Alla Texprint, come alla Gkn, come in centinaia di altre situazioni simili, la lotta operaia deve combattere sia contro l’arroganza padronale, sia contro il collaborazionismo interclassista

(«il comunista»; N° 170 ; Settembre / Novembre 2021)

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Mercoledì 1 settembre 2021 otto operai di origine pachistana e senegalese e due sindacalisti SiCobas hanno dato inizio all’ennesima protesta pacifica con sciopero della fame davanti al Comune di Prato, dopo 228 giorni di mobilitazioni e presidi ai cancelli dell’azienda tessile Texprint, multinazionale gestita da personale cinese.

Lo scopo delle  mobilitazioni è stato quello di sensibilizzare le istituzioni di Prato sulle condizioni di sfruttamento sistematico e di schiavitù all’interno della stamperia tessile. I lavoratori – diciassette pachistani e un senegalese, assunti con falsi contratti di apprendistato, ma alla fine tutti licenziati ad aprile 2021 per aver rivendicato un regolare contratto di lavoro – lamentavano l’assenza totale di garanzie e di essere costretti a lavorare giornalmente dodici ore per sette giorni anziché otto ore per cinque giorni, prolungando il tempo di lavoro anche di notte e costantemente video sorvegliati. Molti di loro hanno anche denunciato gravi infortuni, come la perdita di una falangetta di un dito da parte di un lavoratore mentre operava ad un macchinario; un dirigente Texprint lo ha accompagnato in ospedale personalmente senza chiamare l’ambulanza al fine di impedire che l’operaio denunciasse l’infortunio sul lavoro.

I lavoratori rivendicano ora la riassunzione con contratti regolari. Chiedono inoltre la revoca delle multe ricevute dall’inizio degli scioperi, per un ammontare superiore a 30 mila euro. Si appellano, illusoriamente, alle istituzioni affinchè li sostengano nel processo di ottenimento del permesso di soggiorno e li affianchino nella denuncia per sfruttamento previsto dall’art. 18 del Testo Unico sull’Immigrazione. Infine, reclamano, purtroppo inutilmente, il verbale dell’Ispettorato del Lavoro di Prato sulle perizie effettuate alla Texprint ormai già da diversi mesi.

Negli ultimi anni il Comune di Prato si sarebbe dotato di “strumenti nuovi” per combattere quell’odioso nemico che è “lo sfruttamento lavorativo”. Gli strumenti messi a disposizione dal Comune di Prato non sono né sufficienti né adatti per la specificità del caso Texprint. Gli incontri allo sportello “antisfruttamento”, che  vanno avanti da più di tre mesi, sono stati completamente inadeguati rispetto alle questioni poste dai lavoratori per ciò che riguarda le residenze anagrafiche e i  permessi di soggiorno. Infatti, così restando, non possono usufruire delle pur misere misure di quel che resta del tanto osannato welfare.

La multinazionale in questione è venuta alla ribalta già da giugno di quest’anno quando l’omicidio bianco di Luana D’Orazio, avvenuto nell’orditoio di Oste di Montemurlo, metteva in luce che nell’hinterland fiorentino, dove è situata appunto anche la Texprint, esiste un traffico di tonnellate di scorie tessili  nascoste nei capannoni. Contestualmente non poteva non emergere un “ennesimo caso di caporalato” e di supersfruttamento di manodopera straniera nelle fabbriche i cui prodotti vengono piazzati sul mercato delle grandi griffes della moda.

Ma non è tutto. Il Consiglio di Stato produceva un’interdittiva proprio nei confronti della Texprint in quanto un’ inchiesta della Dda (direzione distrettuale antimafia)  vedeva indagato Sang Yu Zhang, detto Valerio, formalmente dipendente ma di fatto responsabile della stamperia tessile, con l’accusa di aver esportato in Cina ingenti somme di denaro frutto di riciclaggio per conto di società vicine alla ‘ndrangheta. Alla fine Sang Yu Zhang è stato assolto in primo grado dal tribunale di Milano, ma per i giudici amministrativi di secondo e ultimo grado questo non è sufficiente... per cancellare i sospetti. Ma solo sospetti resteranno!

