Ucraina, Corea del XXI secolo?

(«il comunista»; N° 176 ; Gennaio-Febbraio 2022)

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Nel luglio del 1950, scoppiata la guerra di Corea, scrivevamo:

«Nella storia di questo dopoguerra, che la piratesca demagogia delle potenze vittoriose aveva annunciato come apportatore di pace, di prosperità e di uguaglianza, il conflitto scoppiato in Corea non è un fatto nuovo. In Germania, in Grecia, in Cina, in Indonesia, nel Vietnam, in Malesia, la pace democratica non è stata in realtà che il prolungamento di una guerra in cui mutavano appena, di volta in volta, i protagonisti. Né poteva essere diversamente. A schiacciante conferma del marxismo, i fatti sono lì a dimostrare che la guerra è legata non all’esistenza di determinati regimi politici o di presunti istinti bellicosi di popoli o razze, ma alle leggi inesorabili di sviluppo del capitalismo.

«Di fronte al nuovo episodio della spinta internazionale dell’imperialismo, e alla propaganda falsificatrice ed avvelenatrice che da entrambe le parti viene svolta fra le masse operaie, va riaffermata con assoluta fermezza la posizione del marxismo rivoluzionario.

«Il conflitto in corso, per quanto geograficamente localizzato, ha natura schiettamente internazionale. Come nei precedenti episodi bellici della “pace democratica”, l’urto non è tra forze nazionali contrapposte, ma fra i due centri mondiali dell’imperialismo, America e Russia, rispetto ai quali le nazioni minori non sono che miserabili e impotenti pedine. Falsa, dunque, la parola di guerra d’indipendenza, di liberazione, di unità nazionale» (1).

Il conflitto in corso in Ucraina, a più di settant’anni di distanza, ha le stesse caratteristiche fondamentali che aveva la guerra di Corea del 1950: ha natura schiettamente internazionale e vede contrapposti, per l’ennesima volta, due centri mondiali dell’imperialismo, America e Russia (che allora si chiamava URSS). Ma i settantatre anni che ci separano dalla guerra di Corea, e i settantotto che ci separano dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale – quando la piratesca demagogia delle potenze vittoriose aveva annunciato di apportare pace, prosperità e uguaglianza – sono stati, in realtà, anni di tensioni internazionali e di guerre, anni in cui si dimostravano esatte le posizioni del marxismo autentico sull’imperialismo e sullo sviluppo delle sue contraddizioni e dei suoi contrasti. 

Per decenni, i contrasti interimperialistici hanno provocato guerre, aumentando i massacri e le distruzioni grazie allo sviluppo della tecnica negli armamenti, in tutti i continenti meno che in Europa e nell’America del Nord. In Europa, il condominio russo-americano del secondo dopoguerra, dopo aver “risolto” la spartizione della Germania, dividendola in due sotto occupazione militare da una e dall’altra parte, e una volta terminati i contrasti sulla cerniera costituita dai paesi dell’Europa dell’Est – Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria – trasformandoli in satelliti di Mosca, mentre i paesi dell’Europa dell’Ovest, affamati di investimenti a suon di dollari venivano trasformati in satelliti di Washington; in Europa, dicevamo, per decenni si “garantiva” il passaggio dalla guerra imperialista alla pace imperialista, ossia a quel periodo di tempo nel quale le forze imperialiste più importanti, oltre a rafforzare il rispettivo dominio su territori economici più ampi possibile (e non solo territori agrari, come sosteneva Kautsky, ma anche territori e paesi fortemente industriali, come sosteneva Lenin), si preparavano a successivi conflitti. Stessa cosa per il Giappone, potenza di prima forza nel contrastare gli Stati Uniti nel Pacifico, ma alla fine schiantato sotto le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki e reso satellite anch’esso di Washington. La seconda guerra imperialista mondiale decretava il declino ormai irreversibile della Gran Bretagna come “padrona del mondo” a vantaggio degli Stati Uniti d’America, riducendo gli stessi paesi capitalistici avanzati in “colonie” o di Washington o di Mosca. Quanto poteva durare questa situazione? E in che modo questa situazione può modificarsi? La risposta per i marxisti è sempre quella che dava Lenin: innanzitutto, la spartizione del mondo tra predoni di potenza mondiale e superarmati (all’epoca della prima guerra imperialista mondiale si trattava di Inghilterra, America, Giappone; all’epoca della seconda guerra imperialista mondiale si trattava di questi stessi più la Germania e la Russia), , coinvolge nella loro guerra, per la spartizione del loro bottino, i paesi del mondo intero (2); ma, a fronte del fatto che la terra è già spartita, i predoni imperialisti più forti sono oggettivamente costretti «ad allungare le mani su paesi di qualsiasi genere», anche «su paesi fortemente industriali», non solo e non tanto a proprio beneficio, quanto per « indebolire l’avversario» e per «minare la sua egemonia» (3). Imperialismo significa capitalismo sviluppato in senso monopolistico, in cui primeggia non il capitale industriale, commerciale o agrario, ma il capitale finanziario, ed è il capitale finanziario (americano, britannico, tedesco, giapponese, francese e, oggi, cinese) a ripartirsi il mondo secondo i rapporti di forza nel periodo dato, rapporti di forza che vanno modificandosi attraverso i contrasti e le guerre, perciò non in maniera pacifica, perché i contrasti fra i trust, i cartelli internazionali e i poli imperialisti non attenuano, anzi «acuiscono sempre più le differenze nella rapidità di sviluppo dei diversi elementi dell’economia mondiale. Ma non appena i rapporti di forza sono modificati, in quale altro modo in regime capitalistico si possono risolvere i contrasti se non con la forza?» (4). 

Le masse operaie d’Europa e d’America, ridotte dall’opera congiunta della controrivoluzione borghese e della controrivoluzione staliniana a carne da macello per fini imperialistici, asservite totalmente agli interessi sciovinisti di ogni potenza borghese e imperialistica, non potevano rappresentare l’alternativa rivoluzionaria alle guerre borghesi, l’unica alternativa storica che avesse e abbia un senso. Sepolta, sotto la mastodontica falsificazione stalinista, la parola d’ordine leninista: trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, in rivoluzione proletaria, veniva sostituita dalla parola d’ordine: sostegno e guerra di ogni nazionalismo contro i nazionalismi nemici, sostegno e guerra in difesa della democrazia contro il fascismo, sostegno e guerra in difesa della patria, in difesa della sovranità nazionale, sapendo perfettamente che, aldilà delle forme esteriori di una democrazia che di liberale non aveva più nulla, fascismo e democrazia post-fascista non erano che due regimi basati sullo stesso totalitarismo capitalista.

Si dava tempo, così, all’Europa, culla storica del capitalismo, di rinascere a nuova vita per tornare a rappresentare sul mercato internazionale un polo economico di primaria importanza, necessario sia a Washington che a Mosca. Le decine di milioni di morti su tutti i fronti di guerra e sotto i bombardamenti aerei in tutte le città europee erano servite a ridare respiro al capitalismo che, per l’occasione, i poteri politici degli imperialismi occidentali vittoriosi, definendosi democratici, vollero fosse considerato come il non plus ultra della pace in quello che fu chiamato “mondo libero”, contrapposto propagandisticamente al concorrente e sedicente “mondo socialista”. Mentre in Europa, terminati i contrasti per la spartizione della Germania, le armi tacevano, nel resto del mondo gli imperialismi ex alleati contro le potenze dell’Asse si affrontavano armati fino ai denti, direttamente e indirettamente, a cominciare, come accenna l’articolo del 1950 citato, dalla Cina, dall’Indonesia, dal Vietnam, dalla Malesia.

La guerra di Corea, scrivevamo nel 1950, non fu «guerra di pacificazione, dunque, ma passo avanti verso nuove guerre». E, infatti, le guerre non terminarono mai. Questi fatti mostrano che il capitalismo non può vivere, come modo di produzione e, quindi, come società, e non può superare le sue inevitabili crisi, senza che la classe dominante borghese continui la sua politica estera con altri mezzi, da quelli della diplomazia, dell’investimento, degli accordi economici e politici, ossia con mezzi militari; dunque con la guerra guerreggiata.

«Per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza (ribadisce Lenin nel suo “Imperialismo”), era caratteristica l’esportazione di merci, per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di capitale. (...) Sul limitare del secolo XX troviamo la formazione di nuovi tipi di monopolio; in primo luogo i sindacati monopolistici dei capitalisti in tutti i paesi a capitalismo progredito, in secondo luogo la posizione monopolistica dei pochi paesi più ricchi, nei quali l’accumulazione del capitale ha raggiunto dimensioni gigantesche. Si determinò nei paesi più progrediti un’enorme eccedenza di capitale.

«Senza dubbio se il capitalismo fosse in grado di sviluppare l’agricoltura, che attualmente è rimasta dappertutto assai indietro rispetto all’industria, e potesse elevare il tenore di vita delle masse popolari che, nonostante i vertiginosi progressi tecnici, vivacchiano dappertutto nella miseria e quasi nella fame, non si potrebbe parlare di un’eccedenza di capitale. (...) Ma in tal caso il capitalismo non sarebbe più tale, perché tanto la disuguaglianza di sviluppo che lo stato di semiaffamamento delle masse sono essenziali e inevitabili condizioni e premesse di questo sistema della produzione. Finché il capitalismo resta tale, l’eccedenza dei capitali non sarà impiegata a elevare il tenore di vita delle masse del rispettivo paese, perché ciò importerebbe diminuzione dei profitti dei capitalisti, ma ad elevare tali profitti mediante l’esportazione all’estero, nei paesi meno progrediti. In questi ultimi il profitto ordinariamente è assai alto, poiché colà vi sono pochi capitali, il terreno è relativamente a buon mercato, i salari bassi e le materie prime a poco prezzo. La possibilità dell’esportazione di capitali è assicurata dal fatto che una serie di paesi arretrati è già attratta nell’orbita del capitalismo mondiale. (...) L’esportazione di capitali influisce sullo sviluppo del capitalismo nei paesi nei quali affluisce, accelerando tale sviluppo. Pertanto se tale esportazione, sino a un certo punto, può determinare una stasi nello sviluppo nei paesi esportatori, tuttavia non può non dare origine a una più elevata e intensa evoluzione del capitalismo in tutto il mondo» (5).

