Sulla guerra russo-ucraina

Contro la guerra, su entrambi i fronti, mentre la guerra continua

(«il comunista»; N° 174 ; Luglio-Settembre 2022)

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La posizione dei comunisti rivoluzionari rispetto alle guerre imperialiste – che siano condotte localmente o mondialmente – non è mai cambiata: gli interessi dei proletari di tutti i paesi entrati nel conflitto bellico sono innanzitutto antiborghesi, perciò in netta opposizione agli interessi della borghesia nazionale di ogni paese e, di conseguenza, sono antimperialisti, perciò contro qualsiasi interesse di dominio del proprio o dell’altrui imperialismo. Ma non è una posizione né pacifista, né disarmista, e non è nemmeno neutrale, e ciò vale sia per i comunisti rivoluzionari, sia per i proletari coscienti dei paesi che, per interesse della propria classe dominante borghese, non entrano direttamente in conflitto a sostegno di una o dell’altra parte in guerra.

La classe proletaria, in ogni paese, è la classe contro la quale si svolge quotidianamente, da parte della borghesia, una lotta senza quartiere per piegarla e mantenerla nelle condizioni di classe sottomessa, sfruttata, schiavizzata. E la ragione è semplice: solo dallo sfruttamento del lavoro salariato la borghesia di ogni paese estorce il plusvalore, ossia la reale valorizzazione di ogni capitale investito che i capitalisti si intascano totalmente suddividendola poi in profitti e rendite. Come ogni borghesia non può fare a meno di sfruttare in modo esteso e intenso il lavoro salariato, sacrificando masse sempre più grandi di proletari al dio profitto, così non può non sacrificare masse sempre più grandi di proletari negli scontri militari a cui ogni borghesia è spinta dalla lotta di concorrenza internazionale. Lo sviluppo imperialistico del capitalismo non attenua le contraddizioni del capitalismo, ma ne aumenta la potenzialità economica e sociale esplosiva. Dallo scoppio della prima guerra imperialista mondiale in avanti, il capitalismo ha imboccato il suo ultimo stadio di sviluppo: non può più fermarsi, non può più tornare indietro, deve concentrarsi e centralizzarsi sempre più. E in questo processo di sviluppo, la guerra – cioè la politica estera attuata con altri mezzi e specificamente mezzi militari – diventa inevitabile. Come le crisi economiche e finanziarie fanno parte del corso storico di sviluppo del capitalismo, così ne fa parte la guerra che non è se non l’apice, in determinate situazioni storiche, della crisi economico-sociale dei capitalismi più sviluppati. La borghesia, come cerca di risolvere la crisi della sua struttura economica, adottando fattori di carattere economico e politico che vanno a contrastare inevitabilmente gli interessi delle borghesie concorrenti (conquista di nuovi mercati, sfruttamento più intenso dei mercati esistenti, sfruttamento sempre più intenso del proprio proletariato e del proletariato dei paesi più deboli), così cerca di “risolvere” il conflitto bellico instaurando una pace che non è altro che un intermezzo tra una guerra e l’altra.

Ogni borghesia lo sa da sempre, e si prepara all’inevitabile sbocco di scontro militare con le borghesie avversarie. Perciò, oltre a sviluppare sempre più l’industria degli armamenti e le tecniche militari, e a rafforzare le alleanze già esistenti o a costruirne di nuove, mette in campo una vasta campagna nazionalistica con la quale coinvolgere (con le buone e con le cattive) le masse proletarie nella difesa dell’economia nazionale, della patria e, sentite, sentite!, della pace!

E’ a questo coinvolgimento che i proletari si devono opporre; essi devono lottare non per gli interessi dell’economia nazionale o di una patria che non è mai stata la loro, ma per i loro interessi di classe che sono antagonisti a quelli della propria borghesia come di ogni altra borghesia.

