Venti di guerra in Europa

(«il comunista»; N° 171 ; Dicembre 2021 - Gennaio 2022)

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In un numero dello scorso marzo, il settimanale britannico The Economist ha pubblicato un articolo sulle prospettive dell’alto comando dell’esercito francese nel quadro di un’ipotetica guerra «ad alta intensità» che potrebbe svilupparsi sul territorio europeo e «con un gran numero di vittime civili». (1) L’articolo serve quindi a evocare indirettamente la possibilità di un conflitto su larga scala che coinvolga le principali potenze imperialiste in Europa intorno al 2030. Sulla base delle conclusioni del think tank (2) dell’esercito francese e delle dichiarazioni del suo capo di stato maggiore, Thierry Burkhard, The Economist spiega che l’ipotesi di lavoro delle forze armate francesi (e quindi dello Stato francese) consiste nello svilupparsi di un «grande scontro» con la Russia, la Turchia o i paesi del Nord Africa  e con una virulenza «mai vista dalla Seconda Guerra mondiale». In quest’ottica, l’esercito francese, così come gli eserciti britannico, belga e americano, effettueranno nel 2023 esercitazioni di addestramento nelle Ardenne e in mare coinvolgendo 10.000 soldati, avviando così un piano per preparare le forze armate a possibili scontri nel corso del prossimo decennio. 

Da parte sua, senza raggiungere le vette della visione francese, cioè senza dare alla pianificazione militare per gli anni a venire una giustificazione geopolitica di tale portata, lo stato maggiore spagnolo ha fissato al 2035 (solo cinque anni dopo la data francese) la scadenza per una riorganizzazione dell’esercito. Diciamo che la prospettiva spagnola è più modesta perché, pur puntando nella stessa direzione delle prospettive francesi, non fornisce loro alcuna giustificazione al di là della necessità di migliorare la capacità operativa delle truppe sul campo. In ogni caso, la necessità di questo miglioramento e la stessa riforma sono in linea con le dichiarazioni pubbliche dei militari francesi. Nel caso della Spagna, si tratta del progetto «Force 2035», un piano di riorganizzazione delle truppe di terra volto a conferire loro capacità operativa nelle aree urbane, con popolazioni civili ostili ecc. Questo approccio è tecnicamente molto simile a quello dell’esercito francese. D’altra parte, lo sviluppo del piano avverrà nell’ambito del «ciclo militare 2017-2024», vale a dire in date simili all’avvio del modello francese.

Al di là delle coincidenze nelle date, che possono essere più o meno esatte, quello che è certo è che gli approcci di questi due eserciti (che saranno indubbiamente comuni a quelli di altri paesi, basti vedere la collaborazione che chiedono nei loro documenti ai tradizionali alleati) indicano che la prospettiva di una guerra nel cuore dell’Europa può essere relativamente vicina. Che cosa significa questo? 

Ciò significa che le tensioni politiche e militari tra rivali che, fino ad oggi, venivano spostate su paesi terzi, su territori più o meno distanti e sempre in modo indiretto, potrebbero aumentare al punto da rendere inevitabile uno scontro militare diretto sul terreno immediato, che sarebbe il bacino del Mediterraneo e l’Europa centrale e orientale. E, inoltre, che ciò avverrebbe in un periodo di tempo relativamente breve, considerando che l’esercito francese non concede più di 10 anni di ritardo per il verificarsi di tale scenario.

Così come nell’ultimo decennio abbiamo visto riapparire lo spettro di devastanti crisi economiche, di guerre localizzate nella periferia capitalista ecc., secondo i redattori di The Economist, un tempo forse più immediato di quanto si supponesse potrà far risorgere lo spettro delle grandi guerre del secolo scorso.

 

LA GUERRA E LA PROPAGANDA BORGHESE

 

Il problema della guerra non è mai uscito davvero dalle mappe. Non perché, dalla fine della Seconda Guerra mondiale, le guerre periferiche, nelle quali le grandi potenze imperialiste si scontrano utilizzando altri eserciti e altri paesi come intermediari, non siano state una costante, ma perché la guerra è un elemento cruciale nelle analisi che la classe borghese costantemente ripete parlando del suo mondo. Non per niente questa classe è la prima a vantarsi, in tutti i paesi sviluppati, di aver potuto eliminare l’uso della guerra come mezzo normale di risoluzione dei conflitti tra classi e nazioni. Dalla scuola elementare al momento del servizio militare (nei paesi in cui è ancora obbligatorio) la borghesia ripete costantemente che la pace è l’obiettivo principale di tutta la sua attività politica e anche militare e che il mantenimento della pace è parte integrante del suo sistema politico.

