Colpo di Stato in Sudan e vicolo cieco del democratismo interclassista

(«il comunista»; N° 170 ; Settembre / Novembre 2021)

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Lunedì 25 ottobre i militari sudanesi hanno assunto i pieni poteri, dichiarando lo stato di emergenza, sciogliendo l’attuale governo, arrestando il primo ministro e, nei giorni successivi, i leader politici del movimento democratico. Nonostante una feroce repressione, il gigantesco movimento di rivolta del 2018-2019, aveva portato alla caduta del dittatore el-Béchir, da 30 anni alla guida del paese; salito al potere dopo un colpo di Stato nel giugno 1989, è stato rovesciato nell’aprile 2019 dai militari che hanno ritenuto necessario separarsi da questa odiata figura per preservare meglio l’ordine stabilito. Costituiti in «Comitato Militare di Transizione» (CMT), i vertici militari si sono distinti per i sanguinosi massacri al fine di sedare la rivolta; in particolare, si stima che i miliziani delle FSR («Forze di Supporto Rapido») e i soldati, all’inizio di giugno 2019, abbiano ucciso più di cento persone che partecipavano ad un pacifico sit-in davanti al quartier generale dell’esercito nella capitale Khartum.

Ma nonostante la repressione, le manifestazioni e gli scioperi sono continuati su vasta scala chiedendo il cambio di regime e la fine del potere dei militari; a luglio i vertici del movimento – le «Forze per la libertà e il cambiamento» che riunivano borghesi e piccoli borghesi, sindacati e PC sudanese –, sotto il patrocinio imperialista, è giunto ad un accordo con il CMT: formazione di un governo provvisorio, il «Consiglio di Sovranità» (CS), con due militari come presidente e vicepresidente e un primo ministro civile; poi, dopo 21 mesi, si sarebbe formato un governo interamente civile e si sarebbero svolte le elezioni. Sono proprio il presidente del CS, il generale Burhan, capo dell’esercito, e il vicepresidente Hemetti, capo della FSR, a guidare questo colpo di Stato, compiuto poco prima di lasciare il posto ai civili! Burhan e Hemetti non sono solo ex pilastri del regime dittatoriale e direttamente responsabili dei suoi crimini (soprattutto in Darfur), ma rappresentano anche importanti interessi economici; l’esercito gestisce un complesso militare industriale, mentre le FSR, milizie paramilitari a volte reputate più potenti dell’esercito regolare, operano in modo opaco in miniere d’oro e altre compagnie (1). Sono anche collegati all’Egitto e all’Arabia Saudita, dove i contingenti delle FSR sono andati in aiuto delle truppe saudite contro i ribelli yemeniti.

I Democratici avevano presentato il governo provvisorio come una grande vittoria della «rivoluzione» sudanese, ma la sua azione ha dimostrato quale era la realtà di questo accordo con i militari. Il governo ha beneficiato della fine delle sanzioni statunitensi, ma in cambio dei prestiti del FMI e della cancellazione del debito del Sudan, ha accettato di tagliare la maggior parte dei sussidi ai beni di prima necessità; il risultato è che, secondo le stesse statistiche ufficiali, l’inflazione, galoppante dall’istituzione del governo di transizione, ha raggiunto, da giugno, il 400% su base annua! Spinto a soddisfare i desiderata degli ambienti finanziari internazionali, il governo lo era molto meno quando si trattava delle richieste delle masse; ha ovviamente fatto orecchie da mercante alle richieste di processare i responsabili delle stragi del 2019. Perché?, perché sono il presidente e il vicepresidente del CS!

Le condizioni dei proletari continuarono a deteriorarsi e molti lavoratori sono stati licenziati. Era in preparazione una nuova legge sui sindacati, che prevedeva la limitazione delle azioni sindacali; questa legge repressiva è stata però approvata dal PC sudanese e dall’«Associazione dei professionisti sudanesi» (SPA, assemblea sindacale in cui il PC è influente) (2). Il PC è soprattutto interessato all’unione con i partiti democratici borghesi e, come i suoi colleghi del mondo intero, sacrifica gli interessi proletari per difendere lo Stato e l’economia del paese. E’ cresciuto quindi il disincanto verso il governo di transizione; e i vertici militari, evocando un rischio di sommossa sociale, ritenevano che questo governo avesse esaurito la sua utilità (per far passare senza reazioni notevoli le misure antisociali e antiproletarie) e, per non rischiare che fossero aggrediti i loro particolari interessi, che fosse necessario passare all’azione. Probabilmente hanno anche alimentato i disordini lasciando che le forze regionaliste vicine all’ex dittatore bloccassero Port Sudan (in segno di protesta contro i vantaggi concessi ad altre regioni), il polmone del paese, che ha portato a gravi carenze nella capitale della regione. Hanno anche mobilitato elementi religiosi per manifestazioni contro il governo.

