Perché il proletariato non sia sempre più schiacciato nella schiavitù salariale e nell’impotenza sociale, unificazione di tutti gli strati proletari, occupati e disoccupati, contro il collaborazionismo e contro la sempre più acuta concorrenza tra proletari!

(«il comunista»; N° 169 ; Giugno / Agosto 2021)

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La crisi pandemica di questi due anni sembra aver offuscato i reali motivi della crisi industriale e finanziaria che attanaglia in modo ciclico il sistema capitalistico.

La contraddizione tra capitale e lavoro insita nel modo di produzione capitalistico – aumento progressivo del capitale costante (macchinari, nuove tecnologie, materie prime, edifici ecc.) contro una tendenziale diminuzione in proporzione del capitale variabile (salari) – comporta un aumento della concorrenza sui mercati e una inevitabile sovrapproduzione di merci e di capitali rispetto alla loro possibile collocazione, innescando quindi delle crisi cicliche del sistema capitalistico che inducono alla ricerca spasmodica di nuovi mercati (attraverso guerre commerciali, politiche, finanziarie e guerre guerreggiate) e di mano d’opera a più basso costo e con ritmi lavorativi maggiori , per rendere più competitive le merci di ogni azienda in un mercato internazionale ormai saturo. Ne consegue che i capitalisti sono spinti a dislocare certe aziende in altre nazioni dove il lavoro salariato sia più produttivo, cioè con costi minori per ogni unità prodotta. È soprattutto il caso delle multinazionali che sono l’espressione emblematica della fase imperialistica del capitalismo, vale a dire di quella fase di sviluppo in cui i capitali in eccesso, per essere valorizzati, migrano dall’ormai ristretto campo nazionale verso altri paesi alla conquista di sbocchi di mercato o  dove, appunto, maggiore è l’estrazione di plusvalore e quindi di sfruttamento della mano d’opera.

Il plusvalore è il valore del tempo di lavoro non pagato al salariato che il capitalista intasca alla sorgente stessa della produzione. Più aumentano la tecnica e la tecnologia introdotte nella produzione, più diminuisce il tempo di lavoro giornaliero che corrisponde alla quota giornaliera del salario pattuito con il lavoratore, e più aumenta giornalmente il tempo di lavoro non pagato che corrisponde, appunto, al plusvalore. Ma la tecnica e la tecnologia sempre più innovative applicate alla produzione, e alla distribuzione, permettono al capitalista di ottenere la stessa quantità di produzione, e anche di aumentarla, con un numero minore di lavoratori. I disoccupati, gli “esuberi”, sono una conseguenza diretta dello sviluppo del capitalismo, andando a formare quell’esercito industriale di riserva di cui parla Marx nel Capitale: così l’eccesso di lavoratori si accompagna all’eccesso di merci e di capitali, mettendo in crisi l’intero sistema economico e sociale.

I grandi trust, le grandi multinazionali sono una delle espressioni più tipiche della concentrazione capitalistica con cui il capitale cerca di far fronte alle crisi di sovrapproduzione e di bilanciare, pur aumentando notevolmente la massa dei propri profitti, la caduta tendenziale del saggio medio di profitto, la vera bestia nera del capitalismo.

Non è storia di oggi, quindi, che le multinazionali dismettano in un paese per impiantarsi in un altro. Negli ultimi 40 anni in Italia ne sono scappate parecchie di fabbriche multinazionali, facendo aumentare alle stelle il tasso di disoccupazione del paese. Ma, attraverso gli ammortizzatori sociali e l’assorbimento di una parte degli esuberi nei servizi, magari creando società ad hoc esistenti solo sulla carta, il capitalismo nazionale ha garantito finora una certa pace sociale. Lo Stato borghese è l’amministratore e il garante di questa politica.