Ovviamente nulla è più lontano dalla verità: la borghesia è salita al potere rovesciando le classi dominanti feudali o le potenze imperialiste che dominavano i territori colonizzati, e lo ha fatto attraverso guerre rivoluzionarie, che hanno sempre avuto un doppio aspetto nazionale (guerre civili da un lato contro il potere dei signori e dall’altro per il mantenimento del potere borghese una volta conquistato). Queste guerre non sono state prive di spargimenti di sangue come dimostra il lungo ciclo di guerre di indipendenza nazionale, dall’India all’Algeria, attraverso il Vietnam e l’Angola, durante il XX secolo.

Che la borghesia sia nata come classe dominante, che abbia innalzato il suo ordine e lo abbia generalizzato mediante la guerra, è un fatto innegabile. Ma è anche innegabile che questo ordine è mantenuto dalla guerra: la borghesia non solo ha combattuto contro le classi dominanti dell’Ancien Régime, ma ha avuto fin dalla sua nascita la necessità di scontrarsi con altre classi borghesi nazionali per imporre i suoi interessi commerciali, economici e politici ovunque questi richiedessero il sostegno della forza armata. La borghesia inglese, vittoriosa nella sua rivoluzione fin dal XVII secolo, affrontò senza esitazione le truppe della Francia napoleonica, e contro quest’ultima sostenne persino i suoi nemici feudali, una volta che li riconobbe come alleati allo scopo di mantenere la sua influenza sul continente europeo. In precedenza, la borghesia inglese, che oggi si vanta di avere nel sangue l’essenza stessa della democrazia, aveva combattuto la ribellione borghese delle sue colonie americane in una guerra terribilmente sanguinosa durata otto lunghi anni. E lo  stesso ha fatto, decenni dopo, con insolita ferocia contro i ribelli irlandesi... Prendiamo questi esempi solo per mostrare che il ricorso alla guerra è valido anche quando lo scontro è rivolto contro le classi borghesi emergenti. Oltre a ciò, il ricordo delle guerre mondiali che hanno devastato l’Europa, delle guerre di indipendenza delle colonie africane e asiatiche ecc. e, naturalmente, della guerra che la coalizione delle potenze imperialiste condusse contro il proletariato rivoluzionario che si affermò come classe dominante a Parigi 1871 e Pietrogrado 1917, mostrano che le borghesie di tutti i paesi dedicarono molto più tempo a pianificare, organizzare e condurre guerre che a vivere in pace, che la guerra è consustanziale al loro ordine sociale e che il ricorso ad essa aleggia sempre nell’aria dei rapporti tra classi e nazioni.

È vero che non tutte le guerre sono uguali, ma non lo diciamo nel senso in cui lo dice la borghesia. Per la borghesia una guerra o un’altra è giusta e necessaria a seconda che sia giusta e necessaria per se stessa; cioè, se si realizza per la difesa dei propri interessi nazionali, e trova sempre il modo di giustificarla (guerra al terrorismo, per la difesa della sovranità nazionale attaccata ecc.). Per i marxisti la guerra è necessaria (“giusta” è una parola che preferiamo lasciare ai moralisti) quando difende gli interessi di una classe che rappresenta le forze rivoluzionarie della società. Ecco perché erano necessarie le guerre della borghesia rivoluzionaria, che ha affrontato il potere feudale e alla fine lo ha rovesciato in gran parte del globo. Così come era ed è necessaria la guerra rivoluzionaria del proletariato, che ha esattamente lo stesso scopo: eliminare la classe dominante. E per lo stesso motivo le guerre condotte dalle diverse borghesie per la spartizione dei mercati, le guerre imperialiste, non sono né necessarie né da accettare in alcun modo; non possono rappresentare un passo in una direzione rivoluzionaria, sono un sostegno dell’ordine borghese, un rafforzamento del potere di classe della borghesia e un indebolimento sotto tutti gli aspetti della classe proletaria.

