Rivolte a Cuba :

Né con l’ «opposizione democratica» né con il regime castrista.

Il proletariato cubano ha una sola via d’uscita: la lotta di classe!

(«il comunista»; N° 169 ; Giugno / Agosto 2021)

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Da diversi giorni le principali città di Cuba, in particolare L’Avana, stanno vivendo continui scontri tra manifestanti e polizia. Secondo le informazioni fornite dalla stampa internazionale, che dovrebbero essere sempre valutate con attenzione, data la parzialità che anima sempre le varie notizie su Cuba, alle manifestazioni che hanno avuto luogo sull’isola dallo scorso fine settimana, il governo Díaz-Canel ha risposto militarizzando le città, poiché la polizia non bastava a contenere l’ondata di rivoltosi. La stessa stampa sottolinea che il governo cubano è stato costretto ad ammettere che almeno una persona è morta nei disordini, mentre protestava davanti a una stazione di polizia alla periferia dell’Avana. Mentre la repressione, secondo quanto ha affermato lo stesso presidente Díaz-Canel sui suoi social, cerca di calmare la tensione con manganelli e spari, il governo ha avviato una distribuzione di cibo nei quartieri più disagiati dell’Avana e di Santiagoe contemporaneamente ha risolto i blackout elettrici che erano all’origine delle proteste.

Al di là di questi fatti, la realtà per la maggior parte della popolazione cubana è che le sue condizioni di esistenza sono drammaticamente precipitate negli ultimi anni. Gli effetti dell’embargo che gli Stati Uniti mantengono nei confronti di qualsiasi attività commerciale con Cuba si sono aggravati con l’arrivo alla presidenza di Donald Trump che ha ribaltato tutte le misure di apertura che il suo predecessore, Obama, aveva attuato. Con la vittoria elettorale di Biden dello scorso novembre le cose non sono cambiate e le conseguenze della politica di restrizione si fanno sentire concretamente sotto forma di mancanza di ogni genere di beni di prima necessità.

Ma l’embargo statunitense è solo una delle cause per cui l’economia cubana sta andando male. Come è noto, Cuba dipende quasi interamente dal turismo per sopravvivere. La crisi del Covid-19 ha bruscamente bloccato i viaggi turistici nell’isola e questo ha comportato la perdita di una fondamentale fonte di reddito visto che il cambio estero derivante da questi viaggi è servito finora a  finanziare l’acquisto di gran parte dei beni strumentali, soprattutto agricoli, che necessitano al paese.

Infine, è stato drasticamente limitato anche il tradizionale sostegno venezuelano, che vendeva a Cuba petrolio e altre materie prime di base a basso prezzo; ciò ha aggravato la mancanza di risorse energetiche che è alla base sia dell’aumento del prezzo dell’elettricità che dei blackout  degli ultimi mesi.

Nel gennaio 2021 il governo cubano ha risposto alla crisi economica,  con una serie di misure finanziarie che sono riuscite solo ad aggravare la situazione della classe proletaria: il sistema tradizionale delle due valute (peso cubano, normalmente utilizzato nell’isola, e peso convertibile, utilizzato per il commercio internazionale) è scomparso, lasciando solo il peso cubano fissato a un cambio di 24 pesos per dollaro. Questo ha generato una  svalutazione della moneta per il settore economico statale – che è l’unico che può importare i beni necessari alla vita quotidiana a Cuba – e quindi un drastico aumento dei prezzi di questi beni. Così, il governo “socialista” di Díaz-Canel ha proceduto all’eliminazione dei sussidi a quasi tutti i prodotti di base. Come compensazione, il governo ha aumentato i salari e le pensioni fino a al 450%... una misura del tutto inutile quando esiste un problema fondamentale di mancanza di beni e servizi e che quindi non migliora il potere d’acquisto dei proletari cubani.

