Il governo va all’attacco delle condizioni di esistenza del proletariato. Rompere con la collaborazione di classe e con ogni illusione democratica è la via da seguire

(«il comunista»; N° 176 ; Gennaio-Febbraio 2022)

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Con la legge di Bilancio del dicembre scorso il governo Meloni ha deciso di dare un ulteriore colpo alle condizioni di esistenza del proletariato e della parte più povera della popolazione. Le nuove misure non servono solo a bollare i migranti come delinquenti da incarcerare e respingere nei paesi torturatori da cui sono scappati, preservando in qualche modo lo status sociale dei lavoratori autoctoni sotto il vessillo del nazionalismo più spinto («prima gli italiani») ma mirano a colpire in forme più dirette e chiare anche i proletari «italiani» e gli immigrati legalizzati. Le misure del governo hanno un denominatore comune: tagliare gli ammortizzatori sociali ancora esistenti, svincolare il padronato dagli obblighi di leggi precedenti e da accordi che in alcuni casi non permettevano di utilizzare la forza lavoro salariata a seconda delle esigenze padronali del momento, riducendo le condizioni di vita del proletariato al minimo livello per non morire di fame. I proletari, soprattutto giovani, sono considerati svogliati, sfaticati, accusati di voler «lavorare poco e guadagnare tanto» o ritirare un salario senza lavorare. Sono disoccupati e non cercano lavoro? Ricevono quella miseria chiamata sussidio per un breve periodo o Reddito di cittadinanza? Secondo la Meloni fanno parte di una nuova categoria di persone: gli occupabili. Cioè, fanno parte di una massa di lavoratori che invece di darsi da fare per trovare lavoro, se ne stanno in panciolle e fanno passare il tempo al bar, in piazza o a dormire. Ma, gridano i potenti, il salario se lo devono guadagnare! Perciò quest’anno il Reddito di cittadinanza verrà cancellato a 700 mila persone ritenute «occupabili» e nel 2024 sarà cancellato del tutto. Naturalmente nel registro governativo delle cose da fare non c’è traccia del fatto che sono le aziende che licenziano, che delocalizzano, che aumentano i ritmi di lavoro, le mansioni per unità lavorativa, l’orario di lavoro per salari che non stanno al passo con l’aumento del costo della vita. Non c’è scritto che la tanto propugnata flessibilità serve a piegare la forza lavoro alle esigenze immediate e future di profitto delle aziende ad ogni oscillazione del mercato, rendendo la flessibilità pari alla precarietà del lavoro e, quindi, del salario. Non c’è scritto che gli infortuni e le morti sul lavoro o nell’itinerario casa-lavoro non sono episodi particolarmente sfortunati, ma una costante del lavoro, tendenzialmente in aumento. Non cè scritto che il caporalato andrebbe cancellato così come i contratti a tempo determinato; c’è scritto invece che il sistema dei voucher viene esteso dall’agricoltura al turismo, al commercio e ai luoghi di divertimento; per di più, il sistema dei voucher è applicabile soltanto per 45 giorni all’anno, e negli altri 320 giorni che succede? Chi darà il lavoro a questi occupabili? Il caporalato, naturalmente.

Che la società capitalistica non sia in grado di fornire un lavoro a tutti gli occupabili è un dato di fatto storico: la disoccupazione fa parte del sistema capitalistico, ed è utilizzata dai capitalisti per premere sulla forza lavoro occupata allo scopo ditenere bassi i salari e, quando possibile, diminuirli. Perciò la disoccupazione, finché esiste il capitale, non sparirà mai, come non spariranno mai la povertà e le disuguaglianze sociali: queste sono un effetto diretto del modo di produzione capitalistico che, sviluppandosi crea sovraproduzione di merci e sovraproduzione di proletari. Come le merci invendute perdono valore e intaccano il valore delle merci che si vendono, così la merce forza lavoro perde valore se non viene utilizzata e intacca il valore della forza lavoro impiegata, al di là dei salari che vengono percepiti. La borghesia, che sia grande, media, piccola, e in qualunque religione creda, si comporta sotto ogni cielo allo stesso modo: sfrutta il lavoro salariato per accumulare profitti, utilizza il proprio potere politico, economico e culturale per tenere sottomesso il proletariato nella condizione di schiavo salariato e alimenta con tutti i mezzi - repressione compresa - la concorrenza tra proletari. Le disuguaglianze, la sempre più diffusa povertà, le condizioni di esistenza della classe lavoratrice tendono a peggiorare sempre più soprattutto in situazioni di crisi di sovraproduzione, di contrasti interimperialisti e di guerre, come l’attuale.