Tuttavia, sebbene la storia del dominio di classe della borghesia e il suo stesso presente siano scanditi da brutali scontri armati, per gran parte della classe proletaria europea e americana, l’idea di pace, di un mondo in cui la guerra è relativamente assente, è comune. Ciò non è dovuto solo (o meglio, è dovuto solo in minima parte) alla propaganda della classe borghese della parola d’ordine della pace: la sua responsabilità, che è una parte importantissima dell’ordine borghese, risale alle forze politiche e sindacali del collaborazionismo interclassista, ai partiti socialdemocratici, stalinisti e post-stalinisti, che lavorano con tutte le loro forze per diffondere il mito del progresso pacifico e democratico dell’umanità.

Tradizionalmente, queste correnti sono riuscite a mantenere la loro influenza sulla classe proletaria dove la borghesia non arrivava a farlo, proprio perché pretendevano di rappresentare i proletari nella loro lotta contro di essa. Non è questa la sede per tornare alla spiegazione del carattere politico e sociale dell’opportunismo e delle ragioni della sua crescente influenza tra i proletari, aspetto che è stato più volte ripreso nella nostra stampa (3). Ci basta qui sottolineare che un punto importante di questa influenza è proprio la difesa della pace che l’opportunismo pretendeva di fare contro la bellicosità della borghesia. Così come la funzione fondamentale dell’opportunismo consiste nel legare il proletariato alla borghesia facendogli assumere gli interessi generali di quest’ultima come propri, identificando il destino delle due classi nella difesa della mistificazione dello Stato come ente al disopra degli interessi di classe, della democrazia o del sistema parlamentare, una delle sue funzioni particolari consiste nel negare che la guerra, e in particolare le guerre imperialiste di rapina con cui le diverse borghesie si scontrano per il controllo delle zone di influenza economica, delle materie prime ecc., siano responsabilità collettiva della classe borghese nel suo insieme e quindi del sistema capitalista in quanto tale.

La posizione dello stalinismo di fronte alla guerra imperialista e al trionfo della controrivoluzione ha significato la diffusione nella classe proletaria di tutti i paesi di una politica modellata su quella che era stata mantenuta dalla Seconda Internazionale. I partiti nazionalcomunisti sono stati utilizzati sia per legare il proletariato al carro della borghesia locale, sia per difendere gli interessi imperialisti del nascente Stato borghese russo. Questa doppia funzione, che si è sviluppata anche nel campo della propaganda, ha dato vita allo slogan che si è poi diffuso: le guerre imperialiste sono responsabilità di alcuni borghesi, avidi e crudeli, che sconvolgono gli equilibri internazionali e che devono essere considerati i soli responsabili. È chiaro che questa borghesia avida e belligerante si identificava con l’allora nemico della Russia. È così che abbiamo visto per la prima volta l’alleanza tra Russia e Francia contro Italia e Germania, concretizzata in termini di politica interna nei Fronti popolari del 1935; poi, in seguito al patto di alleanza Ribbentrop-Molotov, con la Germania nazista, il nemico divenne «l’Inghilterra plutocratica»; e fu, infine, l’alleanza con l’Inghilterra, gli Stati Uniti e la Francia di Charles de Gaulle, quella che durò per tutta la Seconda Guerra mondiale. Nel frattempo, la classe proletaria è stata nuovamente massacrata sui campi di battaglia. La difesa dell’alleanza tra il proletariato e la borghesia contro il «nazifascismo» di Germania e Italia condannò i proletari a una sconfitta tanto più severa perché proveniva dal paese che era stato il grande baluardo della lotta rivoluzionaria e antiborghese. La successiva pace, costruita sui milioni di morti caduti in Europa, America, Asia e Africa, ha visto trionfare questa politica antimarxista, che da allora si è imposta, inoculando nei proletari una spiegazione delle guerre imperialiste come fenomeni scollegati dal mondo capitalista, come peculiarità di cui sono responsabili solo poche potenze, pochi multimilionari, avidi, nella loro sete di ricchezza, e poco solidali con il resto dei paesi. Questa dottrina della guerra è diventata così radicata che, sebbene il vettore della sua diffusione, il mito della Russia socialista, sia crollato nel 1991, il mito della «guerra giusta» rimane. È stato così utile alla classe borghese che lo ha elevato a suo vessillo tradizionale, mantenendolo in vita per continuare a usarlo in tutto il mondo come giustificazione delle sue politiche imperialiste. La borghesia si prepara a guerre ad alta intensità; il proletariato dovrà prepararsi a rispondere a ciò ricorrendo alla lotta rivoluzionaria generalizzata! 