L’indignazione di questi giorni da parte dei sindacati tricolore e dei vari partiti dell’arco costituzionale verso le politiche delle multinazionali fa parte delle tante mistificazioni borghesi. Il decreto legge su lavoro e fisco del 30 giugno ne fa chiarezza. Infatti, il governo Draghi ha dato il via libera allo sblocco dei licenziamenti, ad eccezione, per il momento, del settore tessile, consentendo agli imprenditori di avere mano libera nello smaltimento di forza lavoro in eccesso. In verità, già con l’abolizione dell’articolo 18, sindacati tricolore e governo hanno suggellato un importante risultato formale sfatando il mito dei diritti acquisiti anche per quanto riguarda il posto di lavoro. Lo sciopero di due ore del 19 luglio scorso dichiarato da Fiom, Fim e Uilm, è la foglia di fico dei confederali che con la loro preziosa opera opportunista accompagnano da decenni la politica antiproletaria dei vari governi sin qui succedutisi.            

I circa 47 tavoli di crisi aperti in questa fase al Mise, il Ministero dello Sviluppo Economico, comportano almeno cinquantamila posti di lavoro a rischio.

Gli ammortizzatori sociali vengono ancora utilizzati nei paesi capitalisticamente più avanzati, come l’Italia, ma, con la diminuzione dell’estrazione di plusvalore, i margini di utilizzo per le politiche sociali si assottigliano sempre più. La durata di questi ammortizzatori è sempre più ridotta e con assegni sempre più leggeri.

Ne conseguirà uno scontro sociale che si preannuncia sempre più cruento.

Il governo borghese, come sempre, in situazioni di crisi acute, dove vengono coinvolte fabbriche storiche, non può far altro che prendere posizioni formali e astratte senza ledere gli interessi delle aziende. Ne è un esempio, in questa fase, la mozione approvata all’unanimità alla camera dei deputati che impegna il governo Draghi a salvare la Whirlpool di via Argine, a Napoli, ma non si capisce come; un’altra mozione, questa volta approvata dal consiglio regionale della Toscana, tutela, almeno sulla carta, i 422 dipendenti dello stabilimento GKN di Campi Bisenzio, in provincia di Firenze, ma che di fatto sono ancora in cassa integrazione; e ancora, la dichiarazione del presidente della regione Campania De Luca che, nel comunicato n. 103  stipulato dopo l’incontro con sindacati e lavoratori della Whirlpool, definisce la situazione insostenibile e si “augura”, insieme ai propri consiglieri, che il prossimo incontro con il presidente Draghi possa rappresentare una “svolta” nella vertenza impegnando una delle grandi aziende del paese in un piano serio e credibile di reindustrializzazione.

Lo Stato, lo sappiamo, è il comitato d’affari della borghesia e nessun provvedimento intaccherà minimamente gli interessi generali delle aziende. Queste dichiarazioni sono solo prese di posizione a difesa di una democrazia formale ostentata di continuo da tutte le istituzioni, ma che in realtà celano la dittatura di classe della borghesia.

Non mancano, però, le lotte e le reazioni spontanee da parte dei lavoratori.

Ad esempio, dopo l’annuncio del 9 luglio di chiudere la fabbrica GKN da parte della proprietà, il fondo inglese Melrose, i lavoratori hanno protestato forzando i cancelli e occupando la fabbrica in assemblea permanente per alcune settimane. Due giorni prima l’azienda aveva parlato di assunzioni e due giorni dopo, a fine turno di lavoro, la multinazionale annunciava con una mail il licenziamento collettivo.

Il 27 luglio, vista la situazione di stallo, gli stessi lavoratori sono usciti fuori dai cancelli e hanno organizzato una manifestazione cercando di coinvolgere le proteste dei lavoratori dell’indotto e di altre realtà. Circa 40 autoambulanze a sirene spiegate e altri cittadini sono accorsi in sostegno dei 422 dipendenti licenziati. I manifestanti erano migliaia. Si è assistito a uno sprazzo di solidarietà tra i lavoratori, anche se hanno dovuto farsi strada tra i meandri del corporativismo instillato ad arte dai sindacati collaborazionisti.