Gli interessi di classe del proletariato sono estremamente concreti e costituiscono la base materiale della loro lotta e della loro solidarietà di classe. Quando i borghesi dichiarano di avere interessi “comuni” a quelli proletari (come quello di salvare l’azienda dalla concorrenza, salvare l’economia nazionale, salvare la patria) non dichiarano soltanto il falso, non si limitano ad ingannare i lavoratori salariati per piegarli ancor di più alle esigenze del capitale e del profitto capitalistico, ma imbastiscono una trama ideologica basata sul ricatto di fondo che sta alla base del rapporto di produzione capitalistico: è il capitalista a “dare il lavoro” al proletario – per questo si autodefinisce “datore di lavoro” – e il proletario o lavora per il tale o tal altro capitalista o muore di fame. Il capitalista è padrone dei mezzi di produzione e della produzione stessa; il proletario non è padrone di nulla, ma solo della propria forza fisica di lavoro. Socialmente la forza del capitale ha sottomesso la forza lavoro alle proprie leggi, ed ha tutto l’interesse a mantenere questo dominio. Ma la forza lavoro può trasformarsi in forza sociale solo combattendo contro la forza sociale rappresentata dal capitale, dunque contro i capitalisti, e solo se unisce la propria individuale forza fisica di lavoro a quella di tutti gli altri proletari. Tale unione ha una base materiale ben precisa: le condizioni di lavoratori sottoposti al lavoro salariato, cioè al lavoro che, in questa società, soltanto i capitalisti danno o non danno. Lottare per migliori condizioni di lavoro e di esistenza ha fatto parte e fa parte della vita quotidiana di ogni proletario. Se l’interesse del capitalista e del proletario fosse davvero “comune”, cioè se per entrambi l’interesse da condividere alla pari fosse quello di avere le stesse possibilità di vivere, di oziare, di viaggiare, di conoscere, le stesse possibilità di seguire le proprie inclinazioni e le proprie pulsioni, non avrebbe senso la divisione in classi della società, non esisterebbe il capitalista proprietario di tutto e il proletario proprietario di niente. Nella realtà, la società borghese non è mai stata e non sarà mai una società dove libertà, uguaglianza e fraternità siano la rappresentazione di una realtà finalmente raggiunta. La società borghese è esattamente il contrario di una società di eguali, è la società in cui le disuguaglianze sociali hanno raggiunto livelli che le società precedenti non avevano mai raggiunto. La società borghese poggia su rapporti di produzione e di proprietà che esprimono e, nello stesso tempo, rafforzano il dominio della classe borghese sulle altre classi, in particolare sulla classe del proletariato. E sono proprio questi rapporti di produzione e di proprietà borghesi che generano l’antagonismo tra gli interessi borghesi e gli interessi proletari. Un antagonismo che produce vantaggi soltanto per la classe borghese nella misura in cui la classe del proletariato non lo riconosce come un fossato incolmabile tra le due classi principali della società attuale.

Uno dei vantaggi, e non secondario, acquisito dalla classe borghese – e grazie all’opera incessante dell’opportunismo più bieco dei sedicenti rappresentanti del proletariato, in campo sindacale come in campo politico – è appunto quello di aver portato le masse proletarie a sacrificare la propria vita, in pace e in guerra, a favore del dominio capitalistico e borghese sulla società, rafforzando in questo modo le catene che le legano alle sorti del capitalismo.

Spezzare queste catene significa riconoscersi come classe sociale indipendente e antagonista della classe borghese, come classe sociale che ha propri obiettivi non solo immediati (unione delle forze proletarie, solidarietà di classe e migliori condizioni di esistenza in questa società), ma anche storici (emancipazione dal lavoro salariato, quindi dal capitalismo e perciò dalla società divisa in classi). Il proletariato, come dichiarava centosettantaquattro anni fa il Manifesto di Marx-Engels, ha tutto un mondo da guadagnare. Ma non lo può raggiungere se la sua lotta si fa paralizzare dall’opportunismo e dal collaborazionismo interclassista, se la sua lotta non rompe la pace sociale e non mette in cima alla sue rivendicazioni la lotta di classe, accettando lo stesso terreno di lotta su cui la borghesia è costretta a scendere per difendere con ogni mezzo i suoi interessi di classe.

I proletari hanno potenzialmente la forza di opporsi, come classe, alla guerra borghese, ma finché sono influenzati dalle politiche collaborazioniste, patriottarde e socialscioviniste che li hanno trascinati a versare il sangue nella prima e nella seconda guerra imperialista mondiale, e in tutte le guerre che le borghesie si sono fatte da allora in poi, i proletari non riusciranno mai a sottrarsi alla condanna di essere carne da macello in pace come in guerra.

E l’attuale guerra russo-ucraina lo dimostra per l’ennesima volta, tanto più che non è una guerra locale, se non per il fatto geografico che finora è limitata entro i confini ucraini, ma è una guerra in cui le potenze imperialiste euro-americane e russe si stanno scontrando sul teatro di guerra ucraino per stabilire un nuovo ordine continentale, in vista di un futuro nuovo ordine mondiale che richiederà inevitabilmente una guerra mondiale, la terza.

Il proletariato non solo ucraino e russo, ma di tutti i paesi, e in particolare d’Europa e d’America, ha di fronte a sé, per l’ennesima volta, la prospettiva di continuare a farsi massacrare di lavoro e di fatica, oltre che nei fronti di guerra, oppure di alzarsi finalmente in piedi e prendere la propria sorte nella proprie mani dichiarando, contro la guerra imperialista, la guerra di classe

 

BRIGANTAGGIO RUSSO CONTRO BRIGANTAGGIO EURO-AMERICANO E IL SUO VASSALLO UCRAINO

 

