E' interesse borghese che i proletari si perdano nei fetidi meandri della democrazia e del parlamentarismo. Gli interessi proletari vanno conquistati con la lotta di classe

(«il comunista»; N° 174 ; Luglio-Settembre 2022)

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Elezioni, elezioni,  fortissimamente elezioni! Non passa anno che in Italia non si tengano delle elezioni: amministrative, comunali, provinciali, regionali, politiche, europee, referendarie e con i più diversi sistemi elettorali. Un vero e proprio bombardamento continuo, sistematico, incessante. E ora, il 25 settembre, ci risiamo. Il "metodo democratico" viene applicato in tutti gli ambiti, politici, sociali, amministrativi, aziendali, sindacali, partitici, giudiziari, dalle più ampie assemblee alle più ristrette riunioni, perfino a livello familiare. La democrazia eretta a metodo che curerebbe tutti i mali sociali e personali, utile a superare divergenze e contrasti e uniformare qualsiasi tipo di decisione alla "volontà della maggioranza"; emblema allo stesso tempo della "libertà di scelta" individuale e della "giusta decisione" perché è "la maggioranza numerica" che vince e detta le condizioni. Una volontà espressa ovviamente con una scheda, un sì, un'alzata di mano. E la "volontà della maggioranza" è diventata l'emblema della "giustizia" davanti al quale è d'obbligo inginocchiarsi accettandone il responso... fino alla successiva battaglia "elettorale".

 

Ma la realtà sociale si presenta in modo completamente diverso. Non è la maggioranza che vince, che decide, che governa, ma una ben definita minoranza. La società attuale non è divisa tra "maggioranza" e "minoranza", che possono variare tutte le volte a seconda delle situazioni; di fatto sono maggioranze e minoranze fittizie, che non assicurano alcuna stabile continuità. La società attuale è divisa in classi, la classe borghese dominante e la classe lavoratrice dominata, e fra queste due classi principali vi sono tutti gli strati della piccola borghesia, delle mezze classi, ossia quegli strati sociali che per la loro formazione storica non esprimono obiettivi storici distinti e contrapposti da quelli delle due classi principali, ma oscillano continuamente tra gli uni e gli altri.

Nella realtà sociale è la minoranza - la classe borghese al potere - a dettare legge, a dettare le condizioni di esistenza e di lavoro della stragrande maggioranza della popolazione. Non è una novità per nessuno, ma con la finzione democratica periodicamente si illude la stragrande maggioranza della popolazione che a "dettar legge" sia proprio lei e non la minoranza capitalista, mentre le elezioni non fanno che ribadire quali saranno i governanti che, al servizio della borghesia capitalista, si incaricheranno di continuare ad opprimere e reprimere la stragrande maggioranza della popolazione e, in particolare, le masse proletarie, utlizzando le leggi borghesi, lo Stato borghese, le scuole e i mezzi di comunicazione borgehsi, le forze armate borghesi.

 

A che serve, quindi, la democrazia?

 

Per la classe borghese dominante, che è padrona di tutti i mezzi di produzione, di tutta la ricchezza prodotta, di tutti i mezzi di comunicazione, dello Stato e di tutte le forze armate, serve per ingannare le grandi masse proletarie, e la piccola borghesia, affinché continuino a credere che la periodica chiamata elettorale sia in grado di "aggiustare il tiro", di introdurre certe riforme a vantaggio delle classi subordinate, di modificare o eliminare leggi ritenute antipopolari; in sintesi: di andare incontro alle esigenze di vita e di lavoro della maggioranza della popolazione.

Per la classe proletaria, cioè per la classe dei lavoratori salariati, dei senza riserve, degli schiavi delle condizioni di lavoro e di esistenza imposte dai capitalisti, la democrazia appare come una scommessa, come una puntata al casinò dove il 99% delle volte vince il banco, ma che, con l'uso continuo, instilla una dipendenza come l'alcol, la droga, il gioco, il fumo, di cui si percepisce perfettamente la pericolosità per la salute mentale e fisica, ma da cui non si riesce a staccarsi.

Si parte convinti di poter piegare l'arma della democrazia a beneficio dei lavoratori, della maggioranza della popolazione, ma strada facendo ci si accorge che sostanzialmente i "benefici", quando arrivano - e sono sempre molto inferiori a quelli attesi e per i quali si è lottato -, sono parziali, episodici, riguardano solo alcuni strati sociali e non tutti e, soprattutto, possono essere cancellati da un successivo governo con i pretesti più vari: emergenza economica, emergenza sanitaria, pericolo di terrorismo, spietata concorrenza estera, pericolo di guerra...

C'è stato un tempo, tra il 1945 e il 1975, in cui, finito il mattatoio mondiale della guerra imperialista, sono iniziatela ricostruzione postbellica e la ripresa economica, per arrivare al famoso boom degli anni Sessanta. Sembrava di vivere in un periodo in cui il benessere era alla portata di tutti: il frigorifero, la televisione, l'utilitaria, le vacanze estive, un appartamento con i servizi igienici in casa, erano i simboli di un benessere che si andava diffondendo. I proletari continuavano a faticare pesantemente, ma avevano accesso a prodotti che un tempo erano riservati soltanto alle classi abbienti e ai ricchi. Le lotte per aumenti salariali e per migliori condizioni di lavoro, uscite spesso dagli schemi imposti dai bonzi sindacali, non sono mancate come non sono mancati gli scontri con la polizia  visto che la polizia assolve da sempre, come primo compito, la difesa della proprietà privata e dell'ordine pubblico, dunque la difesa degli interessi delle classi possidenti.

Ma il lungo periodo di espansione economica seguìto alla guerra imperialista e il timore che le masse proletarie, che continuavano ad essere brutalmente sfruttate, si ribellassero prima o poi con violenza, ha spinto la classe dominante borghese ad adottare una politica sociale basata sugli ammortizzatori sociali amministrati istituzionalmente dalla collaborazione di classe fra sindacati operai, partiti parlamentari, e classe dominante attraverso le sue confederazioni padronali e i rappresentati politici dei governi. Che questa politica sociale non fosse "nuova", il nostro movimento l'ha denunciato fin dall'inizio: in realtà era la politica del fascismo che la democrazia post-fascista ha ereditato e messo a frutto senza dover distruggere - come fece il fascismo, quando rispose con la violenza squadristica appoggiata, guarda caso, dalle forze armate dello Stato democratico, al pericolo rivoluzionario degli anni 1918-1920 - i sindacati operai e i partiti proletari, ma utilizzando i sindacati operai opportunamente riorganizzati sotto l'occhio vigile degli "Alleati" (CGIL, e poi CISL e UIL) e i partiti che raccoglievano la fiducia delle masse proletarie (PCI, PSI), in funzione antioperaia. La borghesia aveva così modo di propagandare la democrazia post-fascista come un regime in cui le masse lavoratrici venivano considerate come parte fondante della nuova Repubblica. Non per nulla l'articolo 1 della Costituzione repubblicana proclama che "l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro": sul lavoro o sui lavoratori? Furbescamente la Costituzione repubblicana parla sia di lavoro, sia di cittadini che di lavoratori, prendendo in un unico fascio la retorica della democrazia liberale classica (che parlava di cittadini) e della democrazia posta-fascista (che parla di lavoratori), unendo le due retoriche con quella, ritenuta super partes, del lavoro. In realtà tutti gli stati borghesi moderni "sono fondati sullo sfruttamento sia del lavoro che dei lavoratori da parte del capitale. Come le fondazioni sopportano il peso dell'edificio - scrivevamo nel 1947 -, così i lavoratori italiani [e di ogni altro paese, NdR] tengono sulle spalle il peso di questa repubblica fallimentare" (1).

Il lavoro non è se non l'attività umana applicata alla natura, ma è pura demagogia considerarlo al di fuori dei rapporti sociali in cui  esso stesso è svolto. La borghesia dominante esalta il lavoro perché i rapporti sociali esistenti  (di produzione, di consumo e di proprietà)  sono rapporti borghesi, cioè imposti dagli interessi di classe della borghesia capitalistica. I comunisti rivoluzionari, i proletari coscienti, non solo non esaltano il "lavoro", ma lottano per diminuirlo come impegno quotidiano, per diminuire il più possibile il dispendio di energie fisiche e mentali dedicate al lavoro; lottano per utilizzare le enormi risorse della tecnica moderna per "avanzare verso una società senza sforzi lavorativi imposti, in cui la prestazione di ciascuno si farà allo stesso titolo con cui si esplica ogni altra attività, abbattendo progressivamente la barriera tra atti di produzione e di consumo, di fatica e di godimento" (2).

Far entrare i lavoratori, sotto la veste di loro rappresentanti, nelle istituzioni borghesi (dal parlamento ai municipi, ai consigli d'azienda) fa parte del disegno borghese di integrare i lavoratori nella collaborazione di classe. Il programma dei comunisti rivoluzionari non è quello di una repubblica in cui i borghesi ammettono i lavoratori, ma di una repubblica dei lavoratori da cui i borghesi sono espulsi, "in attesa di espellerli dalla società, per costruire una società fondata non sul lavoro, ma sul consumo" (3), una società di specie nella quale, per dirla con Engels, ciascuno dà secondo le proprie capacità e riceve secondo i suoi bisogni

La democrazia borghese può portare ad una società del genere?

