Nella continuità del lavoro collettivo di partito guidato dalla bussola marxista nella preparazione del partito comunista rivoluzionario di domani

(Rapporti alla riunione generale di Milano del 14-15 maggio 2022)

(«il comunista»; N° 175 ; Dicembre 2022)

Ritorne indice

 

 

Breve storia del Partito comunista internazionale

 

La crisi "fiorentina" del 1971-1973 (2)

 

Risalendo alla polemica intercorsa tra il Centro, l’USC e la redazione del Sindacato Rosso, sorta nel 1971 e 1972, emerge con più chiarezza che il nodo più profondo della questione, in verità, era la concezione del partito.

Nel Rapporto politico-organizzativo tenuto alla RG di partito del novembre 1974, dopo aver richiamato il contenuto delle Tesi del 1972 su “Marxismo e questione sindacale” (8), si ammise che il partito reagì e iniziò molto lentamente a correggere le sue posizioni in campo sindacale. Mentre, la circolare del Centro del 15 aprile 1971, riferita alla RG che si era tenuta nello stesso mese a Torino, metteva in chiaro che nel “lavoro sindacale”, la nostra azione «è oggi condannata ad essere sporadica, che le sue possibilità di incidere sulla realtà sociale sono minime, e che di nessun successo ottenuto localmente e contingentemente è lecito aspettarsi che sia duraturo», ma che questa situazione generale oggettivamente sfavorevole alla lotta di classe e alla sua rinascita non giustificava la rinunzia da parte del partito «a perseverare nello sforzo di fare dei nostri gruppi sindacali e di fabbrica, dovunque esistano o possano costituirsi, un centro di irradiazione delle nostre direttive e delle nostre parole d’ordine organicamente collegate agli obiettivi e interessi finali del movimento proletario, il punto di forza della nostra lotta in difesa non tanto di una forma definita da una particolare etichetta (CGIL, CGT ecc.) – e del resto svuotata di ogni contenuto anche vagamente classista dagli effetti rovinosi della “terza ondata opportunistica” – quanto del principio dell’associazionismo operaio e della sua vitale importanza ai fini delle grandi battaglie politiche e sociali del futuro, e la “lunga mano” del Partito nelle lotte rivendicative e nelle organizzazioni economiche che ancora consentono un’ultima e virtuale possibilità di azione e agitazione da parte di una corrente comunista rivoluzionaria, per scavare con tenacia il solco sul quale è nostra incrollabile certezza che il proletariato in risveglio sarà deterministicamente spinto a muoversi e ad agire».

Ora, alle critiche mosse dal Centro alle posizioni errate sostenute dai compagni di Firenze che le giustificavano dicendo che, se fossero state effettivamente sbagliate, questi errori era normale che ci fossero perché il partito non è perfetto, quei compagni risposero con alcune lettere dalle quali il Rapporto del 1974 sopra richiamato evidenziò una serie di citazioni da cui si evince non solo e non tanto l’errore di valutazione “tattica” quanto una concezione del partito del tutto sbagliata e che definimmo del “partito invertebrato”, citazioni che brevemente riportiamo qui di seguito.

I compagni, nel cercare di giustificarsi, proclamarono:

1) che «gli errori anche gravi, sono inevitabili perché il Partito opera a contatto con la realtà» [e come altrimenti potrebbe operare?];

2) che «sarebbe sbagliato credere di potervi rimediare attraverso una perfetta acquisizione culturale dei nostri principi teorici programmatici» [acquisizione culturale???];

3) che «la migliore organizzazione e il miglior funzionamento del lavoro collettivo potranno ridurre, se non annullare, la possibilità di errori» [ma da dove derivano questa migliore organizzazione e questo migliore funzionamento, se non da una coerente assimilazione teorico-politica delle posizioni del partito?];

4) che, d’altra parte «le posizioni prese da un organo ufficiale del Partito, per quanto erronee possano giudicarsi, sono posizioni del Partito e come tali vanno considerate»; e «la linea del Partito (in quanto definita da un organo centrale), sia pure imperfetta, costituisce organicamente il grado più alto di assimilazione dei principi da parte dell’insieme [?] del Partito» [dunque il Centro non sbaglia mai?];

5) che «dei compagni possono non capire il senso di una posizione assunta ufficialmente e mostrarsi perplessi; il partito non si è mai preoccupato di cose simili, essendo perfettamente normale che compagni isolatamente presi non capiscano una posizione del Partito e tuttavia la accettino, ecc. ecc.» [è più importante la posizione assunta “ufficialmente” della posizione coerente con l’impostazione teorico-politica del partito?].

 

Da queste poche frasi emerge una concezione del partito del tutto assurda. Si parte dando per scontato che il Partito sbagli, che sbaglierà sempre e non ha alcuna possibilità di evitare gli errori che ha già fatto, ad esempio a causa dell’impazienza attivistica... La giustificazione dell’errore sorge automaticamente dal fatto che il Partito... agisce nella realtà. Un partito che non agisca nella realtà lo si trova solo nella fantasia... Il problema reale è che agendo nella realtà, che è la realtà del capitalismo e del dominio sociale della classe borghese, il Partito è esposto all’influenza della classe avversa, soprattutto in situazione storica particolarmente sfavorevole; e se si è qualitativamente e quantitativamente deboli e – a causa dell’assenza delle lotte proletarie classiste e di organizzazioni sindacali classiste – slegati dalla vita quotidiana della classe proletaria, l’esposizione all’influenza della classe nemica è ancor meno protetta. Dato che non esiste una realtà in cui la classe dominante non eserciti tutto il suo potere per influenzare l’intera società e, in particolare, la classe proletaria, le sue organizzazioni di difesa economica e i suoi partiti, è compito del Partito di classe lottare contro l’influenza della borghesia e della piccola borghesia. Nella situazione del tutto sfavorevole alla lotta di classe il Partito deve battersi soprattutto in difesa dei principi e del programma rivoluzionario – e quindi della teoria marxista – perché deve assicurare la loro migliore assimilazione da parte di tutti i militanti del Partito o almeno della loro maggioranza (altro che “non preoccuparsene”!!!). E se in quel dato periodo non è “l’insieme del Partito” – inteso nella sua composizione e struttura generale – a provvedere a quell’assimilazione, ben venga una sua parte o addirittura un singolo compagno (gli esempi di Lenin e di Bordiga bastano?).