 

CHE COSA CI INSEGNA IL PASSATO

 

La propaganda borghese sulla guerra ne abbraccia tutti gli aspetti, dalla sua natura non casuale ai problemi degli armamenti, della logistica ecc. che comporta. E lo fa proprio perché la questione della guerra, al di là dell’ideologia piccoloborghese della pace o dell’homo homini lupus dei partiti più bellicosi, può essere studiata e compresa.

Per noi marxisti la guerra è, infatti, uno degli elementi carattersitci del mondo capitalista: in esso ha senso la sua evoluzione, sia perché segna un impulso vitale per il suo sviluppo, sia perché sintetizza tutte le tendenze reazionarie che lottano per impedirne la distruzione per mano della classe proletaria. Ecco perché, sul piano dello scontro bellico, si sono avuti non solo i più grandi esempi di sollevazione proletaria, dalla Comune del 1871 alla Rivoluzione bolscevica del 1917, ma anche i più importanti scontri tra le forze veramente rivoluzionarie e quelle che erano (e lo sono) solo formalmente: prima della guerra crollò la Seconda Internazionale perché la forza delle correnti piccoloborghesi che difendevano i rispettivi Stati avevano acquisito in essa rendeva impossibile il recupero dell’organizzazione ai suoi originari fini proletari. Ma fu anche prima della guerra che le correnti apolitiche del movimento operaio, del sindacalismo e dell’anarchismo, svelarono la loro vera natura opportunista, paragonabile a quella della socialdemocrazia: la Spagna, nel 1936, diede un grande esempio di come l’organizzazione libertaria più potente esistita non resistette neppure pochi giorni prima di schierarsi dalla parte dello Stato repubblicano contro i proletari in armi.

Nel 1914 la guerra imperialista provocò la debacle dell’Internazionale socialista, il definitivo passaggio di Kautsky e compagnia dalla parte borghese, ma ciò costrinse le minoranze internazionaliste a raggrupparsi attorno alla teoria marxista e al programma rivoluzionario ergendosi a sua difesa. Da quel crollo, che sembrava definitivo nell’agosto del 1914, l’Internazionale Comunista emerse come un grande sforzo per la costituzione del Partito Comunista Mondiale. Ma nel 1936, o nel 1939, da una simile debacle, operata nel primo caso dalle correnti libertarie e nel secondo dall’insieme delle forze socialdemocratiche e staliniste, non emersero forze capaci di recuperare il terreno perduto: né la classe proletaria aveva più la forza dimostrata nel 1917-19 in tutta Europa, devastata com’era dalla serie di sconfitte subite per mano della borghesia, né il processo controrivoluzionario, avviato in Russia e in seguito in tutto il mondo dallo stalinismo, era terminato, impedendo ai piccoli e sparsi gruppi che si opponevano a questa controrivoluzione di essere capaci di realizzarne il necessario bilancio.

L’unica corrente capace, per la sua traiettoria storica e la sua posizione già contro i primi sintomi della deviazione che nel movimento comunista internazionale diede origine allo stalinismo, di far propria l’opera che nel 1914-1917 avevano preso in  carico i bolscevichi insieme a pochi elementi sparsi in vari paesi, fu la Sinistra Comunista d’Italia. Infatti, ogni lettore della nostra stampa può confermare che da allora il problema della guerra, del suo rapporto con il corso della lotta di classe del proletariato e con lo sviluppo, sempre tendente ad essa, della società capitalista, occupa nelle nostre pubblicazioni un ruolo di primo piano. Il compito della nostra corrente è sempre stato quello di porre la questione della guerra nei suoi giusti termini, nel duplice senso di affermarli e di combattere tutte le correnti politiche che, richiamandosi al marxismo, pretendono che la questione della guerra possa essere compresa da una prospettiva diversa da quella del materialismo storico.

È proprio contro la concezione moralistica della guerra, che la considera di per sé cattiva, a prescindere dalle sue caratteristiche storiche, che noi abbiamo dedicato buona parte dei nostri sforzi di partito a definire la guerra classificandola entro tipi storicamente definiti.

Il primo è quello della guerra rivoluzionaria, cioè di quelle guerre mosse da una classe in ascesa contro le forze reazionarie. Nella fase storica del capitalismo, questo tipo di guerra ha due varianti. La prima è la guerra rivoluzionaria borghese che la borghesia nazionale di paesi come la Francia ha condotto contro le vecchie classi aristocratico-feudali. La seconda è la guerra rivoluzionaria proletaria, cioè quella che il potere rivoluzionario del proletariato conduce per difendersi dalle aggressioni delle potenze imperialiste. Sfortunatamente, la storia ci ha fornito pochi esempi di questa variante e non ce ne occuperemo ora.