Certamente no; e anche se qualche gruppo di illuminati riformatori pensasse di intervenire nella società attuale per andare in quella direzione, l'unica cosa che riuscirebbe a fare sarebbe quella di smussare qualche punta acuta nelle diseguaglianze sociali, ritrovandosi qualche tempo dopo di fronte alle crisi della struttura economica e sociale capitalistica che quelle diseguaglianze le approfondirà ancor a di più. Qualsiasi riforma, in realtà, applicata nell'attuale società non risolve le contraddizioni sociali di fondo del capitalismo, anzi non fa che rafforzare la conservazione sociale perché il problema reale sta nella struttura economica e sociale della società capitalistica. E' questa che bisogna colpire a morte. Nessun parlamento democratico borghese potrà mai dichiarare il decesso del capitalismo, e tanto meno lo farà l'aperta dittatura borghese di stampo fascista, nazista o staliniano che sia. Il regime borghese apertamente totalitario, se non altro, ha avuto di positivo l'aver eliminato dalla sua gestione politica le illusioni di false eguaglianze e libertà della democrazia, mettendo di fronte in uno scontro decisivo le due classi principali della società: la borghesia e il proletariato. Negli anni Venti e Trenta il proletariato non riuscì ad approfittare del fatto che la classe dominante borghese aveva gettato la maschera passando  alla repressione violenta - commissionata alle bande fasciste e poi esercitata direttamente dalle forze dello Stato - di qualsiasi movimento proletario, anarchico, socialista o comunista che fosse. Il proletariato non raccolse la sfida, se non  nei suoi reparti più avanzati e diretti dal Partito comunista d'Italia; influenzato fino al midollo dalle tesi socialdemocratiche che tendevano alla pacificazione sociale e ad una "vera" democrazia, non ebbe il tempo e la forza di reagire come classe indipendente, anelante ai propri obiettivi di emancipazione di classe, e fu drammaticamente sconfitto su tutti i livelli: sul piano delle sue organizzazioni di difesa immediata e politiche, sul piano del conflitto bellico in cui fu trascinato e obbligato ad offrire la vita per la "grandezza della patria", prima, e per la "rinascita democratica della patria", poi, combattendo nella stessa guerra contemporaneamente sui due fronti contrapposti. Battuto militarmente il fascismo, tolti di mezzo il re e la sua corona, venne il tempo della democrazia. Ma la repressione del movimento operaio non smise un solo giorno! Da allora la "libertà" riconquistata consistette nell'andare ad eleggere chi, di governo in governo, si incaricava - con le buone e con le cattive - di mantenere vivo ed efficiente il potere borghese. 

Dunque, a chi serviva e a chi serve realmente la democrazia, e perché richiamare continuamente le masse alle elezioni, quando i risultati delle elezioni non diminuiscono nemmeno di un grammo la forza economica, sociale e politica della classe dominante borghese, anzi, la perpetuano e la rafforzano?

La democrazia borghese non ha altri scopi se non quello di escludere le grandi masse proletarie da ogni influenza nella direzione dello Stato, riservata alle grandi oligarchie industriali, bancarie, agrarie (3). E' quanto sosteneva il Partito comunista d'Italia, diretto dalla Sinistra comunista, nel 1922. Era vero nel 1922, lo è ancor più nel 2022.

 

Uno sguardo al passato

 

Il corso di sviluppo dell'imperialismo capitalista non è stato fermato dalla rivoluzione proletaria né nel primo, né nel secondo dopoguerra. Nello scontro titanico tra le forze del proletariato rivoluzionario e le forze della conservazione borghese durante gli anni Venti del secolo scorso, il proletariato ha perso, e quella sconfitta pesa brutalmente ancor oggi.

In Russia, primo baluardo della rivoluzione proletaria internazionale, la dittatura proletaria instaurata ha vinto militarmente lo scontro contro la reazione bianca che ha visto uniti sullo stesso fronte la reazione zarista e guglielmina e gli imperialisti borghesi democratici di Francia, Inghilterra e Stati Uniti d'America. Con ciò si conferma la lezione marxista tratta dalla guerra franco-prussiana del 1870-71, quando i rivoluzionari della Comune di Parigi hanno dovuto combattere contemporaneamente contro le truppe democratiche francesi di Thiers e le truppe imperiali prussiane di Bismarck che sospesero la guerra tra di loro per unire le forze al fine di abbattere la Comune di Parigi. Da allora, nei paesi a capitalismo avanzato, il proletariato non aveva più alcuna ragione storica per allearsi con la propria borghesia, che fosse "aggredita" da altre borghesie o che fosse l'"aggressore". La sua emancipazione non sarebbe più passata per la fase nel nazionalismo rivoluzionario, caratteristica della borghesia rivoluzionaria che combatte le classi aristocratiche e feudali, ma direttamente dalla guerra civile, dalla guerra di classe contro la borghesia di casa, prima di tutto, e contro qualsiasi altra borghesia straniera in alleanza solo col proletariato di tutti gli altri paesi. Questa lezione storica è stata alla base della rivoluzione d'Ottobre 1917 in Russia e dell'attività della dittatura proletaria instaurata, nella prospettiva della rivoluzione proletaria internazionale. Il grande slancio rivoluzionario del proletariato russo e la sua magnifica saldatura con la dittatura di classe esercitata dal partito bolscevico di Lenin, lo portò ad affrontare la guerra civile scatenata dalle armate bianche sostenute e foraggiate da tutti gli imperialismi d'Occidente e d'Oriente, con grande forza e con sacrifici immensi, ma con una determinazione contro cui i nemici mai avrebbero immaginato di doversi scontrare. La vittoria militare dell'Armata rossa nella guerra civile russa, svoltasi tra il 1918 e il 1921, non fu però accompagnata e seguita dalla vittoria rivoluzionaria nei paesi dell'Europa occidentale, in particolare in Germania, dove il proletariato aveva dimostrato una combattività rivoluzionaria eccezionale, ma senza poter contare sulla direzione di un partito comunista all'altezza del suo compito, come fu il partito bolscevico di Lenin nel 1917.

Anche in quelle turbolenze sociali che caratterizzarono gli anni del primo dopoguerra mondiale, nonostante le grandi mobilitazioni rivoluzionarie delle masse proletarie europee, le illusioni e le abitudini della democrazia borghese, mescolate nella velenosa salsa socialdemocratica e socialsciovinista, giocarono un ruolo controrivoluzionario di primo piano, in Germania, in Ungheria, in Austria, in Francia, in Inghilterra e in Italia, a tal punto che, isolata la rivoluzione socialista nell'arretrata Russia, riuscirono ad intaccare la corazza della prima dittatura proletaria che, con la conquista del potere politico a Pietroburgo, fece tremare le cancellerie di Londra, Berlino, Parigi, Roma, Vienna, Varsavia e Washington. La rivoluzione aveva già bussato due volte in Russia, nel febbraio 1917 come rivoluzione borghese, nell'ottobre 1917 come rivoluzione proletaria e socialista; bussò come rivoluzione proletaria a Berlino e a Budapest, ma la maturazione teorico-politica del partito comunista rivoluzionario era in ritardo e i rispettivi proletariati non trovarono alla propria guida se non partiti comunisti intossicati di unitarismo e di socialdemocratismo. L'appuntamento storico con la rivoluzione socialista europea, e quindi mondiale, saltò. La borghesia capitalista potè così riprendere il controllo totale dei propri Stati e delle proprie masse proletarie, e alimentare la controrivoluzione nella stessa fortezza proletaria russa, cavalcando lo sviluppo imperialistico del capitalismo monopolistico che già aveva prodotto la prima guerra imperialistica mondiale e che, con il nuovo ordine mondiale, metteva nelle mani degli imperialismi più forti, e dei loro inevitabili contasti, le sorti nell'umanità intera. Alla prima guerra mondiale è seguita, dopo un ventennio, la seconda: il nuovo ordine mondiale non si era ancora stabilizzato. Ci sono voluti, dalla morte di Lenin, altri quindici anni di opportunismo socialdermocratico  inglobatosi nella nuova ondata contro-rivoluzionaria, il cui esponente principale è stato Stalin (da cui, lo stalinismo), per piegare il proletariato di tutti i paesi alle esigenze non solo economico-sociali, ma anche politiche del capitalismo imperialista. E mentre in Occidente gli imperialismi democratici contendevano il dominio mondiale agli imperialismi nazista, fascista e nipponico, la Russia staliniana, eliminata fisicamente la vecchia guardia bolscevica, giocava contemporaneamente sui due tavoli imperialisti alla ricerca dell'alleanza più vantaggiosa. Dopo il patto Molotov-Ribbentrop per la spartizione tra Russia e Germania della Polonia, dei Paesi Baltici e della Finlandia, la Germania aggredisce la Russia spingendola inevitabilmente nelle braccia del democratico imperialismo occidentale; da qui nasce la contrapposizione demagogica tra le forze della Democrazia e le forze del Totalitarismo nazifascista. In gioco, in realtà non è mai stato altro che la spartizione del mercato mondiale in stabili zone di influenza e di controllo fra i diversi imperialismi. Il fatto che abbia vinto militarmente il blocco imperialista che si fregiava del simbolo delle libertà democratiche ha consentito all'imperialismo americano e ai suoi alleati di sbandierare ai quattro venti il mito della democrazia che vince sul totalitarismo, il mito dell'antifascismo democratico come simbolo di progresso, di civiltà, di pace, di umanità. Si è visto, non solo nel mattatoio della guerra imperialista mondiale, ma in tutte le guerre successive che le borghesie imperialiste hanno scatenato col solo obiettivo di mantenere ed allargare i propri domini in tutti i continenti, quanta umanità, quanta pace, quanta civiltà sono state distribuite nel mondo...