Lottare contro l’influenza della borghesia non ha nulla di “culturale”, ma fa parte della preparazione politica del Partito. Senza questa lotta non esiste “lavoro collettivo” di partito, tantomeno un buon funzionamento del lavoro collettivo. Questo non vuole dire che non si debba avere l’obiettivo di una “migliore organizzazione”, ma la migliore organizzazione è quella che corrisponde ai compiti che il Partito si assume ed è coerente con i principi e il programma rivoluzionario del Partito. E’ questa migliore organizzazione – ossia qualitativamente migliore dal punto di vista teorico e politico – che rafforza la capacità del partito di lottare contro le influenze esterne da parte delle classi nemiche, e di difendere meglio la sua continuità politica e organizzativa, quindi di funzionare meglio.

La linea di Partito, ossia la linea politica e tattica del partito, non è tale perché viene definita da un organo ufficiale e centrale. Fa parte, insieme alla teoria, ai principi, al programma, alla tattica e ai criteri organizzativi, delle basi su cui il partito di costituisce e si struttura. Se fosse giusta la posizione dei “fiorentini” circa la linea politica definita da un organo centrale, tutta la battaglia condotta dalla Sinistra comunista d’Italia contro le tattiche sbagliate del Comitato Esecutivo dell’I.C. – organo centrale per eccellenza dell’organizzazione comunista mondiale – e, poi, contro lo stalinismo, non avrebbe avuto alcun senso, e non avrebbe senso rivendicarla oggi.

In realtà, le posizioni avanzate allora dalla maggioranza dei compagni di Firenze, oltre a idealizzare un partito invertebrato, un “partito-gelatina”, corrispondevano a un elogio dell’incoscienza, della prigrizia mentale, di un partito concepito non come una selezione e una integrazione di forze e capacità diverse, ma come un “insieme” di elementi gelatinosi che per definizione formano un’entità unitaria che possiede il potere di superare gli errori o le deviazioni grazie ad un automatismo organico simile all’espulsione degli “escrementi” provocata da un processo fisiologico. Si negano, così, sia la verifica delle posizioni prese e delle azioni fatte rispetto all’impianto generale della politica del partito e delle sue indicazioni tattiche, sia la necessità della lotta politica, a volte drammatica, all’interno del partito nelle situazioni in cui esso subisce, direttamente o attraverso le tendenze opportuniste, un attacco da parte borghese.

Nella maggioranza dei casi, in un organismo politico che si forma su solide basi teoriche e programmatiche come è stato il nostro partito di ieri, le deviazioni, gli errori, si presentano soprattutto nel campo della tattica e dell’organizzazione, nei campi in cui il partito applica la sua azione, al suo interno come al suo esterno. Ma, come sappiamo, la tattica e i criteri organizzativi che il partito di classe applica nella sua attività, discendono dal programma che lo caratterizza e, quindi, dai principi e dalla dottrina di cui il programma politico è la sintesi vincolante. Perciò ogni errore, ogni deviazione nel campo dell’azione e in quello dell’organizzazione fa capo, inevitabilmente, a un errore teorico. La stessa valutazione della situazione, dei rapporti di forza sociali e dello stesso Partito è questione teorica prima ancora di essere questione politica.

Il partito comunista rivoluzionario si distingue da ogni altro partito attraverso il lavoro collettivo di assimilazione della teoria marxista; è grazie a questo lavoro che il partito formale può aspirare ad essere, quando la situazione generale è favorevole alla rivoluzione proletaria, un tutt’uno con il partito storico, ad essere cioè la reale guida della lotta rivoluzionaria della classe proletaria a livello mondiale.

Indiscutibilmente il comportamento tattico è decisivo nell’attività del partito. E’ la buona tattica che fa il buon partito, non viceversa. Quel gruppo di compagni di Firenze dell’epoca sosteneva invece la posizione rovesciata: sostenevano che fosse il partito, buono per definizione, ad applicare la miglior tattica possibile che la “realtà” richiedeva, cadendo in questo modo non solo in una visione idealistica del partito, ma in una oscillazione continua tra l’attivismo contingentista e la declamazione verbale di precetti teorici e di tesi come fossero tesi e precetti religiosi per i quali i compagni non erano obbligati a capirne i concetti, i principi, il contenuto politico e di esperienza storica consolidata dai bilanci dei grandi svolti della storia, ma dovevano limitarsi alla ripetizione verbale delle loro parole, fidandosi del fatto che un “centro”, un “organo ufficiale” avrebbbe espresso di volta in volta la “migliore” politica, la “migliore” tattica, le “migliori” decisioni pratiche ch’era possibile assumere. Giunsero addirittura a sostenere che ogni compagno, nella sua qualità di militante del partito, rappresentava il partito e perciò era il partito; dunque, nella sua attività esterna, quel che diceva, le decisioni che prendeva, erano le parole e le decisioni che avrebbe detto e preso “il partito”, ossia  quell’informe “insieme” che costituiva, secondo loro, “il partito”. Dall’organizzazione centralista organica si cadeva così nella burocratizzazione e da “l’individuo non conta nulla” a “l’individuo-militante è tutto”.

Quel gruppo di compagni di Firenze aveva di fatto cancellato ciò che le Tesi caratteristiche del partito (1951) affermavano, come ad esempio (Parte II, punto 5): «La questione della coscienza individuale non è la base della formazione del partito: non solo ciascun proletario non può essere cosciente e tanto meno culturalmente padrone della dottrina di classe, ma nemmeno ciascun militante preso a sé, e tale garanzia non è data nemmeno dai capi. Essa consiste solo nella organica unità del partito» (corsivo nostro).

Ogni crisi che ha attraversato il partito non può essere spiegata se non mettendone i fattori in relazione alla situazione oggettiva in cui opera il partito, al suo grado di assimilazione teorica e alle aspettative che il partito ha rispetto alla sua attività. La lunga polemica con le posizioni che assumerà infine il gruppo di compagni che si organizzarono nel 1951-52 intorno a Damen metteva in evidenza come fosse proprio la mancata assimilazione della teoria marxista a spingere i compagni nelle braccia di posizioni opportuniste e, infine, dell’attivismo. Come abbiamo più volte ribadito, il periodo storico in cui si è svolta l’opera di restaurazione della dottrina marxista da parte dei comunisti che facevano riferimento alla Sinistra comunista d’Italia è stato del tutto diverso, ed estremamente sfavorevole alla lotta classista e rivoluzionaria del proletariato. Paragonato al periodo storico in cui Lenin svolse la stessa opera restauratrice, il secondo dopoguerra è stato particolarmente difficoltoso, poiché la controrivoluzione borghese prese le sembianze della continuità rivoluzionaria del bolscevismo mentre la stava stravolgendo completamente; una controrivoluzione che, eliminando fisicamente la vecchia guardia bolscevica, falsificò la dottrina marxista in modo estremamente brutale ma più “raffinato” di quanto non fecero i Bernstein e i Kautsky.

