Corrispondenza dalla Spagna: come un ministro del PCE fa il lavoro sporco della borghesia in tempo di pandemia

Yolanda Diaz ha parlato

(«il comunista»; N° 170 ; Settembre / Novembre 2021)

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La crisi economica aperta dalla pandemia di Covid-19 ha provocato una risposta simile nelle borghesie di tutti i paesi capitalistici sviluppati: questa crisi intesa come uno shock temporaneo che dovrebbe colpire solo la liquidità delle imprese e non la loro solvibilità (cioè, dovrebbe colpire la loro capacità di far fronte ai loro obblighi di pagamento immediati, ma non al tasso di profitto atteso a lungo termine), tutte le risorse degli Stati sono state utilizzate per colmare quello che era considerato un buco temporaneo. Il più importante di questi provvedimenti è consistito, e consiste tuttora perché tuttora in vigore, in quella imitazione della nazionalizzazione della forza lavoro proletaria che erano i Registri Temporanei di Lavoro: con essa lo Stato borghese esonerava le imprese in difficoltà, dovute alla pessima situazione economica, dell’obbligo di pagare il salario ai propri lavoratori, prendendone in carico una riduzione del 30% che il lavoratore in ERTE smette di percepire. Ai fini pratici, il risultato è stato che gli imprenditori sono liberi di fare a meno del cosiddetto fattore lavoro quando ne hanno bisogno, mentre i lavoratori non possono lasciare l’azienda se non a costo di perdere il sussidio di disoccupazione ecc. e, inoltre, devono pagare questa situazione vedendosi abbassare il salario.

Questo tipo di misura antiproletaria è stata adottata praticamente in tutte le cosiddette economie avanzate: in Germania sotto forma di Kurzarbeit, nel Regno Unito con il CJRS o in Francia con la “disoccupazione parziale”, un totale di 42 milioni di lavoratori in Europa sono stati colpiti in un modo o nell’altro da questo tipo di regolamentazione del lavoro emergenziale che molto probabilmente entrerà a far parte dell’elenco delle politiche economiche comuni nei prossimi anni, perché è uno strumento di intervento molto efficace in un contesto di crescente crisi economica in il mondo in cui la manodopera eccedente, cioè quella con il cui impiego la borghesia non ottiene il guadagno atteso sotto forma di plusvalore, deve essere espulso dal mercato del lavoro.

In Spagna, il governo di coalizione PSOE-Podemos ha presentato gli ERTE come una propria conquista in termini di protezione del lavoro. Confrontando la loro risposta in questo ambito con quella data dai governi del Partito Popolare nel periodo 2009-2014, affermano di aver dato una svolta alla politica di protezione sociale, alzando il famoso “scudo” di cui tanto si riempiono la bocca. Ma la verità è che questa misura non è qualcosa di originale spagnolo. Fa parte del ricettario che viene appreso in tutte le scuole di economia del mondo come un tipo di politica prescritta per casi di contrazione drastica, ma presumibilmente temporanea, dell’attività produttiva. Le misure adottate in tutta Europa, dove esiste una legislazione del lavoro simile a quella spagnola, mostrano che l’unica novità che il governo spagnolo ha introdotto è stato proprio il suo adeguamento al quadro normativo dei rapporti di lavoro che esiste in Spagna.

Ma c’è una particolarità che è specificamente spagnola: in questo paese le misure sul lavoro legate alla crisi del Covid-19 sono state attuate da un ministro iscritto al Partito comunista. Come è noto, il Ministero del Lavoro e dell’Economia Sociale era una creazione del governo di coalizione a partire dall’ex Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. Al momento della sua creazione, si è voluto dare una posizione simbolica a un ministro di Podemos, privandolo però del controllo dei fondi di previdenza sociale, uno dei gioielli di ogni Stato moderno. L’unico pensiero era quello di assegnare compiti di legislazione del lavoro a questo ministero, ma l’arrivo della pandemia e la particolare rilevanza che quest’area di intervento del governo ha poi assunto, hanno promosso Yolanda Díaz alla carica di ministro stellare di Podemos.