L’”operazione militare speciale” che la Russia aveva dichiarato di fare per “demilitarizzare” e “denazificare” l’Ucraina (in realtà per impedire che l’Ucraina facesse parte della Nato, per annettersi il Donbass dopo averlo fatto con la Crimea, e per piegare l’Ucraina ai propri interessi imperialistici) e che avrebbe dovuto, secondo le intenzioni russe, svolgersi nel giro di qualche mese, si è rivelata da subito come una guerra di lunga durata. La durata della guerra è determinata soprattutto dal fatto che Germania, Italia, Unione Europea e, in particolare gli Stati Uniti, riforniscono Kiev di armamenti e di miliardi perché continui la guerra, sostenendo la propaganda di Zelensky sotto il motto “combattiamo fino a riconquistare il Donbass e la Crimea”, e dalla propaganda europeo/americana delle sanzioni economiche che “piegheranno per molto tempo la Russia”. Indubbiamente le sanzioni anti-russe hanno messo in crisi l’economia russa, crisi che, se si prolungasse per molto tempo, potrebbe avere dei risvolti politici sulla tenuta del governo di Putin e anche creare tensioni sociali. Ma, vista la reale dipendenza dell’economia tedesca, italiana e, in generale, europea dalla Russia per il gas, il petrolio e altre materie prime, hanno cominciato ad andare in crisi economica anche la Germania, la Polonia, in parte l’Italia, oltre la Bulgaria e i Paesi Baltici. Sembra che anche Olanda e Danimarca siano vicine all’azzeramento delle forniture di gas russo. Di fatto, la dipendenza dell’economia europea soprattutto dal gas russo, ha messo l’Europa in condizioni di vulnerabilità mai raggiunte finora, tanto più che si sta avvicinando l’inverno (stagione che normalmente richiede il doppio del consumo medio; infatti, secondo gliultimi dati, il consumo medio della UE è di 130 miliardi di metri cubi, da aprile a settembre, e 270 da ottobre a marzo). I problema per gli europei è che non riescono a sostituire le forniture di gas russo, come dichiarato pomposamente, se non nell’arco di alcuni anni; nel frattempo, il gas è salito enormemente di prezzo, dando agli speculatori un vantaggio insperato e fornendo ossigeno alla stessa Russia che, da parte sua, ma a prezzi bassi, si è accaparrata le forniture a Cina, India e Turchia. C’è da dire che verso l’Ucraina la Russia non ha interrotto la fornitura di gas – tenendosi quest’arma come eventuale colpo di grazia finale – facendoselo pagare a peso d’oro dalle casse di Kiev che, a loro volta, sono foraggiate dai miliardi euro/americani... D’altra parte, ricorrere nuovamente al carbone, come ha fatto la Germania e in piccola parte l’Italia, oltre a smentire tutte le promesse di decarbonizzazione dell’industria a favore delle fonti rinnovabili di energia, non risolve il problema energetico dei paesi europei superindustrializzati; non risolve granché nemmeno il ricorso al gas naturale liquefatto (di cui gli Stati Uniti si sono proposti da subito come i più importanti fornitori), perché, oltre a costare molto di più del gas fossile fornito attraverso i gasdotti, per tornare allo stato gassoso ha bisogno di un’ampia rete di rigassificatori, rete che in Europa non c’è ancora. Ovvio che le difficoltà incontrate sul piano economico generale portano i paesi europei a riversarne i costi sulle masse proletarie, come sempre hanno fatto; solo che ora avviene dopo due anni di pandemia e di recessione economica, oltre al fatto che proprio per questa ragione i fattori di contrasto tra gli stessi paesi europei sono destinati ad aumentare e ad acutizzarsi. Il caso dell’Ungheria di Orban può non essere un caso isolato, tanto più se lo si collega a quello della Turchia di Erdogan che, per proprie ragioni di Stato, continua ad agire con i suoi equilibrismi tra la Nato/Stati Uniti e la Russia nella prospettiva di diventare un perno indispensabile nei rapporti interimperialistici tra le potenze della Nato e la Russia, l’Iran e le altre medie potenze mediorientali.La guerra russo-ucraina ha provocato enormi distruzioni, e ne provocherà ancora molte, sprofondando in poco tempo l’Ucraina in una crisi economica e sociale senza precedenti. Ciò ha spinto quasi 10 milioni di ucraini a fuggire dalle loro città e dalle loro case, e la loro fuga non poteva che puntare ai paesi europei occidentali. Aldilà della propaganda pelosamente umanitaristica dei governi europei, è in parte inevitabile che questo enorme flusso di persone crei prima o poi problemi sociali di convivenza soprattutto con le masse lavoratrici autoctone e con le masse di immigrati legali o clandestini provenienti dai paesi africani e asiatici, aumentando la concorrenza fra di loro (volutamente, da parte delle politiche statali locali). Mentre l’immigrazione dai paesi africani e asiatici è stata composta per molto tempo, e lo è ancora, soprattutto da uomini e ragazzi, la popolazione ucraina profuga è costituita in grandissima parte da donne e minori, visto che ai maschi adulti è stato vietato di andarsene dal paese, obbligandoli a combattere per la “difesa della patria”. Per questo, e anche per propaganda umanitaria artificialmente montata dai paesi europei occidentali, le donne ucraine coi loro figli sono accolti molto meglio di quanto non lo siano state e non lo siano donne e uomini immigrati dall’Africa e dall’Asia: non sono obbligate ad attraversare deserti, foreste o barriere di filo spinato come invece finora hanno dovuto fare i migranti, in Europa o negli Stati Uniti, e non devono subire il martirio e le violenze dei campi di concentramento, come quelli in Libia, prima di attraversare il mare nella speranza di sbarcare in Italia o in Spagna.  

Quanto alle distruzioni, per il capitalismo esse costituiscono un enorme affare per tutte le aziende, nazionali ed estere, che non vedono l’ora di ritagliarsi una fetta dei profitti che oggi si accaparrano i capitalisti stranieri soprattutto derivanti dalle industrie di armi e dal loro indotto.