Tutto ciò che si contrapponeva agli interessi di dominio delle potenze "democratiche" veniva semplicemente etichettato come fascista, barbaro, incivile, disumano, falsando completamente la realtà storica, perché è lo stesso sviluppo storico del capitalismo che lo porta alla sua fase imperialista, cioè alla fase in cui si sono formati mastodontici trust industriali, bancari e agrari che, non solo influenzano, ma condizionano in modo pesante a fini privati l'attività dirigente degli Stati nazionali più potenti e degli altri Stati più deboli...

La divisione in blocchi imperialisti contrapposti che ha generato lo scontro di guerra nel 1939-1945 non è stata superata se non attraverso la divisione del mondo in altri e diversi blocchi imperialisti, seguendo inevitabilmente quella linea talvolta nascosta, ma sempre ben presente, dei contrasti che portano ogni imperialismo a lottare contro tutti gli altri, ad allearsi e a rompere le alleanze a seconda delle convenienze economico-finanziarie, politiche e militari che si presentano in quella gigantesca anarchia produttiva, commerciale e finanziaria che costituisce la vita stessa del capitalismo sotto ogni cielo.

 

Fascista o democratica, la borghesia non può controllare a proprio piacimento le crisi del suo stesso sistema economico

 

Il fascismo non ha risolto le contraddizioni profonde della società borghese che avevano portato alla prima guerra mondiale; ha semplicemente attrezzato in modo più concentrato e razionale le forze economiche e politiche dell'imperialismo dei paesi che dalla guerra uscirono battuti per poter affrontare le successive crisi di guerra che le rispettive borghesie sapevano di dover subire. Ma nemmeno la democrazia post-fascista le ha risolte, anzi, le ha acutizzate e non per "volontà" di qualche presidente democratico o di qualche dittatore, ma per cause che sono inerenti alla struttura economico-sociale del capitalismo, generatrice di crisi periodiche sul piano economico e sociale e sul piano politico e militare.

La borghesia ha affrontato le crisi della propria società - crisi di sovraproduzione ormai da più di centocinquant'anni - con i mezzi che la sua struttura economica e sociale e i suoi interessi di classe dominante la spingono ad adottare.

Dato che tutta la sua economia ruota intorno ai mercati - delle merci e dei capitali - e che la sovraproduzione determinata dalla frenetica e spasmodica ricerca di profitto non trova più sbocchi, per rianimare il ciclo normale di valorizzazione del capitale bloccato si rende necessario distruggere quantità di merci e capitali sempre più grandi, oltre a quelle che già le crisi periodiche distruggono. Il marxismo, fin dal 1848, ha previsto che la borghesia, per superare le crisi di sovraproduzione, si sarebbe spinta, inevitabilmente, a cercare nuovi mercati e ad intensificare lo sfruttamento dei vecchi mercati; ma, in questo modo, si creano i fattori di crisi ulteriori, annullando gli eventuali benefici ricavati dal temporaneo "superamento" della crisi. E' così che la guerra guerreggiata diventa la "soluzione" più drastica, perché, oltre a stabilire nuovi rapporti di forza fra gli imperialismi, nello stesso tempo distrugge quantità gigantesche di prodotti invenduti e di infrastrutture inservibili riaprendo il mercato ai nuovi prodotti, a nuove infrastrutture, a nuove fabbriche, a nuovi edifici, a nuove forze produttive.

Nella guerra non si distruggono soltanto merci e capitali, si distruggono anche forze produttive umane, forza lavoro salariata; anche questa forza lavoro salariata, ad un certo punto, sbatte contro la sovraproduzione di braccia: se il mercato delle merci e dei capitali si blocca, si blocca anche il "mercato del lavoro", aumentando enormemente povertà e disoccupazione - quell'esercito di riserva che la borghesia utilizza da sempre come arma di pressione nei confronti delle masse di lavoratori occupati, per abbattere i loro salari e per piegarli alle esigenze della produzione capitalistica.

La guerra imperialista, quindi, non è condotta solo tra gli imperialisti che si contendono il dominio sui mercati internazionali, ma è condotta anche contro le masse proletarie di ciascun paese perché, da un lato, costituiscono un'enorme quantità di bocche da sfamare senza poter essere sfruttate al fine di produrre profitti e, dall'altro, costituiscono una massa umana che può ribellarsi all'ordine costituito che l'ha fatta precipitare in condizioni di esistenza intollerabili. La soluzione borghese è di trasformarla in carne da macello in difesa dei propri interessi di dominio. La soluzione proletaria è di riconquistare la sua indipendenza di classe, riorganizzarsi sul terreno della lotta classista e lottare prima di tutto contro la borghesia imperialista di casa propria.

 

Verso la terza guerra imperialista mondiale

 

La democrazia è mai stata in grado di fermare la guerra imperialista? NO; semmai l'ha preparata con la propria politica di dominio e di sopraffazione.

E' stata in grado di evitarla? NO; semmai ci si è tuffata in pieno per trarne i più grandi vantaggio possibili contro i concorrenti.

Sarà mai in grado di evitarla e di fermarla in futuro? MAI.

Perfino il papa di Roma si è lanciato, dal suo balcone di piazza S. Pietro, in un ammonimento urbi et orbi: siamo di fronte ad una terza guerra mondiale "a pezzi"... A pezzi, perché finora non c'è lo scontro mondiale fra tutte le maggiori potenze, ma solo le guerre "locali", come quelle in Iraq, in Afghanistan, in Libia, in Siria e, ultima in ordine cronologico, in Ucraina.

Ma, nonostante le incessanti smentite che la storia del capitalismo ha profuso a piene mani, l'ideologia democratica continua ad affascinare le masse piccolo-borghesi e ad influenzare il proletariato dei paesi imperialisti.

Pur avendo perso le sue caratteristiche "liberali", la democrazia del post-fascismo, infarcita di autoritarismo come mai prima, riesce ancora a illudere significativamente le grandi masse proletarie che, grazie alle loro condizioni di vita tutto sommato "migliori" di quelle in cui sono costretti a sopravvivere miliardi di esseri umani della cosiddetta "periferia dell'imperialismo", sono spinte a sperare di potersela cavare meglio di loro anche se per qualche tempo viene loro chiesto di "tirare la cinghia". Questa illusione ha basi materiali ben precise, e sono quelle che Marx ed Engels avevano già rivelato trattando del proletariato inglese. L'Inghilterra, padrona dei mari e prima potenza imperialista del mondo, riuscì a corrompere il proprio proletariato - che per primo aveva imboccato la strada dell'aperto antagonismo di classe - con i sovraprofitti derivanti dallo sfruttamento intensivo del suo impero coloniale. L'Inghilterra di allora ha insegnato a tutte le potenze borghesi successive come gestire il potere, sia in casa propria, sia nelle colonie: corrompere il proletariato nazionale sul piano economico e sociale, quindi ad un certo punto anche politico, e opprimere senza scrupoli le popolazioni dei suoi dominii coloniali da cui ricavare le risorse per la corruzione nelle metropoli. Va da sé che questa corruzione si è diffusa non senza contrasti sociali (il proletariato inglese è stato il primo che con le sue lotte ottenne di limitare la giornata lavorativa a dieci ore di lavoro per legge, quando la normale giornata era di 14-16 ore. Questa corruzione non è stata calata dall'alto, ma si è trasmessa nella massa proletaria attraverso le sue stesse organizzazioni di difesa, le Trade Unions, e i suoi partiti politici, in specie il Labour Party. Da questo punto di vista, la democrazia parlamentare - di cui la Gran Bretagna si vanta di essere stata la culla - ha dimostrato di essere finora la politica più efficace per piegare le masse proletarie alle esigenze di dominio della borghesia capitalista, anche nelle situazioni di alta tensione sociale come quelle generate dalle gravi crisi economiche e dalle crisi di guerra. Questa democrazia è riuscita, a differenza di quella francese, a combinare la Corona con il Parlamento, alto esempio di collaborazione di classe tra la rappresentanza delle vecchie classi aristocratiche e la nuova classe borghese. Il tutto naturalmente a discapito delle masse proletarie delle colonie e dell'Irlanda che, tra le colonie, era la più vicina non solo geograficamente, ma anche dal punto di vista razziale: è popolazione bianca, come gli inglesi, gli scozzesi e i gallesi, a differenza di tutte le altre popolazioni dominate.

