghesi assumono, di volta in volta, per difendere meglio gli interessi del capitalismo e del grande capitale, noi mettiamo in evidenza l’impossibilità della borghesia di risolvere i problemi sociali, ma di acutizzarli. Di fronte a questi problemi, la ribellione interclassista tipica di quegli strati – anche nei casi di grande combattività e coraggio nell’affrontare la polizia, l’esercito, i carri armati –  è condannata ad essere risucchiata nell’alveo delle politiche e delle pratiche borghesi che non hanno altro obiettivo generale se non di riportare la situazione sotto un pieno controllo borghese per il quale, se necessario, si depongono presidenti e re, si cambiano governi e si riscrivono costituzioni, si indicono elezioni, si concedono libertà di riunione, di organizzazione e di attività politica sapendo che queste libertà, scritte sulla carta, passato il periodo di più forte tensione sociale, possono essere calpestate dal potere in ogni momento; magari con un potere dittatoriale esplicito come successe con Pinochet in Cile, ma anche in Egitto con Al-Sisi. Di esempi ce ne sono a centinaia.

Noi, dunque, ci rivolgiamo soprattutto ai proletari, anche se per lungo tempo non ci ascolteranno, perché è la sola classe che può un giorno tornare a riconoscersi come l’unica in grado di affrontare il potere borghese per distruggerlo; l’unica che – pur non sapendolo mentre lotta per sé – ha un compito storico rivoluzionario che scoprirà solo quando la sua lotta di difesa sul terreno immediato si eleverà a livello politico generale, diventerà lotta di classe che anche il suo nemico principale – la grande borghesia – le riconoscerà sferrando contro di lei ogni tipo di attacco (economico, politico, militare, religioso, culturale). I proletari, da elettori da conquistare diventeranno, per i borghesi, i più pericolosi nemici da schiacciare con ogni mezzo. E i proletari dovranno necessariamente prepararsi, allenarsi, a sostenere conflitti e lotte che sono destinati a trasformarsi prima o poi nella guerra di classe, una guerra per la quale la borghesia si prepara da sempre e nella quale utilizza tutti i mezzi che ha a disposizione, legali e illegali, pacifici e violenti, democratici e reazionari, e nella quale lancerà contro i proletari non solo le sue forze di polizia e l’esercito, ma anche schiere di piccoloborghesi e di lumpenproletariat, malavitosi compresi, che si faranno comprare per due soldi mettendosi al suo servizio per il lavoro più sporco.

Certo, nei confronti degli strati piccoloborghesi e sottoproletari il proletariato avrà un atteggiamento contraddittorio: sul lungo periodo, e in particolare nel periodo in cui maturano le condizioni della lotta rivoluzionaria, questi strati sono congenitamente antiproletari, perciò sono facilmente manovrabili dalla borghesia; sono dunque strati sociali nemici del proletariato. Ma sono anche gli strati sociali che vengono colpiti senza tanti complimenti dagli effetti delle crisi economiche e finanziarie capitalistiche e dai governi borghesi che, con misure di forte austerità, tentano di uscire dalle crisi. E’ questa condizione di essere soggetti alla rovina economica e di subire i colpi dell’austerità e della macchina burocratica governativa, che li può rendere permeabili, certo solo in parte, alla propaganda proletaria e comunista.

Nello scontro tra proletariato e borghesia, noi abbiamo tutto l’interesse – sostennero Lenin e Bordiga – a rendere almeno neutrali le mezze classi, o perlomeno un loro strato consistente, e questo lo si può ottenere non promettendo loro il riposizionamento nella situazione privilegiata precedente (cosa che certamente il potere proletario non farà), ma promettendo loro la lotta più dura contro i loro nemici immediati, i proprietari immobiliari, gli usurai e le banche, i proprietari terrieri, l'elefantiaca macchina burocratica e fiscale allestita appositamente dal potere borghese per difendere meglio i suoi interessi a spese dell’intera popolazione, perciò anche a loro spese. E ciò vale sia per la popolazione urbana che per la popolazione rurale; anzi, per i contadini poveri vale, in un certo senso, di più perché il loro lavoro, riguardando la produzione alimentare e, quindi, la fornitura alimentare delle città, risulta obiettivamente vitale, soprattutto in tempi di crisi e in tempi di guerra. La contraddizione dell’atteggiamento che il proletariato deve assumere nei confronti di questi strati sociali non deve essere nascosta dai comunisti; deve essere dichiarata apertamente, e sarà l’andamento della lotta di classe e rivoluzionaria che farà riconoscere loro la convenienza di restare neutrali nella guerra di classe tra borghesia e proletariato, se non di mettersi al servizio del proletariato rivoluzionario.

In questa complessa prospettiva storica, il proletariato dovrà ritrovare la forza di lottare per sé stesso in quanto classe oppressa e sfruttata dalla classe borghese dominante, mentre sulla sua oppressione e sul suo sfruttamento vivono anche gli strati della media e della piccola borghesia che continueranno ad oscillare storicamente tra la borghesia e il proletariato, tendendo a polarizzarsi verso la borghesia in tutti i periodi – come l’attuale – in cui essa appare forte e invincibile, e verso il proletariato nel periodo in cui la lotta di classe e rivoluzionaria proletaria scuote dalle fondamenta il potere politico borghese. Se il nemico storico principale del proletariato è la classe borghese, per lunghi periodi gli è nemica anche la classe media, la piccola borghesia perché la sua base materiale è data dal modo di produzione capitalistico, seppure con effetti molto contraddittori visto che il suo sviluppo tende a emarginarla se non a farla sparire, almeno come peso economico e sociale.

Ma le mezze classi piccoloborghesi hanno un ruolo indispensabile per il mantenimento della pace sociale, funzionando da legame politico tra proletariato e borghesia, legame che si traduce nell’interclassismo in cui esse confondono se stesse e le masse proletarie in un unico pastone sociale al servizio della conservazione sociale, nella speranza di ripristinare la situazione in cui la piccola industria e il piccolo commercio tornino ad avere un ruolo di peso, se non decisivo come agli albori della società capitalistica, nell’economia nazionale.

Aldilà di un illusorio ritorno indietro della storia, resta però il ruolo politico dell’interclassismo come base della collaborazione tra le classi, come base quindi dell’opportunismo più reazionario contro cui i proletari, per non soffocare ogni anelito di riscossa, devono combattere con tutte le loro forze perché senza la drastica rottura con l’interclassismo e con il collaborazionismo non vi sarà mai riorganizzazione proletaria di classe e non vi sarà mai emancipazione del proletariato dal giogo schiavizzante borghese.

 


 

(1) Cfr. Sul filo del tempo intitolato Inflazione dello Stato, pubblicato su “battaglia comunista”, n. 38, 5-12 ottobre 1949; presente  anche  nel sito www . pcint . org, alla sezione Testi e tesi fondamentali, Fili del tempo (1949-1955).

(2) Cfr. Lenin, Stato e rivoluzione, 1917, cap. II, par.2, Editori Riuniti, Le idee, Roma 1981, p. 92.

 

 

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