Anche in questo caso, ancora e solo sdegno da parte del governo. La viceministra allo sviluppo economico Alessandra Todde dichiarava in proposito: «Il comportamento dell’azienda è stato inaccettabile. Chiudere uno stabilimento di punto in bianco con una mail dà l’idea di guardare solo a logiche di profitto (sic!) senza rispettare la dignità dei lavoratori e il rispetto della legislazione e della contrattazione italiana. Abbiamo avuto contatti con il management italiano e ci “AUGURIAMO” che si presentino modificando il loro atteggiamento».

Ma che atteggiamento può cambiare una multinazionale che persegue ed esiste solo per logiche di profitto? E lo sblocco dei licenziamenti? La dignità dei lavoratori è calpestata in primis dalla malafede della ministra e dal governo che rappresenta. «Tutta colpa dello strapotere delle multinazionali», gli fanno eco partiti e sindacati. Allora, contro questo “strapotere”, ci si può solo “AUGURARE” che le cose si aggiustino per un improvviso rimorso e senso di colpa da parte di qualche capitalista dal volto umano? Ma le dismissioni non si fermano!

Anche la Timken di Villa Carcina (Brescia) ha licenziato 106 dipendenti da un giorno all’altro. Il segretario generale della Fiom di Brescia «esprime il desiderio» di un ritorno al blocco dei licenziamenti e di uno sveltimento della riforma degli ammortizzatori sociali per tutelare i lavoratori anche in situazioni di crisi. Forse non ricorda che negli anni passati sono stati proprio i sindacati tricolore a caldeggiare e favorire il ridimensionamento degli ammortizzatori sociali con lo slogan «no all’assistenza, sì al lavoro». In vista delle crisi a venire lo sapevano che questa rivendicazione era soltanto mistificatoria, visto che il lavoro sarebbe diventato sempre più precario e per un numero sempre più ridotto di lavoratori.

In un’altra azienda in crisi, la Sider Alloys, ex Alcoa, di Portovesme (CA), dopo i licenziamenti e la cassa integrazione, il governo, sulla spinta delle proteste, concede la mobilità in deroga dando così solo una parziale e temporanea boccata di ossigeno.

Provvedimenti più soft, invece, riguardano la multinazionale olandese Stellantis, nata dalla fusione dei gruppi PSA e Fiat Chrysler Automobiles che controlla 14 marchi automobilistici. Vista la composizione sociale dei dipendenti, l’azienda ha previsto circa 800 prepensionamenti e l’uscita incentivata per 160 lavoratori in Carrozzeria Mirafiori. Incentivazioni all’esodo anche alle Meccaniche, alle Presse e alla Costruzioni Stampi ubicate sempre a Mirafiori oltre che alla Teksid di Carmagnola e alla ex Tea di Grugliasco.

Ma la maggior parte delle situazioni di crisi pare sia concentrata nel mezzogiorno e nelle isole. Dalla fine degli anni 70 ad oggi centinaia di fabbriche sono state dismesse utilizzando cassa integrazione, lavori socialmente utili, mobilità e prepensionamenti. Attualmente sono molte le aziende che affrontano questa crisi irreversibile. La ex Ilva di Taranto, colosso delle acciaierie, è moribonda. Al momento viene tenuta in piedi da un aumento di capitale di 400 milioni di euro dopo l’accordo nel 2018 tra la multinazionale Arcelor Mittal e Invitalia, società controllata dal ministero dell’economia. Ma dal giugno 2021 è scattata la Cig per 4000 lavoratori. Il sindacato media con uno sciopero sterile e un presidio alla prefettura cercando di impedire un possibile collegamento con i lavoratori dell’Ilva di Genova. Un coordinamento tra i lavoratori dei due stabilimenti renderebbe difficoltoso il controllo delle lotte, ma, soprattutto, rappresenterebbe un esempio da seguire per i lavoratori delle altre aziende, ritenuto troppo pericoloso da sindacati, partiti e governo.

