Kazakistan: scioperi e rivolte fanno vacillare il regime

(«il comunista»; N° 171 ; Dicembre 2021 - Gennaio 2022)

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Il movimento di protesta e di rivolta che da una settimana colpisce il paese è stato innescato dall’improvvisa decisione delle autorità di raddoppiare il prezzo di gas e benzina; non appena è stato dato questo annuncio, domenica mattina, 2 gennaio, sono iniziate le proteste di lavoratori e disoccupati nella città petrolifera di Janaozen, nella parte occidentale del paese (regione di Mangystau) (1).

Durante la giornata, azioni di protesta (assembramenti, sit-in ecc.) hanno raggiunto la grande città portuale vicina di Aktau per chiedere il ritiro degli aumenti - o il raddoppio dei salari!

Il giorno successivo la protesta ha continuato a diffondersi nonostante il dispiegamento della polizia e sempre più aziende hanno dovuto cessare il lavoro; i social network trasmettevano scene di fraternizzazione tra agenti di polizia e manifestanti.

Il 4 gennaio, nonostante il prefetto (l’«akim») e il ministro dell’Energia abbiano annunciato il calo del prezzo di gas e benzina per gli abitanti, lo sciopero è stato pressoché generalizzato in tutta la regione (oblast) di Mangystau, dove si concentra una parte importante di industrie estrattive. Sempre il 4 gennaio, in tutto il paese, anche i minatori della regione di Karaganda scendevano in sciopero, mentre proteste e blocchi si sono diffusi in gran parte del Kazakistan. In più luoghi i manifestanti hanno attaccato i simboli del regime: statue dell’ex autocrate Nazarbayev che continua a tirare le fila come presidente a vita del «Consiglio di sicurezza nazionale», edifici ufficiali e persino stazioni di polizia. Al centro degli slogan c’era la cacciata di Nazarbayev e delle sue creature (tra cui Tokaïev, l’attuale presidente).

Il regime ha risposto da un lato licenziando il governo e lo stesso Nazarbayev e dall’altro dichiarando lo stato di emergenza; ha scatenato una sanguinosa repressione, soprattutto nella capitale economica Almaty nella notte tra mercoledì e giovedì (più di cento morti secondo il ministero della Salute). Di fronte all’esplosione sociale, il presidente ha chiesto aiuto alla Russia, aiuto concesso immediatamente: venerdì 7 gennaio sono arrivati  3mila soldati russi, affiancati da un manipolo di militari di altri paesi. Lo stesso giorno Tokayev ha dichiarato in televisione di aver «dato l’ordine di sparare per uccidere senza preavviso». Sabato i giornalisti ad Almaty hanno riferito ancora di sparatorie in alcune parti della città, ma il presidente ha affermato che l’ordine costituzionale è stato ripristinato. È stato ristabilito nel sangue, secondo le stesse autorità: il 9 gennaio il bilancio ufficiale della repressione è stato di oltre 160 manifestanti uccisi dai proiettili, di diverse migliaia il numero dei feriti e 6.000 gli arresti.

Questo «ordine» è l’ordine capitalista, sancito da tutti gli imperialismi; se la Cina, in un messaggio di Xi Jinping, si è congratulata con Tokayev per le «misure forti» prese per sedare la rivolta, i più ipocriti imperialismi occidentali hanno chiamato «tutte le parti» a «trattenersi», mettendo sullo stesso piano i manifestanti e le forze assassine di repressione; nessuno ha protestato contro l’intervento russo. È perché il Kazakistan, ricco di petrolio e altri minerali, ha registrato importanti investimenti da parte di società occidentali, comprese quelle americane: tutti, temendo disordini sociali che potrebbero mettere a rischio il proprio capitale, vedono nell’intervento russo una garanzia contro questo pericolo...

Il Kazakistan, paese geograficamente grande ma scarsamente popolato (19 milioni di abitanti) e che occupa una posizione strategica nell’Asia centrale, da diversi anni ha conosciuto una forte crescita economica, basata principalmente su petrolio e gas (nonostante alcune battute d’arresto nel suo sogno di diventare il Kuwait dell’Asia centrale), ma anche sul carbone o sull’uranio (di cui è il maggiore produttore mondiale). Aveva anche colto l’occasione per liberarsi dalla dominazione russa; si era avvicinato alla Cina e all’Occidente, firmando tra l’altro un accordo militare con l’Italia, che fu uno dei suoi primi clienti, poi con gli Stati Uniti; si era anche avvicinato alla Turchia integrando l’«Organizzazione degli Stati turcofoni», alleanza embrionale dei paesi di lingua turca dell’ex URSS con Ankara. Il 6 gennaio il presidente turco Erdogan ha telefonato a Tokayev per assicurargli il suo sostegno e offrirgli «la sua esperienza e la sua competenza tecnica»; ma l’esperienza e la competenza del padrino russo sono di gran lunga superiori...

I proletari non hanno beneficiato per niente della prosperità economica; il regime ha continuato a usare la repressione contro tutti i tentativi di lotta e di organizzazione indipendente dei lavoratori; le brutalità della polizia sono correnti. Nel 2011 la polizia ha duramente represso a Janaozen lo sciopero dei lavoratori petroliferi per il miglioramento delle loro condizioni: ha sparato sui manifestanti in sciopero, uccidendo non meno di 16 persone. Alcuni analisti, anche in Occidente, affermano che gli attuali disordini sono almeno in parte causati dalle rivalità all’interno del regime.

È del tutto possibile che ci siano tentativi di regolare i conti tra le cricche borghesi a fomentare gli avvenimenti attuali; ma è innegabile che la loro causa sia la situazione sempre più intollerabile per i proletari e per i ceti poveri, in una situazione di crisi economica che sfocia nei licenziamenti (40.000 licenziamenti nel giacimento di Tengiz a dicembre, altri sono previsti) e nell’inflazione (ufficialmente 8 % ma in realtà molto di più).

Il carattere proletario della rivolta è dimostrato, se necessario, dal fatto che essa era collegata a un movimento di sciopero sulle richieste di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e di aumento dei salari. I democratici piccoloborghesi indicano ai proletari l’obiettivo di un «Kazakistan democratico» libero dalla cricca dominante; alcuni pseudosocialisti, come i neostalinisti del «Movimento socialista del Kazakistan», chiedono un ritorno alla Costituzione del 1993, che dovrebbe essere più democratica.

Ma non è per un semplice cambiamento di facciata del regime che i proletari devono combattere, perché, lasciando intatto il modo di produzione capitalista, un tale cambiamento non modificherebbe la loro sorte. La lotta per le libertà politiche e sindacali è senza dubbio necessaria, ma a condizione che faccia parte della lotta contro il capitalismo che li sfrutta e li riduce alla miseria. Solo la lotta di classe del proletariato può avere la forza di porre fine al capitalismo, unendo i proletari al di là dei confini: questo è ciò che temono i democratici borghesi e piccoloborghesi...

L’attuale esplosione sociale ha fatto vacillare il regime, ha mostrato la potenza della classe operaia e la gravità delle tensioni sociali accumulate sotto il capitalismo; domani la lotta rivoluzionaria dei proletari del Kazakistan, della Russia e di tutti i paesi, sotto la guida del loro partito di classe internazionale, rovescerà tutti i regimi capitalisti assassini e vendicherà le loro innumerevoli vittime.

Mentre la crisi economica spinge inesorabilmente i proletari alla rivolta, è questa la prospettiva che deve guidarli nelle loro lotte, in Kazakistan e ovunque!

 

10 gennaio 2022

 


 

(1) Informazioni dal sito socialismkz.info

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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