 

NAZIONALISMO, DEMOCRAZIA E GUERRA SEMPRE INSEPARABILI

 

Come abbiamo scritto negli articoli finora usciti nella nostra stampa, i grandi problemi per il proletariato ucraino e russo – e di conseguenza per il proletariato dei paesi che si sono schierati a sostegno dei due fronti bellici – girano intorno al nazionalismo usato come collante di quella collaborazione di classe che è la politica sistematicamente applicata da tutti gli Stati capitalisti. Dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’impero russo, e dopo le sanguinosissime guerre in Jugoslavia, la propaganda del falso socialismo, nelle sue varianti di “democrazia popolare”, di “autogestione”, di “pianificazione economica”, ha perso completamente la sua efficacia. Si è andati sempre più verso la contrapposizione propagandistica tra “democrazia” e “totalitarismo” (o “fascismo”), rifriggendo su padelle diverse la solita mistura di “libertà” e di “autoritarismo”, di “difesa dei sacri confini” e di “legittima risposta alle aggressioni esterne”.

Il fatto che non venga più tirato in ballo il socialismo, come ai tempi di Stalin e del post-stalinismo, per mascherare la realtà capitalistica e gli interessi di classe borghesi, è una cosa oggettivamente positiva. Di per sé non libera il terreno dalle mistificazioni borghesi che, per quanto i propagandisti borghesi, o al soldo dei borghesi, cerchino di “innovare”, girano intorno sempre agli stessi concetti ideologici: democrazia-totalitarismo, libertà-autoritarismo.

Nelle «Prospettive del dopoguerra» del 1946, scrivevamo:

«Sebbene le democrazie occidentali evolvano progressivamente verso le forme totalitarie e fasciste, esse potranno per un complesso di ragioni inerenti alla loro base sociale ed alla loro posizione nel mondo (specialmente per l’America) recitare ancora per lungo tempo la commedia della difesa di tutte le libertà. (...) Che in Russia non vi sia nulla di democrazia formale (la sostanziale è ovunque una chimera) e di sistema rappresentativo a tipo liberale, è stato sempre risaputo, ma ha fatto comodo per molti anni alla propaganda anti-hitleriana fingere di credere alla democratizzazione del regime Russo. Vediamo e vedremo, a grado a grado, trasformare questa tesi in quella opposta, e rinfacciare all’apparato russo di governo il carattere oligarchico ed oppressivo e i metodi prepotenti e crudeli finora rinfacciati alle belve naziste dagli agnelli delle democrazie parlamentari».

Sappiamo bene che il regime sovietico di Stalin, e del dopo-Stalin, è stato considerato dagli agnelli delle democrazie parlamentari niente di diverso dal fascismo, tanto da equiparare fascismo e comunismo.Con il crollo dell’Urss, i media di tutto il mondo inneggiarono alla caduta del “comunismo” e alla vittoria della “democrazia”, ma l’evoluzione stessa delle democrazie occidentali ha dimostrato ampiamente la nostra tesi del 1946: le forme totalitarie e fasciste – pur mascherate in qualche modo dalla “democrazia formale” – hanno sempre più caratterizzato i regimi borghesi dei paesi industrializzati, non solo quindi di America ed Europa, ma anche di Russia e di Cina, ultima potenza imperialista in ordine di tempo ad apparire sullo scenario mondiale e che, per ragioni di convenienza propagandistica, insiste nel presentare il proprio regime come retto da un “partito comunista”. Probabilmente non mancherà molto perché la Cina venga indicata come il nuovo “fascismo” da combattere; Tibet, Hong Kong, Taiwan, costituiscono tappe della marcia alle annessioni (o alla restaurata unità nazionale, come sostengono i cinesi) che la Cina persegue da tempo.

La concorrenza economica e finanziaria sempre più acuta nel mondo borghese chiede di essere cavalcata nuovamente dai due grandi miti contrapposti: democrazia contro totalitarismo, democrazia contro fascismo. Perciò le campagne sempre più pressanti sulla difesa dell’economia nazionale, da parte di ogni Stato, hanno bisogno di “nobilitarsi” con un rinnovato e sempre più spinto nazionalismo, con i “valori” della propria “storia”, della propria “cultura”, della propria “civiltà”. La borghesia che, in ogni paese, nello sviluppo del suo dominio politico e sociale, ha distrutto i “valori” della storia precedente del proprio paese, della cultura e della civiltà precedenti del proprio paese per imporre i valori della nuova economia capitalistica, del nuovo potere borghese, della nuova religione del profitto capitalistico, al fine di influenzare in modo più potente le masse dominate – proletari, contadini, piccoli borghesi – preparandole a immolarsi nelle guerre locali e, tanto più, nella guerra mondiale, non ha altra via che abbinare ai suoi metodi oppressivi e repressivi quella che nel corso del suo sviluppo considerava “merce scaduta”, “merce senza valore”: la cultura, la civiltà, la storia delle società precedenti, riconfezionandola come fosse una merce dal valore altissimo tanto da richiedere, per la sua “difesa”, la vita stessa delle masse dominate. Ma i mezzi propagandistici che la borghesia ha in mano non possono essere che il prodotto della sua stessa società in cui vigono i rapporti mercantili, in cui tutto è merce, compresa la vita di ogni essere umano e in cui la prospettiva del futuro non è che la riedizione, peggiorata, della società oppressiva e repressiva attuale.