Di fronte alla tracotanza dell’azienda e delle istituzioni, lo sciopero della fame ad oltranza in una tenda di fronte al municipio di Prato è una reazione più che  legittima dettata dalla disperazione dei lavoratori. Non è stato della stessa opinione il sindaco Matteo Biffoni, del PD, che considera inaccettabile e fuori da ogni regola un’iniziativa del genere. Ed è così che, all’alba del 3 settembre, la polizia interviene  in modo muscolare per sgomberare i lavoratori che provano a fare resistenza. Vengono eseguiti dei fermi. Uno di loro afferma: «Mi hanno strangolato per più di dieci secondi, non riuscivo a respirare. A un certo punto sono riuscito a dire al poliziotto che avevo paura di morire. Mi ha risposto che facevo bene». L’affermazione del poliziotto è frutto di lavaggio del cervello unito all’ignoranza di base razzistica, ma è nello stesso tempo emblematica rispetto alla recrudescenza  autoritaria che stiamo vivendo. Ovviamente la questura ha negato ogni forma di violenza: è stato uno sgombero... democratico.

L’episodio ha avuto un’eco ed ha stimolato la reazione significativa degli operai di un’altra  fabbrica, la GKN, a gestione britannica. Dai suoi cancelli arriva il sostegno del Collettivo di fabbrica : “Ci giunge ora la notizia dello sgombero del presidio Texprint in centro a Prato. E da quel che riusciamo a capire ci sono dei fermi in questura. Ma veramente credete di poter fermare così questa vertenza? Veramente insistete ad attaccare lavoratori che chiedono banalmente il rispetto del contratto nazionale? I lavoratori Texprint erano qua proprio ieri sera a spiegarci la loro situazione. Consideriamo un attacco a loro come un attacco a tutti noi”.

Il giorno successivo gli operai in stato di fermo sono tornati, al momento, in libertà. L’accusa nei loro confronti è solo di resistenza a pubblico ufficiale. Ma il braccio di ferro non finisce. I lavoratori non demordono e per il giorno 6 settembre i SiCobas  organizzano un’altra manifestazione in piazza del comune, presenti i lavoratori della GKN.

Il Comitato per l’ordine e la Sicurezza decide in modo discriminatorio di vietare la manifestazione dirottandola in piazza alle Carceri. Quando gli operai della Gkn hanno intonato il loro coro in piazza alle Carceri sembrava di essere in uno stadio, solo che le parole erano diverse e parlavano di sfruttamento: gli italiani: «Otto ore!», i pachistani: «Cinque giorni!». In piazza dunque si è saldata un’intesa tra lavoratori che hanno in comune il fatto di essere stati licenziati, i 422 di Campi Bisenzio da una multinazionale inglese che vuole produrre altrove, i 13 del Macrolotto dalla proprietà cinese che non accetta di essere accusata di sfruttamento.

 

Soprattutto le multinazionali sono protagoniste di uno stillicidio continuo, ininterrotto, di lavoratori licenziati, favorito ulteriormente dall’abrogazione dell’articolo 18. Episodi di solidarietà si susseguono in modo quasi fortuito, ma molto significativi anche se molto isolati. Ma contro questa solidarietà opera il controllo poliziesco dei sindacati tricolore all’interno delle fabbriche col quale riescono ad impedire un balzo di qualità delle lotte, oggi come cercheranno di fare anche in futuro.

Lo Stato usa sempre più il manganello, i margini di democrazia formale sono sempre più d’impaccio per la stessa borghesia che attanagliata dalle guerre di concorrenza e dalle crisi economiche e finanziarie ha sempre più bisogno di avere le mani libere, di agire dittatorialmente, assottigliando quei margini sempre più. Lo strangolamento da parte di un celerino senza però conseguenze funeste ricorda molto quello della polizia americana che provocò la morte di George Floyd.

Gli Stati imperialisti di tutto il mondo saranno costretti a calare la maschera e mostrare la vera natura della dittatura borghese. I proletari di tutto il mondo, se non vorranno essere schiacciati in condizioni di impotenza perenne e, quindi, di schiavitù eterna, dovranno reagire in piena autonomia di classe, scrollandosi di dosso l’opportunismo e il democratismo, vera intossicazione collaborazionista attuata dalla controrivoluzione borghese per decenni. Reagire significa lottare, e gli operai lo sanno bene, ma lottare sul terreno di classe, non su quello della democrazia, tanto meno su quello della collaborazione interclassista.

Lo scontro tra borghesia e proletariato è storicamente certo ed inevitabile. Ma per la vittoria nella lotta di classe, e per abbattere la dittatura borghese e capitalistica sostituendola con l’unica dittatura in grando di cambiare da cima a fondo l’intera società, la dittatura proletaria, ci sarà bisogno di organizzazioni autonome proletarie che porteranno alla rinascita del sindacato di classe, in un lungo e tormentato processo di lotta all’interno stesso della classe proletaria perché battere le pratiche e le illusioni dell’opportunismo e del collaborazionismo interclassista non sarà uno scherzo; e ci sarà bisogno, soprattutto, di una guida politica di classe, la sua avanguardia politica, il Partito Comunista Internazionale.

 

7 settembre 2021 

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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