Il movimento dannunziano

(Fiume, il fascismo e il proletariato)

(«il comunista»; N° 171 ; Dicembre 2021 - Gennaio 2022)

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E' a disposizione l'opuscolo che riprende un testo che Amadeo Bordiga dedicò, nel 1924, al Movimento di Gabriele Dannunzio che nel 1919 si volle distinguere dal movimento mussoliniano, anticipando però alcuni caratteri di cui si impossesserà il fascismo mussoliniano negli anni successivi.

Si tratta di un Opuscolo, edito dal partito, di 36 pagine, formato A4. Pubblichiamo qui di seguito l'Introduzione.

 

 

INTRODUZIONE

 

Questo testo fu pubblicato in due puntate nei numeri 1 e 2 della rivista mensile Prometeo (“rivista di cultura sociale”, con sede a Napoli), 15 gennaio e 15 febbraio 1924, a cura di un gruppo di terzinternazionalisti espulsi dal PSI e di comunisti di sinistra (1).

Come è risaputo, nel marzo del 1923 Amadeo Bordiga e diversi altri esponenti comunisti (Grieco, Berti, Tasca ecc.) vengono arrestati e incarcerati; nello stesso anno si tiene il processo nel quale Amadeo Bordiga, in particolare, si difende dalle accuse di cospirazione e di associazione a dilinquere con un memoriale che farà da guida per tutti i comunisti che si sarebbero trovati nella stessa situazione, senza mai rinnengare le posizioni e il programma comunista (2). Bordiga, assolto assieme a tutti gli altri imputati “per insufficienza di prove”, dalla fine di ottobre 1923 torna libero e in piena attività politica.

Il movimento dannunziano è uno scritto in cui è trattata una riflessione puntuale sulle caratteristiche di un movimento che all’epoca aveva sì mobilitato gli strati piccoloborghesi e influenzato in parte degli strati operai (come il sindacato ferrovieri e i marittimi), ma che ambiva superare gli antagonismi di classe che opponevano il proletariato e la borghesia, dando addosso a quegli strati borghesi che chiamava “parassiti” e che si erano arricchiti con la guerra senza mettere a rischio la propria vita; mentre, nei confronti del proletariato, riprendeva alcuni concetti, come quello dei produttori, che facevano parte dell’ideologia riformista, ma in questo caso venivano equiparati ai proprietari d’azienda che lavorano nell’azienda, anch’essi considerati produttori e perciò appartenenti alle stesse Corporazioni in cui  il programma politico di D’Annunzio, esplicitato nella Carta del Carnaro – ossia nello “Statuto dello Stato libero di Fiume” promulgato nel settembre 1920 – suddivideva le diverse categorie merceologiche del lavoro e che venne ripreso poi dal fascismo mussoliniano. Questo movimento, costituito all’inizio da ufficiali ed ex combattenti, non nacque a tavolino, ma trovò il suo slancio, infatti, nella famosa “impresa di Fiume”.

Nell’impero austro-ungarico, Fiume (oggi Rieka), col suo porto, era un altro sbocco al mare dopo Trieste; da molto tempo era una città popolata soprattutto da italiani, come d’altra parte Trieste, Zara (oggi Zadar), Ragusa (oggi Dubrovnich). Non solo Trento e Trieste furono, secondo la logica nazionalista, le due città simbolo di “italianità” da riconquistare all’Austria, ma lo fu anche Fiume. Allo scoppio della guerra nel 1914 l’Italia, nonostante gli impegni sottoscritti nella Triple Alleanza con Austria e Germania, si dichiarò neutrale, prese tempo, anche perché non era assolutamente pronta a sostenere lo sforzo di una guerra mondiale che vedeva il fronte nemico costituito da potenze imperialiste di primissimo ordine: Inghilterra, Francia e Russia. Questa neutralità, considerata da Germania e Austria come un tradimento, era stata interpretata dalle potenze dell’Intesa come una possibilità reale di coinvolgere l’Italia nella guerra contro austriaci e tedeschi; e le rispettive diplomazie lavorarono proprio con questo obiettivo. D’altra parte, il beneficio militare immediato lo ebbe la Francia che, grazie alla neutralità dell’Italia, poteva spostare le sue divisioni dal fronte italiano a quello tedesco. Accordatasi segretamente con gli inglesi e i francesi nel famoso Patto di Londra del marzo 1915, l’Italia cancellò il trattato che la legava all’Austria e alla Germania nella Triplice Alleanza e nel maggio 1915 dichiarò guerra all’Austria partecipando così a quel feroce massacro mondiale che, per quel che riguarda l’Italia, fece non meno di 680 mila morti (per l’Austria-Ungheria se ne contarono più di 1 milione e 500 mila, per la Germania, più di 2 milioni, per la Francia più di 1 milione e 400 mila, per l’Inghiterra quasi 800 mila), senza contare i feriti, i dispersi, i morti e i feriti anche tra la popolazione civile.

Uscita vittoriosa dalla guerra, l’Italia si aspettava non solo che le promesse contenute nel Patto di Londra precedenti ai lunghi anni di guerra fossero mantenute, ma che le sue ambizioni quanto a Fiume, la Dalmazia, l’Albania venissero accolte. Senza qui entrare nei meandri diplomatici in cui, durante la guerra, le potenze dell’Intesa, Inghilterra e Francia alle quali si aggiunsero gli Stati Uniti entrati in guerra nel dicembre del 1917, progettavano la spartizione dell’Europa e delle colonie tedesche a guerra finita, la borghesia italiana non ottenne soddisfazione alle sue aspirazioni imperialistiche, soprattutto per i diktat posti dal presidente americano Wilson che riteneva più conveniente alla pacificazione dei Balcani soddisfare le ambizioni jugoslave sulla Dalmazia e sull’Istria, vista la forte presenza di croati e sloveni soprattutto nelle campagne di queste due regioni, che non accogliere tutte le richieste italiane sulle quali anche Clemenceau, per la Francia, si era dichiarato contrario allo scopo di non dare all’Italia l’opportunità di controllare l’intero Adriatico, e quindi i porti sul versante orientale, così strategici per il commercio con tutti paesi dell’oriente europeo.

A tre anni di distanza dall’inizio della Grande Guerra, in Russia, il governo bellicista di Kerensky era stato abbattuto dalla rivoluzione d’Ottobre del 1917 e il potere era stato preso dai bolscevichi guidati da Lenin che instaurarono la dittatura del proletariato. Uno dei primissimi obiettivi del potere bolscevico era la liquidazione della guerra, la ricerca della pace a tutti i costi e nel più breve tempo possibile; obiettivo questo che faceva parte del programma rivoluzionario dei comunisti fin da prima della guerra e che la gran massa dei soldati, dei contadini e degli operai attendevano da tempo; l’esercito russo, in effetti, era ormai esausto e in disfacimento, sia per le conseguenze dei tre anni di guerra, sia per l’opera disfattista che i bolscevichi e i socialisti rivoluzionari facevano fin dall’inizio delle operazioni di guerra. I bolscevichi avevano chiamato tutte le potenze impegnate sui due fronti a partecipare alle trattative di pace, ma Inghilterra, Francia e Italia si rifiutarono: esse volevano continuare la guerra, sicure di poterla vincere e spartirsi l’Europa secondo i progetti già costruiti fin dal 1913. Brest-Litovsk, perciò, ospitò le trattative soltanto tra Russia e Germania ed è noto che per la Russia proletaria le condizioni di pace furono particolarmente pesanti. La Russia rivoluzionaria aveva quindi tolto le sue truppe dai fronti di guerra, costituendo, dal punto di vista strettamente militare, il cedimento di un appoggio agli Stati dell’Intesa; i tedeschi e gli austro-ungarici, ovviamente, approfittarono della situazione e spostarono il grosso delle proprie divisioni dai fronti orientali ai fronti occidentali. Ma nel dicembre 1917 entrano in guerra anche gli Stati Uniti: il boccone Europa fa gola anche e Washington, e la sua entrata in guerra segnerà, di fatto, la scalata americana al predominio sul mondo. Potenza capitalista e imperialista di prim’ordine, andava a far la guerra non a casa propria, ma negli altri paesi, dall’altra parte dell’oceano, senza aver subito alcuna distruzione e in un momento in cui il suo apporto diventava decisivo riguardo le possibilità di vittoria dell’Intesa. L’Inghilterra temeva la Germania per la sua potenza non solo economica, ma anche militare e per il fatto che si era dotata di una flotta militare che poteva mettere in pericolo la supremazia inglese sui mari del mondo; la Francia aveva i conti in sospeso con la Germania fin dalle batoste ricevute nella guerra franco-prussiana del 1870-71, e aveva interesse, oltre a ridurne notevolmente la potenza economica, anche a riprendersi la regione dell’Alsazia-Lorena, ricca di materie prime, e magari una parte della confinante bassa Renania e del Palatinato. La Russia non era da meno; intendeva annettersi una buona parte della Polonia e della Prussia orientale; e l’Italia, da parte sua, nei suoi incontri segreti a Londra con gli esponenti dell’Intesa, mirava ad annettersi il trentino, Trieste, l’Istria e la Dalmazia, regioni che storicamente avevano avuto l’imprinting “italiano” da parte della Repubblica marinara di Venezia e dove, come detto, le città erano popolate soprattutto da italiani. Tutti questi interessi facevano parte degli incontri che i vari ministri degli esteri attuarono nel 1913, molto prima che scoppiasse la guerra e prima ancora di sapere quanto sarebbe durata e come sarebbe andata. Tra briganti imperialisti si intendevano perfettamente e si preparavano a scatenare una guerra che avrebbe fatto più di 60 milioni di morti.

La guerra finirà con la vittoria dell’Inghilterra, della Francia, degli Stati Uniti e dell’Italia sulla Germania e sull’Austria-Ungheria. La lega degli imperialismi rivelatisi più forti ha vinto sulla lega degli imperialismi rivelatisi più deboli; la Germania, nonostante la vantata “vittoria” nelle trattative di pace a Brest-Litovsk con la Russia bolscevica, alla fine subirà condizioni di resa durissime che la borghesia tedesca nel ventennio successivo si preparerà a rimettere sul tavolo dei contrasti interimperialisti, mentre l’impero asburgico, crollato miseramente, lascierà insolute una grande quantità di “questioni nazionali”, soprattutto nei Balcani, tra cui la”questione adriatica”.

 

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La “questione dell’Adriatico”, per l’Italia, di fatto, si riassunse nella “questione fiumana”: la città di Fiume diventò l’oggetto del contrasto tra l’Italia e i suoi alleati. Già nel 1915, prima dell’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, tra inglesi, francesi e russi era stata discussa, nell’ipotetica spartizione dei territori dominati dall’Austria-Ungheria e dalla Germania, la questione fiumana, avanzando l’ipotesi di Fiume come “città libera”, proprio per consentire a tutte le potenze vincitrici della guerra di utilizzarla per i propri commerci senza dover sottostare a vincoli doganali dell’Italia o della Serbia nel caso, ovviamente, che la città fosse stata annessa ad uno di questi paesi. La formula di “città libera” o di “Stato libero” di Fiume non è stata quindi un’idea di D’Annunzio al quale, invece, si deve certamente il totale appoggio all’iniziativa di occuparla militarmente presa nel 1919 da un gruppo di ex combattenti ed ex arditi della prima guerra mondiale, i quali chiesero a D’Annunzio di diventarne il comandante supremo. Le trattative che le potenze vincitrici del conflitto iniziarono subito dopo la fine della guerra finirono per favorire la soluzione che dava Fiume agli jugoslavi dopo un periodo di 10-15 anni in cui si sarebbe autogovernata come “città libera”, naturalmente sotto il controllo anglo-francese. Soluzione questa che agli ex combattenti e agli ex arditi italiani stava molto stretta, tanto che contrastarono l’atteggiamento del governo italiano considerato troppo debole rispetto alle rivendicazioni “irredentiste” che li avevano animati durante i 4 anni di guerra. Nel settembre 1919, quando ancora le spartizioni postbelliche non si erano consolidate, i legionari (3) radunati a Ronchi si organizzarono per andare ad occupare Fiume, in cui sostavano contingenti francesi e inglesi, prima che i giochi di spartizione tra le diverse nazioni si completassero. Si rivolsero a D’Annunzio e non a Mussolini, perché nel poeta-soldato riconoscevano uno spirito di intraprendenza e di arditezza (i suoi voli su Vienna e su Trieste durante la guerra erano diventati mitici), vestito di un patriottismo sanguigno e, nel contempo, mitizzato, che non riscontravano in Mussolini. 

La “marcia su Fiume”, al di là del mito guerresco con cui fu avvolta, si risolse nella effettiva occupazione pacifica della città da parte dei legionari, anche perché, in precedenza, le guarnigioni francesi e inglesi si ritirarono proprio per evitare uno scontro militare coi legionari e per non dare inizio ad un altro incendio di fronte al quale i serbi non si sarebbero certo tirati indietro, visto che anche loro rivendicavano Fiume e le stesse terre rivendicate dagli italiani.

Presa Fiume, D’Annunzio rivendicò la sua annessione immediata all’Italia, mentre il governo Nitti tentò, per mesi, di trattare alla Conferenza di Parigi per una soluzione di compromesso come volevano Francia e Inghilterra. Nella provvisoria “città libera” di Fiume, ad ottobre 1919, si tennero le elezioni che diedero la vittoria alla formazione politica autonomista sostenuta dal Partito socialista locale, che escludeva l’annessione sia all’Italia che al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. D’Annunzio invalidò le elezioni; Badoglio che, per conto del governo, trattava con D’Annunzio il compromesso, non avendo ottenuto alcun risultato venne sostituito dal generale Caviglia, mentre nel Consiglio nazionale di Fiume (costituitosi già dall’ottobre 1918), Giuriati, che si era opposto all’annullamento del plebiscito, fu sostituito da Alceste De Ambris, ex sindacalista rivoluzionario ed interventista “di sinistra” chiamato a Fiume appositamente da D’Annunzio. Ed è Alceste De Ambris che redigerà al famosa Carta del Carnaro (o “del Quarnaro”) che diventò lo Statuto della città di Fiume che D’Annunzio considererà la base costituzionale di tutt’Italia. In effetti, al contenuto di questa Carta, si rifarà in seguito anche Mussolini, soprattuto per quanto riguarda lo schema delle Corporazioni in cui inquadrare tutti i settori economico-sociali in una politica di collaborazione di classe che diventerà il perno intorno a cui si svolgerà la politica di coinvolgimento delle masse proletarie nell’illusione di superare in questo modo i contrasti di classe. Ed è dal contenuto di questa Carta che partirà la trattazione di Amadeo Bordiga sul movimento dannunziano.

Da quando la direzione dell’Internazionale aveva deciso di sostituire i componenti di sinistra della Centrale del PCd’I, a partire da Amadeo Bordiga, con compagni meno intransigenti e più disposti ad applicare le direttive dell’I.C., Amadeo Bordiga utilizzò le sue energie e il suo tempo nel continuare la battaglia politica sulla stessa linea che lo aveva distinto in tutti gli anni precedenti, non deflettendo mai, nemmeno nel comportamento personale, dalla dirittura politica e morale che gli era riconosciuta internazionalmente. Non più coinvolto quotidianamente dai compiti pratici di direzione del partito, e senza mancare di contribuire in modo sostanziale alla difesa delle tesi della sinistra in ogni loro aspetto, anche nella lotta contro il burocratismo e i metodi disciplinari che i centristi stavano ormai applicando su larga scala sia nell’Internazionale che nel PCd’I (soprattutto dopo la morte di Lenin), Amadeo Bordiga si dedico anche ad approfondire la valutazione di alcuni avvenimenti o movimenti che in precedenza non ebbe il tempo materiale si svolgere. E’ stato il caso del dannunzianesimo. Già in precedenza aveva trattato la “questione fiumana”; nell’articolo del 1921 Fiume e il proletariato (4) Amadeo Bordiga, che era stato a Fiume, sintetizzava un po’ la storia della città, mettendo in evidenza che la città col suo porto era sempre stata, anche sotto la monarchia asburgica, elemento di contrasto tra ungheresi e serbo-croati; ricordava inoltre che la situazione di Fiume, alla fine della guerra, aveva precipitato il proletariato fiumano in una situazione di particolare depressione, visto che l’industria cantieristica e i commerci che avevano caratterizzato una certa floridezza della città in precedenza erano completamente crollati (“Si calcola che l’ottanta per cento dei lavoratori siano disoccupati, e quindi in lotta con la miseria”). Di fatto, “Fiume, nella situazione attuale, non è più lo sbocco di un retroterra” e, d’altra parte, “Italia e Jugoslavia non mancano di porti e non hanno bisogno di quello di Fiume per lo sbocco marittimo dei loro traffici”. Ciò non toglie che intorno alla “questione fiumana” si siano concentrati una serie di contrasti politici, di promesse e di delusioni, di tira e molla tra Jugoslavia e Italia complicati dai contrasti interimperialistici che opponevano la Francia decisamente pro-serbocroata all’Italia che rivendicava l’”italianità” storica di Fiume come delle altre città dalmate e dall’interesse economico condiviso da tutte le potenze vincitrici di fare di Fiume il porto internazionale aperto ai commerci con tutto l’est europeo e con la stessa Russia, sebbene il potere politico bolscevico rappresentasse una seria minaccia nel fianco dell’imperialismo che però Londra come Parigi, come Washington credevano di poter “riconquistare” proprio attraverso i traffici commerciali, visto che il sostegno alle armate bianche nella guerra civile non aveva fatto cadere la dittatura rossa. Se le città, inoltre, come Fiume, Trieste e le città dalmate da Zara in giù, erano popolate soprattutto da italiani, i contadi era soprattutto slavi, nel caso di trieste sloveni, nel caso delle altre città, croati. Perciò, le rivendicazioni “nazionali” serbo-croate avevano una base materiale reale e le potenze vincitrici della guerra non potevano non tenerne conto dato che l’obiettivo – per la ricostruzione postbellica e per la ripresa dei commerci – era quello di pacificare tutte le aree in cui gli scontri nei fronti di guerra avevano dilaniato tutte le popolazioni confinanti.

Il proletariato di Fiume esprimeva un malcontento profondo e diffuso, anche perché, sebbene la guerra fosse finita da quasi tre anni, subiva “una continua incertezza della situazione e del domani”; “le mille vessazioni subite, i continui colpi di scena politici seguiti da continue delusioni, hanno indotto la massa proletaria ad uno stato di apatia da cui pare non riesca a riscuotersi. Socialmente e politicamente la classe lavoratrice sarebbe la più forte nella città e nello Stato di Fiume, ma a Fiume covergono troppe forze economiche e politiche borghesi dall’esterno perché il proletariato possa con successo svolgere la sua lotta contro la borghesia locale”. Le borghesie locali, italiana e jugoslava, inevitabilmente si orienteranno, afferma l’articolo, “verso i governi dei paesi confinanti e dalla loro protezione attingeranno la forza per impedire al proletariato locale di spingersi troppo oltre sulla via dell’affermazione dei suoi diritti” (5). Nemmeno sul terreno della difesa immediata il proletariato riuscì ad esprimersi in modo autonomo. E’ noto che i dannunziani, capitanati da Alceste De Ambris, tra i loro primi obiettivi avevano quello di paralizzare e distruggere l’attività autonoma del proletariato fiumano usando tutti i mezzi, legali e illegali, per mettere il proletariato in uno stato di assoluta inferiorità. Usarono, infatti, sia il ricatto legato alla vecchia legge austriaca sulla “pertinenza”, in vigore a Fiume dal 1874, secondo la quale avevano diritto di cittadinanza, di voto e di residenza solo coloro che erano “pertinenti” alla città, ossia abitavano in città da almeno 5 anni, sia gli atti di forza diretti contro le sedi degli organismi proletari di Fiume, distruggendole. I proletari, così, nel nuovo Stato dannunziano di Fiume, soprattutto se socialisti e comunisti, potevano essere sfrattati dalla città in cui abitavano da decenni, e venivano perciò considerati stranieri pericolosi, mentre gli adepti e i simpatizzanti dannunziani e fascisti, anche se giunti in città da pochissimo tempo, ottenevano la pertinenza immediatamente dal governo della città e dal Comune. E’ così che “il proletariato si trovava e si trova in una condizione di inferiorità evidente, non solo perché privo del diritto di voto, ma anche perché il non avere i diritti di cittadinanza espone i lavoratori e i loro organizzatori a tutte le rappresaglie, culminanti in quella comodissima per gli avversari, dello sfratto dalla città”.

Ma il proletariato di Fiume rialzerà la testa? A questa domanda l’articolo, tenendo conto della reale situazione, risponde: “Se la città non risorge economicamente, il movimento proletario stenterà a rinsaldarsi”; ma anche se i lavoratori, in uno scatto di esasperazione, si impossessassero del potere a Fiume, si troverebbero in una situazione per nulla favorevole dato che in pochissime ore dall’esterno interverrebbero le forze militari non solo italiane e jugoslave, ma anche anglo-francesi, per sopprimere in un bagno di sangue quel governo proletario. Era evidente che solo con la ripresa della produzione industriale, e quindi con un governo della città più stabile, i proletari potevano tornare ad essere “il perno dell’attività e della vita fiumana, e le loro organizzazioni si sarebbero assicurate colla loro stessa forza il diritto e la libertà di movimenti di cui hanno bisogno per funzionare” (6).

La trattazione di questo problema da parte di Bordiga non poteva non considerare, infine, il tema dei legami internazionali non solo della borghesia locale, ma anche del proletariato fiumano. L’Internazionale Comunista, fondata nel marzo del 1919, tenne nel luglio/agosto del 1920 il suo II congresso mondiale, in contemporanea alla controffensiva dell’Armata rossa nell’Oriente europeo contro il baluardo anglo-francese, la Polonia, e nella Russia meridionale contro le truppe dell’ultimo generale bianco sostenuto dall’Intesa, Wrangel, che furono sbaragliate e i cui sparuti ultimi reparti vennero raccolti dalla marina francese in Crimea. All’Internazionale Comunista guardavano tutti i proletari, anche non di tradizione socialista, come gli IWW americani, gli shop stewards committees inglesi, i sindacalisti rivoluzionari francesi, italiani, spagnoli, tedeschi, ed anche i movimenti anticoloniali, soprattutto asiatici, che approfittavano della temporanea debolezza delle potenze coloniali per avanzare le proprie rivendicazioni anche con le armi (7). Tutte le potenze imperialiste avevano interesse ad impedire che i proletariati dei loro paesi si organizzassero davvero per la rivoluzione sotto la guida dei partiti comunisti che, nel frattempo, si andavano formando; ma avevano interesse, nello stesso tempo, di riprendere la produzione e i commerci per i quali era necessaria una qualche forma di “pacificazione interna” coi propri proletariati. Ed è in funzione di questa pacificazione interna che tornarono ad avere un ruolo di primo piano gli opportunisti socialdemocratici e socialpatrioti che già voltarono le spalle ai proletari allo scoppio della guerra nel 1914; ma la loro opera, nonostante si dimostrasse fondamentale per la riorganizzazione borghese postbellica, non bastava alla borghesia imperialista che mirava a distruggere ogni possibilità rivoluzionaria futura del proletariato, e perciò i movimenti che le mezze classi e gli strati piccoloborghesi più rovinati dalla guerra mettevano in piedi, al di fuori delle tradizioni socialdemocratiche e anarchiche, andavano assumendo un ruolo che nel giro di pochi anni diventerà fondamentale, come il fascismo mussoliniano, prima, e il nazionalsocialismo hitleriano, poi, dimostreranno. Non è per caso che questi movimenti, pur agendo chiaramente contro i proletari, attaccandoli e distruggendo le sedi delle loro organizzazioni e dei loro giornali, si presentarono come gli attuatori di quelle riforme che i socialisti rivendicavano da anni ma che non risucivano ad ottenere attraverso le vie parlamentari. Erano movimenti armati, che usavano la forza non solo contro i proletari, ma anche contro il parlamento e i parlamentari, pur proponendo il metodo elezionista come uno strumento per accattivarsi la fiducia del proletariato. Il primo fascismo, quello sanseplocrino, mescolava i colori del nazionalismo e del socialismo riformista, e il movimento dannunziano, rifacendosi alla stessa origine, completerà l’ideale pacificazione tra borghesi e proletari nel sistema delle Corporazioni che lo stesso fascismo mussoliniano ripescherà per attuare in forma generale e nazionale la nuova politica della borghesia: la politica della collaborazione di classe, una politica talmente congeniale al potere borghese che sopravviverà alla disfatta militare del fascismo nella seconda guerra imperialista mondiale, ponendosi come spina dorsale della politica borghese dal 1945 in poi.  

Approfondire, quindi, il tema del movimento dannunziano, per Amadeo Bordiga, non fu un esercizio intellettuale per affibbiare a questo movimento una sorta di prima genitura del fascismo. Il contrasto tra il movimento fascista e il movimento dannunziano non derivava dalla rivalità dei due personaggi, rivalità certamente esistente, oltretutto tra individui che esageravano la rispettiva gestualità ed enfatizzavano il proprio linguaggio come in una recita teatrale permanente. Derivava dall’orizzonte politico in cui si muovevano e dagli obiettivi reali che si erano dati. D’Annunzio, poeta-soldato, dava molto più peso all’estetica con cui presentava il suo ideale di “pacificazione interna”, abbinandola a singole gesta temerarie che gli consentivano di sentirsi e di essere considerato “eroe”, ma, da comandante, delegava volentieri ad altri ufficiali gli affari correnti, come fece con Alceste De Ambris. Mussolini, che da politico dell’intransigenza socialcomunista passò al politicantismo colorato di patriottismo rivestito da una teatrale romanità imperiale, cosa che gli permetteva di allargare l’orizzonte al di fuori dei confini storici della penisola italiana e di sentirsi “pari” tra i rappresentanti delle grandi potenze occidentali, dava più peso all’organizzazione e alla sua efficienza. La borghesia italiana, pur pencolando per almeno un paio d’anni finita la guerra tra i due, non doveva “scegliere” tra uno e l’altro, perché in realtà aveva già scelto Mussolini, molto più affidabile dal punto di vista politico, ma contava sul fatto che l’artista D’Annunzio poteva esserle molto utile per attirare gli strati proletari delle terre di confine, così turbolente com’erano i confini orientali, in un periodo in cui le agitazioni, gli scioperi, i moti proletari avrebbero potuto far da base ad un movimento rivoluzionario che si stava radicando nelle grandi città industriali (Torino, Milano, Genova, Trieste) e nelle campagne grazie alle lotte dei braccianti nella Valle del Po e nel sud, in particolare in Puglia.

Ciò nondimeno, l’interesse per il movimento dannunziano era dato dall’indagare in che modo le mezze classi piccoloborghesi, nel periodo di grandi agitazioni proletarie e di potenzialità rivoluzionarie innescate dalle conseguenze della prima guerra mondiale, venivano mobilitate, e che effetto sul proletariato potevano avere le rivendicazioni e gli argomenti avanzati da movimenti come quello fascista e quello dannunziano. Era importante distinguere con grande precisione le posizioni caratterizzate dal comunismo rivoluzionario da ogni altra posizione che, in un modo o nell’altro, poteva essere assimilata o condivisa da parte proletaria. Il problema che si poneva, in caso di effettivo movimento rivoluzionario proletario che avanzava per la conquista del potere, era non solo di come si sarebbero comportati gli strati piccoloborghesi rovinati dalla crisi di guerra e del dopoguerra, ma in che modo e in che misura il partito di classe avrebbe potuto attirarne una parte nel campo proletario o avrebbe potuto neutralizzarli, staccandoli dalla pesante influenza della grande borghesia. Ma, come affermato verso la fine dell’articolo, “in queste situazioni è molto difficile che gruppi delle classi medie non optino, tra le due dittature, per quella della borghesia” (8).

Indiscutibilmente il fascismo si impose, anche pescando parecchio dal dannunzianesimo, ad esempio dalla Carta del Carnaro per quanto riguarda le Corporazioni, e perfino dalla sceneggiata imbastita dai Legionari di Ronchi, sotto la guida di D’Annunzio, nella “marcia su Fiume” che, dopo l’occupazione della città, si sarebbe dovuta trasformare nella “marcia su Roma”, partendo da Fiume e scendendo fino alla capitale. La marcia su Roma la attuò invece Mussolini, come si sa, in vagone letto, mentre le sue truppe scendevano dal Nord verso la capitale, scortate dall’esercito e dalla Guardia Regia in modo che non avvenisse, lungo il cammino, alcuno scontro armato.

Ma nulla toglie al fatto che il movimento dannunziano e il movimento fascista mussoliniano siano stati movimenti assolutamente antiproletari.               

 


 

(1) A proposito di questa rivista, va spiegata la sua apparizione e la sua soppressione dopo solo 7 mesi di vita. Prometeo pubblicò una serie di contributi, di Bordiga, Zinoviev, Stalin, Manuilski, Grieco, Girone, Bianco, Polano ed altri, trattando soprattutto questioni di teoria e di storia del movimento comunista; di fatto, in quel periodo era l’unica rivista teorica del PCd’I. Aveva sede a Napoli ed era uscita per iniziativa di un gruppo di terzinternazionalisti espulsi dal Psi, avvicinatisi al PCd’I, e di comunisti della Sinistra del PCd’I. Pubblicata con l’autorizzazione della Centrale del PCd’I, era mal tollerata dai centristi, perché vi scrivevano diversi appartenenti alla corrente della Sinistra comunista, e perché nei fatti l’influenza delle posizioni della Sinistra comunista nella massa degli iscritti al partito, fino al 1926, continuava ad essere maggioritaria anche se tutti gli esponenti della Sinistra con incarichi dirigenziali, molti dei quali arrestati dal governo fascista, erano stati esclusi e sostituiti. Era una rivista che faceva capo al partito, ma era sostenuta finanziariamente esclusivamente dalle sottoscrizioni dei compagni coinvolti e dei lettori.  Il n. doppio 6-7, del giugno/luglio 1924, fu l’ultimo numero perché la Centrale del PCd’I decise bruscamente di sopprimerla, senza consultare coloro che avevano preso l’iniziativa di questa rivista; il pretesto  con cui la Centrale la soppresse era scontato: «poteva diventare un centro di attività e di agitazione da parte della sinistra e di Bordiga». Il contributo di Bordiga con i suoi scritti era regolare, a cominciare da Il movimento dannunziano, proseguendo poi con Lenin nel cammino della rivoluzione (nel n. 3, marzo 1924, dedicato interamente a Lenin), con Comunismo e la quistione nazionale e Organizzazione e disciplina comunista. Dopo la soppressione di Prometeo, in una lettera inviata nella seconda metà di agosto 1924 al C.E. del Partito comunista d’Italia, e firmata da Amadeo Bordiga, Ugo Girone e Michele Bianco (leader dei cosiddetti  terzinternazionalisti), vengono messe in evidenza le caratteristiche della rivista e della sua gestione: «fu nominato per decisione del C.E. un Comitato di redazione e di controllo con compagni appartenenti ai due organismi [del PCd’I e della frazione terzinternazionalista, NdR]; tutti i compagni comunisti e terzinternazionalisti capaci a farlo furono invitati a collaborare regolarmente; non fu mai pubblicato scritto alcuno avente carattere di intervento nella discussione sull’indirizzo del partito, né ad iniziativa della redazione né a iniziativa di singoli collaboratori; mai nessuna osservazione ebbero a muovere l’Esecutivo e i suoi rappresentanti sull’indirizzo della rivista in generale e in particolare. Adunque la redazione della rivista non ha commesso atto alcuno che possa menomamente motivare una sospensione di urgenza». Inoltre, in questa lettera si sottolineava che la rivista «senza in nulla menomare il diritto di controllo amministrativo del Partito, non gravava neppure di un centesimo sul bilancio di esso» [Cfr. A. Bordiga, Scritti 1911-1926, Fondazione Amadeo Bordiga, 2019, vol 8, pp. 636-639]. Come era abituale nel comportamento di Bordiga, furono rilevati tutti gli aspetti burocratici coi quali si voleva limitare e far tacere le ragioni politiche, oltre che teoriche, della Sinistra comunista, ma mai con lo scopo di giustificare atti di frazionismo e di indisciplina verso l’Internazionale e verso il Partito i quali, invece, cercavano in tutti i modi di coinvolgerlo personalmente – dopo aver approfittato del suo arresto per sostituire lui e i membri della Sinistra dal C.E., conoscendo perfettamente quali posizioni Bordiga continuava a difendere – proponendogli la partecipazione all’Esecutivo del partito italiano e perfino alla vicepresidenza dell’Internazionale, incarichi che Bordiga rifiutò sistematicamente per ragioni esclusivamente politiche poiché, essendo un esponente della Sinistra comunista che dalle Tesi di Roma in poi si è sempre opposto a tutta una serie di decisioni tattiche e organizzative prese dall’Internazionale e dalla Centrale del partito italiano (fronte unico politico, fusione col Psi, accettazione di partiti “simpatizzanti” nell’Internazionale ecc.), non avrebbe potuto fare altro che discutere sistematicamente ogni decisione tattica o organizzativa importante che gli Esecutivi intendevano prendere, intralciando di fatto il loro lavoro.

Le stesse ragioni furono da lui avanzate di fronte alla proposta perentoria della Centrale di essere messo come primo nome della lista elettorale nelle elezioni del 1924. In pratica, da semplice compagno senza incarichi direttivi né nel partito italiano né nell’Internazionale, voleva essere libero di esprimere fino in fondo, e senza accomodamenti e limature varie, il proprio pensiero, le proprie posizioni, convinto di essere in perfetta linea marxista. Naturalmente finché gli fosse consentito e sapendo bene che sia l’Internazionale che la Centrale del partito italiano avrebbero fatto di tutto per contrastarlo.  Soprattutto non intendeva essere “complice” di tutta una serie di provvedimenti e di decisioni che andavano in direzione contraria a quella proposta da sempre dalla Sinistra comunista.

(2) Cfr. Il processo ai comunisti italiani, 1923, a cura del C.E. del PCI, Libreria Editrice del Pci, 1924, Reprint Feltrinelli. Per il Memoriale e l’Interrogatorio di Amadeo Bordiga vedi anche “il comunista”, prima serie, nn. 6, 7 e 8 del 1984.

(3) A Fiume, nell’ottobre 1918, si era costituito un Consiglio nazionale che sosteneva l’annessione della città all’Italia. E’ noto che alla Conferenza di Parigi, prolungatasi per un anno (18 gennaio 1919-21 gennaio 1920), l’allora presidente del consiglio Orlando abbandonò la Conferenza perché il presidente americano Wilson e la Francia si rifiutarono di riconoscere all’Italia alcune delle promesse fatte nel Patto di Londra del marzo1915 se l’Italia fosse entrata in guerra a fianco dell’Intesa, in particolare sul litorale adriatico ex asburgico, alle quali promesse l’Italia aggiungeva la richiesta di annettere anche la città di Fiume dato che la sua popolazione era nella stragrande maggioranza italiana. A Fiume, nell’aprile del 1919, ex combattenti ed ex arditi avevano costituito una Legione di volontari che intendevano difendere la città soprattutto dal contingente francese di occupazione, apertamente filojugoslavo.

Ronchi di Monfalcone, così si chiamava fino al 1925, e poi prese il nome di Ronchi dei Legionari, in onore dei legionari dannunziani che da qui partirono il 12 settembre 1919 per andare ad occupare Fiume grazie alla cosiddetta “marcia su Fiume”.

(4) Cfr. Fiume e il proletariato, “Rassegna comunista”, a. I, n. 10, 15 settembre 1921, pp 458-468; pubblicato in A. Bordiga, Scritti 1911-1926, cit., vol. 6, pp. 139-151. Pubblicato in Appendice in questo opuscolo.

(5) Le frasi citate sono tutte riprese dall’articolo Fiume e il proletariato.

(6) Ibidem.

(7) Cfr. Storia della Sinistra comunista, vol. II, cap. IX, II congresso dell’Internazionale Comunista, un culmine e un bivio, ed. il programma comunista, 1972, pp. 545-661.

(8) Cfr. Il movimento dannunziano, “Prometeo” nn. 1 e 2, 15 gennaio e 15 febbraio 1924. Lo si trova anche in A. Bordiga, Scritti 1911-1926, cit., vol. 8, pp. 261-287.

 

 

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