Alcuni commentatori internazionali confrontano questa situazione catastrofica con ciò che significava in termini economici il famoso “periodo speciale”, cioè il lungo decennio trascorso dopo l’implosione della Russia e del blocco dell’Est Europa che lasciò Cuba senza la sua principale fonte di approvvigionamento e il suo principale acquirente nel mercato internazionale. I disordini conosciuti come il “maleconazo” (1) nel 1994 e la crisi detta dei “balseros” (2), a partire da quell’anno e negli anni successivi, furono la risposta che i proletari cubani diedero alla crisi economica e sociale che stava attraversando il Paese. Una risposta disperata, che ha portato alla morte di decine di cubani annegati nel Mar dei Caraibi, e che è stata rapidamente soffocata all’interno del Paese con la ben nota combinazione di forza repressiva e persuasione da parte dei massimi vertici del governo.

Oggi la realtà è completamente diversa da allora. In primo luogo, perché gli anni trascorsi sia dalla rivoluzione castrista del 1959, sia dalla caduta del blocco orientale nel 1991 hanno contribuito a stemperare l’illusione, che tanto pesava, nel supposto “socialismo cubano”: l’economia, le misure politiche e l’organizzazione sociale con cui è stata superata la crisi del “periodo speciale” hanno fortemente indebolito la convinzione che il governo e il proletariato cubano stiano marciando insieme verso il socialismo o, addirittura, verso la sconfitta dell’imperialismo nordamericano.

In secondo luogo, perché proprio quelle misure, che furono accelerate dopo l’avvento al potere di Raúl Castro e che miravano a favorire un’”apertura” dell’economia cubana sia ai mercati internazionali (principalmente il turismo) sia alle piccole imprese locali di commercio, hanno provocato un aumento della polarizzazione sociale. Da un lato, la casta composta dalla dirigenza militare e dai vertici del Partito “comunista” che controllano le società nazionali non ha cessato di riaffermare un potere inamovibile che, perdendo il suo ascendente tra le masse, deve reagire con maggiore violenza contro di loro;dall’altro, un piccolo ma consistente strato della classe media, di piccola borghesia, arricchita dal commercio aperto e che ha saputo utilizzare questa liberalizzazione per migliorare la propria posizione economica attraverso un’attività di compra-vendita che avveniva in dollari ecc. Infine, una massa proletaria di campagna e di città, tradizionalmente occupata in qualche ramo del settore pubblico, soffre di alti e bassi economici senza alcuna prospettiva di miglioramento, senza possibilità di organizzazione sindacale o politica e, naturalmente, senza poter accedere ai “vantaggi” degli spazi di libero scambio aperti negli ultimi sei anni.

Le rivolte degli ultimi giorni hanno coinvolto sia la classe proletaria che la piccola borghesia. Quest’ultima è stata duramente colpita anche dalle misure finanziarie dello scorso gennaio, che hanno contribuito ad alzare lo scontro con il governo che stava già lentamente maturando attraverso gruppi artistici, gruppi di opinione ecc., come il cosiddetto “movimento di San Isidro”. È questa classe media che lancia gli slogan di “democrazia” e “libertà” o di “patria e vita” (in contrapposizione alla famosa “patria o morte”), che si sono sentiti nelle proteste. Il loro interesse è quello di capitanare il malcontento sociale, di riuscire a guidare i proletari che scendono spontaneamente in piazza per imporre le proprie rivendicazioni, che ovviamente differiscono sia politicamente che economicamente da quelle della classe operaia.

Questa piccola borghesia, che aspira a veder riconosciuto il proprio status economico attraverso un moderato ingresso nelle strutture statali, che a sua volta le consente di rafforzare quello status, è anche l’alibi di tutte le potenze imperialiste europee e americane che hanno interesse a forzare un cambiamento di governo a Cuba.

