Iran

Arresti, torture, assassinii, sparizioni e sepolture nascoste: il regime confessionale fondamentalista usa il tallone di ferro per rimanere in piedi

(«il comunista»; N° 176 ; Gennaio-Febbraio 2022)

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Le manifestazioni e la lotta contro il regime degli ayatollah, a ondate, hanno caratterizzato l’ultimo ventennio, cioè il periodo in cui la spinta di un capitalismo relativamente giovane a svilupparsi in modo accelerato ha acuito ulteriormente le contraddizioni di un paese che fatica moltissimo a uscire dalle tradizioni confessionali con cui la nuova borghesia iraniana si è imposta sul vecchio regime dello Scià, grazie alle oceaniche manifestazioni e gli estesi scioperi operai contro lo Scià. Un capitalismo che, sviluppandosi, non poteva che ingrossare sempre più la massa dei lavoratori salariati, il proletariato, dal cui sfruttamento intensivo trae tutta la ricchezza prodotta.

D’altra parte, lo sviluppo del capitalismo non può che procedere con l’intensificazione degli scambi commerciali a livello internazionale, quindi anche con i mezzi più moderni di comunicazione (radio, tv, internet) e di istruzione necessari per sviluppare non solo i commerci, ma anche la produzione industriale in tutti i settori (petrolchimico, siderurgico, automobilistico, metallurgico, meccanico, tessile) e, in particolare, nell’ingegneristica e nel nucleare.

Qualche dato può dare un’idea di come si presenta oggi l’Iran, sottoposto d’altra parte a sanzioni piuttosto pesanti da parte degli USA e dei suoi alleati occidentali. Il 75% della popolazione vive nelle città, ma il 30% della popolazione vive ancora di agricoltura su un territorio coltivato solo per il 10% (soprattutto pistacchi e cotone di cui è esportatore mondiale, e cereali, orzo, tabacco, barbabietole, canna da zucchero), e di allevamento (bovino, ovino e caprino); in un territorio, d’altra parte, ancora caratterizzato da una notevole frammentazione della proprietà terriera. La popolazione attiva (dati del 2021) è di 26 milioni e mezzo (di cui la forza lavoro femminile è soltanto il 17%) rappresentando il 32% dell’intera popolazione, e la disoccupazione, nel 2019, era non meno del 20% (oltre i 5 milioni di persone). La crisi economica e sociale, come in ogni paese, si abbatte soprattutto sulle classi lavoratrici e povere (l’inflazione, pare, ha toccato il 50%) e il clima sempre più oppressivo instaurato dal regime confessionale, prima da Khomeini e poi da Khamenei, colpisce direttamente le giovani generazioni e le donne in particolare. La gran parte delle attività produttive è controllata dalle fondazioni religiose (bonyad) e dell’esercito dei päsdärän, e quindi è inevitabile che siano le donne a subire l’oppressione più dura e violenta, soprattutto se si ribellano, come è successo da settembre scorso in avanti.

E, mentre le giovani donne iraniane, e gli operai che sono scesi in sciopero di solidarietà, mostrano al mondo che l’oppressione sociale che caratterizza non solo l’Iran ma tutte le società moderne, democratiche, totalitarie, confessionali o meno, combattono ribellandosi senza paura delle conseguenze, i proletari dell’opulento Occidente europeo stanno a guardare come se quel che succede in quel paese non li riguardasse. Guardano il proprio ombelico, i propri ristrettissimi interessi immediati come se, a separare la loro vita da quella dei proletari dei paesi della periferia dell’imperialismo, ci fossero muri invalicabili. Come se ogni borghesia occidentale non fosse responsabile delle condizioni di esistenza anche dei proletari di tutti gli altri paesi del mondo; un mondo che le borghesie imperialiste si sono spartite nella seconda guerra mondiale e che oggi stanno cercando di spartirsi – guerreggiando tra di loro e non solo in Ucraina – in modo diverso da quello instauratosi nel corso dei decenni precedenti.