La fine della seconda guerra imperialista non era per nulla simile al periodo in cui terminò la prima guerra imperialista. Credere che esistesse una tale similitudine è stato l’errore di base del gruppo di Damen; errore che amplificò le sue conseguenze negative supponendo che il problema all’ordine del giorno non fosse solo la preparazione rivoluzionaria del proletariato, ma anche quello di un partito che doveva organizzarsi rapidamente per mettersi alla testa del movimento rivoluzionario, aumentando il più possibile la sua attività di intervento nelle file proletarie. In verità non si trattò soltanto di impazienza rivoluzionaria, si trattò di concepire la rivoluzione proletaria come una questione di organizzazione, buttando a mare in questo modo quel che aveva distinto sia il bolscevismo di Lenin sia la Sinistra comunista d’Italia, cioè la tesi per la quale la rivoluzione non è una questione di organizzazione.

 

Il partito non è immune all'attacco delle tendenze opportuniste

 

Un punto di differenza non secondario tra il periodo in cui maturò la scissione con il gruppo di Damen e il periodo in cui maturò la crisi “fiorentina” sta nel fatto che dal 1945 in poi, per almeno 12 anni, il lavoro collettivo di partito si era concentrato in particolare nella restaurazione della dottrina marxista e nel bilancio della rivoluzione d’Ottobre e della controrivoluzione staliniana. Non stiamo dicendo che il partito svolgeva quest’attività in una “torre d’avorio”, lontano dalla realtà fisica della lotta quotidiana del proletariato; non stiamo dicendo che per la ricostituzione del partito comunista rivoluzionario ci deve essere una fase interamente dedicata alla “teoria” e una fase successiva interamente dedicata alla “prassi”, come se le due fasi coincidessero con una situazione del tutto sfavorevole che di colpo si trasforma in una situazione del tutto favorevole alla lotta rivoluzionaria. Anzi, ribadiamo che il partito ha sempre svolto la sua attività di carattere teorico cercando il contatto con la classe operaia, con i problemi della sua vita quotidiana e delle sue organizzazioni di difesa immediata. E questo cercare il contatto con la classe operaia non era un atto di volontà che il partito poteva avere o non avere, a seconda del numero di militanti operai che lavoravano nelle fabbriche; era, ed è, un’indicazione programmatica che va al di là del numero di militanti operai integrati nel partito.

Resta il fatto che nel corso di quegli anni, dalla stesura della Piattaforma politica del partito del 1945 per la sua ricostituzione allo svolgimento di tutte le questioni teoriche più importanti che si rintracciano nelle Tesi della Sinistra, nello studio della Struttura economica e sociale della Russia e nei Rapporti alle Riunioni Generali (democrazia, fascismo, opportunismo, tesi del socialismo in un solo paese e lezioni delle controrivoluzioni, economia capitalistica ed economia marxista, partito e classe, partito e sindacati, Stato, dittatura proletaria, questione nazionale e coloniale ecc.), il partito era teso ad imporsi una prassi che fosse organicamente coerente con i dettami teorici e programmatici, sia nell’attività interna di partito che nella sua attività esterna.

La persistenza della profondità controrivoluzionaria e dell’assenza della lotta classista del proletariato, marcando una presa ancora molto forte dell’opportunismo sulle masse proletarie e anche sui loro strati più combattivi e d’avanguardia, generava nel partito tendenze contrastanti; da un lato, una sorta di attendismo e di teoricismo (dedicarsi alla propaganda dei grandi principi e delle tesi di partito in attesa di tempi migliori), dall’altro, una sorta di attivismo (date le conseguenze della crisi economica sulle condizioni operaie, tendere ad aumentare l’intervento nei sindacati e nella società così da aumentare la notorietà del partito presso la classe operaia e facilitare l’opera di proselitismo per rafforzare quantitativamente il partito), che, nel suo persistere, sfociava inevitabilmente in movimentismo e contingentismo, soprattutto sull’onda dei movimenti studenteschi che iniziarono in America nel 1964 e si diffusero in Europa nel 1967 e 1968.

Come spesso succede, quando si avvicinano periodi di crisi economica, la piccola borghesia entra in agitazione perché teme di perdere i suoi privilegi sociali; spesso sono gli studenti e gli intellettuali che “prendono l’iniziativa” e cercano di trascinare dietro di sé le masse operaie come forza d’urto contro i governi esistenti al fine di ottenere la protezione dei propri privilegi. Ma la crisi economica stava attaccando seriamente anche le condizioni di vita operaie. E i proletari ricominciarono a scendere in lotta cercando anche di organizzarsi al di fuori delle organizzazioni sindacali ufficiali che dimostravano sempre più di essere non gli stimolatori della lotta, ma i suoi pompieri se non i sabotatori.

Il periodo in cui tutto ciò avveniva era segnato da reali movimenti di sciopero e mobilitazioni operaie. Le loro condizioni di lavoro e di vita tendevano a peggiorare a causa delle conseguenze degli attacchi che la classe padronale conduceva contro le masse proletarie nel tentativo di prepararle a sacrifici ben più pesanti in vista della crisi economica che si annunciava grave e di dimensioni internazionali. Non era stato soltanto il nostro partito a prevedere la crisi capitalistica a livello mondiale intorno al 1975; anche gli istituti borghesi che si dedicavano alle previsioni della situazione economica sul lungo periodo avevano previsto che intorno al 1975 sarebbe esplosa una crisi a livello mondiale. Il nostro partito lo previde nel 1955, vent’anni prima della fatidica data; gli istituti borghesi lo fecero una decina d’anni dopo, ma la fatidica data corrispondeva. Come si ricorderà, la crisi del 1975 fu anticipata dalla crisi petrolifera del 1973; dunque, le borghesie imperialiste, soprattutto occidentali, non potevano non prepararsi a un evento critico di queste dimensioni, soprattutto rispetto alle masse proletarie di cui temevano le reazioni perché sapevano di doverle schiacciare ancor più duramente.