In questo clima di crescente tensione, il 21 settembre è stato sventato un tentativo di colpo di Stato, dopo scontri tra soldati a Ondourman, la città gemella di Khartoum. Mentre il generale Burhan assicurava che l’esercito non avrebbe mai tentato un colpo di Stato, il 22/9 dichiarava di essere il «guardiano della sicurezza e dell’unità del Sudan»; Hemetti, a sua volta, dichiarava davanti ai suoi miliziani che «i leader politici sono la causa principale dei colpi di Stato perché trascurano il cittadino comune [...] e perché lottano per rimanere al potere». Queste dichiarazioni minacciose non hanno impedito ad al-Faki Suleiman, uno di questi leader politici, di essere il portavoce del Consiglio di Sovranità (e «icona rivoluzionaria», pare), e di vantare davanti ai manifestanti radunati per sostenere il governo: «la rivoluzione è vittoriosa!» (3). Un mese dopo fu arrestato dai golpisti insieme ad altri funzionari governativi... Il tentato colpo di Stato era effettivamente servito come prova generale, e la debole risposta corrispondeva a un via libera per i militari.

Tuttavia, il colpo di Stato ha suscitato una forte reazione tra le masse; sono scoppiati e si sono allargati scioperi indetti non solo dai sindacati, ma anche dal partito borghese Umma, trascinando anche i funzionari dei ministeri. Decine e decine di migliaia di persone hanno manifestato il 30/10 a Khartoum, Ondourman, Port Sudan e in molte altre città contro il golpe. I soldati hanno risposto usando le armi contro i manifestanti a Khartoum e vi sarebbero stati 20-30 morti. Successivamente le «Forze del cambiamento» hanno chiesto 2 giorni di «disobbedienza civile» all’inizio di novembre per ristabilire un governo civile, ma questo appello ha avuto un successo limitato: ovviamente le masse hanno giudicato che questa iniziativa non era quello che serviva.

Mentre i partiti democratici ripongono le loro speranze sulle pressioni diplomatiche degli imperialismi sui militari (4), sembra che il motore della lotta siano i «comitati di resistenza» di base, indipendenti da quei partiti. Il coordinamento dei comitati della «Grande Khartoum» (Khartoum, Ondourman, Bahri) ha stabilito una piattaforma di richieste che è stata ripresa da SPA, PC e altri: è incentrata sul rifiuto di qualsiasi compromesso con i militari, l’instaurazione di un regime civile, la formazione di un nuovo esercito nazionale e la «completa sovranità dello Stato sudanese» (5). E’ evidente che queste rivendicazioni rimangono interamente sul terreno borghese, e gli stessi politici civili borghesi hanno dimostrato di essere avversari dei proletari e delle masse povere!

Se il Sudan rimane un paese prevalentemente agricolo, esiste una classe operaia che ha alle spalle una significativa storia di lotte. Purtroppo la sua combattività è stata messa al servizio di interessi che non sono i suoi, come è già avvenuto durante le lotte del 2019. Le organizzazioni sindacali collaborazioniste, il PC e anche questi comitati di resistenza la chiamano ancora una volta a un’unione interclassista per instaurare un regime borghese democratico.

Perché la lotta dei proletari e delle masse povere contro la repressione e la dittatura militare, non solo non porti a un nuovo marcio compromesso con i militari, ma possa essere l’inizio di una vera lotta per l’emancipazione contro lo sfruttamento e la miseria, dovrà svolgersi su basi di classe e su un orientamento anticapitalista, in totale rottura con l’interclassismo; ciò significa che dovrà passare attraverso la costituzione dell’organizzazione di classe proletaria, sia per la lotta economica che per la lotta politica, in collaborazione con i proletari di altri paesi.

Anche se non può essere immediata, questa è l’unica prospettiva non illusoria per i proletari nelle lotte che li attendono: allora la «rivoluzione» non sarà più una parola vuota che serve solo a intontirli o a mettere le loro energie e la loro combattività al servizio dei borghesi, dei civili o dei soldati, ma uno slogan di combattimento che riunisce tutti gli sfruttati.

 

Viva la lotta dei proletari e delle masse povere sudanesi contro la repressione e l’oppressione!

Per la rivoluzione proletaria in Sudan e in tutti i paesi!

Per la ricostituzione del partito di classe internazionalista e internazionale!

 

8 novembre 2021

 


 

(1) Africa confidential, vol.62, n°15, 22/7/2021.

(2) Cfr «I lavoratori del Sudan in marcia per i loro diritti», Mena Solidarity Network, 30/1/21.

(3) Middle East Eye, 19/10/2021

(4) Il golpe è stato condannato dagli imperialismi occidentali, in particolare dagli Stati Uniti che hanno minacciato di sospendere i loro aiuti, ma anche (a parole) dall’Arabia Saudita, mentre l’Egitto è rimasto in silenzio e Israele lo ha implicitamente sostenuto. Russia e Cina (che erano stati gli ultimi sostenitori del dittatore) si sono rifiutati di condannarlo. I «mediatori» dell’ONU e dell’OUA stanno cercando di ripristinare il «dialogo» tra militari e civili.

(5) Cfr. «Potenziare la rivolta: i comitati di resistenza del Sudan», Mena Solidarity Network, 5/11/2021

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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