La politica sociale del regime iraniano, in parte, ha cercato di assomigliare a quella dei paesi occidentali, naturalmente con risorse finanziarie molto più ristrette. Periodicamente, i presidenti della repubblica che si sono susseguiti nel tempo hanno cercato di tenere sotto controllo le tensioni sociali calmierando i prezzi dei beni di prima necessità e utilizzando i sussidi per gli strati più poveri della popolazione. Ma questi mezzi, come sappiamo, non sono mai risolutivi e quando l’economia si inceppa, entrando in crisi, con milioni di persone che non trovano lavoro e con un’inflazione che erode velocemente il potere d’acquisto delle masse, le tensioni che covano costantemente sotto la cenere scoppiano. Il fenomeno più recente che si riscontra è la ribellione al clima di oppressione sociale soprattutto da parte delle donne, e delle giovani donne in particolare, a cui si sono poi uniti i giovani uomini a partire dagli studenti universitari.

Il 13 settembre scorso, come ormai è noto a tutti, Mahsa Jina Amini, una giovane curda di 22 anni, era stata arrestata per aver infranto una misura relativa a come indossare il velo sul capo imposto alle donne, Dall’arresto alle sevizie e all’assassinio sono passati 3 giorni. Il fatto che fosse curda probabilmente ha avuto un ulteriore peso negativo, visto che la popolazione curda in generale è sistematicamente oppressa e non solo dagli iraniani, ma anche dai turchi, dagli iracheni e dai siriani. Quell’episodio è stato la miccia che ha incendiato l’Iran; da settembre in poi, e ancora oggi sebbene in fase calante, le manifestazioni di protesta non si sono mai fermate, e non è un caso che il cuore di queste manifestazioni sia sempre stato rappresentato dalle donne, giovani soprattutto. Le manifestazioni hanno coinvolto più di 160 città e vi sono stati finora più di 20.000 arresti; le vittime durante le manifestazioni sono state, finora, oltre 500 (e tra le forze dell’ordine, sembra, non più di 62); le condanne a morte già eseguite, per quanto se ne sa, hanno colpito 10 fra i manifestanti arrestati (1). A queste manifestazioni di protesta il regime confessionale ha risposto con una durissima opera di repressione, di fronte alla quale è emerso il coraggio delle giovani donne che, pur sapendo di andare incontro ad arresti, pestaggi e morti hanno continuato ad esprimere uno spirito di ribellione irrefrenabile. Ed è di questo spirito ribelle che il regime di Teheran ha paura, perché può essere molto contagioso e coinvolgere soprattutto la classe operaia.

Dopo l’assassinio di Mahsa Amini, il 13 ottobre si è avuta notizia di un’incursione delle forze di sicurezza nel liceo femminile “Shahed” di Ardabil, abitata perlopiù da azeri – altra minoranza etnica, di religione sunnita, invisa agli iraniani di religione sciita –, perché un gruppo di studentesse si era rifiutato di cantare l’inno per l’ayatollah; in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza, Asra Panahi, 16 anni, è morta, mentre molte altre studentesse ferite sono finite all’ospedale (2). Il regime sta rispondendo con estrema violenza contro masse inermi, fino a condannare a morte anche persone disabili, donne incinte e minorenni (3), non importa se han dato fuoco ad una gomma d’auto, a un’immagine di Khomeini o al velo (il hijâb, che copre capelli, fronte, orecchie e nuca e cade sulle spalle), o se si tagliano pubblicamente i capelli.