Dal canto suo, la classe proletaria si presenta alla lotta a mani nude. E questo non solo perché ha nuovamente affrontato con il suo solo corpo disarmato la polizia e i militari, ma anche perché il falso mito del “socialismo nazionale” cubano ancora pesa su di lei. Il peso di oltre sessant’anni di governo dei Castro, ex leaders della rivoluzione, e di allineamento con questo governo e contro la pressione dell’imperialismo nordamericano, è ancora in grado di impedire ai proletari cubani di riconoscere, in quel regime capitalista travestito da “socialismo” “e in quel falso partito “comunista” in cui è organizzato, il suo nemico di classe, il vero nemico da abbattere.

Ecco perché, al di là dei tumulti spontanei, sono immense le difficoltà incontrate dal proletariato cubano nel rompere con la politica di collaborazione tra le classi che presuppone la difesa dello “Stato socialista”: né sul terreno della lotta economica immediata, in cui lo Stato controlla tutte le organizzazioni sindacali esistenti, né sul terreno della lotta politica esso riesce ad andare oltre.

Ma ognuna di queste esplosioni sociali –  e prevediamo che ce ne saranno molte altre –, ognuna di queste rivolte contribuisce a mostrare la dura realtà: a Cuba c’è il capitalismo, c’è quindi la classe proletaria e ci sono i suoi nemici di classe, la classe cubana dominante borghese, per quanto striminzita sia, e gli strati di piccola borghesia urbana e rurale che hanno svolto la funzione di collante sociale durante il dominio politico castrista e falsamente socialista e che, terminati gli aiuti provenienti dalla Russia, dai paesi dell’Est Europa ad essa legati e dal Chavismo, si rivolge sempre più a un altro protettore, l’imperialismo degli Stati Uniti, che non è altro che uno dei grandi nemici dei proletari di tutti i paesi. Man mano che questa realtà diventa più visibile, il mito del “socialismo cubano” si va erodendo e la pressione, ideologica e materiale, che esercitava sui proletari si va indebolendo.

L’importanza di questo fatto non ha una portata nazionale unicamente cubana: il mito della Cuba “socialista” si estende ben oltre i suoi confini. In primo luogo all’America Latina, dove lo stesso Stato cubano, in un modo o nell’altro, ha affermato questo mito per difendere i propri interessi nazionali e dove ha sempre trovato profonde radici nella classe proletaria e nelle masse popolari. In secondo luogo, nel resto del mondo, a cominciare dalla Spagna, dove l’adesione, anche in termini “umanitari” e contro il blocco nordamericano, continua ad essere un riferimento di prim’ordine per le forze locali dell’opportunismo politico e sindacale.

Il valore delle rivolte degli ultimi giorni sta, dunque, nell’espressione di una forza sociale che tende inevitabilmente a dimostrare che la lotta di classe del proletariato, in qualunque paese e in qualunque circostanza, continua ad essere la grande questione del mondo borghese; che anche laddove la borghesia ha dovuto camuffare il suo dominio sotto le sembianze di un falso socialismo, esso tende a cadere nella misura in cui le esigenze della stessa società borghese – portando a periodiche crisi e fasi sempre più frequenti di miseria per il proletariato –  rimettono la lotta di classe al primo posto.

 

Contro il falso “socialismo” nazionale!

Contro le rivendicazioni democratiche della piccola borghesia!

Per il ritorno della lotta di classe del proletariato!

Per la ricostituzione del Partito Comunista, Internazionale e Internazionalista!

 

15/07/2021

 


 

(1)   Maleconazo. Deriva da El malecon che è una strada lunga 8 km che costeggia il porto della capitale L’Avana. Il maleconazo è stata una manifestazione antigovernativa svoltasi il 5 agosto 1994 su quella strada.

(2)   Balseros, erano chiamati i cubani che fuggivano da Cuba nell’agosto del 1994 (e anche negli anni successivi, in particolare nel 2014) verso gli Stati Uniti. La balsa era un’imbarcazione improvvisata, costruita con qualsiasi materiale in grado di galleggiare e che veniva attrezzata con drappi a mo’ di vele e spinta con remi anch’essi costruiti in qualche modo.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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