Il secondo tipo, quello delle guerre reazionarie, è quello che le forze nazionali borghesi conducono tra di loro in scontri diretti a saccheggi e rapine. Si tratta di forze solidali per quanto riguarda la loro composizione di classe, ma che si scontrano riguardo alla loro concreta forma nazionale. Sono le guerre imperialiste, i grandi massacri del 1914 e del 1939, ma anche gli scontri armati che dalla fine della seconda guerra mondiale le principali potenze conducono soprattutto attraverso agenti intermedi.

Entrambi i tipi di guerra hanno convissuto: lo sviluppo asimmetrico del modo di produzione capitalistico nelle diverse regioni del mondo ha fatto sì che, per esempio, Europa e Nord America fossero già pienamente immersi nella fase imperialista del loro sviluppo mentre in alcune regioni dell’Africa o dell’Asia, erano all’ordine del giorno lotte di liberazione nazionale, chiaro esempio di guerre progressiste in senso borghese.

Le variabili fondamentali con cui possiamo caratterizzare le guerre sono, quindi, due: periodo storico e area in cui si verificano. Possiamo così tracciare un lungo percorso delle guerre rivoluzionarie di sistemazione nazionale nell’area euroamericana: dal 1792 al 1871, cioè dalla Convenzione alla Comune di Parigi, momento in cui le borghesie di Francia e Germania si alleano in un unico blocco contro la classe proletaria che insorge. Così descriviamo, in uno dei nostri testi classici, i primi passi di questo ciclo:

«Le guerre tra la Francia e le successive coalizioni europee, che alla fine sboccarono nella restaurazione della monarchia assoluta, furono uno stadio fondamentale per la diffusione in Europa del capitalismo, non impedita affatti dalla vittoria degli eserciti feudali, alleati con l’ultracapitalistica Inghilterra. In tutto questo periodo storico non solo i rivoluzionari borghesi fanno una politica di patriottismo e di nazionalismo spinto, ma vi trascinano con sé il nascente proletariato, determinati entrambi a tale politica e alle derivanti ideologie dalla sociale necessità di disperdere gli ultimi vincoli feudali. Questo non vuole però dire che alla guerra civile tra le classi che si contendono il potere si surroghi l’urto militare degli Stati e degli eserciti. Il fatto determinante dello sviluppo sociale resta la lotta tra le classi, accesa ovunque in tempi successivi, e senza di questo non potremmo spiegarci lo svolgersi stesso delle guerre, col nuovo carattere generale e di massa del militarismo moderno. Gli stessi giacobini non tolsero mai il centro della loro attenzione dalla lotta interna, per portarlo sulle “novelle termopili di Francia” il cui Leonida, Dumouriez, non tardò a tradire e a finire da traditore» (4).

Da questo paragrafo è necessario evidenziare un’idea: durante il periodo rivoluzionario borghese, mentre la classe borghese già dominante in un paese come la Francia affronta le classi nobiliari coalizzate, la lotta di classe tra proletari e borghesia e tra proletari e classi feudali non scompare: è infatti una delle micce della forza rivoluzionaria della borghesia, ma ci sono obiettivi comuni ai proletari e alla borghesia che possono determinare un’alleanza temporanea tra le due classi sociali. È l’unica occasione in cui la storia contempla la difesa degli interessi nazionali da parte del proletariato non come un passo verso la sua sconfitta, ma come un passo necessario verso la sua emancipazione; quindi, il marxismo senza mai rinunciare all’obbligo di invocare una guerra continua contro il classe borghese, vede questa alleanza, che può essere riassunta con lo slogan «colpire insieme, marciare separatamente» come un fattore progressista in quanto rivoluziona le condizioni sociali feudali.