Eravamo ancora in una fase in cui il condominio russo-americano sul mondo funzionava, e la Russia, grazie al dominio sui paesi satelliti dell’Est Europa, sebbene le relazioni commerciali e finanziarie con l’Occidente progredissero sempre più, riusciva in una certa misura a mantenere ancora la propria economia lontana dalle immediate scosse telluriche delle crisi di cui soffriva l’Occidente. Anzi, in un certo senso, il cosiddetto “campo socialista” imposto nei paesi dell’Est Europa dalla Russia, finita la seconda guerra imperialista, poteva funzionare, anche se solo in parte, come camera di compensazione per le merci e i capitali che sovrabbondavano in Europa occidentale, e in Germania in particolare (9). Insieme ai commerci si sviluppavano anche le contraddizioni tipiche del capitalismo, che si concretizzavano poi in contrasti sempre più forti tra imperialismi; contrasti che sollecitavano ogni borghesia imperialista non solo a favorire sempre maggiormente e sempre più rapidamente la concentrazione e la centralizzazione capitalistica, ma anche a diventare sempre più aggressiva nei confronti dei concorrenti sul mercato internazionale e a premere sempre di più sulle condizioni di vita e di lavoro proletarie per garantirsi i margini di profitto perseguiti in una situazione in cui la crisi di sovraproduzione tendeva a ridurli.

La politica degli ammortizzatori sociali, ereditata dal fascismo e praticata in tutti i paesi capitalisti avanzati, si andava così, in parte, rafforzando – per legare maggiormente al potere borghese gli strati superiori del proletariato – e, in parte, riducendo, facendo precipitare la grande massa dei proletari in condizioni di reale povertà. Se in Occidente l’attacco alle condizioni proletarie di vita e di lavoro avveniva in questo modo contraddittorio, nella zona di influenza russa l’attacco avveniva molto più direttamente attraverso l’occupazione militare, quando i proletari si ribellavano come successe a Berlino nel 1953, poi a Poznañ e a Budapest nel 1956, a Praga nel 1968 e, per mano di Jaruzelski, a Danzica nel 1980-81.

A differenza degli Stati Uniti d’America, la Russia non era sufficientemente industrializzata per sopperire ai bisogni di capitali e di prodotti tecnologicamente avanzati per le industrie soprattutto della Germania Est, della Cecoslovacchia, della Polonia, dell’Ungheria, alle quali era in grado di fornire quasi solo materie prime; questi paesi dovevano invece pagare le spese dell’occupazione militare da parte dell’esercito russo e fornire capitali e prodotti finiti allo Stato imperialista russo che li aveva trasformati in proprie colonie. Ma il capitalismo si sviluppa con leggi sue proprie che non si piegano ai voleri del tale o tal altro governo e quando un qualunque paese avanzato entra in crisi, questa si ripercuote non solo negli altri paesi avanzati, ma, in modo più dirompente nei paesi meno industrializzati e, quindi, capitalisticamente arretrati. Sono infatti le crisi capitalistiche che hanno eroso le protezioni politico-militari con cui l’esercito russo mantenva il suo ordine in Russia e in tutti i paesi dominati. E se, da un lato, il capitalismo russo e i capitalismi tedesco-orientale, cecoslovacco, polacco o ungherese hanno beneficiato dell’espansione economica conosciuta nei paesi occidentali, dall’altro hanno subito le conseguenze negative delle crisi in cui ciclicamente i paesi occidentali precipitavano. Conseguenze che, come avviene sistematicamente nella società borghese, si riversano con maggiore brutalità sulle masse proletarie e contadine povere. Le rivolte e i movimenti di sciopero di Berlino, Poznañ, Budapest, Praga, Danzica non poggiavano sulla richiesta di democrazia, ma su rivendicazioni molto più pressanti e materiali: pane, carne, beni di prima necessità! La democrazia è stata la pittura con cui sono state verniciate le richieste basilari della grandi masse; è stata la grande bandiera che la grande e la piccola borghesia hanno sventolato sotto ogni cielo, che gli occupanti fossero russi o americani.

Se nella zona di influenza russa le contraddizioni si accumulavano prepotentemente, fino a scoppiare nel 1989-91 mandando all’aria l’impero di Mosca, nella zona di influenza americana, e in particolare nell’Europa occidentale, le cose non andavano molto meglio. Le relazioni tra la Comunità Economica Europea e Washington, sottoposte alla “dittatura” del dollaro fin dalla seconda guerra imperialista mondiale, venivano messe in discussione oggettivamente dalle stesse leggi del capitalismo: lo sviluppo industriale postbellico dei paesi europei sovvenzionato – sebbene sotto dominio economico e militare – dagli Stati Uniti d’America, nella Germania soprattutto, ma anche nel Giappone, cominciava a dettare le sue esigenze commerciali sui mercati mondiali. Germania e Giappone stavano diventando potenze industriali pericolosamente concorrenti; anche se in entrambi i paesi era vietato il riarmo, nei fatti ambedue erano indotti a indirizzare la propria potenza industriale e finanziaria quasi interamente sullo sviluppo tecnico della propria struttura industriale, grazie alla quale, nel giro di poco più di vent’anni, divennero pericolosi concorrenti degli USA, del Regno Unito, della Francia, per non parlare della Russia, cioè degli imperialismi che avevano vinto la seconda guerra imperialista mondiale e che si erano spartiti il mondo secondo i rapporti di forza esistenti tra loro.

La grande crisi mondiale del 1975 aveva posto le basi per una nuova spartizione imperialistica mondiale. Non portò alla guerra imperialistica mondiale come successe con la crisi del 1929, ma le guerre che gli imperialisti stavano conducendo da tempo nelle proprie colonie, in buona parte perdendole, continuarono a farle, lontano dalle metropoli, in Asia, nel Medio Oriente, in Africa, in America Latina.

Il mondo borghese stava presentando un cumulo di contrasti interimperialistici sempre più difficilmente negoziabili e che facevano intravvedere un futuro di scontri militari non più limitati ai paesi della periferia dell’imperialismo, ma convergenti verso un probabile scontro diretto tra blocchi imperialisti avversari: la “guerra fredda” tra il blocco capitanato dalla Russia e il blocco occidentale capitanato dagli Stati Uniti d’America avrebbe potuto trasformarsi, se non subito, nel giro di cinque-dieci anni, in “guerra calda”, in guerra guerreggiata. Il 1975, con la crisi simultanea in tutti i maggiori paesi capitalisti occidentali, segnava il punto più critico di questi contrasti. Ma lo scontro militare diretto tra blocchi imperialisti non ci fu perché i fattori di guerra guerreggiata mondiale non erano ancora maturi. La Russia e tutta la parte di mondo che ruotava intorno ad essa o con cui aveva relazioni privilegiate, non costituiva, pur essendo una forza nucleare minacciosa e certamente antagonista dell’America, il fulcro principale di un blocco di guerra anti-occidentale. Piuttosto, le maggiori preoccupazioni economico-finanziarie per Washington, Londra, Parigi venivano dalla Germania e dal Giappone, non tanto dalla Russia.