Al di là dell’ERTE, l’attività della ministra ha avuto un unico obiettivo: garantire un fronte comune tra governo, padronato e sindacati a difesa delle misure eccezionali adottate. Ovviamente questo fronte è stato svolto assegnando a ciascun partecipante un ruolo diverso. Il padronato, rappresentante non ufficiale degli interessi della borghesia spagnola nel suo insieme, ha stabilito le linee da seguire per garantire che le sue richieste siano soddisfatte. I sindacati hanno fatto ogni sforzo possibile per mascherare queste misure e hanno fermato sul loro cammino ogni tipo di resistenza ad esse da parte della classe proletaria, facendole accettare in nome del bene superiore (cioè l’economia nazionale) tutte le imposizioni della borghesia. Il governo PSOE-Podemos, infine, ha dato il volto “progressista” e “sociale” a questa distribuzione dei ruoli, facendo passare per conquiste sociali dei provvedimenti che hanno sprofondato nella miseria un gran numero di lavoratori e che ancora incombono su qualsiasi proletario come una minaccia non sospesa. Di fatto è stato un fronte unito tra la borghesia e i suoi rappresentanti volto a soffocare ogni tipo di rifiuto della legislazione del lavoro che è il più duro dalla firma dei Patti della Moncloa nel 1977. Gli effetti sia di queste misure contro i lavoratori che delle pressioni esercitate sul proletariato ad accettarli, si vedranno nei prossimi anni e consisteranno indubbiamente in una assoluta precarietà del mercato del lavoro, in cui le aziende potranno sospendere i contratti per il tempo ritenuto necessario ogni volta che lo richiedano, e in una forte repressione contro le iniziative che, al di fuori delle politiche di collaborazionismo sindacale, i proletari prenderanno.

A parte queste misure e l’importanza del contenuto specifico della legislazione sul lavoro approvata negli ultimi due anni, è particolarmente significativo il fatto che il peso di questo fronte antiproletario sia ricaduto su un ministro del PCE. Come è noto, Yolanda Díaz proviene da una famiglia di sindacalisti: i suoi genitori e gli zii hanno ricoperto importanti incarichi nelle Commissioni Operaie di Vigo, città industriale per eccellenza nel nord-ovest della Spagna, e proprio per questo, nel 2019, ad un certo punto in cui era già visibile la crisi del settore metalmeccanico che ora vediamo mimetizzata con le conseguenze della crisi causata dalla pandemia, è stato incaricato qualcuno che ha la lotta contro i proletari metallurgici nella linea familiare. Resta inteso che l’esperienza di genitori e zii, che hanno avuto un ruolo di primo piano nelle CC.OO. di Vigo durante i duri scioperi della fine del regime franchista esercitando le funzioni di pompieri sociali imposte dalla dirigenza sindacale, sarebbe molto utile ad una militante del PCE, tanto più che lei stessa è un’esperta in Risorse Umane. Non c’è molto di più da dire. Occupnadosi del Ministero del Lavoro, Yolanda Díaz è stata chiamata a gestire i tentativi che la borghesia intendeva lanciare contro i proletari metalmeccanici, come è successo nei casi di Alcoa, Nissan, Tubacex, Airbus ecc. La sua esperienza familiare sarebbe stata di grande aiuto in queste lotte, ma l’arrivo della pandemia e della crisi economica e sociale che ne è seguita le ha permesso di seguire una strategia molto più semplice, al punto che tutti gli attacchi contro i proletari di questo settore hanno potuto mimetizzarsi tempestivamente in una situazione in cui il fronte unico borghese si è realizzato facilmente e la solidarietà interclassista è stata imposta al proletariato senza troppe difficoltà. Tutta la forza del populismo new wave che Podemos rappresentava, tutta la “nuova politica”, si riassume nel fatto che, quando si trattava di lottare contro il proletariato, si ricorreva ad una stalinista della vecchia scuola.

Con questa storia alle spalle ed essendo stato il volto visibile di tutta la legislazione antiproletaria sul lavoro approvata in Spagna nell’ultimo anno e mezzo, la cosa normale sarebbe che un elemento come il ministro del Lavoro avrebbe preferito rimanere in secondo piano. Tuttavia, poche settimane fa il quotidiano El País ha annunciato che Yolanda Díaz era stata incaricata di scrivere il prologo di una nuova edizione in spagnolo del Manifesto del Partito Comunista (di Marx-Engels), nello stesso momento in cui lo pubblicava in anteprima.