Il capitale finanziario, quindi, non ha fatto che condurre, a velocità diverse, i paesi arretrati a vincolarsi sempre più ai paesi più industrializzati e i paesi esportatori di capitali, come scrive Lenin, ad una continua spartizione del mondo vera e propria.

Ma la stessa spartizione del mondo, avvenuta in un determinato periodo storico, ad esempio tra i vincitori della seconda guerra imperialista mondiale, «non esclude che possa avvenire una nuova spartizione, non appena sia mutato il rapporto delle forze in conseguenza dell’ineguaglianza di sviluppo per effetto di guerre, di crac ecc.» e «un esempio istruttivo di simile spartizione e delle lotte che essa provoca è offerto dall’industria del petrolio» (6). Già nel 1916 Lenin poteva riconoscere nel mercato mondiale del petrolio la lotta che gli stessi media borghesi definivano lotta per la spartizione del mondo. E che cosa è stata e che cos’è ancor oggi la lotta per il petrolio, e per tutte le altre materie prime indispensabili all’industria capitalistica, dalla meno alla più avanzata – carbone, gas, rame, ferro, litio, terre rare, uranio ecc. – se non la lotta per la spartizione del mondo? Lotta che non può tralasciare la navigazione mercantile, assolutamente indispensabile per il trasporto delle materia prime e il settore delle comunicazioni, a sua volta vitale per le contrattazioni, gli acquisti e le vendite, e ancora il settore agricolo, tutti settori nei quali sono presenti le più grandi concentrazioni economiche e finanziarie. Per il capitale finanziario, ci ricorda Lenin, «sono importanti non solo le sorgenti di materie prime già scoperte, ma anche quelle eventualmente ancora da scoprire, giacché ai nostri giorni la tecnica fa progressi vertiginosi e terreni oggi inutilizzabili possono domani essere messi in valore, appena siano stati trovati nuovi metodi e non appena siano stati impiegati più forti capitali» (7). E, infatti, negli ultimi decenni, sono molte le “scoperte” di nuovi giacimenti di gas, di petrolio, di terre rare ecc., generando, quando le scoperte si trovano in zone marine o terrestri contese tra diverse potenze (come, ad esempio, le ultime scoperte nel Mediterraneo orientale, intorno a Cipro), contrasti che faranno da base per futuri scontri armati.

La spartizione del mondo avviene sulla base della forza economica e finanziaria dei paesi imperialistici più potenti, ed è lo sviluppo stesso del capitalismo, come ricordava Lenin, che tende a sviluppare l’economia, anche finanziaria, nei paesi meno progrediti; a livello tale da far sorgere sul mercato internazionale, ad un certo punto, nuove forze, nuove potenze. Così è stato, a suo tempo, per l’America del Nord, grazie soprattutto all’Inghilterra, alla Francia e anche alla Germania; lo è stato successivamente per la Russia e, più recentemente, per la Cina, tanto da aumentare in progressione geometrica i contrasti interimperialistici che hanno periodicamente spostato il loro teatro decisivo dall’Africa all’America Latina, dall’Asia all’Europa.

 

EUROPA, DA PADRONA DEL MONDO A TERRA DI CONQUISTA

 

A differenza degli Stati Uniti, della Russia, della Cina, che sono paesi basati su forti e storiche unità statali, l’Europa è costituita da molteplici unità statali, ognuna capitalisticamente avanzata, ognuna con un proprio passato imperiale e colonialista e ognuna esprimente concentrazioni economico-finanziarie di prima grandezza, tali da rappresentare oggi – sulla spinta della concorrenza mondiale e sulle conseguenze delle due guerre imperialiste mondiali con le loro mastodontiche distruzioni di capitale fisso e capitale variabile – un potenziale terzo polo imperialistico mondiale rispetto soprattutto agli Stati Uniti e alla Cina, ma, nello stesso tempo, un concentrato esplosivo di contraddizioni capitalistiche e di contrasti interimperialistici. Per questo motivo, l’Europa non è stata soltanto la culla del capitalismo mondiale, ma è stata anche la culla della rivoluzione proletaria mondiale.

D’altra parte, è sempre la concorrenza mondiale che, finita la seconda guerra imperialistica mondiale e a fronte dell’aggressione all’Europa attuata da quella che la stessa guerra ha decretato come prima potenza imperialistica mondiale, gli Stati Uniti d’America, ad aver spinto i paesi europei più importanti a costituire, nel tempo, varie associazioni economiche per coordinare con più efficacia le proprie fonti energetiche e le diverse attività economiche, a partire dalla Ceca (carbone e acciaio) e dall’Euratom (energia atomica) per sviluppare poi, con l’adesione di sempre più numerosi paesi, il MEC, la CEE e, infine, l’Unione Europea. Ovviamente non sono mai mancati contrasti e tensioni fra gli stessi paesi europei, soprattutto nella misura in cui si dovevano affrontare argomenti di carattere politico e di politica estera di ciascun paese; ma la marcia verso un “mercato comune”, all’interno sempre dei contrasti interimperialistici anche sul fronte monetario, portò nel 1999 ad adottare la moneta unica – l’euro – che entrò praticamente in funzione dal 2002, diventando una delle monete di riferimento nel mercato internazionale, ma senza quella forza dirompente che servirebbe per sostituire la moneta internazionale per eccellenza, il dollaro statunitense. Per quante alleanze e quanti accordi possano essere stretti tra i paesi membri dell’Unione Europea, e per quanto gli europeisti sostengano, idealmente, la tendenza a creare gli “Stati Uniti d’Europa” da contrapporre come polo imperialistico unitario agli Stati Uniti d’America, alla Cina e alla stessa Russia, la lotta tra i diversi poli imperialistici per la spartizione del mondo non cancellerà mai la contrapposizione tra la libera concorrenza – che è l’elemento essenziale del capitalismo e della produzione mercantile in generale (Lenin, l’Imperialismo) – e il monopolio – che è il diretto contrapposto della libera concorrenza. Nel processo di sviluppo del capitalismo, sottolinea Lenin, è proprio «la libera concorrenza che cominciò, sotto i nostri occhi, a trasformarsi in monopolio, creando la grande produzione, eliminando la piccola industria, sostituendo alle grandi fabbriche altre ancor più grandi e spingendo tanto oltre la concentrazione della produzione e del capitale, che da essa sorgeva e sorge il monopolio, cioè i cartelli, i sindacati, i trust, fusi con il capitale di un piccolo gruppo, di una decina di banche che manovrano miliardi. Nello stesso tempo, i monopoli, sorgendo dalla libera concorrenza, non la eliminano, ma coesistono, originando così una serie di aspre e improvvise contraddizioni, di attriti e conflitti» (8). La concorrenza, nello sviluppo del capitalismo, si è alzata a livello di monopoli, di trust, di cartelli e, quindi, una volta ancora, tra gli Stati.

Come le grandi fabbriche e la sempre più concentrata grande produzione di merci e di capitali non elimineranno mai, finché esisterà il capitalismo, la piccola produzione e i capitali più piccoli, così la tendenza ad unire in entità politiche più grandi diversi paesi della stessa area geopolitica non eliminerà mai – finché rimarrà in piedi la società borghese – la concorrenza tra i diversi paesi e, perciò, la fonte delle aspre e improvvise contraddizioni, di attriti e conflitti che caratterizzano la vita del capitalismo anche nella sua fase imperialistica. D’altronde, le crisi economiche e finanziarie che punteggiano il corso di sviluppo del capitalismo non dimostrano forse quanto il marxismo sostiene fin dalle sue origini (Manifesto del partito comunista, 1848), e cioè che nelle periodiche crisi di sovraproduzione (di merci e di capitali) «viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create»? (9), generando la situazione in cui «la società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti». Un altro esempio concreto l’abbiamo anche oggi sotto gli occhi: l’Ucraina, un paese europeo nel quale, nell’ultimo decennio, si sono concentrati contrasti interimperialistici che già lavoravano fin dal suo distacco dall’URSS in seguito al crollo dell’impero di Mosca, e che è stato al centro di una lotta fra i poli imperialistici di Mosca e di Washington tesi, il primo, a sottometterlo nuovamente al proprio dominio e, il secondo, a conquistare un paese fortemente industrializzato per rafforzare la propria potenza in Europa, e quindi nel mondo; una lotta economica e politica che, ad un certo punto, inevitabilmente, non poteva che trasformarsi in guerra guerreggiata. Anche in questo caso, gli imperialismi europei e americano tendono a sottomettere alla propria influenza diretta e al proprio dominio un paese industrializzato e, nello stesso tempo, ad indebolire l’imperialismo russo contro cui lottano e fanno combattere – per procura – gli ucraini.