Il partito non solo aveva previsto, vent’anni prima, la crisi economica mondiale nel 1975, ma si attendeva anche una crisi sociale e rivoluzionaria e per questo “appuntamento storico” si stava preparando, sapendo in realtà di non essere ancora il partito compatto e potente all’altezza del compito, e sapendo anche che la crisi economica e sociale sarebbe certamente scoppiata, ma non era scontato che sarebbe avvenuta la ripresa della lotta di classe, ampia e duratura, che avrebbe ridato ossigeno sia alla lotta rivoluzionaria del proletariato, sia allo stesso partito comunista internazionale.

I compagni, impazienti, sentivano montare la pressione sociale e trasformarono questo loro stato di agitazione in un attivismo a tutto campo, soprattutto in ambito sindacale, convinti (giustamente) che, senza un proletariato organizzato e temprato sul terreno della lotta immediata, il partito rivoluzionario non ha la possibilità di influenzarlo e guidarlo sul terreno della lotta di classe, della lotta rivoluzionaria. Nacque, quindi, la tesi del ritardo che il partito avrebbe accumulato nel tempo, sia dal punto di vista della sua organizzazione interna, sia dal punto di vista della sua azione politica verso il proletariato, un’azione che non si limitasse alla propaganda dei grandi principi e dei grandi obiettivi rivoluzionari, ma che fosse più diretta a incidere sulla realtà attuale, sulle situazioni locali e nazionali, che fosse in grado di strappare gruppi e masse di proletari all’influenza dell’opportunismo sindacale e politico spostandoli sotto l’influenza del partito. Il ritardo veniva concepito come un fatto di mancanza di volontà e di organizzazione. Indubbiamente il partito era in ritardo, ma non tanto e non solo sul piano organizzativo come pensavano i compagni impazienti, ma soprattutto sul piano dell’assimilazione teorica. E questo ritardo il partito lo ha pagato sia con la scissione “fiorentina” del 1969-1971, sia con le scissioni “locali” successive, “savonese”, “milanese”, “cividalese”, “bolognese”, “torinese-eporediese”, “madrilena”, “arabo-algerina”, “scledense”, fino all’éclatement del 1982-84.

 

Lo sviluppo del partito in alcuni paesi europei

 

Dall’ottobre 1957 al settembre 1963 si forma, intorno a vecchi compagni del PCd’I riparati in Francia durante il fascismo, un gruppo di compagni che si legano sempre più alle tesi della Sinistra comunista d’Italia e del Partito comunista internazionalista (è dal 1965 che il partito prende il nome di “partito comunista internazionale”). Nella Presentazione della rivista teorica del partito Programme communiste (vedi il sito www.pcint.org) mettevamo in luce quanto segue:

«Come anticipato a proposito della rivista “Travail de groupe” (uscirono 5 numeri di questo Bollettino interno dal 1956 al 1957), un piccolo gruppo di giovani rivoluzionari, avvicinatisi alle posizioni della Sinistra comunista d’Italia grazie ai contatti con i vecchi compagni italiani emigrati in Francia e in Belgio, iniziò un lavoro di approfondimento e di assimilazione teorica e politica del marxismo sotto la lente fornita dal bilancio della controrivoluzione staliniana prodotto dal nostro partito a partire dalla fine della seconda guerra imperialistica, e proseguito durante e dopo la crisi che provocò, nel 1952, la scissione del movimento in due tronconi. Il partito – partito comunista internazionalista – rivendicava totalmente la continuità programmatica, politica e tattica del Partito comunista d’Italia dalla sua fondazione alle Tesi della sinistra presentate al congresso di Lione del 1926, ma in conseguenza dello sfacelo prodotto nel movimento comunista internazionale dalla vittoria dello stalinismo e della teoria del “socialismo in un solo paese”, il lavoro di ripresa salda e intransigente delle linee teoriche e politiche del marxismo doveva necessariamente attraversare un periodo di decantazione e di selezione. L’enorme peso che l’influenza delle diverse correnti opportuniste e revisioniste aveva sul proletariato, ingigantito da una rinnovata fiducia nei principi e nei metodi della democrazia borghese, non aveva soltanto attirato il proletariato sul fronte antifascista democratico, ma aveva confuso e disorientato anche rivoluzionari di provata fede marxista come, uno per tutti, Trotsky, pur nella sua tenace resistenza allo stalinismo». (...)

E prosegue affermando che: 

«Il partito, come scritto nel “Distingue il nostro partito” – una manchette che, insieme alla nuova testata “il programma comunista/organo del partito comunista internazionalista”, costituirà da allora l’identità politica del partito – continuò la sua “dura opera di restauro della dottrina marxista e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco”. 

«E’ grazie a questo lavoro, insieme di restaurazione dottrinale del marxismo e di rioganizzazione formale del partito di classe, che un gruppo di comunisti rivoluzionari in Francia prese contatto con noi e iniziò, traducendo in francese i rapporti delle Riunioni generali tenuti dal partito in Italia, a studiare ed assimilare le posizioni del partito, risalendo attraverso di esse al marxismo autentico.

«Dopo un primo periodo di intenso lavoro in questo senso, il gruppo di compagni francesi che aveva dato vita al bollettino interno “Travail de groupe”, decise, d’accordo con il centro italiano, di renderlo pubblico uscendo con una rivista che riprendeva esattamente la stessa testata italiana, intitolandola “Programme communiste” e riportando, in copertina, il testo “Ce qui nous distingue”, traduzione esatta della manchette pubblicata regolarmente nel giornale in italiano. La rivista “Programme communiste” per i primi 24 numeri, dall’ottobre 1957 al settembre 1963, non si è presenta ancora come rivista teorica del partito, anche se pubblicava regolarmente lavori svolti, “a carattere di partito”, dai compagni francesi, completandoli con articoli (compresi alcuni “Fili del tempo”) tradotti dal giornale italiano. La formazione di sezioni di partito a tutti gli effetti, in Francia, richiese una lunga gestazione, ma nell’ottobre 1963 i gruppi di compagni di Marsiglia e di Parigi diventarono effettive sezioni di partito che rispondevano ad un unico centro politico allo stesso modo delle sezioni italiane. Col n. 25, ottobre-dicembre 1963, la rivista “Programme communiste” diventa la “Rivista teorica del Partito comunista internazionalista (programma comunista)”, e da quel momento, salvo la forzata sospensione della sua pubblicazione a causa della crisi esplosiva che il partito ha subito nel 1982-84, ha continuato ad essere, ed è, la rivista teorica del partito».