Con questa pubblicazione il ministro cerca di andare oltre l’essere il semplice strumento di una politica apertamente antiproletaria e cerca di rivendicare che questo suo ruolo ha radici più profonde. Lo sforzo è rivolto, quindi, a continuare la sua opera al servizio della borghesia al di fuori dell’ambito tecnico che ha nel ministero, dando il suo contributo anche nel campo della distorsione e della falsificazione della dottrina marxista. Questo compito, tanto caro alla corrente stalinista a cui appartengono Yolanda Díaz e la sua famiglia, si compie tentando di attaccare alcuni punti fondamentali della teoria e cercando di appropriarsi della storia del Manifesto in spagnolo, come se il suo prologo e la nuova edizione pubblicata fossero posti al di sopra dei primi sforzi per diffondere e difendere queste posizioni tra i lettori di lingua spagnola, «correggendo» malintesi, migliorando problemi di traduzione che colpiscono davvero il cuore stesso della dottrina marxista, e così via.

Così, nei suoi scritti, la ministra afferma, ad esempio, che la dittatura del proletariato sarebbe una sorta di errore di traduzione, una di quelle «frasi e luoghi comuni che non corrispondono all’esatto substrato della sua tesi». È normale che un ministro di un governo borghese, erede di una lunga tradizione di servizi alla classe dirigente, voglia attaccare direttamente la dittatura del proletariato, in quanto punto centrale della teoria marxista sulla funzione dello Stato nelle società di classe. Ma farlo sulla base di un problema di traduzione è ridicolo anche per la stessa scuola di falsificazione stalinista.

Riprendiamo la famosa affermazione di Marx sulla dittatura del proletariato nella sua lettera a Joseph Werdermeyer del marzo 1852, proprio per mostrare che se la dittatura del proletariato fosse un errore di traduzione, Marx avrebbe dovuto farlo lui stesso nel suo tedesco materno:

 

«[...] Per quanto mi riguarda, non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna o la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica. Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: 1) dimostrare che l’esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; 2) che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi» (1).

Dopo aver dedicato alcune righe alla più grossolana falsificazione sull’opera di Marx ed Engels, l’autrice di questo scritto passa al suo secondo obiettivo: sostiene infatti che sia il suo prologo che la nuova edizione del Manifesto possano essere messi in relazione diretta con gli sforzi che hanno compiuto in passato i militanti proletari che si sono occupati della pubblicazione e della diffusione di quest’opera. Adducendo, cautamente e maliziosamente, una sorta di traiettoria bizzarra nelle edizioni del Manifesto, Yolanda Díaz cerca di introdurre di nascosto l’idea che le tesi centrali del marxismo, esposte sistematicamente per la prima volta in questo libro, non siano state ben comprese in Spagna. Per farlo ricorre al nome del primo editore del Manifesto in lingua spagnola, come se l’uso del suo nome giustifichi ogni barbarie che si voglia dire in seguito. Si tratta di José Mesa e l’autrice dovrebbe sapere che si tratta, senza voler cadere da parte nostra nell’odioso culto dei nomi, di uno dei principali marxisti che ha dato questa terra. Compagno di Engels e di Lafargue, è stato nell’Internazionale dalla prima ora, rimanendo con il gruppo che ha rotto con la corrente bakuninista e si è posto sotto la bandiera del comunismo rivoluzionario. Il suo lavoro fu vitale per mantenere, almeno finché era in vita, una corrente coerentemente marxista all’interno del Partito Socialista.

Citiamo di seguito un suo articolo pubblicato ne La Emancipación, organo della Nuova Federazione Madrilena dell’Internazionale, dedicato alla lotta per delimitare il terreno della lotta politica del proletariato di fronte alle confusioni repubblicano-radicali e libertarie.

 

«È innegabile che la rinuncia della classe lavoratrice ad ogni tipo di partecipazione, in quanto tale, alle lotte politiche – elettorali o di altro genere – ha dato e darà sempre come risultato inevitabile la continuazione della massa operaia nelle file dei partiti borghesi più o meno avanzati, e l’assoggettamento politico del proletariato, che contribuisce così, inconsapevolmente, a inchiodare le proprie catene, a perpetuare la sua soggezione economica. A meno che l’intera massa operaia non abbandoni la politica e assista a braccia conserte alle lotte elettorali o rivoluzionarie – cosa che nemmeno l’Internazionale potrebbe ottenere, avendo dovuto lasciare a ciascuno dei suoi associati la completa libertà di arruolarsi nel partito politico che meglio gli convenga – è chiaro che se non vogliono fare “politica operaia”, gli operai, associati o meno, faranno “politica borghese”. Così l’ha intesa la stessa Internazionale nel suo ultimo periodo, dichiarando da parte dell’organo del Consiglio Generale, autorizzato dalla Conferenza di Londra, la necessità di una politica operaia, in opposizione alla politica di tutti i partiti borghesi, lasciando, come era naturale, ai lavoratori di ciascuna regione la cura di determinare il momento e le condizioni in cui quell’azione politica doveva essere esercitata. Così lo hanno capito i nostri compagni della Germania, della Francia e di altri paesi, dove si è instaurato il suffragio universale, organizzandosi in partito di classe, in vista di un’azione politica elettorale, necessaria preparazione alla grande battaglia decisiva. Così, finalmente, lo abbiamo capito noi, nel costituirci in Partito Socialista Operaio, con un programma che non differisce, nei suoi punti capitali, da quello dei Partiti Operai tedesco, francese, americano ecc., un programma che si riassume in queste due grandi aspirazioni: continuare la tradizione socialista dell’Internazionale, sostenendo e appoggiando i lavoratori nelle loro lotte economiche, lotte per la vita, contro l’industrialismo borghese, e organizzare queste stesse forze per le lotte politiche, in tutti i settori interessanti al raggiungimento del nostro fine, che è la completa emancipazione sociale del proletariato. 