I proletari che si illudevano ieri di poter ottenere più ascolto dai partiti e dai sindacati che si spacciavano, e si spacciano ancora, per loro rappresentanti e di poter usare i mezzi democratici che la borghesia, furbescamente, mette a disposizione di quello che ha sempre considerato come «popolo bue», al fine di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, e che oggi per l’ennesima volta hanno dato credito alla scheda elettorale mandando al governo i partiti della destra che abbaiavano più di altri contro i migranti che levano risorse economiche e lavoro agli «italiani», contro l’Europa che non «ci aiuta» e che fa il gioco della Germania e della Francia, contro misure dei precedenti governi dettate soltanto da calcoli tecnici come nel caso di Draghi, Ciampi, Monti, che proclamavano l’intenzione di metterefra le priorità del governo il benessere della nazione e, quindi, del «suo» popolo; quei proletari, i pochi che sono andati a votare e i tanti che non ci sono andati, disgustati dal clima politico e sociale che perdura da anni  e disillusi dalle migliaia di promesse dei politici mai mantenute, si trovano in mano il famoso pugno di mosche. I borghesi non si smentiscono: il bilancio del loro Stato è fortemente sbilanciato sugli interessi del capitale privato: infatti la sanità, la pubblica amministrazione, i progetti mirabolanti sulle infrastrutture, la magistratura con la sua giustizia perennemente riformata, stanno a dimostrare che, per i borghesi, gli interessi del proletariato non solo non vengono prima degli interessi borghesi, il che è logico, ma finiscono sempre più in quarto o quinto ordine fra le loro priorità. La classe borghese sa per esperienza che il proletariato costituisce una forza sociale determinante per la sua stessa sopravvivenza, perché è dal suo sfruttamento che deriva l’intera ricchezza sociale che la borghesia si appropria. Ma se il proletariato, spinto dalla lotta per difendere le sue condizioni di vita, si stacca dal controllo politico e sociale borghese e si organizza in modo indipendente per contrastare, da pari a pari, la forza politica e sociale della borghesia, allora la sua forza sociale diventa determinante per se stesso, per la difesa dei suoi interessi sia sul terreno immediato, sia sul terreno politico più ampio. E’ esattamente questo salto di qualità che la borghesia teme; l’esperienza storica di dominio sociale le ha insegnato che per controllare il proletariato deve usare la mano di velluto e il tallone di ferro, il dialogo, il negoziato ma anche la repressione e il ricatto; deve usare fino al massimo logoramento le forze sindacali e politiche del collaborazionismo, in modo da sfiancare i proletari in lotte inutili e sprecate e continuare a illuderli che solo la borghesia dominante può dare una risposta alle loro esigenze.

Lontana e lunga sarà la ripresa della lotta classista, ma sono le contraddizioni sempre più acute del capitalismo che spingeranno i proletari a dire basta!, è ora di lottare seriamente ed esclusivamente per i nostri interessi di classe, contro ogni ostacolo che si frapporrà tra noi proletari e le nostre rivendicazioni e i nostri obiettivi. Sì, perché gli obiettivi immediati e storici del proletariato sono completamente opposti a quelli borghesi!

 

 

Partito Comunista Internazionale

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