 

FALSA ALTERNATIVA: DEMOCRAZIA O TOTALITARISMO

 

L’imperialismo mondiale fonda le sue radici sul capitalismo stesso, quindi sulla legge di concorrenza economica, finanziaria, politica, militare  così come ogni capitalismo nazionale; le alleanze, le “unioni”, i vari “patti di collaborazione” tra Stati non sono che la raffigurazione a livello più alto e statale della necessità da parte di ogni capitalismo nazionale di attrezzarsi al meglio per battere la concorrenza su un mercato che da tempo è mondiale e che, proprio per questa ragione – come avviene tra aziende locali e nazionali – richiede di essere affrontata con più forza, con più armi a propria disposizione. La concentrazione capitalistica, il monopolio, i trust, nascono dallo stesso sviluppo capitalistico, dalla necessità di ampliare il raggio di intervento sui mercati e, quindi, di assicurarsi e ampliare le fonti di profitto. La guerra economica è insita nello stesso DNA del capitalismo, e la guerra economica comporta l’organizzazione politica che gestisca le forze produttive da cui estorcere il plusvalore, quindi il profitto; comporta il rafforzamento dello Stato centrale che imponga un controllo sociale attraverso il quale i capitalisti si proteggono dalle crisi economiche del loro sistema economico e dalle tensioni sociali che lo sfruttamento del proletariato inevitabilmente provoca. Le alleanze tra Stati sono necessarie per contrastare l’azione e l’aggressività di altri Stati (e dei capitalisti che essi rappresentano) sul mercato mondiale. Ma, come ogni contratto fra mercanti e fra briganti, ogni alleanza può durare più o meno a lungo a seconda della reale convenienza dei membri dell’alleanza. E l’Italia, in fatto di rottura delle alleanze di cui faceva parte, è stata maestra. Di fatto, ogni Stato, ogni regime borghese – non importa se “democratico” o “totalitario” – per mobilitare le masse a difesa dell’economia nazionale e a difesa del regime stesso, non può limitare la gestione del proprio potere soltanto ai mezzi repressivi; deve motivarle ideologicamente, oltre che economicamente e socialmente, perché partecipino attivamente a quella difesa.

Di fronte alla prima guerra imperialista mondiale la mobilitazione dei regimi democratici era motivata dalla difesa dall’aggressione dei regimi autocratici, degli Imperi centrali; i regimi autocratici mobilitavano le proprie masse in difesa della propria storia, della propria civiltà, del proprio ordine contro i regimi democratici che avrebbero invaso i mercati e distrutto l’ordine secolare esistente. Di fronte alla seconda guerra imperialista mondiale i regimi democratici mobilitarono le masse in difesa della libertà, della democrazia, dei diritti civili contro il totalitarismo rappresentato dal fascismo, dal nazismo e da quel dispotismo asiatico “moderno” rappresentato dal Giappone di Hiro-Hito. Dopo la fine della prima guerra mondiale e dopo la fine della seconda, il mondo finalmente “pacificato” – secondo la propaganda borghese – avrebbe dovuto svilupparsi senza più guerre, distribuendo, grazie allo sviluppo eccezionale delle innovazioni tecniche e tecnologiche, e grazie alla vittoria sul nazifascismo, il benessere economico e sociale a tutti i popoli del mondo. Ma già con la guerra di Corea del 1950 si profilava all’orizzonte la possibilità di una terza guerra mondiale che avrebbe fatto scontrare in due blocchi imperialistici avversari le potenze che erano state fino a pochi anni prima alleate nella guerra contro il nazifascismo. Vinto militarmente il nazifascismo, le potenze vincitrici hanno ereditato dal fascismo una delle politiche sociali più efficaci mai adottate dalla borghesia, anche grazie all’apporto decisivo delle forze opportuniste del falso socialismo e dell’ingannevole rappresentanza degli interessi immediati del proletariato: l’istituzionalizzazione della collaborazione tra le classi. Ma la pace tra gli Stati, e quindi tra i popoli, non è stata, e non poteva essere, il risultato della politica di collaborazione di classe, perché tale politica risponde sostanzialmente, sempre e comunque, agli interessi di ogni capitalismo nazionale e non cancella l’antagonismo di fondo tra lavoro salariato e capitale. La pace post-guerra è servita alla borghesia di tutti i paesi, vincitori e vinti, per ricostruire, per rimettere in funzione l’intera macchina produttiva capitalistica, per consolidare le posizioni dominanti ottenute con la vittoria nella guerra e per ritessere la rete di interessi capitalistici nazionali nei paesi usciti vinti dalla guerra. La pace, come ribadiva Lenin più volte, non è che l’intermezzo tra le guerre imperialiste, a livello mondiale come a livello di area.

I rapporti di produzione e di proprietà borghesi non sono cambiati in ragione del cambiamento di regime, da fascista a democratico, come non sono cambiati prima da democratico a fascista: essi sono la struttura portante di tutta l’economia capitalistica, qualsiasi sia il regime borghese. Perciò, se da un lato i rapporti di produzione e di proprietà borghesi, impostisi in tutto il mondo, fanno da base all’economia di ogni paese, dall’altro lato ribadiscono le leggi del capitalismo che innescano contrasti sempre più profondi, più acuti e più estesi, ma non contraddicono il cammino storico generale del capitalismo che è quello che porta all’aperta centralizzazione e all’aperto totalitarismo.

