Sulla natura degli eventi in Bielorussia

(«il comunista»; N° 166 ; Dicembre 2020)

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Pubblichiamo di seguito alcune considerazioni sugli avvenimenti in Bielorussia, in risposta ad un compagno che ci ha rimproverato di sopravvalutare il significato degli scioperi non tenendo conto dell’azione di “provocatori” al soldo dell’imperialismo e di non non vedere che in realtà eravamo in presenza di una riedizione di un movimento di tipo “Maidan” - un movimento di mobilitazione contro il governo ucraino per l’adesione all’Unione Europea; sebbene quest’ultimo movimento, in cui i gruppi nazionalisti di estrema destra e neonazisti giocavano un ruolo importante, fosse innegabilmente antiproletario, la maggior parte dei deboli gruppi e militanti ucraini lo considerava una vera “rivoluzione” e l’aveva sostenuto. Queste considerazioni sono state scritte lo scorso 24 agosto (vedi la loro pubblicazione ne “le prolétaire” n. 538), ma mantengono del tutto la loro validità.

 

1. L’imperialismo (e la borghesia in generale) è intrinsecamente incapace di innescare un movimento di massa contro un regime, figuriamoci attraverso un pugno di “provocatori” che non possono avere la potenza dei grandi media moderni.

Si tratta infatti di un argomento che viene sempre utilizzato dai leader di un paese di fronte a movimenti di rivolta: essi sostengono sempre che questi movimenti sono opera di “manipolatori”, di “provocatori” molto spesso accusati di esserlo guidati da Stati stranieri ostili al paese; ciò permette loro di cercare il sostegno della parte più conservatrice della popolazione, in nome del nazionalismo, della difesa della patria ecc. Lukashenko sta solo ripetendo quel che i governanti arabi hanno detto nei confronti dei movimenti della cosiddetta “primavera araba” o più recentemente i leader dei paesi latinoamericani, i leader algerini o il governo cinese nei confronti di Hong Kong. Nella stessa Francia il governo ha sostenuto che i “Gilet Gialli” o le manifestazioni degli scioperanti erano infiltrati da “provocatori”.

Da un altro punto di vista, ci sono, ad esempio, correnti “indifferentiste” a volte chiamate di “ultra-sinistra”, che non vedevano nelle lotte anticoloniali e di liberazione nazionale nient’altro che degli scontri fra potenze imperialiste, negando alle masse ogni possibilità di lotta autonoma. Allo stesso modo, queste correnti vedono nei movimenti come i Gilet Gialli o nei grandi movimenti di sciopero solo “manovre” della borghesia per impedire al proletariato di accedere alla coscienza di classe.

Secondo la corretta concezione materialista, l’emergere e lo sviluppo di questi movimenti non possono essere il risultato di manovre e piani decisi in anticipo; sono determinati da fattori economici, politici e sociali interni al paese (essi stessi riflesso o conseguenza di fattori principalmente economici, ma anche politici, internazionali). Questi movimenti non possono inizialmente sfuggire al quadro politico generale del rapporto tra le classi, anche se con la loro forza possono modificarlo.

In concreto ciò significa che i proletari bielorussi non si sono messi in movimento per amore della “democrazia” o per adesione al programma politico dell’opposizione, ma per reazione al crescente deterioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro. Ma, in assenza di qualsiasi tradizione, non diciamo comunista (il “comunismo”che esisterebbe laggiù non si distingue dal capitalismo di Stato e dal sostegno a Lukashenko), ma semplicemente della lotta classista elementare, è inevitabile che l’ideologia democratica e gli orientamenti interclassisti dell’opposizione piccolo borghese siano dominanti: i proletari dovranno sperimentare l’esperienza pratica di ciò che questa ideologia e questi orientamenti significano per allontanarsi da esse.

 

2. La situazione in Bielorussia non è quella in Ucraina.

L’instabilità politica in Ucraina, dovuta alle gravi difficoltà economiche del paese, ha acuito le divisioni all’interno della classe dominante, storicamente divisa tra un’ala filo-occidentale che vedeva la sua salvezza nell’integrazione nel blocco economico dell’Unione Europea, e un’ala filo-russa, la cui base era data da un’industria pesante dipendente dal mercato russo e che, quindi, avrebbe avuto tutto da perdere da quella integrazione. In questa situazione di fragilità dello Stato e di instabilità politica cronica, dove cominciarono ad apparire e fiorire organizzazioni di estrema destra, finanziate da oligarchi “europeisti” da una parte, e da organizzazioni “separatiste” dall’altra, le spinte imperialiste contrastanti si sono manifestate in pieno. L’UE stava cercando di aumentare il proprio peso economico in Ucraina (ma senza proporre l’adesione, che sarebbe stata la fonte di troppe contraddizioni interne al blocco); gli Stati Uniti volevano staccare l’Ucraina dalla Russia come parte di una politica di respingimento da quest’ultima; essi rimproveravano l’UE per il suo atteggiamento troppo “cauto” (la Germania, per non offendere la Russia, aveva posto il veto all’iniziativa americana di offrire all’Ucraina l’adesione alla NATO); la Russia, da parte sua, voleva mantenere l’Ucraina, o almeno una parte dell’Ucraina, sotto la sua influenza. I movimenti di protesta che stavano emergendo continuamente a causa del deterioramento delle condizioni di vita delle grandi masse, compresa la piccola borghesia – e non a causa di complotti borghesi – in assenza di una polarizzazione di classe, potevano solo allinearsi con l’una o l’altra delle forze borghesi nazionali o imperialiste. Se ci fosse stata una situazione rivoluzionaria o pre-rivoluzionaria, cioè una situazione di polarizzazione sociale in cui almeno una frazione del proletariato iniziasse a lottare su posizioni di classe rivoluzionarie, tutte le forze borghesi o imperialiste avrebbero unito le loro forze, subito riconciliate, per cercare di schiacciarla. Non era questa la situazione; come sempre, ciò non ha impedito alle correnti opportuniste di “estrema”-sinistra, rivoluzionarie solo a parole, di inseguire il “movimento” e di mettersi al rimorchio di coloro che si erano posti alla sua testa.