«Da quanto esposto si deduce logicamente – e chi non lo vede sarà per cecità naturale o finta – che  per noi, come per il Partito Socialista Operaio, la politica non è, non può essere altro che un mezzo, mai un fine: mezzo per propagare le nostre dottrine, per raccogliere forze, mezzo per conoscerci e contarci. Ciò che essenzialmente ci differenzia dai partiti in cui è divisa la borghesia è che usano il voto elettorale e la tribuna parlamentare per scalare il potere, ma noi li usiamo per organizzare la Rivoluzione. Convinti, come siamo, che l’impianto del nuovo ordine sociale sia impossibile senza aver prima sloggiato la borghesia dalla fortezza del potere, e che ciò non si possa verificare se non a colpi di arma da fuoco, consideriamo ogni concessione una pericolosa battuta d’arresto, e ogni patto o alleanza con politici borghesi, per quanto avanzati possano essere, come un tradimento. Il trionfo di una candidatura, l’ottenimento di una riforma, ancora favorevole agli interessi dei lavoratori, non merita il sacrificio di una sola virgola del nostro Programma. Il giorno in cui i Partiti Operai entrassero in un pendio così scivoloso, avrebbero cessato di esistere. Le riforme che strappiamo alla paura o all’ignoranza della borghesia devono essere armi che ci rafforzino nella lotta contro i nostri nemici implacabili, che ci diano nuovo ardore per andare avanti con la nostra bandiera alta e spiegata, e non ostacoli che ci addormentano e ci fermano nel cammino della Rivoluzione sociale. […]» (2).

 

In queste brevi righe si sintetizza tutto un programma di azione politica marxista: rottura con il gruppo dei partiti borghesi, difesa dell’azione indipendente della classe proletaria, rifiuto dell’opportunismo «pragmatico» e immediato, e così via. Non è difficile vedere chiaramente la distanza insormontabile che separa Yolanda Díaz, difensore proprio di uno di quei «partiti in cui è divisa la borghesia». Pertanto, è altrettanto facile vedere la terribile falsificazione del marxismo, dei suoi postulati e della sua stessa storia che comporta l’affiancamento delle stupide divagazioni della ministra all’opera di militanti come José Mesa. Ma Yolanda Díaz deve essere scrupolosa nel suo lavoro, dedicandone l’ultima parte nel collocarsi non più sulla linea remota dei padri del marxismo in Spagna, ma su quella della ben più recente pietra miliare della fondazione del Partito Comunista. Per farlo, fedele alle lezioni della sua scuola stalinista, inizia mentendo, affermando che siamo, in questo 2021, nel centenario della fondazione del PCE.