Riconosciuti da parte nostra i caratteri del capitalismo e non del socialismo nella struttura economica e sociale della Russia staliniana, ribadivamo che, nella fase storica uscita dalla seconda guerra imperialista mondiale, «il regime russo non è un regime proletario, e lo Stato di Mosca è divenuto uno dei settori dell’imperialismo capitalistico»; tuttavia, continuavamo, «la sua forma centralizzata e totalitaria appare più moderna di quella sorpassata e agonizzante della democrazia parlamentare» (sempre da “Le prospettive del dopoguerra”, 1946). Ed è grazie a questa centralizzazione e a questo totalitarismo (ereditati, in verità, dal regime sovietico proletario instaurato con la rivoluzione d’Ottobre, e dopo averlo assassinato) che la Russia capitalista, in poco più di una sessantina d’anni ha bruciato le tappe dello sviluppo capitalistico/imperialistico. Cosa che, sebbene con uno svolgimento rivoluzionario non proletario, ma borghese, è successo, in un cinquantennio, anche per la Cina.

 

IL PROLETARIATO O LOTTA PER SE STESSO O RESTA SCHIAVO DELLA BORGHESIA IN TEMPO DI PACE E IN TEMPO DI GUERRA

 

Quindi, il dilemma che si poneva all’epoca al proletariato rispetto alla possibile terza guerra mondiale: combattere a fianco degli Stati Uniti e alle potenze sue alleate per difendere “la democrazia contro il totalitarismo”, o combattere a fianco della Russia e dei suoi satelliti “per il socialismo contro il capitalismo”, veniva risolto dal partito di allora seguendo la linea classica marxista: Né con Truman, né con Stalin, sintetizzò la nostra posizione del disfattismo rivoluzionario contro entrambi i blocchi imperialisti. Oggi non basta più dire né con Biden, né con Putin, perché sul palcoscenico si sono radunati molti altri attori, di prima fila come Xi Jinping, di seconda fila come Macron e Scholtz o di terza fila come Draghi. Ma la sostanza non cambia: contro ogni borghesia nazionale, che sia coinvolta o meno nello scontro bellico. 

Il collegamento con le posizioni di Marx-Engels va cercato nello stesso “Manifesto del partito comunista”: il proletariato lotta, innanzitutto, contro la propria borghesia di casa, e, per farsi classe dominante, sulla scorta della Comune di Parigi, combatte per la conquista del potere politico contro tutti i suoi avversari anche se questi ultimi tra di loro si fanno la guerra. Cosa è stato il disfattismo rivoluzionario di Lenin prima, durante e dopo la rivoluzione d’Ottobre, se non l’applicazione intransigente di quella direttiva marxista? E non lo è stato soltanto nell’intervento disfattista all’interno dell’esercito durante la guerra; lo è stato anche nella vicenda, successiva alla presa del potere, della pace di Brest-Litovsk in cui l’obiettivo principale del potere proletario e comunista era di chiudere con la guerra imperialista anche a costo di pagare un alto prezzo in termini di perdite territoriali, come è accaduto, e di prepararsi con una propria armata proletaria a difendere il potere conquistato sia contro le guardie bianche interne sia contro le potenze imperialiste che attaccavano dall’esterno.

Disfattismo rivoluzionario non significa disarmo, significa disorganizzare la produzione bellica e le forze militari della borghesia per indebolirla, per dimostrare agli altri strati popolari che si è contro la guerra imperialista e le sue tragiche conseguenze, per dimostrare ai proletari delle altre potenze belliche che non si vuole partecipare al loro massacro perpetrato dai poteri borghesi, e per preparare e organizzare nel frattempo (nell’esercito e nella società) la propria forza armata proletaria, sia in vista dell’inevitabile repressione da parte dello Stato borghese, sia in vista dell’inevitabile attacco da parte degli Stati imperialisti esistenti una volta che la rivoluzione avrà vinto. Il disfattismo rivoluzionario fa parte della tattica del programma del partito comunista rivoluzionario, applicata in particolare nel periodo prebellico e bellico, periodo nel quale assume il ruolo di tattica decisiva.

Ebbene nulla di tutto questo è avvenuto prima, né avviene durante la guerra russo-ucraina. I proletari russi e ucraini non hanno espresso alcuna opposizione di classe alla guerra. Ma un’opposizione di classe alla guerra non nasce in una notte, è il risultato di un’opposizione sociale che viene da lontano, dalla lotta classista attraverso la quale i proletari fanno esperienza di lotta, di organizzazione, verificando la forza e le debolezze delle proprie rivendicazioni e della propria solidarietà di classe e la forza della borghesia, riconoscendo chi lavora a sostegno della loro lotta e chi la intralcia, la sabota o la contrasta apertamente lavorando a fianco e per conto delle forze borghesi. Come infatti fece la socialdemocrazia tedesca al governo durante la rivoluzione del 1918-19, e come hanno fatto le forze della “democrazia popolare” prima, durante e dopo la seconda guerra imperialista mondiale, e che ancor oggi riescono a paralizzare il proletariato. Ovvio, quindi, che ad oggi, se qualche resistenza c’è stata, in Russia e in Ucraina, da parte dei proletari alla guerra russo-ucraina, non poggiava sul fertile terreno della lotta di classe, ma sulla più che giustificata paura di andare a morire per una causa non condivisa, o sull’interesse immediato di salvare la propria famiglia; motivi più che “naturali”, ma lontani dall’essere generatori di una ripresa di classe. Certo, più le condizioni generali dei proletari dei paesi industrializzati peggiorano, più fattori di crisi sociale si accumulano e più facilmente possono scoppiare rabbia e lotte dalle quali possono nascere esperienze concrete e bisogni di un orientamento più solido, e classista, per le lotte future. Ed è in queste situazioni che il partito, se presente coi suoi militanti, può intervenire, può essere riconosciuto come un soggetto utile, se non indispensabile, per fissare l’orientamento classista necessario affinché gli insegnamenti e le esperienze delle lotte, un volta terminate, non vadano dispersi e dimenticati, ma costituiscano una base di collegamento classista con le lotte in altre parti del paese o in altri paesi.