Niente di simile in Bielorussia, che non ha affatto la stessa importanza economica e strategica dell’Ucraina.

Finora, a nostra conoscenza, tra i leader dell’opposizione non esiste una corrente “anti-russa”. Il governo di Lukashenko afferma di essere vittima di una “rivoluzione colorata”; ma è stato lui a fare delle aperture nei confronti dell’UE e degli Stati Uniti, al punto da dichiarare, in un promo tempo, di essere minacciato da un’operazione di destabilizzazione organizzata dalla Russia. È stato lui a propagandare il nazionalismo e a riportare in auge la lingua bielorussa (quando il 75% della popolazione parla russo) ecc.

In realtà, l’UE non ha la stessa velleità di aumentare la sua presenza nei confronti della Bielorussia come nel caso dell’Ucraina, velleità che si traducevano in molteplici iniziative diplomatiche, in accordi economici ecc.

Inoltre, gli imperialismi dell’Europa occidentale, confrontati attualmente con azioni ostili degli Stati Uniti, e non solo sul fronte commerciale (Trump non ha mai nascosto il suo desiderio di disintegrazione dell’UE), non vogliono proprio urtare la Russia. Ciò è particolarmente chiaro per la Francia, dove l’attuale governo ha rotto con l’allineamento del governo precedente sulle posizioni statunitensi e “neo-con”, e chiede apertamente un riavvicinamento con Mosca. La Germania non lo dice così chiaramente, ma condivide lo stesso atteggiamento.

L’UE ha accettato la richiesta della Polonia di organizzare una riunione sulla situazione in Bielorussia, ma ha anche inserito all’ordine del giorno il Libano e le relazioni con la Turchia, dimostrando che la situazione in Bielorussia non è una priorità per i grandi Stati dell’UE. Alla fine, questa “videoconferenza” ha portato solo a misure minime; l’analisi dei commentatori è stata che l’UE stia effettivamente lasciando alla Russia il compito di risolvere la crisi nel migliore dei modi, facendo pressione su Lukashenko.

Negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump, bersaglio di un’aspra campagna dei Democratici sulla sua presunta collusione con il governo russo, non sembra abbia prestato particolare attenzione alla Bielorussia e, d’altronde, non è nemmeno sotto accusa da parte di Lukashenko.

Non ci sono quindi né le condizioni interne né quelle esterne perché forze – indeterminate –   organizzino una situazione à la Ma¿dan; e ciò non è contraddetto dall’esistenza di piccoli gruppi neofascisti denunciati a gran voce dalla propaganda di regime; o dalla bandiera bianco-rosso-bianca che probabilmente ricorda ai bielorussi i primi anni post-sovietici, durante i quali era la bandiera ufficiale dal 1990 al 1995, prima dell’era Lukashenko quando fu scelta la nuova bandiera. Per i marxisti sventolare la bandiera nazionale, prima o dopo il 1995, ha lo stesso significato interclassista, quindi antiproletario.

 

3. È difficile prevedere come si svilupperà la situazione. È del tutto possibile che le azioni veramente provocatorie di Lukashenko (e quelle di Putin) porteranno a una “radicalizzazione” dell’opposizione; nei grandi paesi capitalisti ricchi, il meccanismo democratico serve proprio a prevenire tale radicalizzazione, concedendo la possibilità di sostituire il personale politico, senza mettere in discussione il dominio borghese. Nei paesi più poveri, questa possibilità è molto flebile, sia che la sorte e la fortuna del clan borghese al potere dipenda direttamente dal suo controllo sugli organi di potere; sia che il capitalismo nazionale non abbia una capacità sufficiente per ridistribuire la ricchezza allo scopo di dare credibilità a questo meccanismo. Ciò tende ad acuire le contraddizioni politiche e sociali invece di smorzarle.

Comunque sia, il proletariato non può ritrovare improvvisamente o rapidamente delle armi di classe, ed è tanto più difficile aspettarselo dal proletariato bielorusso che non ha esperienza di lotta (sembra che non ci siano stati degli scioperi da quello della metropolitana di Minsk nel 1995, quindi dopo l’andata al potere di Lukashenko). Nonostante questo esso di è lanciato in un’ondata di scioperi senza precedenti.

Quali che siano gli inevitabili limiti di questi scioperi odierni e il loro esito, dovrebbero essere salutati senza esitazione; dobbiamo salutare queste prime manifestazioni del risveglio di questa frazione del proletariato d’Europa, come primo segno di ciò che dovrà accadere altrove, ma su effettive posizioni di classe.

 

24/8/2020

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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