Ma queste proteste nascondono, in realtà, ben altro. La grave situazione economica da anni mette a dura prova la sopravvivenza di ampie masse, tanto che ogni manifestazione di protesta spazia dalla ribellione alle severe misure religiose, al confinamento della gran parte delle donne entro le quattro mura domestiche, all’asfissiante controllo dei pasdaran e dei basiji nelle strade, nelle scuole, nei campus, e ha la caratteristica di un virus che si replica in tutti gli altri settori della società, dai commercianti dei bazar ai lavoratori delle fabbriche. Non a caso le proteste sono inizialmente esplose nel Kurdistan iraniano, da cui proveniva Mahsa Amini, e da qui sono dilagate in tutto il paese, da nord a sud, coinvolgendo anche Qom, il centro spirituale sciita, baluardo dell’autorevolezza morale e religiosa del regime islamico. Le rivendicazioni riguardano le libertà personali, i diritti civili, la libertà di riunione e di organizzazione, e a queste si affiancano le rivendicazioni più specificamente operaie relative alla libertà di organizzare sindacati indipendenti, oltre alle rivendicazioni economiche classiche sui salari e sulle condizioni di lavoro. Tutto viene messo in discussione, e quando nelle strade dalle masse che manifestano si alzano le grida, rivolte all’ayatollah Khamenei, “morte al dittatore”, masse che trovano solidarietà anche negli scioperi operai, ovvio che il regime prenda come pretesto queste grida per accusare ogni protesta di aver scatenato una “guerra contro Dio”, e di essere al servizio dei nemici occidentali.

L’Iran, da quando si è instaurata la repubblica islamica, è stato scosso più volte da ampi movimenti di protesta: nel 1999, quandogli studenti universitari di Teheran si ribellarono contro la chiusura del giornale riformista Salaam, e l’irruzione nel campus da parte dei i pasdaran, i “Guardiani della rivoluzione”, , nel corso della quale furono uccisi 3 studenti;altre manifestazioni di protesta degli studenti universitari avvennero nel 2003 e nel 2006. Nel 2009, al tempo delle elezioni presidenziali, contro i brogli elettorali che portarono alla presidenza l’ex sindaco di Teheran, Ahmadinejad, sotto la guida suprema Khamenei, le proteste erano caratterizzate dal malcontento della piccola borghesia che sperava che i propri interessi sarebbero stati meglio protetti dal presidente riformista Rohani. Tra il dicembre 2017 e il giugno 2018, invece, protagonisti furono non solo studenti e popolino che manifestavano contro il carovita, l’asfissiante regime pretaiolo e la disoccupazione giovanile che aveva raggiunto il 40% e i diritti delle donne, ma anche gli scioperi operai. Scioperi che lottavano contro le conseguenze della crisi economica abbattutasi sul paese, una crisi aggravata dal giro di vite sulle condizioni salariali e di lavoro da parte del governo di Rohani in seguito alle dure sanzioni americane (e, a cascata, degli alleati europei degli USA)., Tali sanzioni erano state decise da Trump dopo aver rotto l’accordo sul nucleare con Teheran firmato nel 2015 da Obama (4). Nel 2019, scoppiarono altri movimenti di protesta causati dall’aumento esagerato del prezzo dei carburanti a cui parteciparono larghissimi strati di commercianti. Sistematicamente, il potere dei mullah, che conta non solo sulla storica influenza religiosa, ma anche e soprattutto sul potere economico, in buona parte concentrato nelle loro mani, e sul conseguente potere militare, ha risposto sempre con una dura repressione. Per quanti decenni può resistere un potere del genere, che affida il controllo sociale alla repressione sistematica di ogni protesta?

Strati sempre più ampi della popolazione, borghesia e piccola borghesia urbana, contadini, operai, vengono continuamente scossi sia dagli effetti della crisi economica e sociale, sia dai colpi della repressione. In questa situazione emergono quasi naturalmente, visti i contatti con il mondo attraverso i commerci e le comunicazioni, le spinte a liberarsi degli orpelli e delle restrizioni che un clima sociale integralista ha imposto per decenni. Ed è ovvio, data l’influenza ideologica mondiale dei concetti di democrazia trasmessi in permanenza con i “liberi commerci”, la libera “proprietà privata”, la “libertà individuale”, che i movimenti popolari di protesta rivendichino genericamente la libertà e che affidino al riformismo – anche se veste abiti religiosi – la chiave per risolvere i problemi sociali.

Molti commentatori delle manifestazioni di questi mesi sostengono che essesono differenti rispetto a quelle del passato perché, pur iniziate a causa di un fatto specifico– il brutale assassinio di una ragazza di 22 anni per futili motivi – di fatto hanno coinvolto rapidamente tutti gli strati della popolazione e tutto il paese, cosa che in precedenza non era successo. Detto questo, l’augurio dei grandi media e della grandissima parte degli intellettuali occidentali è che questi movimenti di protesta, così estesi e coinvolgenti la gran parte della popolazione, assomiglino ai movimenti che nel 2011 in Tunisia, e poi in tutti i paesi arabi, fecero cadere i grandi dittatori come Bel Alì e Mubarak, aprendo le porte del paese alla tanto agognata democrazia (5)... e ai capitali occidentali. Una democrazia che, come avevamo facilmente previsto, non risolse nessun problema sociale perché «la democrazia borghese non può che riproporre la prospettiva di un regime borghese che modifichi il proprio atteggiamento repressivo allargando gli spazi di “libertà” nella vita quotidiana e concedendo qualche riforma sociale che non scalfisca in nulla la produzione di profitto capitalistico; la democrazia borghese non è che la veste parlamentare ed elezionista della dittatura di classe della borghesia. Lo è in modo più raffinato nei paesi capitalistici più vecchi, lo è in modo più rozzo nei paesi capitalistici più giovani, ma di fatto non potrà mai dare alle masse lavoratrici una prospettiva se non di maggiore sfruttamento, maggiore miseria, maggiore fame e maggiore repressione» (6). Basta guardare cosa è successo non solo in Tunisia da quando Ben Alì è caduto, ma anche in Egitto, dove al-Sisi non è certo migliore di Mubarak, in Libia, con la frammentazione in tre o quattro potentati locali repressivi e sanguinari quanto, se non più, di Gheddafi, o in Libano, un paese completamente distrutto dalle faide di clan al servizio delle diverse potenze regionali vendute a questo o a quell’imperialismo, o in Algeria, dove il regime borghese è più solido ma non è meno sfruttatore e repressivo degli altri regimi borghesi.

 

Il proletariato e i movimenti di protesta

 

Una delle caratteristiche di quest’ultima ondata di manifestazioni di protesta riguarda proprio gli operai e, in particolare, gli operai del settore dell’energia. Per quanto siano trattati meglio degli operai degli altri settori economici, e sebbene non organizzati in sindacati nazionali indipendenti, che sono vietati (come dal potere esistente sono vietati i partiti politici indipendenti), in ottobre «gli operai dell’industria petrolifera di Assaluyeh, nella provincia di Busher» scendono in sciopero e nelle settimane successive, tra fine ottobre e metà novembre «insegnanti e operai iniziano a organizzare sit-in e scioperi locali, a Teheran, Isfahan, Abadan e altre località del Kurdistan iraniano» (7).

Gli operai sono ridiscesi in sciopero, il 17 dicembre scorso, in diverse città, «tra cui Assaluyeh, Mahshahr, Ahvaz e Gachsaran», e ad essi si sono uniti anche «i vigili del fuoco del settore petrolifero dell’isola di Kharg nel Golfo Persico» (8). Non è stato uno sciopero nazionale nel vero senso della parola, ma, rispetto agli scioperi precedenti, ha avuto un’estensione molto ampia, tanto da indurre i comitati organizzatori a riproporre dopo una settimana un altro sciopero di 3 giorni (24,25 e 26 dicembre). Questi scioperi, come i precedenti, sono organizzati da comitati locali e da attivisti sindacali in contatto tra di loro attraverso i social media e vedono, in generale, protagonisti proprio i precari, gli operai temporanei, i giornalieri. Anche i detenuti nel carcere di Karaj si sono rivoltati dopo che uno di loro era stato trasferito nel braccio della morte in attesa di essere impiccato. La protesta degli operai, non da oggi e pur frammentata e, in generale, scollegata a livello nazionale, poggia su condizioni economiche particolarmente pesanti. Il 90% dei contratti è a tempo determinato quindi la precarietà generalizzata la fa da padrona; inoltre i rapporti di lavoro sono mediati dalle agenzie del lavoro controllate dallo Stato, mentre il regime alza anche del 20% gli stipendi di polizia e forze armate (9). Ma, raggiunto un certo limite di sopportazione, la spinta dal basso è tale che, nonostante le diverse ondate di repressione contro gli scioperanti avvenute negli scorsi anni, anche ultimamente vi sono state iniziative per l’organizzazione di sindacati autonomi, come nel caso degli autisti Sherkat-e Vahed di Teheran o della fabbrica di zucchero Haft Tapeh nel Khusestan iraniano (10). E, dato il clima generale di repressione sociale, negli scioperi operai si alza anche la protesta contro la repressione delle manifestazioni di strada, delle donne e contro le esecuzioni.

Dal punto di vista delle condizioni di vita e di lavoro operaie, è la storia stessa dei rapporti tra classe operaia e classe borghese a insegnare che gli operai, anche in un paese in cui la loro organizzazione indipendente è vietata, prima o poi riescono ad organizzarsi ed è il movimento di lotta con la sua potente pressione che può ottenere un risultato positivo, cioè l’organizzazione sindacale a livello non solo categoriale, ma anche nazionale. Questo lo sa benissimo anche la borghesia ed è il motivo per il quale essa, soprattutto dopo la seconda guerra imperialista mondiale – sulla scorta delle esperienze del fascismo e del nazismo – ha sostenuto e finanziato la formazione di sindacati collaborazionisti, di sindacati istituzionalizzati nello Stato. La borghesia sa che, per evitare che la loro forza sociale proletaria si organizzi indipendentemente e si ponga sul terreno dell’aperta lotta di classe con finalità proprie e rivoluzionarie, gli operai devono essere organizzati dalla borghesia stessa, naturalmente attraverso mezzi e metodi che corrispondano alla difesa dei suoi interessi generali. Le vie per ottenere questo risultato sono, in genere, due: la via democratica e la via apertamente totalitaria (fascista, militaresca, fondamentalista). Con la via democratica la borghesia cerca di ottenere una collaborazione fra le classi con la partecipazione attiva della massa operaia; le illusioni della democrazia (col suo codazzo di elezionismo, parlamentarismo, libertà di organizzazione e di riunione ecc.), infatti, spingono le masse proletarie a credere di poter ottenere, coi mezzi democratici, miglioramenti delle loro condizioni di vita e di lavoro senza dover lottare continuamente, ma per legge, attraverso il “dialogo tra le parti sociali” e i “negoziati”. Con la via dell’aperta dittatura, in generale instaurata grazie alla via democratica e di fronte a un forte movimento di massa che tende a gettare all’aria le istituzioni esistenti, la borghesia, per ottenere la collaborazione da parte della classe operaia – dopo averla repressa e imbrigliata in meccanismi sociali e politici obbligatori e favorevoli alla classe dominante – deve concedere sul piano economico (che è la base della vita) delle garanzie (i famosi ammortizzatori sociali). È ovvio che, più il paese è ricco, potente e dominante sui mercati internazionali, e più risorse può destinare a tacitare i bisogni essenziali di vita delle grandi masse grazie, appunto, agli ammortizzatori sociali; più è debole economicamente e nei rapporti internazionali rispetto ai concorrenti, meno risorse ha a disposizione, e tende quindi a privilegiare i lavoratori dei settori economici ritenuti strategici (energia, armi, forze armate), pratica, d’altra parte, attuata da lunga data nei paesi più ricchi. E’ quello che avviene in Iran, in Egitto, in Turchia, in Algeria, in Marocco, in Brasile e in decine di altri paesi. Ma, per quanto riguarda la repressione dei movimenti che sfuggono al controllo da parte della borghesia dominante, lo Stato retto democraticamente e lo Stato retto dittatorialmente usano esattamente gli stessi mezzi e metodi (forze di polizia, milizie appositamente organizzate, esercito), differenziandosi soltanto nel giustificare l’uso di quei mezzi e metodi: contro l’eversione e il terrorismo, nel primo caso, contro l’attacco di potenze straniere alla sovranità nazionale nel secondo caso, se non addirittura per eliminare chi è in “guerra contro dio”.

Nella nostra presa di posizione del 25 settembre 2022 (11) scrivevamo: «Il potere borghese può cambiare metodo di gestione sociale se le mobilitazioni di massa – come è successo con le famose “primavere arabe” – sono talmente massicce da mettere in pericolo la sua tenuta; ma non cambierà se non dopo aver sperimentato tutte le forme di repressione, anche le più sanguinose, di cui dispone e, in ogni caso, tenderà sempre a gettare giù dal trono la figura che ormai non ha più il carisma di un tempo per sostituirla con altri rappresentanti, magari democraticamente eletti, in modo da procedere ad un cambio della guardia, pur di conservare il potere politico, economico e sociale. L’Egitto di Mubarak prima, e di Al Sisi poi, ne è la dimostrazione».

Quanto alla massa proletaria, se continua le sue lotte e i suoi scioperi e li coordina nazionalmente, diventerà apertamente l’obiettivo principale della repressione statale perché sarà accusata di mettere in pericolo l’economia del paese e di favorire gli attacchi stranieri alla sua “stabilità”. La lotta operaia, a questo punto, o prende la direzione dell’organizzazione indipendente, a cominciare dal terreno della difesa immediata sia delle condizioni economiche sia della lotta stessa, o verrà per l’ennesima volta soffocata incanalandola nei meandri di negoziati locali e settoriali, isolata e frammentata dopo aver magari concesso alle categorie ritenute, per l’appunto, strategiche – come l’industria petrolifera e del gas – di potersi organizzare secondo regole stabilite per legge e, in ogni caso, nei limiti classici della difesa dell’economia nazionale. I proletari non possono sperare che la classe dominante borghese – che vesta gli abiti religiosi o gli abiti laici – cambi completamente registro. Già con i grandi movimenti del 1978-79, le manifestazioni oceaniche e gli scioperi generali che hanno fatto cadere il potere dello Scià, l’Iran popolare e operaio ha creduto e sperato che attraverso una borghesia confessionale la sua condizione generale sarebbe migliorata e che il “benessere” economico derivato dalle grandi quantità di petrolio esportato potesse essere distribuito a tutti gli strati della popolazione. Il regime dello Scià, sicuramente occidentalizzante, e comunque repressivo, fu sostituito dal regime confessionale di Khomeini, prima e di Khamenei poi. Un regime, non ancora radicatosi profondamente, già lanciava nel 1980 la sua migliore gioventù nella guerra contro l’Iraq, durata 8 lunghi anni, per difendere i suoi “sacri confini”; in una guerra che, oltretutto, sarebbe potuta terminare molto prima, visto che nel 1982 l’Iraq si era ritirato dalle zone dello Shatt-al-‘Arab che aveva invaso, cessando unilateralmente il fuoco, ma che il regime khomeinista mantenne viva allo scopo di contrattaccare puntando su Bassora. Ma, nello stesso tempo, l’altro obiettivo era di piegare il proprio proletariato che, dopo tanti anni di guerra, era ridotto in condizioni disastrose. Guerrafondaio era il regime di Saddam Hussein, guerrafondaio era il regime di Khomeini, ed entrambi erano perfettamente in linea con la politica guerrafondaia degli Stati Uniti e dei reciproci alleati.

La prospettiva del proletariato in Iran, quindi, o è di classe, o rimane disegnata dagli interessi della borghesia dominante, che ancor oggi si protegge dietro il confessionalismo sciita ma che potrebbe, un domani, e in relazione ai rapporti di forza internazionali e sotto la pressione di ulteriori grandi movimenti di massa, cambiare veste e abbracciare addirittura i simboli della democrazia occidentale.

La prospettiva proletaria di classe si fonda sulla difesa degli esclusivi interessi operai, perciò antagonisti degli interessi borghesi, sia sul terreno immediato che, tanto più, sul terreno politico più generale. L’alternativa al dominio borghese, in abito religioso o laico, non potrà mai essere la democrazia parlamentare, ma è e sarà la via della lotta di classe, della lotta che punta alla rivoluzione proletaria. Per quanto difficile e lontana possa apparire oggi questa via, è la sola che può portare il proletariato a diventare protagonista del proprio avvenire, della propria storia. Il proletariato è la forza lavoro salariata che produce l’intera ricchezza in ogni paese; la borghesia è la classe oggi dominante che si appropria l’intera ricchezza prodotta e può continuare a farlo alla condizione di mantenere il proletariato sotto la schiavitù salariale. E’ contro questa schiavitù che i moderni schiavi, appunto i proletari, in Iran come in qualsiasi altro paese, devono lottare, a partire dalla lotta di difesa economica, certo, ma con l’obiettivo di allargarla all’intero proletariato del paese e ai proletari di tutti gli altri paesi per abbattere il potere borghese e costruire sulle sue macerie la nuova società, la società non più dipendete dal capitale, dal mercato, dal denaro, dalla violenza e dalla dittatura dell’imperialismo.

 


 

(1) Cfr. www.ispionline.it//it/pubblicazione/5-grafici-capire-le-proteste-iran-36790, dell’11 gennaio 2023 e www.lifegate.it/condannati-morte-iran del 13 dicembre 2022.

(2) Cfr. luce.lanazione.it/attualita/asra-pan ahi-16- anni-pestata- a-morte- non-canto -inno-ayatollah/

(3) Cfr. Tgcom24, 5 e 26 gennaio 2023.

(4) Cfr. www.ispionline.it/it/pubblicazione-iran-la-stanchezza-di-una-rivoluzione-19393 del 6.1.2018; https:// ricerca.repubblica /archivio/ repubblica/ 1999/07/11/iran- studenti-in- rivolta- dopo- il-venerdi.html dell’11.7 1999. Vedi anche Il Medio Oriente, arena degli scontri borghesi e imperialisti (il comunista n. 154, luglio 2018); Iran: la collera operaia sfida la dittatura sanguinaria dei mullahs (il comunista n. 155, settembre 2018).

(5) A Sidi Bouzid, in Tunisia, il 17 dicembre 2010 la polizia sequestrò il carretto di frutta e verdura di un giovane disoccupato “senza licenza di vendita ambulante”. Per disperazione il giovane disoccupato, a cui era stato tolto l’unico mezzo, pur misero, di sostentamento per sé e la propria famiglia, si diede fuoco davanti al palazzo del governo. Morirà il 5 gennaio successivo. “E’ la scintilla che dà fuoco alle polveri”, scrivevamo nella presa di posizione Viva la rivolta della gioventù proletaria!, dell’11 gennaio 2011. Vedi anche Rivolte nei paesi arabi e imperialismo, nel Supplemento a “il comunista”, n. 119, aprile 2011.

(6) Cfr. Tunisi, Algeri, Il Cairo..., “il comunista” n. 119, dic. 2010-genn. 2011.

(7) Cfr. www.rivistailmulino.it/a/iran-la-rivoluzione-dei-lavoratori dell’8 dicembre 2022.

(8) Cfr. www.radiondaurto.org/2022/12/17/iran-quarto-mese-di-rivolta-inizia-con-lo-sciopero-dei-lavoratori-dellindustria-petrolifera/

(9) Cfr. www.operaicontro.it/2022/12/13/iran- la-forza-al-lavoro e www. operaicontro.it/ 2022/ 12/ 19/ iran-dalla-lotta-di-strada-agli-scioperi-operai/

(10) Vedi nota 7.

(11) Cfr. Iran. Dalle manifestazioni per il pane alle dure proteste dopo la morte di una ragazza di 22 anni, arrestata, bastonata e uccisa dalla polizia religiosa perché non indossava il velo “secondo le regole”, P.C. Int.le, 25 settembre 2022, www.pcint.org

 

31 gennaio 2023

 

 

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