 

UCRAINA, PUNTO DI SVOLTA NEI RAPPORTI DI FORZA TRA I POLI IMPERIALISTICI

 

A differenza della Corea del 1950, l’Ucraina 1991, tanto più l’Ucraina 2022, è un paese industrializzato, ricco di materie prime (carbone, ferro, manganese, magnesite, rutilo, uranio ecc.) e tra i primi produttori mondiali di frumento, mais, avena, orzo, segale, miglio; un paese con più di 40 milioni di abitanti e con una popolazione attiva di più di 20 milioni, dunque con una forza lavoro istruita e preparata ad essere utilizzata nei rami industriali più importanti (siderurgia, chimica, nucleare, metalmeccanica, infrastrutture, tecnologia informatica ecc.). Un paese con queste caratteristiche, e con la sua posizione strategica nella cerniera che separa l’Europa occidentale dalla Russia euroasiatica e, in parte, dal Medio Oriente, rappresenta un obiettivo strategico di primaria importanza; ed è la stessa storia di questa terra a confermarlo, visto che è stata contesa nei secoli dal Regno di Polonia all’Impero Ottomano, dai cosacchi all’Impero zarista, finché, in seguito alla rivoluzione russa del 1917, si costituì in Repubblica socialista sovietica nel 1922, affiancando la Repubblica socialista sovietica russa in quel corso rivoluzionario proiettato a combattere il capitalismo sotto ogni cielo; rimase poi, sotto il regime staliniano e post-staliniano, fino al 1991, una delle 15 repubbliche che costituivano l’URSS.

Il contrasto tra Washington e Mosca in Corea nel 1950 si svolgeva non con un confronto diretto fra gli eserciti di Russia e degli Stati Uniti, ma attraverso la popolazione della Corea del Nord, sostenuta dai russi, e quella della Corea del Sud, sostenuta dagli americani; di fatto, la carne da cannone principale che faceva la guerra per procura e subiva tutti gli orrori e le conseguenze più terribili della guerra moderna non era né russa né americana, anche se gli americani erano presenti in Corea del Sud, ma coreana. Ciò preparava l’occupazione militare delle due Coree, una volta finita la guerra e divisa in due la penisola coreana, a sud da parte americana, a nord da parte russa. Anche in Corea, come in ogni altro paese, il proletariato subiva la grande influenza, da un lato, del falso socialismo russo di marca staliniana e, dall’altro, della falsa democrazia liberale di marca americana; né il proletariato coreano, né il proletariato russo o americano, avevano la forza di opporre la propria lotta classista a questo ennesimo massacro imperialista. Malgrado siano passati oltre sette decenni da quel 1950, oggi in Ucraina assistiamo ad un ulteriore massacro imperialista, con caratteristiche simili, ma capovolte, visto che gli americani, e gli europei loro alleati, non sono presenti con i loro eserciti, ma lo sono con quantità notevoli di capitali e di armamenti, e questa volta è l’imperialismo russo ad aver mobilitato direttamente le proprie forze armate – e non poteva fare altrimenti, visto che i filorussi del Donbass, dopo otto anni di scontri contro l’esercito di Kiev, non avevano alcuna chance di vittoria. La stessa posizione geografica dell’Ucraina e delle aree ucraine a forte presenza etnica russa (Crimea e Donbass, appunto), e il rischio più che concreto di vedersi piazzare ai propri confini i missili della Nato, hanno spinto l’imperialismo russo ad azzardare l’invasione. Un’invasione che ha sorpreso soltanto i giornalisti prezzolati che sbandierano continuamente i “valori” della democrazia occidentale, se non addirittura “universale”, della “pace” e della “civiltà”, giustificando sistematicamente le guerre e gli orrori che la democrazia occidentale ha distribuito da sempre e continua a distribuire nel mondo dalle guerre di conquista coloniale in poi.

Anche la Corea rappresentava, in estremo Oriente, un elemento di  grande importanza dal punto di vista strategico generale. Si trova di fronte al Giappone, a poco più di 200 km di distanza, e rappresenta un’importante base sia di offesa che di difesa. Dopo la guerra del 1905 tra Russia e Giappone, vinta dal Giappone, la Corea ha subìto il dominio e la più spietata oppressione giapponese fino alla fine della seconda guerra imperialista mondiale. Vinto il Giappone, i due massimi imperialismi interessati direttamente a quell’area, America e Russia, non potevano non scontrarsi, l’uno per allargare il proprio controllo dal Giappone alla terra ferma – la penisola coreana innanzitutto – (e poi verrà la volta dell’Indocina), e l’altro per impedire – grazie anche all’alleanza con la Cina di Mao – che gli Stati Uniti allargassero i loro dominî a ridosso dei propri confini terrestri. Cosa che la Russia tenta di impedire, da più di due decenni, agli Stati Uniti e ai suoi vassalli europei, cioè che aggiungano, alle loro conquiste lungo tutto il suo confine ovest, ai Paesi Baltici e alla Finlandia anche l’Ucraina.

Si disse, di fronte alla guerra di Corea, che il mondo era sull’orlo di una terza guerra mondiale che avrebbe visto Russia-Cina contro Stati Uniti-Inghilterra-Francia, il così detto “campo socialista” contro il “capitalismo”. Non erano “campi” diversi, uno rivoluzionario e l’altro conservatore e reazionario: erano due campi, due blocchi imperialisti uno contro l’altro armati. In realtà, come abbiamo sempre sostenuto e dimostrato ampiamente, Russia e Cina rappresentavano un capitalismo in piena spinta progressiva e, dal punto di vista economico, certamente rivoluzionario rispetto all’arretratezza da cui uscivano grazie a due rivoluzioni: la rivoluzione proletaria dell’Ottobre 1917 in Russia, che apriva il corso rivoluzionario comunista in tutto il mondo sebbene la Russia dovesse affrontare economicamente uno sviluppo più accelerato possibile in senso capitalistico (è noto l’obiettivo di Lenin sul capitalismo di Stato che la dittatura proletaria avrebbe controllato e diretto in attesa della rivoluzione proletaria vittoriosa nei paesi a capitalismo avanzato, come in Germania, grazie alla quale si sarebbe accelerato lo stesso sviluppo economico russo), corso rivoluzionario che però veniva fermato e sconfitto dalla controrivoluzione staliniana; e la rivoluzione democratico-borghese cinese del 1949, a conduzione maoista, che nulla aveva in comune con l’Ottobre rosso, ma che portava la Cina dalla millenaria arretratezza economica e dalla soggezione coloniale all’indipendenza politica e al capitalismo moderno senza passare attraverso un’esperienza rivoluzionaria simile a quella russa del 1917, vista la sconfitta del movimento proletario cinese del 1925-1927 dovuta anch’essa, soprattutto, all’opera controrivoluzionaria dello stalinismo.

Nel secondo dopoguerra, l’imperialismo di Washington aveva attuato una politica estera nei confronti dei paesi asiatici evidentemente molto miope; questi paesi erano spinti storicamente a disfarsi dell’oppressione colonialista di Inghilterra, Francia, Olanda e non erano disposti a sottomettersi ad un nuovo colonialismo di stampo americano: sostenendo le fazioni più retrograde, latifondiste e agrarie in Corea, in Indocina, in Indonesia, in Malesia ecc., Washington si era inimicate le classi industriali borghesi, piccoloborghesi e proletarie che invece erano sostenute dalla Russia staliniana in pieno progresso economico industriale. E questo fatto ha giocato a favore dell’imperialismo russo in Estremo Oriente per tre decenni, almeno fino a tutti gli anni Settanta del secolo scorso, fino alla vittoria vietnamita sugli Stati Uniti d’America. La Russia staliniana e post-staliniana, nella sua funzione imperialistica, in Europa condivideva con gli Stati Uniti l’interesse prioritario nel tenere a bada il proletariato europeo e, soprattutto, la Germania, sempre pericolosa pur se sconfitta, mentre i suoi interventi, soprattutto politico-militari, nelle diverse aree del mondo sottoposte al terremoto sociale delle lotte anticoloniali erano indirizzati a impedire agli Stati Uniti la possibilità di allargare il loro dominio imperialistico anche in Asia e in Africa.

Come scrivevamo nel 1957: «Certamente esiste un’aspra rivalità tra i due colossi [USA e URSS, NdR], ma il duello russo-americano ha per presupposto, per quanto ciò possa sembrare paradossale, il condominio russo-americano in Europa. (...) Del resto, tutta la politica russa in Europa si fonda permanentemente sul ricatto che Mosca tenta a danno degli Stati Uniti, i quali per poter svolgere i loro piani di egemonia mondiale hanno bisogno del concorso russo. E precisamente, hanno bisogno della potenza terrestre russa, che tiene le vecchie potenze dell’Europa occidentale in uno stato di irrimediabile inferiorità e le costringe a cercare riparo nel Patto Atlantico, lo stesso che dire sottomettersi al super-Stato americano» (10). Aldilà del fatto che l’URSS non esiste più e che la sua implosione tra il 1989 e il 1991 ha inevitabilmente ridotto le velleità imperialistiche della Russia ad aree molto più ristrette di quelle in cui scorrazzava nel trentennio precedente, la potenza terrestre russa svolge ancor oggi lo stesso ruolo che svolgeva allora: costringe le vecchie potenze dell’Europa occidentale a cercare riparo nella Nato, cioè sotto le ali degli Stati Uniti.

Ma, per quanto ridotte le sue velleità, l’imperialismo russo non può che rispondere alle stesse leggi che l’imperialismo, in quanto fase della massima, totalitaria concentrazione capitalistica e monopolistica, a livello mondiale oggettivamente segue: utilizzare qualsiasi mezzo economico, politico, ideologico, sociale e militare allo scopo di rafforzare ed ampliare la propria potenza in modo da modificare i rapporti di forza esistenti tra le diverse potenze imperialistiche; tanto più se si tratta di aree geopolitiche strategiche.