Quel che sta succedendo da tempo è un accumulo di fattori di crisi non indifferente che faranno da detonatore di esplosioni di rabbia sociale e di lotte, più facilmente nei paesi della periferia dell’imperialismo, come ultimamente nello Sri Lanka, o come è stato all’epoca delle “primavere arabe” (2010-2014). Lotte che, non potendo contare su un proletariato organizzato sul terreno di classe, sono inevitabilmente influenzate e dirette da forze interclassiste e destinate ad esaurire le proprie energie nei fetidi meandri dl collaborazionismo.

 

I NOSTRI COMPITI

 

Ciò non toglie nulla al nostro compito di ribadire e diffondere, per poco ascoltati che siano i nostri mezzi di propaganda, la valutazione concreta della situazione, indicando la linea di classe che il proletariato dovrà prendere – anche in tempi non vicini – per tornare ad essere una forza sociale con propri obiettivi, con proprie parole d’ordine, con propri criteri di organizzazione. Il nostro compito principale è, oggi, ancora quello che si erano posti i compagni della Sinistra comunista finita la seconda guerra imperialista mondiale: assimilare la teoria marxista, rivivificare le lezioni delle controrivoluzioni, tener ferme le basi programmatiche e politiche definite a quel tempo dal partito, con un’intransigenza, se possibile, ancor più ferma di quella che ha caratterizzato tutto il corso di sviluppo della Sinistra comunista d’Italia.

Le generazioni proletarie di oggi (e di domani) sono state private, a causa dell’opera tenace e brutale dell’opportunismo e del collaborazionismo nelle loro più diverse varianti, del collegamento vivo, materiale, che i compagni della Sinistra del PCd’I degli anni Quaranta-Cinquanta del secolo scorso mantenevano ancora con le battaglie di classe del PCd’I e del comunismo internazionale degli anni Venti e che hanno cercato di trasmettere alle generazioni più giovani di proletari.

Questo collegamento fisico, materiale, che il proletariato di ogni paese ha perso, vive, in realtà nel partito che noi rappresentiamo, anche se solo embrionalmente; la vitalità e la continuità del partito dipendono dalla fermezza con cui sapremo mantenere la linea politica che il partito ha tracciato a partire dal 1945-46, e dalla convinzione profonda della linea storica, su cui abbiamo tracciato la nostra attività, che soltanto le reali conferme del marxismo hanno potuto e possono generare anche nei pochi elementi quali siamo oggi.

Le contraddizioni economiche e sociali di cui è gonfio il capitalismo sono storicamente destinate a scoppiare periodicamente, talvolta localmente, altre volte globalmente, liberando le forze sociali nello scontro inevitabile della lotta di classe. Il problema è che, finora, la lotta di classe vede un solo protagonista: la classe dominante borghese, che non smette mai di condurre la sua lotta contro il proletariato in tutti i campi, da quello economico e sociale, a quello ideologicopolitico, culturale, religioso, attacchi contro i quali i proletari si presentano ancora generalmente indifesi.

La certezza della ripresa della lotta di classe da parte del proletariato – anche se non nell’immediato futuro – sta proprio nel corso storico di sviluppo del capitalismo e delle sue contraddizioni secondo la prospettiva che il marxismo ha già definito. E’ questa certezza che ha dato la forza di resistere nel tempo ai compagni della Sinistra comunista d’Italia, nonostante il loro infimo numero e il fatto di ritrovarsi da soli nel mondo a lottare contro le mastodontiche macchine oppressive e repressive della borghesia e dello stalinismo, unite, prima di tutto, contro il proletariato mondiale e, naturalmente, contro i rappresentanti irriducibili del marxismo rivoluzionario, difensori tenaci della linea politica seguita da Lenin e dalla Sinistra comunista d’Italia.

Noi oggi non siamo gli eredi di quelle magnifiche battaglie di classe, non abbiamo ricevuto in dono per diritto “naturale”, tanto meno per diritto “legale e amministrativo”, il patrimonio teorico e politico, tattico e organizzativo, del partito di ieri. La controrivoluzione, dopo aver decretato la fine del partito bolscevico di Lenin, la fine dell’Internazionale comunista, la fine del Partito comunista d’Italia, ha tentato in tutti i modi di cancellare anche il Partito comunista internazionale ricostituitosi fra il 1945 e il 1952, e come organizzazione omogenea, dal 1952; ma con la crisi esplosiva del 1982-84 è riuscita nell’intento: quel partito non c’è più.