Continua il “Filo del tempo” citato:

«Sappiamo che il marxismo ha considerato come guerre di sviluppo quelle del periodo 1792-1871, che si possono chiamare con termine semplificativo guerre di progresso, ma senza cadere nella trappola della “guerra di difesa”. Lenin infatti avverte bene che possono essere anche di “offesa”, e che guerre ipotetiche tra stati feudali e stati borghesi potrebbero vedere “giustificata” dai marxisti l’azione dello Stato più avanzato “indipendentemente da chi abbia iniziata la guerra”. L’argomento era strettamente polemico, era in rapporto all’assurdo che i socialisti francesi e tedeschi fossero entrambi per la guerra col pretesto vile della “difesa”: esso vuol dire: se in dato momento storico una data guerra risultasse “rivoluzionaria”, essa sarebbe da sostenersi anche se non difensiva. In fondo, se esiste, la guerra rivoluzionaria è squisitamente d’attacco, di aggressione. L’argomento dialettico batteva in breccia la bassa ipocrisia di tutte le campagne che mobilitano le masse alla infatuazione guerresca, colla simulazione di non preparare e volere la guerra, ma di essere costretti a respingerla in quanto preparata e voluta dal nemico.

«Non quindi con il criterio moralistico della difesa, antitetico al proprio, il marxismo ha valutate le guerre che si pongono tra il classico 1792 e il 1871, ma con quello degli effetti sullo sviluppo generale, e molte volte nella sua critica ha considerato utili e acceleratrici iniziative di offesa militare, come ad esempio quella bonapartista del 1859 e prussiana del 1866. Non si tratta dunque di dire che fino al 1871 il partito marxista era per la “difesa della patria” o per la “difesa della libertà”, ma di ben altro». (5)

 

Questo tipo di “guerra di sviluppo” non è esistito solo durante il periodo di sistemazione nazionale dell’Europa e del Nord America. Anche il XX secolo ne ha dato buoni esempi soprattutto in Asia e in Africa. Vietnam, Algeria, Congo o Angola sono solo alcuni esempi di situazioni in cui si è riealizzata la guerra rivoluzionaria di tipo nazionale, quindi borghese, come uno stimolo capace di scuotere le forze dello status quo imperialista in quelle regioni. Lì lo scontro non avveniva tra le forze feudali e la borghesia emergente, ma tra forze capitaliste pienamente sviluppate che esercitavano il dominio imperialista su quei paesi e un conglomerato di forze borghesi, piccoloborghesi e proletarie. Nonostante questa differenza, si applica lo stesso criterio precedentemente definito. Questo viene spesso criticato sostenendo che, in realtà, questi tipi di scontri rappresentavano semplicemente lotte interborghesi, di tipo imperialista, in cui una borghesia emergente e più dinamica della vecchia potenza coloniale voleva sostituirsi a essa. Questo tipo di obiezione ignora il ruolo che le guerre di liberazione nazionale hanno svolto come fattore accelerante nella proletarizzazione di ampi strati della popolazione contadina delle regioni coloniali, quindi come liberatrici delle forze produttive che dovranno necessariamente scontrarsi con l’ordine capitalista. Ignora anche l’importanza di far emergere un proletariato organizzato in grado di scontrarsi con la propria borghesia. E, infine, ignora l’importanza dell’indebolimento in ogni momento dell’ordine imperialista internazionale, che non è immune da questo tipo di scossoni e che per mantenersi ha richiesto, di fatto, la collaborazione delle grandi potenze (e anche delle potenze emergenti come la Cina). In breve, questo tipo di critica continua a portare avanti la vecchia posizione antimarxista che nega la varietà delle variabili storiche che determinano la natura degli scontri bellici e che li cataloga secondo un sistema totalmente astratto, incapace di valutare le circostanze che concorrono in ogni situazione.

Riportiamo di seguito due paragrafi del nostro testo L’incandescente risveglio delle “genti di colore” nella visione marxista (6).