La guerra russo-ucraina, perciò, era nell’aria da anni; vi si intrecciavano aspetti sia economici sia politici che direttamente coinvolgevano le classi borghesi dominanti non solo di Russia e Ucraina, ma anche delle potenze europee e, soprattutto, degli Stati Uniti. L’aspetto economico, per entrambe, non riguarda soltanto le esportazioni delle proprie materie prime – petrolio, gas, ferro e acciaio, carbone, frumento ecc., da parte russa, e ferro, acciaio, cereali, minerali di ferro ecc., da parte ucraina –, ma anche il contrasto alle crisi economiche e recessive che colpiscono periodicamente tutti i paesi capitalisti avanzati, quindi anche Russia e Ucraina, puntando sull’economia di guerra e, quindi, utilizzando il mezzo che va per la maggiore dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale: appunto, la guerra. E in questo gli Stati Uniti sono maestri inarrivabili: su 124 anni che dividono il 1898 (anno in cui molti storici fissano l’inizio dell’imperialismo americano) dal 2022, cioè dalla guerra degli USA contro la Spagna per il controllo di Cuba e delle Filippine a oggi, sono stati 13 gli anni in cui gli Stati Uniti non hanno fatto la guerra (11), ma l’hanno comunque preparata. Non che la Russia sia stata un campione della pace; tolti gli anni corrispondenti alla rivoluzione bolscevica (1917-1926) – in cui la guerra rivoluzionaria contro le potenze imperialistiche anticomuniste aveva l’obiettivo di finirla con il sistema capitalistico che basa il proprio sviluppo e la propria durata storica sulle guerre di rapina – dalla guerra russo-giapponese del 1904-1905 in avanti, la Russia, partecipando alla prima guerra imperialistica mondiale si è allineata, nonostante la sua arretratezza economica, con le potenze imperialistiche euro-americane, ribadendo il suo ruolo antiproletario per eccellenza che dal regime zarista passerà, sconfitta la rivoluzione proletaria in Russia e nel mondo, al regime staliniano; e da potenza imperialistica qual era diventata non poteva che partecipare alla seconda guerra imperialistica mondiale per una diversa spartizione del mondo, e ad una serie interminabile di guerre, dirette o svolte “per procura” in tutti i decenni successivi (12).

 

VERSO LA TERZA GUERRA MONDIALE

 

La guerra in Ucraina rappresenta la miccia di una terza guerra mondiale? Questa prospettiva è stata più volte avanzata, soprattutto dai grandi media politici occidentali, e gli argomenti a sostegno di questa prospettiva sono stati diversi, ma sostanzialmente tutti indirizzati a trovare “il colpevole”, il paese o il blocco di nazioni che scatenerebbe la fatidica “prima aggressione”, insomma la nuova “Sarajevo”. Il casus belli, in questa situazione, sarebbe l’invasione militare dell’Ucraina da parte della Russia, considerata come un “primo passo” per la temuta “aggressione all’Europa”. Il vecchio “Impero del Male”, denominazione con cui Ronald Reagan aveva etichettato l’URSS nel 1983 (13), chiudendo l’epoca della cosiddetta “grande distensione” tra i due imperialismi e caratterizzata dal congelamento reciproco dell’arsenale nucleare, torna nuovamente in auge, mostrando come nei contrasti interimperialistici il coinvolgimento delle chiese e gli slogan a sfondo religioso vanno sempre per la maggiore. Ieri Stalin, il “dittatore comunista”, oggi Putin, il “nuovo zar”, sono i simboli richiamati di quell’Impero del Male che fa tanto comodo alla propaganda degli imperialismi euro-americani che tentano così non solo di giustificare l’attuale guerra per procura della Nato contro la Russia in terra ucraina, ma anche di mobilitare le masse euro-americane a sostegno di questo scontro per il quale è la popolazione ucraina in particolare, e il suo proletariato, a pagare il prezzo più alto in termini di massacri e devastazioni del loro paese. Una guerra, come dicevamo, che da ambo le parti si stava preparando dai non lontani anni ’90 del secolo scorso, quando la Russia, indebolita dalla profonda crisi che portò al crollo dell’URSS, non aveva la forza per frenare la veloce espansione della Nato nei paesi dell’Est Europa ex-satelliti di Mosca, ma non si era nemmeno ridotta a territorio facilmente colonizzabile da parte del dollaro, della sterlina, del marco tedesco o del successivo euro. Il suo esteso territorio tra Europa e Asia, la sua ricchezza di materie prime, la sua forza militare e la sua storia plurisecolare di potenza dominatrice in terra europea e asiatica, sono elementi che hanno fatto da base ieri l’altro all’impero zarista, ieri all’impero staliniano e oggi ancora ad un imperialismo certamente non equiparabile a quello americano, ma di grandezza sufficiente per tenere sulle spine le cancellerie di tutto il mondo.

La tendenza a risolvere i contrasti interimperialistici con la guerra, come diceva Lenin, non sparisce mai; dal periodo in cui il cosiddetto equilibrio mondiale (assenza di guerra mondiale) si basava sull’«equilibrio del terrore» si è passati al periodo del «terrore dell’equilibrio», ossia al periodo in cui la spartizione del mondo successiva alla seconda guerra mondiale si è andata via via sempre più modificando a causa della modificazione reale dei rapporti di forza tra le grandi potenze imperialistiche. La guerra imperialista mondiale è stata la risposta, sia nel 1914, sia nel 1939, a crisi profonde in cui il capitalismo internazionale precipitò; crisi economiche, finanziarie, sociali, politiche che, combinando i relativi fattori negativi, sfociavano inevitabilmente in crisi di guerra guerreggiata. E’ la stessa borghesia a dichiarare che la guerra fa bene all’economia. Gli Stati Uniti d’America si risollevarono dalla grande crisi degli anni Trenta, affermava Peter North, premio Nobel per l’economia, non per meriti del keynesismo: «Non siamo usciti dalla depressione grazie alla teoria economica, ne siamo venuti fuori grazie alla Seconda guerra mondiale» (14). E così è stato sia per la guerra di Corea del 1950, che per la guerra del Vietnam, le guerre del Golfo, in Afghanistan e oggi in Ucraina. Ogni guerra comporta un aumento delle spese militari, e un aumento delle esportazioni di armamenti; più guerre ci sono nel mondo, più armamenti necessitano; più guerre ci sono, più armamenti vengono distrutti e, per continuare le guerre, vanno rinnovati. E’ evidente ormai che, se la guerra viene giustificata da entrambi i blocchi contrapposti, da una parte per contrastare l’aggressione, dall’altra per giustificarla in relazione alle provocazioni ricevute o al pericolo di ulteriori aggressioni, l’aumento delle spese militari di ogni governo passa senza problemi, sapendo bene che quell’aumento va a detrimento della spesa pubblica sul fronte sociale (sanità, istruzione, trasporti, ammortizzatori sociali ecc.). L’economia capitalistica, in questo modo, attraverso tutto il comparto militare e il suo esteso indotto, beneficia in ogni caso di questo spostamento di capitali pubblici, che la guerra ingaggiata termini con la vittoria o con la sconfitta di questo o quello Stato. Il capitalismo, come sistema mondiale, ne beneficia e, grazie alle sempre più vaste distruzioni, può riprendere i suoi cicli economici con rinnovata energia. Ed è soltanto il movimento proletario rivoluzionario – come è successo nel 1917-1926 – pur nei suoi alti e bassi, ad avere la forza per frenare e contrastare il corso incessante del capitalismo a rinnovare guerre e devastazioni. Perciò, contro il movimento proletario rivoluzionario le potenze capitalistiche, aldilà e al disopra dei loro contrasti e delle loro guerre di rapina, si uniscono per impedire che la rivoluzione proletaria internazionale vinca e faccia scomparire il capitalismo da ogni futuro. L’esempio non lo abbiamo avuto soltanto con la Comune di Parigi del 1871, lo abbiamo avuto anche con la rivoluzione bolscevica del 1917 e, ancora, con il condominio russo-americano sull’Europa nel 1946-48.

Alle ambizioni di dominio imperialistico da parte delle grandi potenze si somma la necessità di riavviare la macchina produttiva e di valorizzazione del capitale che, periodicamente, si inceppa e va in crisi. Oggi più di ieri ci si sta avvicinando ad una crisi capitalistica a livello mondiale non solo e non  tanto per “colpa” delle ambizioni imperialistiche degli Stati Uniti o della Russia, o di quella particolare entità imperialistica chiamata Unione Europea, ma perché nel teatro mondiale della concorrenza interimperialistica si sono presentati altri attori, la Cina prima di tutto, e a seguire l’India e il silenzioso Giappone.