 

Democrazia, turpe mito borghese

 

 Molta acqua è passata sotto i ponti, ma in sostanza la democrazia parlamentare regge da più di duecento anni. Ma regge alla condizione di essere sostenuta economicamente e politicamente dalle borghesie più potenti al mondo. Essa può contare su  un effetto simile a quello che ha la religione sulle masse: l'illusione che verrà il tempo in cui una giustizia "soprannaturale" l'avrà vinta sulla giustizia umana legata com'è agli interessi di parte...

Come la storia insegna, la democrazia borghese non esclude che il potere borghese utilizzi metodi di governo e mezzi violenti e repressivi; anzi, li usa normalmente giustificandoli col mantenimento dell'ordine sociale esistente che è considerato l'unico possibile. Si dirà: ma il fascismo o la dittatura militare, sono metodi opposti al metodo democratico col quale la popolazione è chiamata a partecipare alla vita pubblica e alla vita politica del paese. Sono sicuramente metodi di governo diversi, ma essi non sono che la dittatura di classe della borghesia che si è disfatta di tutti i veli democratici con cui copriva e mistificava il suo reale oppressivo e repressivo dominio sociale. E quando la classe dominante borghese giunge a distruggere la democrazia, svelando la propria congenita dittatura di classe, lo fa sostanzialmente per due motivi: per contrastare col massimo della forza repressiva il pericolo della rivoluzione proletaria che i metodi della democrazia e della socialdemocrazia non sono riusciti a soffocare, oppure per accorciare i tempi dello sviluppo capitalistico nazionale unificando le frazioni più forti della borghesia nella lotta di concorrenza con tutte le altre borghesie straniere. Come è dimostrato dal corso storico del movimento di classe della borghesia dei paesi a capitalismo avanzato, le forme apertamente totalitarie e dittatoriali, una volta compiuta la loro funzione sia nei confronti del proletariato, sia nei confronti delle diverse frazioni borghesi interne, vengono sostituite dalle forme della democrazia parlamentare che, nel tempo, ha dimostrato di essere molto efficace nella difesa del dominio politico e sociale della borghesia.

Passando dalla società divisa in classi feudale alla società divisa in classi capitalistica, quel che non è cambiato è l'antagonismo fra le classi; si è semplificato, riducendo il conflitto a sole due classi principali della società, la borghese dominante e la proletaria, dominata. Ma, per gestire gli antagonismi fra le classi, che lo stesso sviluppo delle forze produttive genera, la società ha creato una “potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell’ordine”; e questa potenza, “che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato”.

Da un lato abbiamo la società divisa in antagonismi inconciliabili, dall'altro un organismo che centralizza la forza per controllare “questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto” affinché “non distruggano se stessi e la società”. Ma queste due entità non sono separate, sono dialetticamente legate. Lo Stato moderno, in realtà, è il massimo organo del dominio di classe della borghesia (come risottolinea Lenin in Stato e rivoluzione), "un organo di oppressione di una classe da parte di un'altra". Tutto il contrario della visione propagandata dagli ideologi borghesi e dai luogotenenti della borghesia infiltrati nelle file proletarie - gli opportunisti, i collaborazionisti - secondo i quali lo Stato sarebbe l'organo della conciliazione fra le classi.

Perciò, aderire alla democrazia, attendersi dallo Stato democratico - come se fosse una forza neutrale ed esterna agli antagonismi di classe - la conciliazione dei conflitti di classe, la loro soluzione equilibrata e perciò "giusta", fa il gioco esclusivamente della classe dominante borghese. La borghesia è classe dominante perché possiede tutto, i mezzi di produzione e di scambio, l'intera ricchezza prodotta e lo Stato, ossia la forza pubblica che non è soltanto l'organizzazione di uomini armati distinti dall'intera popolazione, ma anche di magistrati, prigioni e istituti di pena di ogni genere. E questa forza pubblica "si rafforza nella misura in cui gli antagonismi di classe all'interno dello Stato si acuiscono e gli Stati tra loro confinanti diventano più grandi e popolosi" (ancora Engels, cit.), aumentando in questo modo i contrasti interstatali, le guerre commerciali e finanziare e le guerre guereggiate.

La struttura economica e sociale della società capitalistica non si trasforma se lo Stato è retto dal metodo democratico o dal metodo apertamente totalitario. Sotto la democrazia o sotto il fascismo le masse proletarie non sfuggono ai rapporti di produzione e di proprietà borghesi: sono sempre lavoratori salariati, la loro esistenza dipende dal lavoro salariato, dunque dalla possibilità o meno di lavorare per il tale o tal altro capitalista, per la tale o tal altra azienda. Il capitalista, prima di essere democratico o fascista, religioso o ateo, bianco, nero o giallo, è il proprietario dei mezzi di produzione e di distribuzione ed è, soprattutto, proprietario esclusivo della produzione. Perciò la legge che lo guida, che ne ispira i comportamenti e le decisioni, è la legge del profitto, la legge dei soldi che, per antonomasia, non ha etica se non quella, appunto, del profitto.

I capitalisti hanno imparato dalla storia delle lotte fra le classi, e dallo sviluppo imperialistico del capitalismo, che "nella repubblica democratica (Engels, cit.) la ricchezza esercita il suo potere indirettamente, ma in maniera tanto più sicura, in primo luogo con la corruzione diretta dei funzionari (America), in secondo luogo con l'alleanza tra governo e Borsa (Francia e America)". A che cosa assistiamo da centoquarant'anni - le parole di Engels sono del 1884 - se non al fatto che quel che scrive Engels si è moltiplicato per tutti i paesi capitalisti avanzati del mondo? La rivoluzione proletaria, anticipata dalla Comune di Parigi nel 1871 e realizzata nella Comune di Pietroburgo nel 1917, non è riuscita ad estendersi all'Europa e all'America, tanto da fermare lo sviluppo imperialistico del capitalismo, distruggendo gli Stati borghesi e avviando l'umanità verso la società non più divisa in classi, la società di specie. Il parassitismo borghese, che caratterizza la società capitalistica, ha continuato ad allargarsi in tutti i paesi del mondo e a sviluppare un processo di putrefazione sociale che la democrazia non riesce più a mimetizzare.

L'enorme aumento delle diseguaglianze sociali e della povertà, l'aumento intensificato dello sfruttamento del lavoro salariato in tutti i paesi del mondo, dal più industrializzato e avanzato al più arretrato, l'aumento senza controllo degli elementi inquinanti del suolo, dell'acqua, dell'aria, la distruzione dell'ambiente e della biodiversità, l'acutizzazione delle contraddizioni economiche e sociali e dei fattori di tensione sociale, l'aumento incessante della concorrenza tra borghesie, tra Stati e tra blocchi imperialisti, l'accumulo di fattori catastrofici della vita sociale dell'intera umanità, sono tutti elementi che la borghesia non riesce a dominare, ma dai quali - nella misura in cui non viene attaccata frontalmente dall'unica classe sociale che ne ha potenzialmente la forza, il proletariato - essa riesce a ricavare il risultato che, in quanto classe dominante, le sta più a cuore in assoluto: mantenere in piedi la struttura economica e sociale capitalistica da cui essa trae i suoi privilegi, anche a costo di una serie sempre più ravvicinata di catastrofi sociali e naturali, anche a costo di guerre sempre più devastanti.

Qaulora dovessero sparire dalla faccia della terra, a causa di queste catastrofi procurate dal capitalismo e dalle sue guerre, cento, cinquecento o mille milioni di esseri umani, ne resterebbero sempre abbastanza, se il regime borghese non venisse distrutto una volta per tutte, per ricominciare a produrre merci, per ricominciare ad estendere nel mondo sopravvissuto lo sfruttamento del lavoro salariato e sottomettere in modo ancor più bestiale la grandissima parte della popolazione mondiale alla legge del profitto capitalistico. Il capitalismo si è finora sviluppato fino a generare le forme moderne dell'imperialismo, cioè la dittatura del capitale monopolistico, la sempre più alta concentrazione e centralizzazione del capitale per combattere la concorrenza, intensificando l'oppressione della maggioranza dei popoli che abitano la terra e, naturalmente e soprattutto, l'oppressione del proletariato a livello mondiale.