La verità è che non siamo nel centenario della nascita del Partito Comunista, ma della fusione tra il Partito Comunista Spagnolo (PCE) e il Partito Comunista Operaio di Spagna (PCOE). La prima di queste organizzazioni è stata fondata nel 1920 da una scissione della Gioventù Socialista sulla base di un programma chiaramente marxista. Tra i suoi postulati fondamentali, la difesa dell’azione politica del proletariato finalizzata alla conquista del potere e all’esercizio della dittatura proletaria attraverso l’organo-partito, la difesa di questo stesso partito comunista come elemento essenziale della lotta di classe del proletariato, nonché una serie di slogan tattici tra cui l’astensionismo elettorale, in rottura con le tradizioni politiche più pestilenziali della socialdemocrazia, e la lotta per conquistare un’influenza decisiva tra le masse proletarie sindacalizzate. Il secondo, il PCOE, fu il risultato dell’uscita dal PSOE dei cosiddetti “terzini”, gli elementi che avevano cercato di trasformare il PSOE in un partito dell’Internazionale Comunista. La sua caratteristica principale era la mancanza di una netta rottura con le politiche opportuniste che caratterizzavano il Partito Socialista. Ne è prova che tra le sue file c’erano elementi come Pérez Solis, esponente dell’ala destra del PSOE e, più avanti, falangista dalla prima ora. Il Partito Comunista di Spagna, oggi, e per lui Yolanda Díaz, difende come sua origine l’anno 1921. Il motivo è molto semplice: il PCE uscito dal Congresso di fusione era già un partito totalmente piegato alle politiche del Terzo Congresso dell’IC, caratterizzato da quella famosa “elasticità tattica” e da quei cenni ai vecchi modi opportunisti che finiranno per essere la porta delle peggiori deviazioni antimarxiste nei partiti nazionali, PCE compreso. Le correnti si sono fuse all’inizio di un percorso che era già preoccupante e questa fusione l’ha solo accelerato in Spagna. È normale che il PCE non voglia sapere nulla delle vere origini del Partito: riconoscerle lo costringerebbe a spiegare troppe cose. In ogni caso, lo stesso 1921 lasciava ancora testimonianze della potentissima lotta per sollevare e difendere un vero partito marxista. Lo sforzo di immettersi sulla via del marxismo rivoluzionario, legandosi al lavoro internazionale svolto dalle sezioni dell’IC, ha avuto i suoi frutti nell’adozione del programma che, concludendo, riportiamo di seguito. Sia ancora una volta confrontato con ciò che Yolanda Díaz dice di difendere del marxismo, si può vedere il vero ordine di grandezza della falsificazione in cui lei e i suoi sono impegnati.

 

Dichiarazione di principi

 

1.- Nell’attuale regime capitalistico si sviluppa sempre più il contrasto tra le forze di produzione e i rapporti di produzione, che origina l’antagonismo degli interessi e la lotta di classe tra il proletariato soggiogato e la borghesia dominante.

2.- Il proletariato non può rompere o modificare il sistema dei rapporti di produzione capitalistici, da cui deriva lo sfruttamento di cui è vittima, senza distruggere violentemente il potere borghese, qualunque sia la forma politico-amministrativa che assume per la sua difesa.

3.- L’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato è il partito politico di classe. Il Partito Comunista, raccogliendo nel suo seno la parte più avanzata e cosciente del proletariato, unifica gli sforzi delle masse lavoratrici, convertendole, dalla lotta per gli interessi di gruppo e per risultati contingenti, alla lotta per l’emancipazione rivoluzionaria del proletariato e imponendosi la missione di diffondere la coscienza di classe rivoluzionaria tra le masse e di guidare il proletariato nello sviluppo della lotta.

4.- Dopo che il potere borghese è stato rovesciato, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante se non con la distruzione del meccanismo politico-amministrativo della borghesia e con l’instaurazione della sua dittatura, cioè fondando la rappresentanza elettiva del nuovo Stato sulla classe produttrice.

5.- La forma di rappresentanza politica nello Stato proletario è il sistema dei Consigli operai (industriali e agricoli), già instaurato dalla Rivoluzione russa, inizio della rivoluzione proletaria universale e prima stabile realizzazione della dittatura del proletariato.

6.- Lo Stato proletario sarà l’unico che potrà attuare sistematicamente quelle successive misure di intervento nei rapporti dell’economia sociale, con le quali al regime capitalista si sostituirà la gestione collettiva della produzione e della distribuzione.

7.- Come conseguenza di questa trasformazione economica e del conseguente mutamento delle condizioni generali della vita sociale, e soprattutto abolendo la divisione della società in classi, la necessità di mantenere quello stato politico transitorio scomparirà gradualmente e il suo ingranaggio sarà semplificato, progressivamente e automaticamente, fino a giungere alla mera amministrazione delle cose comuni, mezzo razionale dello sviluppo dell’attività umana (3). 

 


 

(1) Marx a J. Werdermeyer, 5 marzo 1852, in Opere complete, vol. XXXIX, Ed. Riuniti, Roma 1972, p. 537.

(2) José Mesa pubblicato in El Socialista nº 60, 29/04/1887

(3) Statuti e tesi approvati al I Congresso Nazionale, tenutosi a Madrid nel marzo 1922, Partito Comunista di Spagna, stampati in M. Tutor, Madrid, 1922.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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