In Ucraina, come ieri in Corea, in Iraq, in Siria o in Yemen, non si sta svolgendo una guerra locale, sebbene il territorio interessato sia circoscritto; questa guerra ha rilevanza mondiale fin da quando è stata progettata e preparata, perché nessuna potenza imperialistica può permettere alle potenze avversarie, senza reagire anche con la forza, di conquistare territori economici e mercati a loro vantaggio. Sebbene lo sviluppo della potenza economica e militare di ogni paese imperialistico sia stato eccezionale, se confrontato con la situazione anche soltanto di 20-30 anni fa, è inevitabile che, per quanto forte e dominante sia un paese imperialistico, ad esempio gli Stati Uniti d’America, per contrastare i più forti concorrenti diretti esso abbia bisogno di alleati, e gli alleati più forti non possono che essere i paesi altamente industrializzati, che a loro volta sono diventati imperialisti. E’ finito il tempo in cui esisteva una sola grande potenza mondiale, come era l’Inghilterra nei secoli passati, e come hanno tentato di essere gli Stati Uniti d’America dalla seconda guerra mondiale in poi. In ogni alleanza c’è sempre una potenza principale che “guida” l’alleanza. Ma quelle che muovono ogni “alleato” sono le sfere di interessi e di influenza che ha già conquistato e che tende a rafforzare ed ampliare. Questo obiettivo non è, però, raggiungibile appieno da nessuno degli alleati perché, come scrive Lenin, «in regime capitalista non si può pensare a nessun’altra base per la ripartizione delle sfere d’interessi e d’influenza, delle colonie ecc., che non sia la valutazione della potenza dei partecipanti alla spartizione, della loro generale potenza economica, finanziaria, militare ecc.» (15). Ecco, dunque, che, nella guerra in Ucraina, quel che le potenze imperialiste coinvolte direttamente stanno saggiando è appunto la potenza economica, finanziaria, militare di ciascuna rispetto all’obiettivo che si sono prefissate. Che l’obiettivo della Russia sia quello di annettersi un pezzo dell’Ucraina, e precisamente la Crimea e il Donbass, è ormai fuor di dubbio; che ci riesca e che tale annessione duri poi nel tempo non è detto. Che l’obiettivo degli Stati Uniti e della Gran Bretagna sia quello di sottomettere l’Ucraina alla propria sfera di interessi e d’influenza è altrettanto evidente. Per ciò che riguarda l’Unione Europea, coinvolta direttamente in quanto i suoi paesi sono tutti membri della Nato – e quindi sotto dominio militare degli Stati Uniti –, come abbiamo già detto, è un’entità del tutto disomogenea. La Germania e l’Italia, e ovviamente l’Ungheria, per i loro rapporti economici e finanziari con la Russia, avrebbero preferito rimanere interessatamente neutrali rispetto all’«operazione militare speciale» della Russia in Ucraina; perciò hanno seguito malvolentieri le forzature imposte dagli USA e dalla Nato a schierarsi contro la Russia, ma è evidente, dati i rapporti di forza esistenti, che non potevano fare diversamente. La Francia avrebbe con ogni probabilità preferito iniziare a negoziare già dopo i primi mesi di guerra, sia per svolgere un ruolo distinto da quello degli USA, sia per tenere aperta la possibilità di sviluppare l’intercambio con un paese così ricco di materie prime come la Russia. D’altra parte, i buoni rapporti tra Francia e Stati Uniti, per quanto continuamente dichiarati di grande collaborazione e intesa – come nell’ultimo incontro tra Macron e Biden a Washington (16) – sono spesso messi in discussione proprio a causa della prepotenza sistematica degli USA non solo nei confronti dei suoi nemici, ma anche nei confronti dei suoi alleati di più vecchia data, come appunto la Francia. Basti ricordare lo schiaffone che Washington, con Londra e Camberra, hanno dato a Parigi nell’«affare del secolo» relativo alla commessa australiana di 12 sottomarini nucleari contrattualizzata per 56 miliardi di euro per i prossimi 50 anni; un affare che Washington, col pretesto di contrastare nel Pacifico le ambizioni della Cina, ha letteralmente soffiato da sotto il naso alla Francia; o la questione della fornitura del gas liquefatto da parte americana, in relazione alle sanzioni anti-russe per via della guerra in Ucraina, per la quale il Ministro dell’economia francese Le Maire ha accusato pubblicamente gli Stati Uniti di aver quadruplicato il prezzo di esportazione del suo gas liquefatto (che, oltretutto, va rigassificato) col quale in Europa si cerca di sostituire il gas russo. Nei primi sei mesi del 2022, gli Stati Uniti avrebbero inviato in Europa il 68% del loro export di Gnl (gas naturale liquefatto), per un totale di 39 miliardi di metri cubi di metano da rigassificare, sottraendolo ad Asia e America Latina; in effetti, secondo Reuters, il prezzo medio del Gnl americano in luglio era di 34 dollari per mmBtu contro i 30 dell’Asia e i 6,12 per gli Usa, praticamente il doppio rispetto al 2021; ma in estate, per l’Europa, il prezzo è enormemente aumentato fino a 60 dollari per mmBtu, e a settembre il prezzo era ancora di 57,8 dollari per la UE e di 8 dollari per gli Usa. Alla faccia dei sovraprofitti... Il ministro francese aveva tutte le ragioni per lamentarsi del partner americano quando, nell’ottobre scorso, ribadiva all’Assemblea nazionale di Parigi ciò che pensavano tutte le cancellerie europee: «il conflitto in Ucraina non deve sfociare in una dominazione economica americana e in un indebolimento dell’Unione europea» (17). Ma la legge del mercato passa sopra ai lamenti e, come succede sempre, quando c’è carenza di un prodotto, chi lo possiede e lo può vendere alza il prezzo il più possibile. Alla borsa di Amsterdam, che fa da riferimento europeo per il commercio del gas, il suo prezzo per smc (standard metro cubo) nell’aprile 2021 era di € 0,219; nel dicembre 2021 (quando già i mercati temevano lo scontro armato tra Russia e Ucraina) il prezzo era salito più di 5 volte tanto, cioè a € 1,178, e da quel momento in poi, con le normali oscillazioni, nel 2022 non ha fatto che salire: a marzo € 1,343, a luglio € 1,837, ad agosto € 2,379, a settembre € 2,019, andando a calare a dicembre a € 1,268 (18). Di questa situazione non hanno approfittato soltanto gli USA, ma anche la Norvegia (che non fa parte dell’UE) e che, soprattutto da quando i gasdotti Nord Stream 1 e Yamal che trasportavano il gas russo in Europa sono chiusi, si è trovata avvantaggiata a tal punto da quadruplicare le esportazioni di gas verso l’Europa. E, ovviamente, non sono mancate le accuse da parte dei briganti di Bruxelles ai briganti della Norvegia di “eccessiva avidità”... 

Ma la pressione degli Stati Uniti, approfittando del fatto che la guerra in Ucraina non si svolgeva come una guerra-lampo e del fatto che l’Ucraina di Zelensky agiva come una pedina della Nato anche se non ne faceva ufficialmente parte, era tale da indurre l’Unione Europea a emanare una serie sempre più ampia di sanzioni economiche contro la Russia e sostenere finanziariamente e con continue forniture militari l’esercito ucraino. La giustificazione propagandata di questo coinvolgimento europeo, come sappiamo, è data dal fatto che bisognava contrapporre al pericolo che la Russia aggredisse militarmente l’Europa una forte risposta sia finanziaria sia armata, non inviando proprie truppe come in Afghanistan, ma facendo fare la guerra agli ucraini perché la loro “sovranità nazionale” fosse ripristinata. Cosa che continua ad avvenire, sebbene le forniture militari finora concesse a Zelensky non siano state all’altezza delle richieste atte a rispondere e sbaragliare le truppe russe occupanti. La guerra-lampo che i russi avevano sognato si è trovata di fronte una resistenza ucraina sottovalutata e un fronte antirusso da parte europea tutto sommato abbastanza forte, nonostante la pesantissima penalizzazione a cui i paesi europei, Germania e Italia soprattutto, andavano incontro a causa della diminuzione drastica o della cessazione di forniture russe di gas e petrolio. La pressione di Washington è stata tale che finora è riuscita a piegare Germania, Francia, Italia alle sue direttive antirusse, sebbene, in termini di fornitura di armamenti più moderni e sofisticati (carri armati, missili ecc.), chi più chi meno, facciano ancora parecchia resistenza. E’ ormai nota la ritrosia della Germania a rifornire l’Ucraina dei carri armati Leopard 2, ritenuti internazionalmente i più moderni e adatti alla guerra campale in un territorio come quello ucraino, nonostante le continue pressioni da parte degli alleati europei e da parte americana; come è nota la continua richiesta del governo ucraino di usare l’aviazione per rispondere all’artiglieria e ai missili russi con cui le città ucraine, compresa Kiev, vengono colpite da distanze notevoli. Ma finora nessuna potenza occidentale si vuol prendere la responsabilità di alzare troppo il livello di scontro con la Russia, non solo per il timore di una furiosa reazione di Mosca con le tanto minacciate armi tattiche nucleari, ma anche perché nessun paese, forse nemmeno gli USA, è pronto oggi a sostenere i costi e gli impegni di una terza guerra mondiale di fronte alla quale le stesse attuali alleanze interimperialiste non sono per niente stabili e non sono nemmeno armate come una guerra mondiale richiederebbe (19). D’altra parte si capisce come mai Zelensky parli agli europei secondo le indicazioni e gli interessi degli USA: Washington ha tutto l’interesse a indebolire militarmente e finanziariamente la UE, perché diventerebbe l’unico fornitore di armamenti moderni agli eserciti europei – condizionandoli perciò per i loro equipaggiamenti, la loro istruzione e i loro ricambi – costringendo i paesi europei, leggi Germania e Francia soprattutto, a grossi investimenti con l’impiego di diversi anni per produrre nuovi sistemi d’arma in quantità rilevanti. Con il pretesto della guerra che l’Ucraina conduce contro la Russia per difendere il suo territorio nazionale, gli Stati Uniti tentano un’ulteriore aggressione all’Europa indebolendola militarmente ed economicamente come era già successo con la seconda guerra mondiale; l’obiettivo di Washington è quello di rinsaldare la sua posizione di forza in Europa per avere le mani più libere nel contrastare la crescita della forza imperialistica da parte della Cina.  