Noi, dal 1985 in poi, ci siamo assunti il compito di ricostituire l’organizzazione di partito che avrebbe potuto essere il Partito comunista internazionale del 1952 se si fosse sviluppato senza cedere alle influenze delle più diverse varianti dell’opportunismo. Ma un partito, come lo intendiamo da sempre, è un organismo vivo, che agisce e che per un periodo di tempo molto lungo lotta contro forze e tendenze basate su potenti forze economiche e materiali che la controrivoluzione ha nel tempo potenziato. Era quindi ipotizzabile che anche il nostro partito “di ieri” degenerasse come degenerarono l’Internazionale Comunista e i suoi partiti membri. 

Ma quel che la controrivoluzione non ha potuto e non può cancellare sono le contraddizioni materiali del capitalismo nelle quali si forma un magma vulcanico che, raggiunta una elevatissima temperatura sociale, diventa irrefrenabile, spinge con forza inarrestabile sulle pareti sociali – le forme borghesi di produzione e di scambio – fino a liberare quella massa infuocata costituita dalla forza sociale proletaria che ha storicamente un’alternativa:

-   irrompere nella realtà sociale senza prospettive storiche definite e, una volta concluso il potente sfogo di quella vera forza “naturale” che sono le forze produttive, perdere forza e vitalità, esaurirsi, raffreddarsi e tornare ad essere soltanto classe per il capitale;

-   oppure, sotto la guida del partito di classe – che è l’unico organo politico che ha chiara coscienza del movimento storico della lotta di classe proletaria – essere organizzata e indirizzata verso gli obiettivi storici fissati dal marxismo, sia sul terreno prerivoluzionario della lotta di classe, sia su quello rivoluzionario per la conquista del potere politico, sia su quello del potere politico conquistato, instaurando la dittatura di classe esercitata dal partito.

Per essere quel partito di classe bisogna lavorare politicamente per lungo tempo sulla linea già definita dal partito di ieri e che noi abbiamo il compito non solo di ribadire – è il minimo per i comunisti rivoluzionari – ma di vivificare attraverso una coerente e continua attività a carattere di partito, mantenendo stretto il legame con la teoria da cui discende ogni possibile passo avanti nella direzione della vittoria futura.

L’abbiamo ribadito sempre e vale la pena risottolinearlo: «Per noi marxisti basta che la conoscenza ci sia prima del processo; ma non nella universalità, non nella massa, non in una maggioranza (termine privo di senso deterministico) della classe, ma in una sua minoranza anche piccola, in un dato tempo in un gruppo anche esiguo, ed anche - scandalizzatevi dunque o attivisti! - in uno scritto momentaneamente dimenticato. Ma gruppi, scuole, movimenti, testi, tesi, in un lungo procedere di tempo, formano un continuo che altro non è che il partito, impersonale, organico, unico proprio di questa preesistente conoscenza dello sviluppo rivoluzionario» (Sul filo del tempo: Danza di fantocci, dalla coscienza alla cultura, 1953).

La nostra attività è inserita in quel continuo, formato in un lungo procedere di tempo da gruppi, scuole, movimenti, testi, tesi, che altro non è che il partito, impersonale, organico, unico proprio di quella preesistente conoscenza dello sviluppo rivoluzionario.

In che epoca viviamo?

Nel 1953, lo stesso Filo del tempo scriveva: «Corre epoca sfavorevole alla classe proletaria, alla rivoluzione, ed al partito rivoluzionario. Ma le tre cose risorgeranno inseparabili, quando l’ora verrà».

Che differenza passa tra quell’epoca e l’epoca nostra?

E’ sempre sfavorevole, non c’è dubbio, ma oggi c’è un dato politico positivo: la presa controrivoluzionaria del falso socialismo rappresentato dallo stalinismo – e dal post-stalinismo – ha concluso il suo ciclo. La controrivoluzione borghese si mostra sempre più con la faccia della democrazia; la “grande confessione” che attendevamo dagli staliniani sulla struttura economica e sociale russa c’è stata, prima, sul piano economico e sociale, poi, a denti stretti, sul piano ideologico-politico.

Questo non significa che il compito dei rivoluzionari sia più facile oggi che ieri, perché l’opportunismo che nello stalinismo e nel post-stalinismo trovò la sua massima forza antiproletaria, si rinnoverà sotto altre vesti semplicemente perché le sue basi materiali gliele fornisce il capitalismo, la società borghese, e finché il capitalismo e la borghesia sono in piedi, l’opportunismo avrà sempre un terreno fertile dove radicarsi. Perciò la lotta contro l’opportunismo, che storicamente possiamo riannodare attraverso i testi, le tesi, gli scritti di Lenin e della Sinistra comunista d’Italia, è una lotta che non deve smettere mai. Il compito politico nostro, perciò, è anche quello di individuare le tendenze opportuniste fin dalle prime mosse.

Non c’è infatti miglior modo di produrre anticorpi politici che rifarsi alle lotte contro le varie forme di opportunismo che sono state condotte dai nostri grandi predecessori, a partire da Marx, Engels, Lenin.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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