«L’”indifferentismo” si barrica oggi dietro il pretesto che i moti coloniali sono di origine e contenuto ideologico (e in parte anche sociale) borghese e si prestano ad essere manovrati dai blocchi contrapposti dell’imperialismo. É qui la turpe insidia: è appunto l’indifferenza (che poi, sul terreno delle lotte di classe, significa passaggio al nemico) del proletariato rivoluzionario e, peggio ancora, del suo Partito, che blocca il processo di radicalizzazione dei moti coloniali, che ne restringe le prospettive nell’ambito di programmi e di forze sociali borghesi e quindi li espone alla possibilità di un cinico sfruttamento ad opera del grande capitale arroccato sugli spalti della Casa Bianca o del Cremlino! É la rinunzia ad assumersi la missione affidatagli non da Marx, Engels, Lenin, ma dalla storia di cui essi furono i portavoce, che inaridisce un fenomeno storico così gravido di potenzialità avvenire. Da anni, quasi giorno per giorno, il pugno rude dei “colorati” batte alla porta non dei borghesi, ma dei proletari metropolitani: e non è un battere metaforico, perché i proletari belgi 1961 o francesi dei grandi scioperi di anni trascorsi rispondono e rispondevano, lo sapessero o no poco importa, all’”ondata di disordine” emanante dalla boscaglia congolese o dal Bled algerino; la risposta viene a sussulti nella grande estensione della classe proletaria, non viene dal suo partito o, quando viene, è la risposta inversa a quella della grande tradizione rivoluzionaria, è la belante risposta democratica, conciliatrice, diplomatica, patriottica, o è la non meno turpe risposta dell’altezzosa e sufficiente “indifferenza”. Moti borghesi! E tuttavia, la prima campana a stormo nel Congo, nel 1945 come nel 1959-60, è venuta da giganteschi scioperi non certo di borghesi, ma di proletari autentici; e non da oggi ricordiamo su queste pagine la storia delle organizzazioni rivoluzionarie algerine a sfondo anche socialmente proletario che solo la capitolazione del comunismo metropolitano di fronte alla democrazia, al fronte popolare, alla resistenza, a De Gaulle, ha permesso di soffocare e distruggere. O non era borghese l’orizzonte del febbraio 1848 o del febbraio 1917? Non sarebbe caduta definitivamente preda dell’imperialismo e della guerra la “prima rivoluzione” russa, se i bolscevichi non avessero fatto proprio il compito di portarla di là da se stessa, e si fossero chiusi nella stupida roccaforte dell’”indifferenza”?

«Il proletariato rivoluzionario occidentale deve riguadagnare il tempo e lo spazio, tragicamente perduti nel rincorrere il miraggio di soluzioni democratiche di un problema che, alla scala del mondo, solo la rivoluzione comunista può sciogliere. Esso non può chiedere ai moti coloniali ciò che solo da lui dipende. Ma anche così li saluta con passione divorante: anche così, perché, unica scintilla di vita in un mortifero presente, scardinano l’equilibrio internazionale dell’ordine costituito (vedremo più oltre come lo stesso “sfruttamento imperialistico dei moti coloniali” vada preso con molte riserve), perché catapultano nell’arena della storia gigantesche masse popolari – e in esse sono comprese masse proletarie – finora vegetanti in un “isolamento senza storia”, perché quand’anche potessero ridursi – ma la dialettica marxista si rifiuta di ridurli – a moti puramente borghesi, essi alleverebbero nel proprio seno i becchini che il putrido occidente, sommerso in una prosperità beota ed assassina, culla in un sonno più ottuso di quello provocato dalla “soporifera droga chiamata oppio”; perché, insomma, sono nella tradizione della storia d’oltre un secolo, “rivoluzionari malgrado se stessi”.

«La qual cosa, per i borghesi e per i radicali-indifferentisti di oggi, come per quelli che Marx copriva di ridicolo in una lettera del 1853 ad Engels, è molto shocking, molto scandalosa: non per noi, non per i marxisti degni di questo nome!»      

Tutta questa ampia visione generale sui problemi teorici della guerra, così come vengono posti dalla dottrina marxista sul terreno della valutazione pratica, non è un esercizio di retorica. Ha la funzione di fissare punti di riferimento minimi, sulla base dei quali si possa affermare che, con essi, si condivide la posizione marxista di base sul problema della guerra e che, contro di essi, questa posizione è negata. Rimandiamo, quindi, a questi testi di base e a questa linea guida generale per poter affrontare una serie di valutazioni fondamentali.

La prima di queste è che, superata la fase rivoluzionaria della borghesia in ascesa e le sue guerre “progressiste”, gli scontri tra nazioni borghesi non possono mai più avere il carattere di guerre rivoluzionarie, semplicemente aderendo al modello imperialista caratterizzato da Lenin.

«L’imperialismo è il più alto grado di sviluppo del capitalismo, ed è stato raggiunto soltanto nel XX secolo. Per il capitalismo, sono divenuti angusti i vecchi stati nazionali, senza la cui formazione esso non avrebbe potuto abbattere il feudalesimo. Il capitalismo ha sviluppato a tal punto la concentrazione, che interi rami dell’industria sono nelle mani di sindacati, di trust, di associazioni di capitalisti miliardari, e quasi tutto il globo è diviso tra questi “signori del capitale”, o in forma di colonie o mediante la rete dello sfruttamento finanziario che lega con mille fili i paesi stranieri. Il libero commercio e la concorrenza sono stati sostituiti dalla tendenza al monopolio, dall’usurpazione di terre per impiegarvi dei capitali, per esportare materie prime ecc. Da liberatore della nazione, quale era nella lotta contro il feudalesimo, il capitalismo, nella fase imperialista, è diventato il maggiore oppressore delle nazioni» (7).