Lenin scriveva nel 1916 che «le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste», che «non sono altro che un “momento di respiro” tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze», cioè «quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista» e, riprendendo l’ipotesi avanzata all’epoca da Kautsky sull’ultraimperialismo, ribadiva il concetto anche nell’ipotesi «di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste» (20); ipotesi quest’ultima estremamente improbabile nel quadro dei contrasti interimperialistici che storicamente si sono sviluppati dall’inizio del Novecento in poi, ma non da escludere a priori e certamente ipotizzabile nel caso in cui la rivoluzione proletaria vincesse in un paese imperialista di prima grandezza e, sulla base di questa vittoria, procedesse verso la rivoluzione mondiale trasformando la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria di classe. Come scriveva Marx nel 1848, il terreno controrivoluzionario è nello stesso tempo terreno rivoluzionario, non per una specie di germinazione spontanea, ma per il fatto che i fattori economici, politici, sociali e militari che scatenano lo scontro tra stati capitalisti, tanto più in epoca imperialista, terremotano in modo profondo anche i rapporti sociali tra le classi in ogni paese, alzando il livello della lotta fra le classi, lotta che cova in permanenza sotto la pressione e l’oppressione borghese, rendendola, se influenzata e guidata dal partito di classe, potenzialmente rivoluzionaria.

Oggi non ci sono ancora i segni di una ripresa della lotta classista del proletariato, né nei paesi imperialisti che si combattono per spartirsi il mondo, né nei paesi dominati e oppressi dalle nazioni più forti; lotta che renderebbe più chiara la prospettiva rivoluzionaria della lotta di classe; anzi, si assiste ad una crisi prolungata del movimento operaio sotto ogni cielo, crisi che ha cancellato completamente nelle generazioni proletarie più recenti ogni ricordo, ogni tradizione delle lotte di classe del passato, ricacciandole nelle forme più aspre di un asservimento e di uno schiavismo inimmaginabile cent’anni fa. Da questo abisso in cui è precipitato, il proletariato potrà riemergere soltanto attraverso la lotta primordiale per la vita o per la morte, rifiutando di farsi ammazzare per garantire la vita ai propri schiavisti, ai propri oppressori, ai propri sfruttatori, e cancellando dal proprio orizzonte tutte le illusioni di pace, di democrazia, di civiltà che i poteri borghesi alimentano a piene mani al solo scopo di mantenerlo sottomesso e schiavo per poterne sfruttare permanentemente la forza lavoro e per poterlo trasformare in carne da macello tutte le volte che le crisi economiche e sociali scuotono la società da cima a fondo.

I proletari russi e ucraini che hanno cercato di sottrarsi alla chiamata per la guerra, nascondendosi o scappando in altri paesi, o che hanno manifestato in qualche occasione la loro opposizione alla guerra, se da un lato mostravano la loro opposizione personale alla guerra, dall’altro mostravano inevitabilmente il totale disorientamento e isolamento in cui si trovavano. Disorientamento e isolamento provocati, per l’appunto, da decenni di collaborazionismo interclassista attuato dalle organizzazioni economiche e politiche che si riferiscono ai proletari, attraverso il quale passano sempre tutte le illusioni sulle possibilità di migliorare le proprie condizioni di esistenza solo se si agisce e si pensa come vuole, o come obbliga, la classe dominante borghese. Far perdere al proletariato la caratteristica riconosciuta di classe distinta da tutte le altre, con interessi propri e antagonisti a quelli delle altre classi, è esattamente l’obiettivo che ogni classe dominante vuole raggiungere; e per raggiungerlo non si serve soltanto di “politiche sociali” che in qualche modo tacitino i bisogni più elementari della classe lavoratrice, ma di politiche che rafforzino il controllo sociale e che leghino i proletari al carro borghese per tutta la vita. In un certo senso è la vecchia politica del bastone e della carota, ossia dell’alternare le buone e le cattive maniere per ottenere un risultato che con la sola opera di convincimento non si otterrebbe mai. Insomma, mentre ai soldati si garantisce un rancio, si garantiscono anche misure repressive se non eseguono gli ordini... La pace dello stomaco, quindi, dipende dall’intero corpo teso alla guerra... Naturalmente entra in campo anche il coinvolgimento ideologico col quale si giustificano le buone e, soprattutto, le cattive maniere. E, nel caso di questa guerra, i rispettivi nazionalismi hanno giocato per l’ennesima volta un ruolo importante. Il nazionalismo non è in contraddizione con l’imperialismo, come non lo è la libera concorrenza; solo che si alza il livello di concorrenza tra il nazionalismo dei paesi imperialisti più forti e il nazionalismo dei paesi più deboli, cosicché il nazionalismo dei paesi più deboli viene assorbito dal nazionalismo del paese più forte e, nello stesso tempo, lo nutre. Un po’ come il nazionalismo ucraino nei confronti dei paesi dell’Unione Europea in quella specie di multinazionalismo che i diversi paesi europei utilizzano per giustificare la loro alleanza economica, finanziaria e politica rispetto ai problemi di politica interna di ciascun paese e dei rapporti con il loro alleato più forte e invadente, gli Stati Uniti d’America. Anche in vista di una terza guerra mondiale, il nazionalismo giocherà un ruolo importante; in questo caso, come, e anche di più, nel caso della seconda e della prima guerra imperialista mondiale, ciascun paese dell’una e dell’altra coalizione imperialista che si faranno la guerra, e il nazionalismo dei paesi meno decisivi – come la loro economia – saranno al servizio del nazionalismo del paese o dei paesi più forti; la dipendenza economica e militare nella conduzione della guerra decide quale ruolo ciascun paese delle rispettive coalizioni deve giocare, e quale ruolo potrà giocare alla fine della guerra quando la spartizione del mondo subirà le modificazioni che i nuovi rapporti di forza stabiliranno.

Oggi, il quadro mondiale si presenta con un progressivo sviluppo dei contrasti tra la Nato e la Russia, senza dimenticare che all’interno della Nato, mentre il Regno Unito si comporta ormai come un’appendice degli USA, il punto di domanda più forte riguarda sempre la Germania, e un altro punto di domanda riguarda l’Ungheria che, fin dall’inizio della guerra russo-ucraina, ha “remato contro” le sanzioni europee e, ultimamente si è opposta nettamente all’ulteriore prestito UE per l’Ucraina di 18 mld di euro per il 2023. L’impegno che l’Unione Europea – di fatto a conduzione tedesca – sta sostenendo nella guerra dell’Ucraina contro la Russia, sul piano finanziario, militare e umanitario, secondo i dati forniti dai media, avrebbe superato, al 7 dicembre 2022, quello degli Stati Uniti: 52 mld di euro (compresi i 18 miliardi stanziati per il 2023, che però trovano l’Ungheria contraria) contro i 48 mld di euro degli USA. Tra i 27 paesi membri dell’UE, la Germania ha investito finora più di tutti, 12,6 mld di euro (soprattutto sul piano finanziario); anche sul piano militare, con 2,3 mld di euro, è il paese europeo che ha investito finora più risorse, contro la Polonia, con 1,8 mdl, la Norvegia con 0,6 mld, la Svezia con 0,6 mld, l’Italia con 0,3 mld (21). Dal momento degli impegni assunti alla loro effettiva realizzazione, come sempre, passa del gran tempo; quindi è logico che Zelensky continui a insistere perché gli europei e gli Stati Uniti velocizzino l’invio di armi sempre più sofisticate e i finanziamenti per far fronte alle distruzioni delle infrastrutture energetiche e idriche causate dai bombardamenti russi. Quanto alla Francia, che è stata una dei principali investitori europei in Ucraina, ultimamente, alla conferenza internazionale di Parigi per la solidarietà all’Ucraina del dicembre 2022, presieduta da Macron insieme (in videoconferenza) a Zelensky, e che finora non eccelleva in aiuti militari, ha radunato oltre 700 aziende francesi impegnandosi per 1 mld di euro per la ricostruzione dell’Ucraina: ovvio, guardando, come tutti gli altri, agli affari del dopoguerra... Non è un caso, infatti, che il ministro della difesa francese, Lecornu, dopo la vista a Kiev di fine dicembre sia volato in Lituania per concludere la vendita di mortai “Caesar Mark II” per un valore compreso tra i 110 e i 150 milioni di dollari (22). 

 

MENTRE LA GUERRA È IN CORSO

        

Nel frattempo, le sanzioni americane, europee e degli altri alleati, a detta degli stessi media mainstream, sembra non abbiano raggiunto lo scopo che si prefiggevano; avrebbero dovuto piegare pesantemente l’economia russa colpendola nei suoi commerci vitali (esportazione di gas, petrolio e altre materie prime) e bloccando i capitali russi depositati nelle banche estere; ciò avrebbe dovuto togliere a Mosca i capitali necessari per sostenere la guerra in Ucraina, costringendola a negoziare “la pace” nelle condizioni per lei più sfavorevoli. Secondo il Washington Post, citato dal Corriere della sera del 18 gennaio 2023, la Russia, in base alle affermazioni di Putin, ha subito un calo del Pil del solo 2,1%, molto ma molto meno del 10% o del 15% (se non addirittura del 20%) che era quanto i soliti esperti prevedevano (23). Evidentemente non è dipeso soltanto da come la Russia abbia aggirato le sanzioni euro-americane (fatta la legge, trovato l’inganno, è un motto borghese sempre valido) e da come abbia assorbito il colpo delle mancate vendite di gas e petrolio all’Europa rispetto a prima, rivolgendosi ai mercati orientali, soprattutto di Cina e India che, naturalmente l’hanno acquistato a prezzi non certo di mercato. Il fatto è che le sanzioni stesse, soprattutto da parte europea, pur essendo “forti” nelle dichiarazioni ufficiali, in pratica non sono mai state altrettanto decise e assolute; e ciò denota, per l’ennesima volta, la difficoltà oggettiva dell’Unione Europea ad agire come fosse uno “Stato unito”, cosa che non è, e mai potrà essere, finché il capitalismo sarà in vita. E anche se un domani, per qualche combinazione astrale favorevole, si costituissero davvero i fantasticati Stati Uniti d’Europa, questi non sarebbero che un’entità unitaria imperialistica contrapposta frontalmente alle altre unità imperialistiche già esistenti: Stati Uniti d’America, Cina, Russia, India. Non garantirebbero per nulla la “pace” nel mondo, ma aumenterebbero in modo esponenziale i contrasti imperialistici tra tali unità imperialistiche. Perciò aumenterebbero ulteriormente i fattori oggettivi per una terza guerra mondiale.  