E’ infatti a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso che il partito si espande al di fuori dell’Italia, e prima di tutto in Francia (Parigi e Marsiglia), Belgio (Bruxelles), Svizzera (Winterthur, cantone Zurigo) grazie all’emigrazione di compagni italiani del PCd’I. La presenza di qualche compagno italiano anche in Germania (Francoforte) fece da base per un lavoro politico anche in questo paese, dove una vera e propria sezione tedesca nacque molti anni più avanti, nella seconda metà degli anni Settanta.

Nella presentazione delle nostre pubblicazioni di lingua tedesca (vedi il sito www.pcint.org) abbiamo scritto:

«Nei primi anni Sessanta del secolo scorso, uscirono alcune pubblicazioni sotto il titolo Der Faden der Zeit (Sul filo del tempo). Si pubblicarono tre numeri: il n.1 con scritti della Sinistra comunista marxista (russa, tedesca e italiana) contro la guerra del 1914-1918; il n. 2 con le posizioni della Sinistra comunista d’Italia al II congresso dell’Internazionale Comunista (1920), in particolare sulla questione del parlamentarismo; il n. 3 con articoli di A. Bordiga e dell’Internazionale Comunista su Partito, classe e azione rivoluzionaria.

«Un secondo tentativo di propagandare le posizioni del partito in tedesco, in particolare in Germania occidentale, fu fatto agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, grazie all’attività di alcuni compagni a Francoforte che iniziarono a pubblicare una rivista ciclostilata dal titolo Internationale Revolution. Ne uscirono 4 numeri, dal gennaio 1969 al novembre 1970. Si volle rispondere all’influenza del “Sessantottismo”, di un estremismo di sinistra che non andava oltre la rivendicazione, anche violenta, di una “vera democrazia” e alla distorta interpretazione della Russia sovietica come “paese socialista”. Successivamente, sulla base dell’attività delle sezioni locali di partito formatesi in quel periodo, dal giugno 1974 al maggio 1975, per 6 numeri, uscì con una periodicità meno irregolare, la rivista Auszüge aus der Presse der Internationalen Kommunistischen Partei, sostituita dall’agosto 1975 fino all’ottobre 1976, per 5 numeri, dall’Internationale Kommunistische Partei - Bulletin, mentre dal gennaio/febbraio 1977 il partito iniziò la pubblicazione regolare della rivista teorica in lingua tedesca Kommunistisches Programm che uscì per 14 numeri fino al settembre 1981, interrotta a causa della crisi generale del partito».

Il partito stava quindi sviluppandosi, con tutti gli alti e bassi determinati dalle diverse situazioni, al di fuori del territorio italiano dove era concentrata la maggioranza dei compagni della vecchia guardia della Sinistra comunista. Ciò poneva al partito ulteriori compiti di propaganda, ma soprattutto di assimilazione teorica, nei confronti di giovani militanti che erano a digiuno, in particolare, della storia della Sinistra comunista d’Italia e delle sue relazioni con i partiti comunisti di allora, di Francia e di Germania, e con l’Internazionale Comunista. Il gruppo di compagni che a Marsiglia e a Parigi diedero vita alle due sezioni francesi più imporanti svolse un lavoro straordinario per l’assimilazione del marxismo attraverso i testi della Sinistra comunista d’Italia, attraverso le traduzioni delle più importanti Tesi e la preparazione di rapporti alle riunioni generali di partito. Questo lavoro richiedeva che anche la sezione francese del partito avesse un giornale politico utile per la propaganda politica; e, nel 1963, nacque le prolétaire che, in abbinamento alla rivista programme communiste, aveva la possibilità – dato che la lingua francese era molto più diffusa nel mondo rispetto all’italiano – di essere distribuita in molti paesi, raggiungendo elementi politicizzati anche nei continenti al di fuori dell’Europa (Africa, America Latina). Parigi, in particolare, da metropoli multietnica che era, divenne anche per il nostro partito un luogo dal quale si poteva “parlare al mondo”. In Francia, Belgio, Svizzera, compagni italiani emigrati in questi paesi entrarono in contatto con proletari emigrati dalla Spagna fin dal 1947, ma ci vollero anni perché un lavoro politico a carattere di partito avesse le basi per costruire una continuità ideologica e organizzativa tale da richiedere un organo di stampa in lingua spagnola. Ed è grazie a compagni provenienti anche dall’emigrazione latinoamericana che a Parigi nel 1972 cominciò ad uscire la rivista el programa comunista, con struttura e contenuto simili a quelli della rivista in francese; e due anni dopo, nel 1974, uscirà il periodico el comunista. Un’attività, questa, che si sviluppò poi anche in Spagna dopo la caduta di Francisco Franco. All’ordine del giorno non c’era soltanto la restaurazione della dottrina marxista nei suoi concetti fondamentali, ma la lotta contro la teoria del “socialismo in un solo paese” e delle varie “vie nazionali al socialismo” che da quella discendevano, la lotta contro ogni forma di deviazione opportunista che non si limitava allo stalinismo, ma anche a tutte le teorie democratoidi, anarcoidi e guerrigliere all’epoca molto diffuse soprattutto sull’onda del “sessantotto” e del “post-sessantotto”.

Una vera e propria fame di teoria, di storia, di politica del marxismo si impossessò dei giovani compagni che si avvicinavano al partito proprio in forza della sua intransigenza teorica, della sua continuità storica con la Sinistra comunista d’Italia, della sua organizzazione non burocratica, della sua capacità di spiegare materialisticamente e dialetticamente tutti i fenomeni che caratterizzano la società capitalistica e il suo procedere attraverso le crisi e i contrasti interimperialistici.