Questa è la prospettiva verso cui il capitalismo, a causa delle sue stesse leggi fondanti, sta portando l'intera umanità. Di questo, nelle masse proletarie e non proletarie, c'è da tempo una precisa percezione. Ma l'influenza ancora molto profonda dell'ideologia borghese che eleva l'individuo a un'entità che "può scegliere", che "può convincere", che "può conoscere" e che, quindi, può utilizzare la sua "libertà personale" per decidere "che cosa fare" per "migliorare" la situazione partendo dalla sua situazione personale per giungere poi alla situazione collettiva, cancella completamente ogni ragionamento basato sui dati della realtà fisica, concreta. Per questo abbiamo assimilato il mito della democrazia al mito religioso del dio come entità soprannaturale. Perciò la percezione di un futuro tragico verso cui il capitalismo sta portando la specie umana, invece di essere uno stimolo per indirizzare le proprie energie e capacità individuali verso la lotta sociale estrema, collettiva, organizzata e rivoluzionaria - la sola con la quale ci si può battere contro la potente forza politica e sociale della borghesia -, diventa la giustificazione della paura del futuro e spinge ad accogliere gli strumenti che la borghesia stessa ha preparato e prepara per ingabbiare le masse proletarie e popolari nel suo sistema di dominio. Così, insieme alla predicazione della democrazia, dei diritti uguali per tutti, della libera scelta, in parallelo si innesta la predicazione del nazionalismo, del razzismo, del sovranismo, della cosiddetta libera espressione delle proprie idee e delle proprie opinioni. La democrazia permette tutto, tutto ciò che è riconducibile all'interesse privato, personale, mentre l'interesse collettivo viene identificato con la patria, la famiglia, il parlamento, il lavoro, l'azienda, dimenticando che patria, famiglia, parlamento, lavoro e azienda sono categorie esclusivamente borghesi sintetizzabili nello Stato, ossia lo specifico organo del dominio della borghesia capitalistica.   

 

E' dal suo passato di classe che il proletariato deve trarre le lezioni per il futuro

 

Nonostante tutto ciò, il turpe mito borghese della democrazia resiste. Ma elezione dopo elezione, il disgusto sociale per un metodo che non ha mai risolto le contraddizioni della società delle merci e del denaro spinge una parte consistente della popolazione a disertare le urne, a staccarsi dall'impegno politico, a chiudersi nell'individualismo, nei ristrettissimi interessi privati, cercando di allontanarsi dal sudiciume sociale che ammorba l'aria e i rapporti sociali. E la cosa interessa certamente una parte della piccola borghesia che, come è sua atavica abitudine, cerca nei rapporti personali un sostegno per non precipitare nella precarietà della vita e nella proletarizzazione. Ma interessa anche una parte del proletariato, disgustata non tanto dalla grande borghesia, la cui prepotenza e viltà ha imparato a conoscere nelle sue lotte di difesa del salario e del posto di lavoro, quanto dalla presa che la corruzione ha avuto ed ha sulle organizzazioni sindacali e politiche che proclamano di difenderne gli interessi. E' un disgusto che spiega, in parte, sia le quote non indifferenti di voti verso i partiti di destra, sia l'astensionismo di percentuali consistenti del proletariato; ma esprime anche una rinuncia a perseguire i propri interessi con la lotta diretta che i sindacati collaborazionisti hanno sistematicamente sabotato a favore degli interessi dei capitalisti e dell'ordine borghese.

Questo astensionismo, se da un lato mostra che il metodo democratico non ha più la forte presa di un tempo, mostra anche il lato peggiore del conservatorismo perché lascia il campo completamente nelle mani dei politicanti, dei corrotti e dei corruttori, dei collaborazionisti e dei faccendieri, di tutta quella moltitudine di parassiti che godono la loro vita sullo sfruttamento sempre più bestiale del proletariato e che litigano e si scontrano tra di loro al solo scopo di accaparrarsi una fetta di potere in più a detrimento delle parti avverse.

Chi conosce le posizioni della Sinistra comunista d'Italia rispetto alle elezioni, e naturalmente alla democrazia con i suoi istituti (dal parlamento alle regioni, alle province, ai comuni), sa che si era caratterizzata, negli anni Venti del secolo scorso, anche per la tattica astensionista. Essendo, oltretutto, un periodo in cui la rivoluzione proletaria era all'ordine del giorno in tutto il mondo, questa tattica mirava a combattere non solo dal punto di vista teorico e ideologico, ma anche praticamente, l'influenza che, nei paesi democratici di lunga data, la democrazia aveva sulle masse proletarie, illudendole che attraverso la pacifica battaglia elettorale fosse possibile ottenere i miglioramenti che le rivendicazioni socialiste riformiste avanzavano da tempo e che i rappresentanti del potere borghese, che dominavano il parlamento, non concedevano. Le battaglie elettorali, oltretutto, assorbivano molte energie sia del proletariato che del partito proletario in un'arena che non avrebbe mai risolto le contraddizioni sociali, mentre quelle energie dovevano essere indirizzate non alla preparazione elettorale, ma alla preparazione rivoluzionaria.

La situazione rivoluzionaria di quegli anni è passata, la spinta rivoluzionaria delle masse, contrastata dalle borghesie di tutti i paesi con la massima violenza possibile e deviata dalle pratiche socialdemocratiche e socialscioviniste, si esaurì e la borghesia salvò il proprio potere in alcuni paesi con il metodo fascista, nella maggioranza dei paesi col metodo democratico. Ma il disegno della borghesia imperialista dei maggiori paesi del mondo non si fermava ad impedire la rivoluzione proletaria, si estendeva fino alla distruzione - d'altra parte prevista dal partito bolscevico di Lenin e contro la quale si era organizzata l'Internazionale Comunista - dell'unica rivoluzione proletaria vittoriosa, quella di Russia. Questa rivoluzione, come abbiamo già detto, non fu vinta militarmente,  ma politicamente, attraverso il suo isolamento dal resto d'Europa - facilitato dall'arretratezza economica della Russia rispetto ai paesi industrializzati d'Europa - e la corruzione e la degenerazione politica del partito che ne dirigeva la dittatura.

Quella corruzione e quella degenerazione politica da dove arrivavano? Dall'Occidente democratico, attraverso i partiti socialdemocratici e il loro personale politico che, nel proprio grembo, portavano ancora abitudini, illusioni, pratiche e comportamenti anticomunisti, perciò antiproletari.

Le tesi dell'Internazionale Comunista sul parlamentarismo rivoluzionario partivano dall'obiettivo fondamentale della distruzione del parlamento dall'interno; l'uso del parlamentarismo da parte dei comunisti rivoluzionari non escludeva la preparazione rivoluzionaria nella società e le lotte proletarie nella prospettiva della rivoluzione, ma doveva dimostrare che il parlamentarismo non era soltanto che un mulino di parole, utile solo ad ingannare e illudere il proletariato che, all'epoca, credeva ancora molto nella democrazia e nel parlamento. Il forte timore che aveva la Sinistra comunista d'Italia nell'adozione di questa tattica nei paesi capitalisti democratici era che il parlamentarismo da rivoluzionario si riducesse semplicemente ad essere parlamentarismo borghese e basta. E la storia ha dimostrato che così è avvenuto, perché era ancora troppo forte l'influenza che la democrazia parlamentare aveva sulle masse proletarie e sui loro partiti, e troppo poco era stato il tempo per abituare le masse proletarie d'Occidente a disfarsi delle illusioni democratiche e passare decisamente alla lotta rivoluzionaria diretta contro il potere borghese e le forze della conservazione sociale. Da allora, per noi, non ci sono stati più dubbi sul fatto che il partito comunista rivoluzionario non doveva mai più scendere sul terreno elettorale e parlamentare, indirizzando coerentemente la propria propaganda antiborghese caratterizzandola come antidemocratica e quindi anche antiparlamentare. Il proletariato, infatti, per la propria lotta politica di emancipazione doveva, deve e dovrà battersi strenuamente contro ogni tesi, programma, piattaforma, espediente riconducibili alla democrazia borghese. Altra cosa se si tratta di lotta economica, lotta di difesa degli interessi immediati per i quali le masse proletarie devono organizzarsi in sindacati ai quali, a differenza del partito proletario, si iscrivono i proletari di qualsiasi fede politica o appartenenza partitica perché quel che li unisce sono appunto gli interessi immediati di classe, non il programma politico rivoluzionario che sta ai militanti comunisti propagandare all'interno dei sindacati operai. Sul terreno della lotta economica immediata nelle organizzazioni sindacali classiste, nelle assemblee e nei congressi non si può e non si potrà fare a meno del metodo democratico proprio per la caratteristica specifica di queste organizzazioni che uniscono i proletari solo per la loro qualità di essere lavoratori salariati e non per essere affiliati o meno ai diversi partiti esistenti. Il compito dei comunisti rivoluzionari era ed è di intervenire nelle lotte operaie e in queste organizzazioni, anche le più reazionarie - nella misura in cui i loro statuti lo permettano - per importare gli orientamenti e gli indirizzi classisti e comunisti; e, in ogni caso, per lottare perché rinascano le associazioni di difesa classista del proletariato.

 

Unirsi sul terreno di classe, non su quello interclassista

 

Il cammino del proletariato per la sua rinascita come classe indipendente è ancora molto tortuoso e irto di grandi difficoltà. Le sirene della democrazia sono le sirene della collaborazione di classe, dei fronti uniti politici, della difesa dell'economia nazionale contro la concorrenza straniera, della pace sociale, della patria in caso di guerra. Contro gli effetti disorientanti di queste sirene non basta tapparsi le orecchie, tanto meno "pensare ai fatti propri".

Perché la loro lotta abbia una prospettiva positiva per i loro interessi di classe, i proletari devono lottare unendo le proprie forze sul terreno della lotta classista, riconoscendosi per la loro reale condizione di lavoratori salariati, al di là della nazionalità, del sesso, dell'età, della professione. Il loro più grande ostacolo sulla strada della propria emancipazione dal capitalismo è costituito dalla concorrenza tra di loro che il sistema borghese alimenta a piene mani. Ma la lotta contro la concorrenza tra proletari trova a sua volta un ostacolo che va superato: la collaborazione di classe. Concorrenza tra proletari e collaborazione di classe sembrano due cose diverse. In realtà sono due aspetti dello stesso meccanismo di sfruttamento del lavoro salariato. Da un lato, con la concorrenza tra proletari, il capitalista ottiene il risultato di mantenere bassi i salari o addirittura di abbatterli; con la collaborazione di classe, il capitalista ottiene il risultato di evitare la lotta dei proletari in difesa dei loro esclusivi interessi immediati e di incanalare le loro lotte, nella misura in cui i sindacati collaborazionisti non riescano a troncarle sul nascere, verso obiettivi che non intacchino gli interessi capitalistici.

La realtà di oggi ha messo i proletari nella situazione storica peggiore per la loro lotta: sono costretti a rifare le esperienze di lotta classista fin dai primi rudimenti, come se dovessero iniziare per la prima volta nella storia a saggiare la propria forza contro la forza della borghesia dominante. Devono riacquistare fiducia nelle proprie forze e, soprattutto, devono ricominciare ad utilizzare mezzi e metodi di lotta che questa fiducia la possono generare. Una delle armi classiche che i proletari hanno a disposizione è lo sciopero perché interrompendo la produzione essi interrompono il ciclo di estorsione del plusvalore dal loro lavoro salariato; e perché nello sciopero i proletari trovano l'unità delle loro forze. Ma l'arma dello sciopero, come tutte le armi, può essere usata a favore degli scioperanti, oppure a loro sfavore. Per usare quest'arma a favore degli scioperanti essa deve basarsi su rivendicazioni che unifìchino tutti gli operai coinvolti (aumento del salario per tutti, più alto per i peggio pagati; diminuzione drastica della giornata lavorativa; diminuzione dei ritmi di lavoro e dei carichi di lavoro ecc. ecc.); e deve essere condotto con mezzi e metodi che esprimano forza e determinazione, quindi con mezzi e metodi per la difesa esclusiva degli interessi classisti proletari. Nello stesso tempo lo sciopero, proprio perché fa parte della battaglia dei lavoratori salariati contro i capitalisti e le forze della conservazione sociale che li difendono, deve essere attuato senza preavviso e senza limiti di tempo prefissati, e quando sarà il momento delle trattative queste devono avvenire mentre la lotta è in piedi.

Perché quest'arma sia usata contro gli scioperanti basta, invece, seguire le indicazioni che da decenni vengono impartite dai sindacati tricolori: scioperi al contagocce, solo dopo aver negoziato coi padroni per mesi se non per anni, annunciati con molto anticipo in modo che i padroni possano prepararsi in tempo per limitare i danni o addirittura annullarli e predisporre i propri sgherri, i crumiri e le forze dell'ordine alla loro più efficace difesa; indicazioni che vanno dallo sciopero di un'ora o due, magari a fine turno e solo per certi reparti o limitatamente alla fabbrica tale o tal altra, senza nessuna organizzazione di scioperi di solidarietà da parte di altre categorie e, interrotto immediatamente al primo accenno di trattativa da parte del padrone, e via di questo passo... E' con queste pratiche che le organizzazioni sindacali collaborazioniste hanno sistematicamente sabotato gli scioperi, demoralizzato i proletari portandoli ad avere innanzitutto sfiducia nelle proprie forze, nelle proprie lotte riducendosi a sperare che i bonzi sindacali - così "esperti" dei regolamenti e dei contratti come se fossero quelli delle assicurazioni che contengono mille clausole specifiche e nascoste o incomprensibili, e così comprensivi verso le esigenze delle aziende e dei padroni - si prendano carico delle richieste operaie.   

Ebbene contro tutte queste pratiche sabotatrici, e contro il peso istituzionale che ormai da decenni hanno assunto i sindacati collaborazionisti - tanto da amministrare turni, ferie, giorni di riposo, passaggi di livello, stabilire chi e per quanto tempo va in cassa integrazione, chi viene licenziato, chi potrà trovare un altro posto di lavoro ecc. ecc. -, contro tutto questo, i proletari dovranno lottare duramente se vogliono difendere effettivamente i propri interessi immediati. A differenza degli anni Venti del secolo scorso, per quanto allora i vertici sindacali fossero riformisti e tendenzialmente pronti a collaborare coi padroni o col governo, i sindacati di oggi non sono mai stati sindacati di classe, ma solo istituzioni borghesi sempre più integrate nello Stato borghese. Perciò i proletari oggi, molto più di ieri, devono lottare non solo contro i padroni, ma anche contro le organizzazioni sindacali che si definiscono operaie ma che, in realtà, rappresentano gli interessi dei lavoratori soltanto nell'ambito della difesa degli interessi delle aziende, e quindi dei capitalisti.

I proletari percepiscono perfettamente di trovarsi in una situazione difficilissima, che appare senza sbocchi. Ma perché la loro lotta abbia un minimo di effetto positivo rispetto alle rivendicazioni avanzate, deve uscire dagli schemi tradizionali del sindacalismo tricolore che condizionano ogni rivendicazione, ogni mossa al rispetto della collaborazione fra le classi; deve spezzare il legame che la incatena agli "interessi comuni" tra padroni e lavoratori salariati: non esistono interessi "comuni" tra padroni e lavoratori salariati. L'oppressione che il lavoratore salariato subisce da parte dei capitalisti da quando nasce non si annulla con il dialogo, con gli equilibrismi tra interessi che, per loro natura, sono inconciliabili. O la si subisce, piegando la testa e accettando la condizione di schiavo salariato, o la si combatte per non essere più schiavo.

I metodi e i mezzi della democrazia hanno lo scopo di nascondere l'inconciliabilità di interessi tra proletari e borghesi, sia in campo strettamente economico, sia in campo politico. Il falso mito di trattare "da pari a pari" nasconde il fatto che la classe dominante borghese diventa "conciliante" con la classe proletaria se quest'ultima, nella sua lotta, rigetta i metodi e i mezzi della lotta di classe e si fa carico degli interessi dei capitalisti, asservendo ancor più il proletariato  ai rapporti di produzione e di proprietà. Ma la borghesia è tutt'altro che conciliante se i proletari lottano fuori dagli schemi della collaborazione di classe, come molti episodi anche recenti delle lotte, ad esempio nella logistica, hanno ampiamente dimostrato.

 

Se gli interessi dei lavoratori salariati e dei capitalisti fossero davvero comuni, non vi sarebbe alcun conflitto tra le parti, non sarebbe necessaria alcuna lotta per difendere i propri interessi dagli interessi della parte avversa. E' evidente che una situazione di questo genere è pura fantasia. E poi dicono di noi comunisti rivoluzionari che sogniamo la società senza classi, la società in cui l'uomo è finalmente diventato un essere sociale, spogliatosi completamente delle categorie anagrafiche che caratterizzano la società divisa in classi, e la società borghese in particolare!

Il fatto è che quando i borghesi parlano di interessi "comuni", lo fanno come quando parlano di "libertà", cioè parlano della libertà del borghese di sfruttare la forza lavoro salariata ad esclusivo beneficio dei suoi profitti. E' vero, la rivoluzione borghese ha "liberato" i contadini dai vincoli feudali che li legavano vita natural durante al signore e al feudo, li ha resi "liberi" nel senso che la maggior parte di loro non aveva più alcun mezzo di sostentamento di proprietà e che, per vivere, doveva vendere la propria forza lavoro al borghese, al capitalista, al padrone della fabbrica o della terra. Nella società divisa in classi la libertà non è neutra, non accomuna schiavista e schiavo, padrone e lavoratore salariato; nella società divisa in classi è la classe dominante che ha la libertà - conquistata con la forza, la violenza, la dittatura - di opprimere le classi dominate. L'unica libertà che riguarda la classe dominata è quella che deriva dalla condizione materiale di schiavitù in cui è costretta, la "libertà di ribellarsi" alla condizione di schiavitù in cui vive, e tale "libertà" non alberga nella coscienza individuale di ciascuno schiavo salariato, di ciascun proletario, ma nella forza materiale e sociale della massa proletaria che costituisce la forza produttiva principale della società. E' una libertà che non viene concessa da alcuna legge dello Stato, per quanto democratico e liberale possa essere, ma che la classe degli schiavi salariati, la classe proletaria conquista con durissime lotte contro la classe dominante. Perciò "libertà" vuol dire "lotta", lotta vuol dire conflitto, e il conflitto affonda le sue radici nella divisione della società in classi antagoniste.

La lotta di classe che gli stessi borghesi, prima di Marx, hanno scoperto, nasce in ogni società divisa in classi e, quindi, nella stessa società borghese; nasce dalla struttura economica e sociale esistente e si svolge come "lotta fra classi sfruttate e sfruttatrici, dominate e dominanti, nei diversi stadi dell'evoluzione della società" (4).

Fino alla società borghese, l'emancipazione delle classi sfruttate avveniva liberando se stesse dallo sfruttamento, dall'essere dominate per costituirsi a loro volta come le nuove classi sfruttatrici, come le nuove classi dominanti, mantenendo la società divisa in classi. La differenza tra la classe proletaria moderna e le classi sfruttate nelle società precedenti sta nel fatto che la classe proletaria moderna non è proprietaria di nulla, se non della propria forza lavoro, e quindi non può emanciparsi dalla classe che la sfrutta e la opprime - cioè dalla borghesia - "se non liberando allo stesso tempo per sempre tutta la società dallo sfruttamento e dall'oppressione e dalle lotte fra le classi" (5). E questo non per una particolare virtù del proletariato, ma perché il capitalismo ha esteso a tutto il mondo le stesse condizioni di produzione e di scambio, gli stessi rapporti di produzione e di proprietà borghesi, uniformandolo in tal modo alle stesse leggi del capitalismo e alla creazione in tutti i paesi della classe proletaria, cosicché l'unica via per l'emancipazione della classe proletaria è estendere la lotta antiborghese, la lotta contro il capitale, a tutto il mondo. Le basi materiali della rivoluzione mondiale del proletariato stanno esattamente nel capitalismo e nel suo sviluppo internazionale che non avviene se non creando e sviluppando nello stesso tempo in tutti i paesi del mondo la classe dei lavoratori salariati, la classe dei seppellitori della borghesia.

Il problema che si poneva nel 1848, e che si pone ancor oggi, è: come fa la classe sfruttata proletaria ad emanciparsi dalle condizioni di sfruttamento capitalistiche  dovendo affrontare la potenza economica e politica della classe dominante borghese? Come fa a mobilitarsi in un movimento internazionale in grado di sviluppare la sua rivoluzione a livello mondiale?

I tentativi nella storia ci sono stati, nel 1848, nel 1871, nel 1917, nel 1927, ma sono stati battuti e, dopo la sconfitta della rivoluzione in Germania nel 1919 e la degenerazione della rivoluzione russa e del suo partito, non vi sono più stati al mondo tentativi della stessa portata. La borghesia ha sempre trovato il modo per contenere e soffocare il moto rivoluzionario del proletariato. Non solo, ma a cent'anni di distanza, la borghesia imperialista è diventata molto più forte, molto più esperta e molto più decisa a non farsi sorprendere dalla rivoluzione proletaria.

E' indiscutibile, la borghesia ha certamente rafforzato il proprio potere e il proprio dominio sulla società, tanto da ritenersi e farsi recepire come invincibile. Ma se fosse davvero così non si spiegherebbe come mai tutte le borghesie più forti al mondo destinano risorse gigantesche alla prevenzione della lotta di classe e dei moti rivoluzionari del proletariato. L'enorme dispendio di risorse per tenere in piedi i meccanismi della democrazia al solo scopo di ingannare, deviare, paralizzare i proletariati, dimostra che il proletariato, proprio come principale classe sfruttata e oppressa, costituisce un potenziale eversivo che qualsiasi misura sociale, economica, politica, ideologica, culturale, religiosa non riesce a debellare definitivamente. E lo dimostra, inoltre, la particolare politica che le borghesie più potenti del mondo hanno applicato, dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale, nei rispettivi paesi nei confronti delle masse proletarie, cioè la politica degli ammortizzatori sociali. Questa particolare politica corrisponde a quell'autolimitazione del capitalismo che conduce a livellare intorno a una media l'estorsione del plusvalore, di cui il partito, leggendo con grande precisione la tendenza storica del capitalismo nella sua fase imperialistica dopo la seconda guerra mondiale, ha trattato, tra il 1946 e il 1948, nello scritto Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe (6).

Si conferma in toto, quindi, quanto già il Manifesto di Marx ed Engels scriveva nel 1848 che, dopo aver affermato che "la condizione più importante per l'esistenza e per il dominio della classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale", conclude così: "condizione del capitale è il lavoro salariato" (7).

La classe borghese dominante sa perfettamente che con il lavoro salariato genera la concorrenza dei proletari tra di loro; la massa della forza lavoro fa parte del mercato del lavoro, e nel mercato vige la legge della concorrenza. La forza lavoro proletaria è equiparata ad una merce, il proletario la vende e il capitalista la compra; nello sviluppo delle forze produttive, come il capitalismo va incontro alla sovraproduzione dei prodotti-merci così va incontro alla sovraproduzione della merce-forza lavoro. I mercati dei prodotti, dei capitali vanno ad un certo punto in crisi di saturazione? Anche il mercato della forza lavoro va in crisi di saturazione; mentre lo sviluppo del capitalismo crea masse proletarie sempre più numerose, non è in grado di creare allo stesso tempo tanti posti di lavoro che possano assorbire tutti i proletari - venditori di forza lavoro - che in questo modo risultano in eccesso.

La disoccupazione proletaria non è un fenomeno episodico. E' al contrario, un fenomeno endemico dello stesso sviluppo del capitalismo. Il nocciolo della questione, per l'ennesima volta, sta nel sistema produttivo capitalistico che prevede lo sfruttamento della forza lavoro alla condizione di valorizzare il capitale investito. E tale valorizzazione, come abbiamo tante volte ribadito, è data dal tempo di lavoro del lavoratore che non viene pagato. Il mistero del capitale che aumenta se sfrutta il lavoro salariato sta tutto nella differenza tra il tempo di lavoro necessario al lavoratore per vivere e ristabilire quotidianamente la propria forza lavoro da rivendere il giorno dopo, e il tempo di lavoro ulteriore che il lavoratore salariato è obbligato a dare al capitalista nella giornata lavorativa, ma che non è pagato. E' appunto il plusvalore che il capitalista estorce quotidianamente da ciascun lavoratore salariato.

Le innovazioni scientifiche e tecniche che i capitalisti applicano alla produzione e alla distribuzione per battere i capitalisti concorrenti, invece di essere utilizzate per abbassare sempre più le ore di lavoro della giornata lavorativa (cosa che farà soltanto il socialismo perché lavoreranno tutti),  contribuiscono a diminuire il tempo di lavoro necessario per vivere del lavoratore salariato ed aumentare progressivamente il tempo di lavoro non pagato. Il rapporto tra tempo di lavoro necessario e tempo di lavoro non pagato tende ad avvantaggiare sempre più l'estorsione del plusvalore. I capitalisti non solo sono padroni dei mezzi di produzione, delle materie prime, dei capitali e si appropriano l'intera produzione, ma sono padroni anche della vita dei lavoratori salariati, occupati o disoccupati che siano. Ecco perché gli interessi esclusivi dei proletari - cioè la lotta contro l'oppressione e la schiavitù salariale - non potranno conciliarsi mai con quelli dei capitalisti. E tale inconciliabilità esiste sia in tempi di espansione capitalistica che in tempi di crisi, sia che al governo vi siano  partiti democratici o partiti totalitari, sia in tempi di pace sia in tempi di guerra.

L'alternativa al permanere della schiavitù salariale è l'abolizione della schiavitù salariale, e per raggiungere questo grande obiettivo storico - che è l'obiettivo del comunismo rivoluzionario - bisogna passare attraverso la lotta rivoluzionaria del proletariato non di una fabbrica, per quanto grande sia, non di un solo paese o di un certo numero di paesi, ma di tutto il mondo. Utopia? No, corso storico di sviluppo delle forze produttive che lo stesso capitalismo ha ingigantito, ma che utilizza non per scopi sociali ma solo per scopi privati, e che non sa controllare date le continue crisi di sovraproduzione sempre più devastanti a cui va incontro ciclicamente.

 

Il futuro sarà democrazia o totalitarismo? Sarà in ogni caso guerra o rivoluzione

   

 Stiamo attraversando un periodo in cui il capitalismo entra in crisi sempre più acute e devastanti. Nemmeno i grandi paesi imperialisti che hanno a disposizione enormi risorse economiche e finanziarie, sono in grado di spegnere i fattori di crisi che, oltretutto, si concentrano sempre più proprio all'interno di quei paesi. La lotta di concorrenza sui mercati si fa sempre più spietata, generando politiche protezioniste che inevitabilmente acuiscono le tensioni economiche, commerciali e politiche tra i grandi paesi imperialisti. La guerra mondiale non fa più parte del passato, e la stessa borghesia la prevede in un futuro non così lontano. Tutti i grandi paesi imperialisti si stanno armando fino ai denti per non trovarsi impreparati quando la loro guerra busserà alla porta. Nello stesso tempo stanno avvenendo grandi manovre, politiche e militari, per saggiare le prossime alleanze di guerra, oggi presentate come alleanze economiche e commerciali, domani come alleanze politiche e militari. Quando Lenin affermava che la guerra imperialista era inevitabile non era l’affermazione di un chiromante o l’espressione di una temuta punizione divina per i peccati dell’uomo; era la conclusione dell’esame scientifico del corso di sviluppo del capitalismo nella sua fase imperialista, una conclusione che affondava le sue basi scientifiche nella teoria marxista. D’altra parte, era stato già von Clausewitz, stratega militare, ad affermare che la guerra non era che la continuazione della politica estera degli Stati fatta con altri mezzi, cioè con mezzi militari. Lo stesso sviluppo del capitalismo porta inevitabilmente alla guerra guerreggiata, e più il capitalismo si sviluppa internazionalmente, più la guerra assume dimensioni mondiali.

Non si può essere contro la guerra imperialista se non si è contro il potere della borghesia dominante. La storia dell'imperialismo ha dimostrato che la borghesia, per vicissitudini legate ai rapporti internazionali passati e presenti, non può prendere, senza danni immediati o futuri, la scappatoia della posizione neutrale. Sarebbe come dire che la borghesia di un determinato paese si possa autoescludere dal mercato mondiale per non subire pressioni, influenze e crisi che normalmente nel mercato mondiale si verificano. Lo sviluppo imperialistico del capitalismo è tale che anche il più lontano lembo di terra, di mare o di cielo esistente non possa sfuggire all’interesse, alla pressione, al coinvolgimento delle potenze imperialistiche. E se di “neutralità” in tempo di guerra si può ancora parlare, nel senso che determinati paesi non partecipino attivamente alle operazioni di guerra, è solo perché alle potenze imperialiste coinvolte nel conflitto bellico interessa che quei determinati paesi fungano da “terra di nessuno”, da luoghi in cui sia possibile continuare a commerciare, trafficare, spostare capitali, trattare e imbastire accordi vantaggiosi per il dopoguerra o trattare il cambio di alleanza nel corso stesso della guerra.

Questo significa, però, che i proletariati di tutti i paesi sono direttamente o indirettamente coinvolti nella guerra imperialista, sia come lavoratori salariati che subiscono una militarizzazione sociale per esigenze di guerra, sia come carne da macello inviata al fronte, o sottoposta a bombardamenti e occupazioni militari da parte dei “nemici” o degli “alleati” come è successo durante la seconda guerra imperialista mondiale.

Il proletariato, proprio per le condizioni di vita e di lavoro che lo distinguono da ogni altra classe sociale, come non ha la “libertà” di scegliere se partecipare o meno alla guerra, così non ha la libertà di scegliere se essere coinvolto o neutrale rispetto alla guerra. La sua vita è in mano alla classe dominante borghese in tempo di pace come in tempo di guerra. Per togliersi da questa situazione non ha alternative: o subisce, le conseguenze della guerra secondo le esigenze della propria borghesia, o si rivolta e scende sul terreno della lotta di classe. Certo la sua “neutralità” può assumere la forma della diserzione, come tante volte è avvenuto, ma la diserzione non ferma la guerra e non cambia il suo corso. Quel che può fermare la guerra e cambiare davvero il corso storico che ha portato alla guerra è la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria (come è successo in Russia nel 1917), nella quale il proletariato da schiavo del capitale diventa protagonista della propria emancipazione.

Lo scenario odierno, nonostante la guerra in Ucraina abbia assunto le caratteristiche della guerra in cui sono coinvolte, direttamente o meno, le maggiori potenze del mondo, non è l'inizio della terza guerra mondiale, ne svela però alcuni aspetti che sono destinati a ripresentarsi in dimensioni ingigantite un domani. Uno di questi aspetti è di carattere ideologico-politico: democrazia contro totalitarismo, i valori della civiltà democratica contro quelli della barbarie totalitaria. L’Ucraina, oggi, risulta essere il nervo scoperto del contrasto pluridecennale tra Occidente e Oriente, come un tempo la Polonia, con la Russia come avamposto di un Oriente, egualmente capitalista e imperialista, e sempre più in contrasto con l’Occidente sul mercato internazionale del quale le potenze imperialistiche tentano una nuova spartizione, oggi più di ieri non solo col commercio ma anche con le armi. Un altro aspetto è quello della ovvia militarizzazione dei paesi coinvolti direttamente nella guerra, col proletariato obbligato a lavorare e combattere in sostegno della guerra e con una enorme parte della popolazione costretta a fuggire in altri paesi per scampare ai bombardamenti, alla fame e alla miseria; è quel che succede da qualche decennio alle popolazioni dell’Africa, del Medio Oriente, dell’Oriente o dell’America Latina, e che oggi sta succedendo ad una popolazione europea.

I contrasti tra le potenze imperialistiche si stanno sempre più concentrando nelle metropoli imperialistiche ed è qui, nei paesi capitalistici avanzati, che si concentra la forza economica e finanziaria mondiale così come il proletariato industriale. Questo proletariato industriale rappresenta il tallone d’Achille della borghesia. E’ il proletariato che nel corso della sua storia ha mostrato al mondo qual è la via dell’emancipazione dalla schiavitù salariale, la via della rivoluzione proletaria e comunista, la via dell’assalto al cielo. E’ il proletariato che oggettivamente e storicamente ha in mano la sorte della rivoluzione di classe; lo ha dimostrato negli anni della prima guerra imperialista mondiale e immediatamente successivi, ma la vittoria del 1917 a Pietroburgo non è stata seguita dalla vittoria a Berlino, vittoria che avrebbe aperto la rivoluzione in tutta Europa e, quindi, nel mondo. Il capitalismo ha proseguito la sua incessante e tortuosa marcia di sviluppo accumulando contraddizioni e crisi sempre più devastanti, tali da rimettere sul palcoscenico dei contrasti interimperialistici il grande dilemma: guerra o rivoluzione.

Oggi questo dilemma appare come un dilemma ideologico, appartenente alle elucubrazioni degli intellettuali e degli esperti di politica internazionale. E la risposta preventiva che i borghesi danno è egualmente ideologica: il contrasto sarebbe tra la democrazia e il totalitarismo, tra due metodi di governo differenti; differenti, sì, ma riconducibili alla conservazione del capitalismo come struttura economica e sociale e al potere borghese, come potere della classe dominante.

Questa “guerra” ideologica, che oggi in Ucraina si è trasformata in guerra guerreggiata, non ha solo lo scopo di giungere a stabilire quale dei due avversari imperialisti avrà la meglio nello spartirsi anche quel territorio economico, di influenza e di controllo, ma anche quello di rafforzare la vasta campagna a sostegno della democrazia e delle sue istituzioni attraverso la quale preparare il proletariato dei paesi democratici a sopportare il peso e i sacrifici – oggi soprattutto economici – di un contrasto che è destinato a svilupparsi in contrasto militare, dunque nella guerra.

Finché le grandi masse proletarie non scenderanno decisamente sul terreno della lotta di classe, la democrazia col suo elezionismo e il suo parlamentarismo continuerà a rappresentare per la borghesia il miglior metodo di gestione del suo potere politico, in tempi di espansione economica, come in tempi di crisi. E’ il suo effetto paralizzante, deviatorio, allucinogeno che interessa alla classe dominante borghese. Essa sa perfettamente che la democrazia è come una droga, e la usa a piene mani perché, fino a quando il proletariato dipenderà da questa droga, non riuscirà mai a trasformarsi in quella potente forza sociale che ha dimostrato storicamente di essere.

Il proletariato, domani, non potrà opporsi con forza alla politica di guerra se nel periodo precedente non sarà sceso sul terreno della lotta di difesa esclusiva dei suoi interessi di classe. Questo è un salto di qualità che il proletariato dovrà fare se non vuole piegarsi a diventare semplicemente carne da macello. Ma è un salto di qualità che si basa sul disfattismo economico che il proletariato può mettere in campo tutte le volte che rompe il patto di collaborazione di classe col padronato e col governo borghese, tutte le volte che mette al primo posto nelle sue rivendicazioni gli obiettivi immediati che lo interessano esclusivamente in quanto forza lavoro salariata.

E’ su questo disfattismo economico, e quindi anche sociale, che si fonda il disfattismo rivoluzionario di fronte alla guerra imperialista; è col disfattismo economico e sociale che il proletariato rafforza se stesso come classe indipendente, che si organizza al di fuori e contro le compatibilità con gli interessi dell’economia capitalistica, e che accumula esperienza di lotta nei suoi inevitabili scontri con le forze di difesa dell’ordine costituito, che vanno dalla polizia e dall’esercito alle forze sindacali e politiche del collaborazionismo di classe.

Solo imboccando questa strada il proletariato non verrà travolto per l’ennesima volta dalla guerra imperialista.

 


 

(1) Cfr. Abbasso la repubblica borghese, abbasso la sua costituzione, "Prometeo",  n. 6, marzo-aprile 1947.

(2) Ibidem.

(3) Cfr. Il principio democratico, di A. Bordiga, "Rassegna Comunista", anno II, n. 18, 28 febbraio 1922. In "Partito e classe", i testi del partito comunista internazionale n. 4, Milano 1972, p. 57.

(4) Cfr. Prefazione all'edizione tedesca del 1883 al Manifesto del partito comunista, di Marx-Engels.

(5) Ibidem.

(6) Cfr. Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe, "Prometeo", in sei puntate (1946-1948), poi nel volumetto "Partito e classe", cit. (7) Cfr. Manifesto del partito comunista, qualsiasi edizione, parte finale del capitolo "Borghesi e proletari".

 

 

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