 

In questo senso, le guerre imperialiste svolgono un ruolo di conservazione sociale, impediscono lo sviluppo della lotta di classe del proletariato e, pertanto, non svolgono alcun tipo di ruolo progressista. Tanto meno le guerre cosiddette “difensive” in cui una potenza afferma di essere attaccata da un’altra ed esige quindi un sostegno “popolare” in nome della giustizia. Questo tipo di propaganda puramente borghese serve solo a rafforzare la sacra unione tra proletari e borghesia, facilitando l’incatenamento dei primi alla difesa dell’interesse nazionale rivendicato dalla seconda.

La nostra seconda valutazione discende immediatamente da questa. Nell’attuale fase di sviluppo capitalistico, e senza negare che qualche remota regione del pianeta possa ancora contemplare una guerra, sempre su piccola scala, di carattere più o meno progressista, la classe proletaria ha una sola parola d’ordine da difendere contro la guerra borghese: il disfattismo rivoluzionario, la lotta contro la propria borghesia, senza badare ad altre considerazioni di tipo “tattico” o “strategico”. Ovviamente questa parola d’ordine, questo modo di affrontare il più che certo scontro militare su larga scala che avverrà nei prossimi decenni, non ha senso se non viene inteso come conseguenza della maturazione politica della classe proletaria.

Oggi è completamente assoggettata alla borghesia, tanto in campo politico quanto in campo sindacale e, ovviamente, in quello militare. La guerra e la precedente accelerazione delle contraddizioni sociali che spinge verso di essa dovranno innescare l’indebolimento di questa sottomissione.

Ma, in ogni caso, è compito del partito di classe difendere, in ogni momento, il fatto che l’unica politica accettabile per il proletariato è quella della lotta contro la propria borghesia perché, anche se questa politica oggi non influisce sulle masse proletarie, contribuisce ad affermare non solo una posizione politica, ma un’intera prospettiva per un futuro prossimo ma non immediato.

Questo è per noi il terzo punto critico: il partito di classe non solo nega il carattere pacifico ed equilibrato del modo di produzione capitalistico, ma pone la guerra come punto centrale del suo sviluppo. E difende questa prospettiva tra i proletari non solo in modo formale, ma anche mostrando la verità di questa affermazione con i dati forniti dalla documentazione storica e attuale. La nostra lotta politica in difesa dell’internazionalismo come campo di battaglia del proletariato contro l’inquadramento nazionale e la solidarietà tra le classi che questo comporta, non è astratta, ma si basa sui fatti che la realtà mostra quotidianamente. La nostra difesa della necessità della lotta rivoluzionaria ha senso perché parte da un fatto reale che fa di questa necessità qualcosa di oggettivo.

 

(continua)

 


 

(1) “The French armed are planning for high-intensity war” [Le forze armate francesi stanno pianificando una guerra ad alta intensità], The Economist, 31/03/2021.

 (2) Con think tank si intende generalmente un “laboratorio di idee”.

(3) Cfr. la serie Sul filo del tempo raccolta col titolo “Il proletariato e la guerra”, Quaderno del programma comunista n° 3, giugno 1978. www.pcint.org nella sezione “Archivi”.

(4) Cfr il “filo del tempo” intitolato Guerra e rivoluzione, pubblicato nell’allora giornale di partito “battaglia comunista”, n. 10, 18-31 maggio 1950; ripreso poi nel n. 3 dei “Quaderni del Programma comunista”, giugno 1978, consultabile nel nostro sito www.pcint.org.

(5) Ibidem.

(6) Questo è il titolo del primo Rapporto tenuto alla Riunione generale di partito di Bologna, 12-13 novembre 1960 (col titolo generale: Insegnamenti del passato, fremiti del presente, prospettive del futuro nella linea continua ed unica della lotta comunista mondiale), e pubblicato ne “il programma comunista” n. 1 del 1961.

(7) Cfr. Lenin, Il socialismo e la guerra (settembre 1914), Opere, vol. 21, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 275.

 

 

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