Nel partito, ci si rendeva conto che il 1975, anno in cui sarebbe scoppiata la grande crisi capitalistica mondiale e in cui si era prevista una concomintante crisi sociale con potenzialità rivoluzionarie, si stava avvicinando ormai rapidamente. Si era anche affermato che l’Europa sarebbe stata all’epicentro della crisi rivoluzionaria (10) e che il partito di classe avrebbe avuto il compito e il dovere di farsi trovare pronto a quello che era considerato un appuntamento storico con la rivoluzione che non poteva andare disatteso. Il Partito comunista internazionale, fondato su basi teoriche marxiste restaurate, presente con una piccola compagine in Italia, un po’ in Francia, con qualche elemento in Svizzera, e dei contatti in Spagna, in Germania, in Belgio, di fronte a un proletariato su cui influiva ancora pesantemente l’opportunismo tradizionalmente legato ai partiti comunisti ufficiali e ai sindacati collaborazionisti, ma in un periodo in cui frange proletarie cercavano di sottrarsi al ricatto dei padroni e del loro Stato e alle manovre opportuniste dei sindacati ufficiali, mantenendo pervicacemente le illusioni sui metodi democratici ed elettorali; il partito, dicevamo, sentiva il peso di una responsabilità politica che la situazione oggettiva richiedeva, e cercò di rispondere a questa responsabilità anche sul piano tattico e organizzativo, sebbene la sua area di influenza nel proletariato fosse ridottissima e l’esperienza stessa della lotta proletaria condotta con mezzi e metodi della lotta classista fosse ancora episodica e limitatissima. Ma il proletariato dei paesi imperialisti, e d’Europa in particolare, mostrava ancora grandissima difficoltà a rompere con le pratiche del collaborazionismo sindacale e politico, e non bastava la crisi economica e sociale a lacerare i legami che tenevano avvinta la maggior parte di esso alle abitudini contratte in trent’anni di opportunismo socialdemocratico e alle illusioni che la demagogia stalinista e post-stalinista alimentava nei metodi e nei mezzi della democrazia elettorale e parlamentare e nel collaborazionismo politico e sindacale.

La crisi economica che si stava avvicinando avrebbe colpito duramente le condizioni proletarie di vita e di lavoro; sarebbero aumentati i licenziamenti e quindi la disoccupazione, e i giovani avrebbero avuto più difficoltà a trovare lavoro. I poteri borghesi avevano, però, ancora diverse carte da giocare, sia politiche che economiche. I partiti socialisti e comunisti ufficiali coalizzati erano saliti molto nei risultati elettorali, a cavallo degli anni Sessanta/Settanta, cosa che li candidava realmente al governo. Tornava così la tendenza della borghesia a considerare di riutilizzare la formula dei “fronti popolari”, usata nella precedente lotta antifascista, chiamandola coalizione di “centro sinistra” (che in Francia decollò nel 1958 quando la SFIO e il PCF si allearono contro l’alleanza tra gollisti e cattolici, e in Italia nacque nel 1962 tra DC e PSI) nella quale il riformismo tradizionale dei socialisti, il collaborazionismo più che rodato dei socialdemocratici e degli stalinisti potevano alimentarsi a vicenda per ingannare il proletariato sotto altre parole d’ordine (riforme di struttura, nuovi patti fra Stato, padronato e partiti “operai” tipo l’italiano Statuto dei Lavoratori del 1970, governi di centro-sinistra ecc.) con le quali l’opportunismo giocava la sua ennesima partita contro il proletariato. E’ noto che il PCI di Togliatti e dei suoi epigoni era il partito “comunista” più forte dell’Occidente democratico, ed è stato quello che più degli altri si è avvicinato a insediarsi, non in secondo piano, negli scranni del governo. Ma l’attività dei gruppi del cosiddetto “terrorismo rosso”, e delle Brigate Rosse in particolare, raccogliendo la rabbia e la spinta a ribellarsi di alcuni strati proletari e di piccola borghesia allo strapotere del padronato e al potere politico trentennale della DC, in qualche modo mise in difficoltà la corsa al governo del PCI: alla grande borghesia italiana, ma anche a livello europeo, era più utile che il PCI rimanesse all’opposizione e tentasse di recuperare la fiducia di almeno una parte degli strati proletari più combattivi e arrabbiati, affascinati dall’estremismo lottarmatista; il suo ruolo di pompiere delle lotte operaie all’epoca non era facilmente sostituibile e poteva ancora giocare sui legami politici e sociali che gli avevano assicurato un’influenza determinante sulle masse operaie nella lotta partigiana antifascista. Si dimostrava così la giusta valutazione del nostro partito quando affermò che l’antifascismo democratico era il prodotto peggiore per il proletariato che l’opportunismo stalinista potesse fabbricare.

In quel periodo, in ogni caso, l’attività del nostro partito si stava ampliando e, come abbiamo ricordato sopra, si è dotata di altri organi di stampa per una propaganda più mirata, in specie nelle lingue spagnola e inglese.

I compagni impazienti, considerando questo sviluppo del partito come un segno del cambiamento della situazione sociale generale in senso non più così sfavorevole come era stata vissuta fino allora, spingevano perché il partito aumentasse i suoi interventi sia in campo sindacale sia nell’attività di propaganda nelle più diverse manifestazioni in cui ci fosse una presenza di proletari. Il periodo che ci stava davanti sembrava che aprisse non più soltanto qualche debole spiraglio nel quale il partito doveva inserire il suo intervento politico, ma che ci offrisse oggettivamente l’occasione di agire, come un partito influente, su quegli strati proletari che la situazione critica delle loro condizioni di vita spingevano ad una lotta fuori dai canoni dei negoziati e delle trattative abituali delle centrali sindacali collaborazioniste. Atteggiamento sicuramente positivo, che però andava commisurato con le attività di ordine teorico e politico generale che il partito non doveva mettere in seconda linea. I nuovi simpatizzanti e i nuovi militanti arrivavano al partito da esperienze in altri gruppi politici e in altri partiti, dal post-stalinismo al trotskismo, dal sessantottismo all’operaismo, portando con sé certamente molti dubbi sulle loro esperienze passate, ma anche abitudini molto lontane dalla nostra prassi di partito e aspettative che in quelle esperienze non avevano trovato soddisfazione, ma per le quali cercavano soddisfazione nel nostro partito. La pressione esercitata dalla situazione oggettiva, combinata con la pressione esercitata dagli elementi che giungevano al partito con la volontà di “fare”, di “agire”, di “incidere” sulle realtà sociali che conoscevano, portavano alcuni nostri compagni a transigere sugli aspetti organizzativi interni, accettando l’adesione al partito da parte di elementi e piccoli gruppi sulla base della loro semplice accettazione formale delle posiioni del partito, fino ad arrivare ad accettare gruppi organizzati, come successe nell’autunno del 1970 per Cortona, in Toscana, trasformando una sezione locale di filocinesi in una sezione di partito!. Il fatto più grave è che il Centro, all’epoca – pur non essendo ovviamente d’accordo con questa prassi che la sezione di Firenze applicò in qualità di responsabile regionale, prassi che andava contro il principio elementare del partito che prevede esclusivamente l’adesione individuale e dopo verifica della condivisione programmatica e politica –, accettò il fatto compiuto inserendo la sezione di Cortona tra le Sedi del partito (vedi “il programma comunista” n. 19 del 1970). Nelle Tesi di Roma del P.C.d’Italia, marzo 1922, nel capitoletto “Processo di sviluppo del Partito Comunista”, al punto 9, a proposito dell’adesione al partito e considerando le regole che dovevano essere valide internazionalmente, si legge: «E’ desiderabile che al più presto si affermi inammissibile nel seno dell’organizzazione comunista mondiale la deroga a due principi fondamentali di organizzazione: non può esservi in ogni paese che un solo partito comunista, e non si può aderire alla Internazionale comunista che per via dell’ammissione individuale nel partito comunista del dato paese». Più chiaro di così!