La lotta dei lavoratori della Whirlpool di Napoli ha tenuto banco in tutti i notiziari radiotelevisivi e i giornali. Il braccio di ferro tra lavoratori e azienda ha reso altalenante i provvedimenti della multinazionale statunitense. I vari incontri al Mise hanno prodotto le solite “bacchettate” di rito verso l’azienda americana da parte del governo, ma, di fatto, come ricordavamo, lo sblocco dei licenziamenti ha favorito la multinazionale statunitense che ha avuto mani libere per i licenziamenti di massa dal primo luglio di quest’anno. Le maestranze sono state relegate per mesi in assemblee e proteste all’interno della stessa fabbrica. Ma la situazione non trovava sbocco tranne che per una prima Cig concessa dall’azienda stessa. La lotta quindi si è spostata fuori dalla fabbrica. I lavoratori hanno alzato il tiro e iniziato a occupare prima le autostrade, poi l’aeroporto e infine il porto di Napoli, bloccando le partenze di traghetti e aliscafi verso le isole dal molo Beverello. Un grosso striscione venne appeso sul Maschio Angioino con la scritta WHIRLPOOL. Cortei spontanei nel centro cittadino. Azioni eclatanti che hanno permesso ai lavoratori di avere una certa visibilità. 

Come per i disoccupati organizzati ormai storici nel napoletano. La sigla attuale denominata «Movimento disoccupati 7 novembre» lotta da quasi un decennio per uno sbocco lavorativo. Tra illusioni, promesse e denunce questi disoccupati si inseriscono in una potenziale protesta collettiva, ma disunita, non riuscendo mai a superare l’isolamento di fatto tra loro e gli operai di fabbrica e licenziati se non in manifestazioni di solidarietà. L’isolamento e il corporativismo sono radicati tra gli operai in quanto la direzione delle lotte resta in mano ancora ai sindacati e ai partiti opportunisti.

Vista la congiuntura, la borghesia ha deciso di attaccare frontalmente. Il dislocamento in siti più produttivi e il ridimensionamento delle piante organiche è una necessità impellente per l’imperialismo a livello internazionale. E così si rende ancor più necessario il lavoro di polizia che i sindacati confederali, insieme ai falsi alternativi, svolgono tra le file dei proletari.

Per rompere questo isolamento i proletari licenziati e disoccupati devono organizzarsi in un unico coordinamento coinvolgendo anche le fabbriche attive. Ma per rendere concreto questo coordinamento devono stilare un programma di lotta unitario dove le rivendicazioni devono tener conto solo degli interessi dei proletari. E cioè usando metodi e mezzi della lotta di classe:

- Scioperi senza preavviso, riduzione drastica dell’orario di lavoro a parità di salario, delegati revocabili in qualsiasi momento.

- Per i disoccupati: salario da lavoro o salario di disoccupazione.

Rivendicazioni storiche, per attuare le quali, i proletari devono scrollarsi di dosso decenni di pratica opportunista, collaborazionista e corporativista dei sindacati tricolore, attraverso la costituzione di organismi immediati indipendenti da ogni interesse aziendale e opportunista.

La ripresa della lotta di classe non avverrà se non passando attraverso una serie di tentativi di unificazione dei proletari di ogni settore, di ogni età, di ogni nazionalità, attivi o disoccupati, e che mirano a organizzarsi intorno a rivendicazioni che difendono esclusivamente gli interessi proletari. La strada è lunga, difficile, irta di trappole di ogni genere che i campioni del collaborazionismo interclassista non smetteranno mai di inventare e di attuare. Ma è l’unica strada per il proletariato se non vuole essere sempre più schiacciato in condizioni di impotenza e di schiavitù.

Soltanto con la ripresa generale e duratura della lotta di classe sotto la direzione del suo partito comunista rivoluzionario, il proletariato imparerà non solo a lottare su obiettivi immediati unificanti, come in una vera e propria scuola di guerra, ma anche a prepararsi a lottare per obiettivi politici più generali e storici – riassunti nella società comunista, ossia senza classi, nella società di specie – per la realizzazione dei quali dovrà abbattere il potere politico della classe nemica per eccellenza, la classe dominante borghese.

 

2 agosto 2021

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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