Tutte le cancellerie prevedono che la guerra russo-ucraina duri ancora molto tempo, forse anche oltre il 2023. Ed è un tempo in cui tutte le potenze imperialistiche, Russia compresa, intendono trarre lezioni, testare l’efficacia di certi armamenti, di certi piani strategici, valutare fino a che punto le tecnologie satellitari e l’uso dei droni contribuiscono a colpire pesantemente il nemico e a facilitare gli attentati oltre le linee nemiche in una “guerra partigiana” che, dato il quadro in cui si svolge questa guerra, diventa una sua parte non secondaria.

In questa guerra tutte le cancellerie occidentali si chiedono che ruolo svolge e svolgerà davvero la Cina. E’ noto che tra Russia e Cina esistono intese di vario tipo, economiche e politiche, segnate da un contrasto con l’imperialismo USA sia di carattere politico che militare; un contrasto che attualmente si è manifestato in modo plateale nella guerra russo-ucraina e in modo piuttosto forte, ma non tale da tradursi in scontro militare, nel teatro dell’Indo-Pacifico e, più specificamente, di Taiwan. La Cina è troppo interessata a mantenere buone relazioni commerciali, e quindi anche politiche, con gli Stati Uniti e l’Europa perché costituiscono, in generale, mercati di primaria importanza per le esportazioni sia di merci che di capitali. D’altra parte, lo stesso discorso vale soprattutto per gli Stati Uniti e l’Europa, in particolare per la Germania che è il primo paese europeo in termini di import-export con la Cina. Ciò non toglie che le mire cinesi su Taiwan e, in generale, su tutto l’estremo Oriente, continuino a preoccupare seriamente Washington, Londra, New Delhi, Tokyo, Camberra. Ma da imperialista qual è, la classe borghese dominante di Pechino – anche se si camuffa da più di settant’anni da “comunista” – non può non avere un orizzonte planetario. I buoni rapporti con la Russia, soprattutto in termini di contrasto con gli USA, tornano a rappresentare un punto di vantaggio nei contrasti interimperialistici mondiali; furbescamente Xi Jinping ha criticato l’invasione russa dell’Ucraina, sostenendo il principio della “sovranità nazionale” (che gli torna comodo per giustificare la rivendicazione di Taiwan come parte della grande nazione cinese), ma non l’ha sostenuta militarmente (ci pensa la Corea del Nord, che è un satellite cinese); ha però approfittato delle difficoltà economiche russe sulle esportazioni di gas e petrolio dovute ai continui pacchetti di sanzioni euro-americane, comprando a prezzo vantaggioso quel che la Russia non poteva più vendere all’Europa. E così, la Cina, grazie ai suoi rapporti con la Russia di Putin e il suo non coinvolgimento militare nella guerra russo-ucraina, viene considerata da più parti come la potenza che potrà mediare, finita la guerra, sui negoziati di pace, magari in una Conferenza di pace che si terrà a Bali, a Davos o a Parigi. Rimanere sulla riva del fiume, in attesa che i nemici che si fanno la guerra arrivino al punto di doverla concludere, sembra essere una caratteristica orientale. Sta di fatto che nemmeno Pechino ha interesse a scendere in campo armata di tutto punto; si sta attrezzando, però, all’eventualità di una futura guerra mondiale contro qualsiasi altra potenza imperialistica che voglia imporre i suoi interessi nell’Indo-Pacifico, Stati Uniti in testa, anche se gli americani, così come, oggi, non hanno intenzione di morire per Kiev, non sembra proprio che abbiano intenzione, domani, di morire per Taipei. Foraggeranno con dollari e armamenti Taipei come fanno con Kiev, ma se scoppierà una guerra con Pechino, se la dovranno vedere i taiwanesi, come, oggi, nella guerra contro i russi se la devono vedere gli ucraini.

 

L’ARDUA E DIFFICILE VIA DELLA RIPRESA DI CLASSE DEL PROLETARIATO

 

Il proletariato dell’Occidente europeo, nel sostenere i propri governi bellicisti contro la Russia, partecipando o subendo senza opporsi minimamente alla campagna ideologica e pratica imbastita dal multinazionalismo euro-americano, mostra di essere ancora vergognosamente illuso sulle possibilità che i governi imperialisti dei propri paesi, grazie alla guerra in Ucraina (che è una guerra di rapina sia da parte russa, sia da parte euro-americana), mettano fine ai massacri che avvengono “sotto casa” piegando il Male, che sarebbe rappresentato dall’aggressiva Russia, alle ragioni del Bene, della convivenza pacifica tra i popoli, che sarebbero rappresentate da questi governi... i “migliori messaggeri di pace” al mondo. Questi stessi governi che hanno sostenuto le guerre in Bosnia, in Kosovo, in Libia, in Afghanistan, in Iraq, in Siria (solo per ricordare quelle più recenti), e che – aldilà delle forze politiche che li guidavano e li guidano – mirano a imporre le ragioni del proprio imperialismo di casa alle nazioni più deboli, questi stessi governi sarebbero i “costruttori di pace”, i dispensatori di “civiltà”, i garanti di “benessere” e “armonia” tra i popoli?

Con tutti i decenni di massacri di popolazioni inermi e leguerre di rapina perpetrati in tutti i continenti da parte delle potenze imperialiste – democratiche, soprattutto – può stupire che la maggior parte del proletariato dei paesi avanzati (quello che, teoricamente, avrebbe la potenziale forza di opporsi decisamente a tutto questo) sia invece costretta, per la maggioranza, ad una vita misera in attesa di essere portata, come buoi, al macello. In Europa, in particolare, ogni giorno arrivano a migliaia, o tentato di arrivare, via mare e via terra, masse immiserite e disperate che fuggono dalle guerre istigate e condotte dagli stessi paesi democratici europei, che fuggono dalle devastazioni delle guerre di ieri che si sommano alle devastazioni delle guerre di oggi. Queste masse proletarie, senza riserve e senza patria, in balìa di situazioni che non controlleranno mai, ma che sono utilizzate cinicamente da civilissimi imprenditori e dagli Stati europei per sfruttare la loro forza lavoro e per ricattare pesantemente i proletari autoctoni (indicando loro che fine potrebbero fare se non si piegassero alle esigenze dei padroni), dimostrano oggettivamente che il proletario, il lavoratore salariato, non ha davvero patria perché la patria, per la quale è costretto a morire di fatica o sotto i bombardamenti, è la patria che gli succhia il sangue e la vita a beneficio esclusivo di quella minoranza assetata di profitti e di ricchezze che si chiama classe borghese dominante e che ha molto chiaro in testa che il suo nemico storico principale non è la borghesia straniera con cui si scontra nella lotta di concorrenza internazionale – e contro cui manda in guerra i suoi proletari – ma è il proletariato, la classe dei lavoratori salariati, l’unica classe che, sfruttata capitalisticamente, produce la ricchezza di ogni paese che la borghesia, attraverso il modo di produzione capitalistico, trasforma in valore per il capitale, e quindi per la borghesia stessa che è padrona di tutti i mezzi di produzione e che si appropria l’intera ricchezza prodotta costringendo il proletariato e la società intera a dipendere dal suo potere. E’ appunto il potere borghese, politicamente concentrato nello Stato, l’obiettivo che la lotta di classe del proletariato deve abbattere. Nessun borghese nel 1917, in piena guerra imperialista mondiale, si aspettava che il proletariato russo avesse la forza per abbattere non solo il vecchio e putrefatto potere zarista, ma anche il giovane nuovo potere borghese; nessun borghese si aspettava che quel proletariato, pur stremato e affamato dalle conseguenze della guerra, fosse in grado di organizzarsi nella dittatura di classe per dirigere lo Stato, di organizzare dal nulla l’armata rossa, di tener testa ad una lunga guerra civile contro le guardie bianche sostenute in tutto e per tutto dalle potenze imperialistiche che continuavano comunque a farsi la guerra, e di organizzare nello steso tempo la nuova Internazionale proletaria sulle ceneri della vecchia socialsciovinista e traditrice Seconda Internazionale, accettando la sfida a livello internazionale che le potenze imperialistiche avevano lanciato contro di esso. Non sono state le potenze anglo-francesi e americane a piegare nella guerra civile russa il proletariato russo, e non ci è riuscito nemmeno il potente e temuto esercito tedesco; sono stati i veleni opportunisti della socialdemocrazia europea e del nazionalismo grande russo a tagliare le gambe al proletariato russo e, con esso, al proletariato di tutta Europa a partire da quello tedesco e ungherese. Questa lezione della storia e della lotta del movimento proletario e comunista contro ogni potenza imperialistica e contro ogni opportunismo l’hanno tratta certamente Lenin e il partito bolscevico finché quest’ultimo è riuscito a resistere alle influenze deleterie e velenose dell’opportunismo; e l’ha tratta sicuramente la corrente della Sinistra comunista d’Italia alla cui intransigente continuità teorica e politica dobbiamo la restaurazione della dottrina marxista e le basi teorico-politiche della ricostituzione del partito comunista rivoluzionario, del partito di classe che è l’arma vincente del proletariato internazionale nella lotta per la sua emancipazione definitiva dal capitalismo, da una società che sta in piedi soltanto opprimendo le classi lavoratrici e i popoli di tutto il mondo. Per quanto lontana nel tempo possa sembrare la ripresa della lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato, per quanto considerata impossibile l’emancipazione del proletariato al di fuori della società capitalistica e borghese, per quanto la rivoluzione proletaria alla bolscevica sia data per morta e defunta per l’eternità, il proletariato saprà ancora sorprendere le classi borghesi di tutto il mondo, farà riapparire all’orizzonte lo spettro del comunismo autentico, del comunismo marxista, in una lotta senza quartiere tra i seppellitori della società borghese – i proletari rivoluzionari – e i conservatori borghesi di una società in putrefazione destinati ad essere seppelliti.

Le condizioni storiche ci obbligano da decenni a combattere soltanto con le armi della critica, in attesa che i rapporti di forza tra le classi si modifichino e aprano la via alla critica delle armi. Su che cosa si basa questa nostra certezza? Siamo materialisti dialettici, oltre che storici; perciò sappiamo che lo sviluppo storico delle forze produttive determinato dal capitalismo riporterà la società al punto in cui le forme sociali con cui essa continua a limitarle costringendole ad autodistruggersi per potersi rinnovare ciclicamente, non riusciranno più a trattenere la loro forza esplosiva. Allora sarà, a livello internazionale, guerra o rivoluzione, dittatura dell’imperialismo o dittatura del proletariato.

 


 

(1) Cfr. Né con Truman, né con Stalin, nel nostro giornale di allora “battaglia comunista” n. 14, 12-26 luglio 1950.

(2) Cfr. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916, “Opere”, vol. 22, cap. IV. L’esportazione del capitale, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 193.

(3) Ibidem, p. 268.

(4) Ibidem, p. 273.

(5) Ibidem, pp. 241-42, 244.         

(6) Ibidem, p. 249.

(7) Ibidem, p. 261.

(8) Ibidem, p. 265.

(9) Cfr. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, p. 107.

(10) Cfr. USA e URSS: Padroni-soci in Europa, avversari imperialistici in Asia e Africa, “il programma comunista” n. 1 del 1957, ripubblicato ne “il comunista” n. 123-124, nov. 2011-febb. 2012.

(11) Gli anni in cui gli Stati Uniti non hanno fatto alcuna guerra sono: 1935-1940, 1948-49, 1976-78, 1997, 2000; queste le guerre più seguite dai media internazionali che hanno visto gli USA protagonisti, diretti e indiretti, ad alta o bassa “intensità”, dal 1945-46 in poi: Cina (1945-46, 1950-53), Corea (1950-53), Guatemala (1954, 1967-69), Indonesia (1958), Cuba (1959-60), Congo Belga (1964), Perù (1965), Laos (1964-73), Vietnam (1961-73), Cambogia (1969-70), Grenada (1983), Libia (1986), El Salvador (anni ’80), Nicaragua (anni ’80), Panama (1989), Iraq (1991-99), Bosnia (1995), Sudan (1998), Jugoslavia-Kosovo (1999), Afghanistan (2001-2021), Yemen (2004-ancora in corso), Iraq (2003-ancora in corso), Somalia (2007-2011), Siria (2010-ancora in corso), Libia (2011-ancora in corso).http:// www.proteo. rdbcub.it /article.php3?id_article=159&artsuite=1

(12) La Russia, dopo la Rivoluzione d’ottobre 1917 e l’instaurazione della dittatura del proletariato ha preso ufficialmente il nome di Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) nel dicembre 1922, che univa in un unico Stato 15 repubbliche. La denominazione URSS è stata mantenuta anche dopo che lo stalinismo ebbe affossato il corso rivoluzionario proletario e socialista, ripresentando di fronte al mondo uno Stato che ereditava la storia che aveva caratterizzato lo zarismo, ma sotto la forma ormai irreversibile di Stato borghese, votato al capitalismo e al suo sviluppo e, quindi, con tutte le ambizioni del vecchio Impero russo. La guerre, con le relative occupazioni militari, che lo videro protagonista, diretto o indiretto, a bassa o ad alta intensità, dopo la prima guerra imperialistica mondiale, sono state: Manciuria interna (1929), Mongolia (1929), ancora Manciuria (1939), Polonia (1939-1956), Finlandia (Guerra d’inverno, 1939-44), Paesi Baltici (1940-1991), Romania (Bessarabia e Bucovina, 1940), Germania (e territori da essa occupati durante la guerra: Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Albania, 1941-1944), Germania Est (1945), Austria (1945-55), di nuovo Manciuria (1945-46), Norvegia settentrionale (1945-46), Corea (1945-48 e 1950-53), Ungheria (1956), Israele/Palestina (1967-70), Cecoslovacchia (1968-1989), Somalia/Etiopia (Ogaden, 1977-78), Afghanistan (1979-89), Georgia (1991-93), Ossezia (1992), Tagikistan (1992-97), Cecenia (1994-96 e ancora 1999-2009), Caucaso (2009-2017), Ucraina (2014 e 2022-ancora in corso), Siria (2015-ancora in corso).  https://it.frwiki.wiki/wiki/Liste _des_ guerres_ de_ la_ Russie

(13) Cfr. l’8 marzo 1983, discorso tenuto alla convenzione annuale della National Association of Evangelicals; vedi: Ronald Reagan, Remarks at the Annual Convention of the National Association of Evangelicals in Orlando, Florida, su reagan.utexas.edu, 1983. In questo discorso, il presidente americano, rivolgendosi appunto all’Associazione Evangelica, sostenne quanto segue: «Nelle vostre discussioni relative al congelamento dell’arsenale nucleare, vi esorto a guardarvi dalla tentazione dell’orgoglio – la tentazione di dichiararvi serenamente al di sopra di tutto questo e di etichettare entrambe le parti come egualmente in torto; la tentazione di ignorare i fatti storici, gli impulsi aggressivi di un impero del male, chiamando la corsa al riarmo “un enorme fraintendimento”, e così sottrarvi alla lotta tra il giusto e l’ingiusto, tra il bene ed il male». Secondo John Lewis Gaddis, storico della “guerra fredda”: «Il discorso dell’”impero del male” completò un’offensiva retorica studiata per evidenziare ciò che Reagan vedeva come l’errore centrale della distensione: l’idea che l’Unione Sovietica si fosse meritata una legittimazione geopolitica, ideologica, economica e morale pari a quella degli Stati Uniti e delle altre democrazie occidentali nel quadro del sistema internazionale del secondo dopoguerra». (Vedi, Gaddis, La guerra fredda, trad. it. di Nicoletta Lamberti, Mondadori, Milano 2007).

(14) Cfr. Perché la guerra fa bene all’economia, dicembre 2001, http://www. proteo.rdbcub.it/ article. php 3?id _article =159&artsuite=     

(15) Cfr. Lenin, L’imperialismo..., cit. p. 294.

(16) Cfr. https://it.ambafrance.org/Dichiarazione- congiunta -del -Presidente- della- Repubblica-francese- e-del , 1.12 2022.

(17) Cfr. https://tg24.sky.it/mondo/2022/10/12/gas-prezzo-francia-usa-accuse. Il gas naturale viene misurato in metri cubi (partendo dalle misure inglesi per il suo volume in piedi cubici). 1000 Btu equivalgono a un piede cubo di gas naturale; un metro cubo equivale a 35.315 piedi cubici, quindi 35.315 Btu per metro cubo. Un  mmBtu è 1 milione di Btu.

(18) Dati European Gas Spot Index, https: // luce-gas.it/guida/mercato / ttf-gas, 9.1.2023.

(19) A proposito dei carri armati che l’Ucraina richiede insistentemente, la questione presenta molti aspetti critici “tra i quali spicca innanzitutto il fatto che l’Europa dispone appena dei carri armati sufficienti ad equipaggiare pochi reparti dei propri eserciti”, si legge su https://www.analisidifesa.it/2023/01/leuropa-fornira-allucraina-carri-armati-e-missili-che-non-ha.

(20) Cfr. Lenin, L’imperialismo…, cit. p. 295.

(21) Cfr. https:// euractiv.it/ section/capitali/news/lopposizione-dellungheria-al-prestito-ue-per- lucraina- rafforza-le- critiche  -afferma- il-ministro-agli-affari- europei-della-repubblica-ceca/, del 16 novembre 2022; e https://www. startmag.it/mondo/tra-ue-e-nato-chi-sta-aiutando-di-piu-lucraina-con-armi- sostegno- finanziario-e-umanitario/, dell’11 gennaio 2023.

(22) Cfr. https:// it.euronews.com/ 2022/12/29/ soldi-e-cannoni-francesi-per. lucraina- lavrov-kiev-riconosca- le-regioni-annesse-alla-russia 

(23) Cfr. Corriere della sera, del 18 gennaio 2023, Federico Rampini: L’economia russa non è crollata: è la rivincita di Putin sulle sanzioni?

 

 

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