Ma, come detto, fu la “questione sindacale” che concentrò la maggior parte degli errori che il partito fece in quegli anni. Sulla tesi della difesa della CGIL come “sindacato di classe” contro la prevista unificazione con CISL e UIL abbiamo già tenuto alcuni Rapporti in RG precedenti, quindi non  torneremo qui ripetendo cose già dette. Nello stesso tempo invitiamo i compagni a rileggere i resoconti scritti ne “il comunista” nn. 128, 129, 133, 154; e, in ogni caso, in rapporti successivi torneremo ad esaminarne i diversi aspetti.

In questa RG ci si è concentrati sulle cause della crisi, più che sui dettagli delle posizioni contrastanti, tornando sulla concezione del partito di classe, che è basilare rispetto ad ogni questione che si vuol affrontare.

La concezione del partito di classe come insieme collettivo va definita con precisione poiché questo “insieme” non è una somma di cellule singole, ma un “insieme” organico, ossia una integrazione di capacità e di volontà individuali sulla base di un’unica teoria della conoscenza, il marxismo, e del programma politico che la storia della lotta fra le classi e del comunismo rivoluzionario ha prodotto. E’ questa integrazione che fa del lavoro di partito non la somma di tanti lavori individuali, o di gruppi distinti, ma l’organico lavoro collettivo. Al di fuori di questa impostazione, si cade inevitabilmente nel personalismo; dall’organizzazione centralista organica si cade nella burocratizzazione, nell’indifferentismo, nei formalismi devianti.

Il partito è un organo politico rivoluzionario in ogni sua attività: teorica, programmatica, politica, tattica, organizzativa. Sebbene ognuna di queste attività possieda una sua specificità che la definisce, esse non possono essere separate l’una dall’altra da una barriera, da isole a sé stanti; rispondono tutte a un movimento storico dal quale non possono essere distinte se non dialetticamente. Infatti la loro unità non è il risultato di un’operazione meccanica, appunto di una somma di elementi a sé stanti, ma il risultato di un processo storico del movimento di classe del proletariato che si impone, come forza produttiva per eccellenza, come unica forza rivoluzionaria della società attuale e che prende su di sé, come classe storica e non come massa indistinta, il compito di rivoluzionare la società attuale divisa in classi e passare alla società senza classi, alla società di specie.

Quando parliamo di partito storico e di partito formale, non parliamo di due partiti diversi, ma di due fasi storiche diverse dello stesso partito. Ricordiamo che il partito di classe – come abbiamo richiamato sopra – è «un insieme di persone che hanno le stesse vedute generali dello sviluppo della storia, che hanno una concezione precisa delle finalità della classe che rappresentano, e che hanno pronto un sistema di soluzioni dei vari problemi che il proletariato si troverà di fronte quando diverrà classe di governo». Ma quelle vedute generali, quella concezione precisa delle finalità del proletariato, quel sistema di soluzioni dei vari problemi della dittatura proletaria, non sono il risultato di idee individuali più o meno geniali messe a confronto, non sono il risultato di una mediazione tra idee diverse né tra programmi politici diversi; sono il risultato di un movimento storico che «lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nell’armonia gioiosa dell’uomo sociale» (11), un movimento storico che va al di là dell’insignificante individuo singolo, ma che lega i morti ai vivi di oggi e ai futuri uomini sociali di domani. 

 


 

(8) Sulla questione “sindacale”, le Tesi del 1972 furono oggetto di un Rapporto centrale pubblicato ne “il programma comunista” nei nn. 10, 11 e 12 del 1972 col titolo Marxismo e questione sindacale. Queste tesi furono anticipate da una ripresa generale della questione presentata alla RG di Torino dell’aprile 1972, da una serie di riunioni e dalla pubblicazione ne “il programma comunista”, in cinque puntate dal n. 22 del 1971 al n. 2 del 1972, di estratti dai testi classici del marxismo sotto il titolo Basi storico-programmatiche del comunismo rivoluzionario circa il rapporto tra partito, classe, azione di classe e associazioni economiche operaie a conclusione dei quali è stato pubblicato un articolo intitolato Il partito di fronte alla “questione sindacale (n. 3 del 1972).

(9) Come documentato, ad es., nell’articolo Sparano ad est i cannoni del commercio, ne “il programma comunista” n. 20 del 1970

(10) Cfr. L’Europa sarà il cuore della rivoluzione mondiale, “il programma comunista”, n. 6, 30/3-13/4, 1967. Nell’articolo si fa riferimento all’Inghilterra il cui governo laburista spingeva per l’adesione alla CEE dato che questo mercato sarebbe stato molto più interessante di quello della sterlina al di fuori dell’Europa, e visto che gli Stati Uniti d’America si stavano pian piano accaparrando i mercati che un tempo era dominati dalla corona inglese. Concludendo, questo articolo scriveva: «Marx, un secolo fa, diceva che l’Inghilterra industriale mostrava al resto del mondo allora arretrato l’immagine del suo stesso avvenire. L’Inghilterra di oggi, in preda alle difficoltà, mostra all’Europa l’immagine del suo futuro. L’Europa, anche se aperta all’Inghilterra e ai paesi dell’EFTA, e malgrado la relativa prosperità che oggi attraversa, non perverrà mai alla posizione dominante che l’Inghilterra ebbe nel secolo scorso e che oggi è detenuta dagli USA. Fra l’Europa, anche unita, e gli Stati Uniti, la disuguaglianza di sviluppo è destinata a crescere. I problemi in cui si dibatte l’Inghilterra d’oggi, l’Europa li conoscerà domani. E non ci saranno mercati più vasti per risolvere, né cani da guardia laburisti ad impediere che si aggravino. L’Europa sarà il cuore della rivoluzione mondiale».

(11) Cfr. Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, “il programma comunista” n. 2 del 1965; questo testo, unito ad altri, è stato pubblicato nel volume di partito “In difesa della continuità del programma comunista”, cit.

 

 

Partito Comunista Internazionale

Il comunista - le prolétaire - el proletario - proletarian - programme communiste - el programa comunista - Communist Program

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice