Lotte proletarie nel mondo

(«il comunista»; N° 176 ; Gennaio-Febbraio 2022)

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RUSSIA

 

12 gennaio 2023. Nel 2022, l’anno della guerra russo-ucraina e del maggior controllo sociale da parte del governo di Putin, nella Federazione Russa i conflitti di lavoro sono aumentati del 45%. Il progetto ZabastCom [scioperocom] segnala le loro cause, le forme e gli impatti.

Nei dodici mesi del 2022, sono stati rilevati 793 conflitti di lavoro in Russia e nei paesi confinanti, 574 dei quali hanno riguardato la Federazione Russa. Tra i distretti in cui le lotte si sono dimostrate più attive vi è quello federale centrale (Mosca e dintorni) con 133 conflitti, il più scarso è stato il distretto federale del Nord-Caucaso. Il mese di giugno è stato il più denso di agitazioni e lotte. I lavoratori della sanità sono stati i più attivi (15,9% del totale, in 12 settori), seguiti da quelli dell’industria manifatturiera (il 14,7%) e dei trasporti (14,6%). I problemi più gravi per i lavoratori riguardavano gli arretrati salariali (36%) e i salari (35%). Secondo lo ZabastCom la maniera più efficace per ottenere dei risultati era di ricorrere ai tribunali, alle autorità di sorveglianza e ai media (58%), la seconda era lo sciopero (17%). La pressione dei lavoratori ha comunque portato a dei risultati: il 25% dei conflitti sui luoghi di lavoro hanno ottenuto piena soddisfazione rispetto alle richieste dei lavoratori, il 14% hanno ottentuto risultati parziali e il 7% delle proteste non hanno ottenuto nulla. I lavoratori dell’industria manifatturiera sono quelli che hanno difeso meglio le loro richieste (per il 49% si sono risolte a loro favore), seguiti a ruota dai lavoratori edili e dei servizi pubblici (per il 47%).

(https://t.me/postcapfuture/3621).

 

 

STATI UNITI

 

I ferrovieri in lotta

 

19 gennaio 2023. I lavoratori delle compagnie ferroviarie americane del trasporto merci (Union Pacific, BNSF, Norfolk Southern, CSX) minacciavano già lo scorso anno lo sciopero generale, e ciò avrebbe assestato un duro colpo all’economia nazionale tanto da spingere il presidente Biden a intervenire per bloccarlo. Il problema principale riguarda il servizio ferroviario di precisione (il PSR), ossia un modello commerciale adottato negli ultimi anni per massimizzare i profitti degli azionisti riducendo all’osso i costi; il che vuol dire riduzione drastica della forza lavoro, aumento della cogestione della catena di approvvigionamento, peggioramento della sicurezza. Il PSR, inoltre, prevede il non pagamento dei giorni di malattia e pesanti azioni disciplinari in caso di assenza dal lavoro per malattia, obbligando i lavoratori a prendere giorni di ferie. L’accordo tra le compagnie ferroviarie e i sindacati collaborazionisti, mediato da Biden, è stato firmato nel settembre scorso, ma la maggioranza degli iscritti ha rifiutato l’accordo. Il contratto così come lo hanno voluto le compagnie ferroviarie è stato in pratica imposto. La pressione dei ferrovieri però non si è fermata, tanto che alcuni sindacati (in particolare la SMART-TD) sono tornati a sollecitare Biden perché emettesse un ordine esecutivo garantendo il congedo retribuito per malattia nel settore ferroviario. Nel frattempo si sono tenute le elezioni di middle term, che hanno reso il Congresso ancora più duro, e naturalmente antioperaio, di quanto già non fosse. Le dirigenze sindacali, d’altra parte, sono state contestate dai propri iscritti perché si sono fatte abbindolare da Biden che, in campagna elettorale, perorava la causa del congedo per malattia retribuito, ma che alla fine ha messo gli interessi delle compagnie ferroviarie al primo posto. La sfiducia dei ferrovieri nelle direzioni dei propri sindacati ha spinto alcune organizzazioni, come ad esesmpio la Railroad Workers United (RWU) a cambiare, almeno temporaneamente, obiettivo: invece di rincorrere Biden o il Dipartimento della Sicurezza nei trasporti perché trovino il cavillo legislativo per assicurare il congedo per malattia retribuito, organizzare agitazioni e scioperi locali perché, insieme a tutti gli altri sindacati, ottengano soddisfazionenon solo rispetto al congedo malattia, ma anche riguardo al ripristino dell’equipaggio di due persone, lottando nello stesso tempo – come si conviene ad ogni sindacato collaborazionista – perché le infrastrutture ferroviarie non siano più private ma pubbliche (come negli Stati Uniti sono già le autostrade, gli aeroporti, i porti marittimi e le vie d’acqua interne). Quest’anno perciò è prevedibile che vi saranno ancora agitazioni e scioperi, ma solo locali... in attesa che i diversi sindacati si mettano d’accordo per azioni comuni, anche se su queste azioni «comuni», uno dei capi del sindacato BMWED del Nord Dakota, Weaver, rispetto a Biden e alle compagnie ferroviarie, ha dichiarato: «Perché dovrebbero fare un accordo equo con noi quando sanno che il Congresso manderà tutto all’aria?» (https://inthesetimes.com/article/rail-workers-strike-biden-congress-paid-leave). La risposta c’è, ma non è una risposta che potrà mai dare un sindacato collaborazionista, nemmeno sotto la pressione esercitata dalla sua base, ed è: lotta classista, indipendente, utilizzando mezzi e metodi della lotta di classe per la difesa esclusiva degli interessi di classe proletari! I ferrovieri americani, e con loro tutti proletari, sia nel settore privato che in quello pubblico, potranno difendere finalmente i propri interessi, a partire da quelli immediati, soltanto rompendo i vincoli che li legano alla collaborazione fra le classi, organizzandosi davvero in modo indipendente da ogni istituzione e adottando rivendicazioni e metodi di lotta che stimolino la solidarietà di classe con i proletari di tutti gli altri settori industriali, commerciali, dei trasporti e dei servizi.

 

Il primo sindacato in Amazon

 

All’inizio di aprile dello scorso anno, dopo due anni di tentativi, osteggiati duramente dall’azienda, gli 8.000 lavoratori della filiale di Staten Island (New York) hanno votato per la formazione del primo sindacato, la Amazon Labor Union (ALU). Dalla sua fondazione nel 1994 ad oggi 2023, Amazon è diventata un gigante, ma non ha mai avuto a che fare con lavoratori sindacalizzati. Naturalmente l’azienda ha contestato questa iniziativa presso il National Labor Relations Board che però ha risposto picche sostenendo che il sindacato può essere costituito; perfino Biden, in vista delle elezioni americane di middle term, ha pronunciato parole di incoraggiamento per questi lavoratori, dichiarando che essi hanno «diritto ad organizzarsi»... Poi si vede che fine fanno le richieste sindacali quando di mezzo ci sono giganti capitalisti, come nelle ferrovie. Amazon è ricorsa in appello contro quella decisione e ciò implica il fatto che il sindacato che i lavoratori vogliono costituire non è legale, perciò non può trattare come «controparte» con la direzione della filiale, non può siglare accordi e contratti collettivi, non può legalmente indire scioperi ecc. (https:// www. npr.org/ 2023/ 01/ 11/ 1125205641/ amazon-warehouse-union-staten-island).

Il colosso americano dell’e-commerce, con sede principale a Seattle, nel 2022 ha fatturato 514 mld USD; nel 2021 aveva 1.622.000 dipendenti in tutto il mondo, di cui 950.000 negli Stati Uniti. Ha aperto i suoi centri in America del Nord, Europa e Asia, in 114 città, 95 delle quali tra Stati Uniti (63) e Italia (32). Certo non può spaventarsi se in una sua filiale, per quanto importante trattandosi di New York, i suoi dipendenti decidono di sindacalizzarsi. Ma se l’esempio venisse seguito poi da tutte le altre filiali la cosa non sarebbe accettabile secondo i suoi criteri di gestione aziendale. Avere un rapporto diretto con ciascun lavoratore, one to one, come dicono gli americani, per ogni azienda rappresenta un supervantaggio: non si devono riconoscere particolari «diritti» e si ha mano libera nella gestione del personale, degli orari, dei turni, delle qualifiche, delle carriere, degli spostamenti ecc. Insomma, il lavoratore singolo è completamente in balia dei capi a cui deve rendere conto. Avere a che fare con un sindacato, per quanto sottomesso agli interessi aziendali e collaborazionista, è sempre una complicazione. Ma, per quanto il capitale in America abbia una libertà d’azione come in nessun altro paese, prima o poi anche i giganti devono fare i conti con la propria forza lavoro. La storia dello sviluppo capitalistico in America è stata caratterizzata da guerre e violenze furibonde, prima contro i nativi per impossessarsi dei loro territori, poi tra nordisti e sudisti grazie alla quale sono nati gli Stati Uniti d’America, poi contro la forza lavoro proletaria, in buona parte schiavizzata (neri, cinesi, ispanici) e sfruttata bestialmente fin dalla giovanissima età, indipendentemente dal sesso. I capitalisti americani hanno questa storia alle spalle; hanno imparato molto dai capitalisti inglesi e francesi nel sottoporre la propria classe operaia contemporaneamente al ricatto e alla violenza più duri e all’idea che ciascuno può emergere su tutti gli altri grazie ad una concorrenza economica, fisica, intellettuale, psicologica, politica a patto di trasformarsi in fredde e ciniche macchine produttrici di profitto.

La classe operaia americana, da parte sua, imparando anch’essa dal movimento operaio europeo, ha scritto pagine gloriose di abnegazione e di lotta, ma non è mai riuscita, almeno fino ad oggi, esprimere un movimento politico comunista rivoluzionario come i proletari parigini, tedeschi, russi e italiani. Per l’ennesima volta, guardando la storia dei secoli passati, dobbiamo ribadire che l’Europa è stata la culla della rivoluzione proletaria, ma potrà effettivamente esserlo anche in futuro se troverà nel proletariato americano il fratello di classe altrettanto potente quanto lo è la borghesia americana rispetto alla borghesia mondiale. In questa prospettiva anche un piccolo passo, a livello immediato, sindacale, come quello in Amazon, o nelle ferrovie americane, può essere di buon auspicio, ad una condizione: che i proletari esprimano il bisogno di organizzarsi in modo indipendete dai capitalisti e dalla sfilza di collaborazionisti che sono chiamati a svolgere, per conto dei capitalisti, il lavoro più sporco.

Certo, osservando l’enorme difficoltà che hanno i lavoratori di Amazon negli altri magazzini americani a fare il primo debolissimo passo verso l’organizzazione a carattere sindacale, non solo locale, ma addirittura a livello di filiale, e che hanno tutti i lavoratori americani anche se sindacalizzati, verrebbe da dire che nemmeno in altri 200 anni l’America darà i natali a un movimento operaio degno di questo nome. Soltanto Marx ed Engels, e dopo di loro Lenin, nell’arretrata Russia, quando il potentissimo regime zarista teneva sotto scacco l’Europa e le moderne armate austro-tedesche, guardavano con convinta speranza il sorgere di un movimento operaio che avrebbe potuto sconvolgere il mondo: e nell’Ottobre 1917, in piena guerra imperialista mondiale, il mondo fu sconvolto proprio dalla rivoluzione proletaria in Russia che nessuna cancelleria prevedeva e attendeva. Si può escludere che il proletariato americano, il proletariato più meticcio che esista, possa un domani sorprendere le cancellerie del mondo come fece il proletariato russo nel 1917? No, non si può escludere, ma tra i fattori favorevoli a questo sbocco storico ce n’è uno che non potrà e non dovrà mancare: il partito comunista rivoluzionario, il partito marxista che, come il partito di Lenin, abbia avuto la possibilità di formarsi, radicarsi ed estendere la sua influenza almeno sugli strati avanzati del proletariato. Perché il proletariato americano possa trasformarsi da puntello del regime capitalistico attraverso le organizzazioni collaborazioniste a forza sociale protagonista della propria emancipazione deve rompere i rapporti che lo legano agli interessi del capitale e, quindi, a tutte le organizzazioni sociali, politiche, religiose, culturali che lo schiacciano nelle condizioni di schiavo salariato. Per giungere a questa meta lontana deve passare necessariamente attraverso la dura lotta di difesa immediata sul terreno economico. Il primo salto di qualità i proletari lo devono fare proprio su questo terreno, perché è da questo livello che si giunge poi al livello politico della lotta di classe, salto che consiste nell’organizzarsi come associazione economica in modo indipendente da qualsiasi altra organizzazione borghese, piccolo borghese ed opportunista – e non importa se nelle forme sindacali tradizionali o in forme nuove che le stesse lotte genereranno –, utilizzando i mezzi e i metodi della lotta di classe. Se non avviene questo primo salto di qualità, possono nascere sindacati in tutte le filiali Amazon o di qualsiasi altro gigante capitalistico, ma non ci sarà nessuna possibilità reale di combattere seriamente contro la propria condizione di schiavo salariato.

 

 

GERMANIA

 

25.1.2023. Aeroporto di Berlino Brandeburgo. La contrattazione collettiva riguardante i 6 mila dipendenti dell’aeroporto non proseguiva da nessuna parte; così, diverse centinaia di lavoratori sono scesi in sciopero bloccando 300 decolli e atterraggi e allo sciopero si sono uniti altri 1500 lavoratori davanti all’aeroporto. Chiedono un aumento salariale di 500 euro mensili, un carico di lavoro meno pesante e più personale. Ma questa lotta, organizzata dal sindacato United Services Union (Ver.Di), e la spontanea adesione di altri lavoratori, devono aver spaventato lo stesso sindacato che si è premurato di dichiarare che, dopo aver organizzato un solo sciopero «di preavviso» di un giorno, «non ci saranno più scioperi durante la pausa invernale» (https://www.wsws.or/en/articles/2023/01/26/mkpk-j26.html).

Ecco come si comportano i sindacati collaborazionisti: visti i mancati risultati delle solite negoziazioni e sulla pressione della base sono costretti a indire uno sciopero, ma uno sciopero che non faccia troppo male all’azienda e alle compagnie aeree che si servono del principale aeroporto di Berlino e che non impedisca loro di rassicurare l’intero fronte capitalista sull’andamento dei loro affari.

Ford Germania. Esempio emblematico di come il consiglio di fabbrica di Colonia e il consiglio generale della Ford, nella persona del loro presidente Benjamin Gruschka, fa il lavoro sporco per conto della Ford Germania. In diverse riunioni di fabbrica, alla presenza del capo tedesco della Ford, Martin Sander, Gruschka ha dichiarato che la Ford sta tagliando 3.200 posti di lavoro negli stabilimenti storici di Colonia. Negli stessi stabilimenti, meno di due anni fa, sono stati tagliati quasi 6mila posti di lavoro, e pochi mesi fa, nel giugno 2022, la Ford ha deciso di chiudere lo stabilimento di Saarlouis facendo fuori 4.600 operai. Di fronte a queste decisioni, come si sono comportati i capi sindacali? Hanno accettato senza colpo ferire i tagli previsti nel passato e quelli previsti nel presente (e non c’è dubbio che accetteranno anche quelli del futuro) chiedendo all’azienda (e probabilmente già concordato con essa) che i «licenziamenti obbligatori» non avvengano prima del 2032 concordando un progressivo avviamento ai tagli attraverso accordi di licenziamento, prepensionamenti, passaggio degli operai licenziati nelle cosiddette «società di trasferimento» (ossia in società più o meno fantasma in cui «posteggiare» i licenziati Ford in attesa di pensionarli o di trasformarli in lavoratori precari a vita, come succede in Italia).

La Ford, una delle grandi case automobilistiche mondiali, da tempo sta riducendeo drasticamente la sua presenza in Europa e in altri paesi. Ha chiuso stabilimenti in Brasile, in Francia, nel Galles, in Russia, in India, e l’anno scorso ha tagliato diverse migliaia di posti di lavoro amministrativo negli Stati Uniti. La drastica riduzione degli operai negli stabilimenti di Colonia e di Saarlouis di fatto non ha prodotto alcuna forte risposta di lotta da parte operaia. Evidentemente, l’opulenta Germania riesce ancora a somministrare ammortizzatori sociali tali da tacitare i bisogni immediati di larghe masse di operai, ed è su questi ammortizzatori sociali che i sindacalisti venduti al capitale riescono ancora a tenere a freno i proletari. Sindacalisti che non hanno alcun problema di agire come i padroni, ossia in difesa del capitale aziendale e nazionale anche se questa difesa costa, come ogni operaio sa, licenziamenti, disagi, abbattimento dei salari, disoccupazione se non addirittura emarginazione. Un esempio lo ha dato proprio Gruschka in occasione di una gara d’appalto indetta dalla stessa Ford, in vista della produzione di auto elettriche e quindi dei nuovi invetimenti previsti, tra lo stabilimento tedesco di Saarlouis e lo stabilimento spagnolo di Valencia dove lavorano circa 7000 dipendenti. Gruschka aveva proposto una riduzione del 18% dei salari di tutti gli operai Ford in Germania, quindi non solo dello stabilimento di Saarlouis, come incentivo a mantenere in vita lo stabilimento tedesco di Saarlouis e chiudere lo stabilimento spagnolo di Valencia. Risultato? La gara è stata «vinta» da Valencia, dove tra l’altro è in attività un particolare robot a guida autonoma, chiamato Survival, per il trasporto di componenti di ricambio tra una linea di produzione e l’altra, che è in grado di svolgere l’equivalente di 40 ore di lavoro al giorno, ossia il lavoro di un operaio per una settimana intera. Perciò lo stabilimento di Saarlouis verrà chiuso e i 4.600 operai verranno mandati a casa entro l’estate del 2025, meno, forse, 500-700, mentre anche a Valencia la Ford prevede che perderanno comunque il posto di lavoro circa 700 operai. Così il capo tedesco della Ford, Martin Sander, potrà gioire, e intascare i suoi meritatissimi benefit, per aver continuato a risparmiare sui costi e magari regalare al suo compare Gruschka una bella Ford Puma elettrica di prossima produzione...

 

 

REPUBBLICA CECA

 

13.2.2023. Alla Nexen Tire, fabbrica sudcoreana di pneumatici di Žatec, dopo una settimnana si è concluso lo sciopero a tempo indeterminato iniziato il 31 gennaio. Il sindacato OS KOVO, la direzione dell’azienda, il ministro del Lavoro e degli Affari Sociali Marian Jurečka e l’ambasciata sudcoreana hanno siglato un accordo che sancisce dal 1° marzo di quest’anno un aumento salariale dell’8% ed una compensazione finanziariaper il mancato aumento dei salari per tutto il periodo che va dal gennaio 2022 al marzo 2023 di 20.000 corone ceche (840 euro). La lotta dei lavoratori della Nexen Tire è il primo sciopero da 8 anni nelle Repubblica Ceca dove i confliti di lavoro sono normalmente negoziati e quasi mai arrivano allo sciopero.

La Nexen Tire è giunta in Europa nel 2000, ed è presente anche in Germania è in 130 paesi, Stati Uniti compresi. Oggi la fabbrica di Žatec conta 1.100 lavoratori e lo sciopero, pur votato dalla maggioranza dei dipendenti, non ha visto un’immediata partecipazione fin dall’inizio, ma col passare dei giorni la tenuta dello sciopero ha indotto gli altri lavoratori della Nexen Tire di partecipare e anche lavoratori di altre fabbriche a sostenerlo. La direzione della Nexen Tire ha cercato in tutti i modi di isolare gli scioperanti, reclutando anche crumiri per spezzare lo sciopero. Ma non è riuscita nel suo intento. Certo, rispetto ad un’inflazione che viaggia con un tasso annuo del 15% l’aumento salariale dell’8% non copre la differenza, ma resta comunque un risultato importante perché ciò che più ha contato in questa lotta è stata la determinazione dei lavoratori e l’aver tenuto fede allo sciopero a tempo indeterminato, cosa che è lontana mille miglia dall’orizzonte dei sindacati collaborazionisti che, tra l’altro, rincorrevano, senza successo, un contratto collettivo addirittura dal 2018. La classe proletaria ceca, su una popolazione attiva di 5 milioni e mezzo di lavoratori, conta su 500mila sindacalizzati; non sono la maggioranza ma non sono nemmeno pochi. Il fatto è che da decenni la politica collaborazionista dei sindacati e del partito cosiddetto «comunista», ha completamente paralizzato il proletariato non solo sul terreno della lotta di classe – cosa che riguarda il proletariato in generale dopo la seconda guerra mondiale e la vittoria della controrivoluzione staliniana – ma sullo steso terreno della difesa economica immediata. Perciò lo sciopero alla Nexen Tire e il suo successo possono diventare un esempio per gli altri proletari cechi.

Ma il successo di uno sciopero non significa successo per sempre. Perché questo sciopero non rimanga un fatto isolato e non finisca nel dimenticatoio è necessario che i lavoratori della Nexen Tire e delle altre fabbriche che hanno solidarizzato con loro rispondano con la lotta e con la stessa determinazione tutte le volte che le proprie esigenze di vita e di lavoro vengono calpestate, costringendo i propri sindacati a coprire legalmente lo sciopero e organizzandosi direttamente nel caso i sindacati lo sabotassero. Solo così questo sciopero potrà aver dato effettivamente l’esempio all’intera classe operaia del paese.

(https://zpravy.aktualne.cz/ekonomika/zamestnanci-vyrobce-pneumatik-nexen-tire-europe-u-zatce-zast/r-9e536948a08111ed8980ac1f6b220ee8/).

 

 

UNGHERIA

 

I lavoratori della Sanità in agitazione. I lavoratori della Sanità, in particolare i lavoratori qualificati, stanno organizzando attraverso il loro sindacato FESZ (Sindacato Indipendente dei Lavoratori della Sanità) un sciopero per ottenere un aumento salariale. Attualmente l’inflazione in Ungheria supera il 24%, e i prezzi dell’energia e dei generi alimentari sono schizzati a +44,8%, mentre la proposta di aumento è solo del 10-12% e non c’è alcun accenno ad una compensazione dei mancati aumenti negli anni precedenti. Anche in Ungheria, come in qualsiasi altro paese, il personale sanitario è notevolmente sotto organico tanto da non poter assicurare un servizio adeguato a tutti i malati, in particolare nei casi di emergenza come è avvenuto durante l’ultima pandemia.

Nella stessa situazione si trovano anche gli Insegnanti. Dopo gli scioperi dell’anno scorso, 10.000 insegnanti ungheresi sono tornati a scioperare questo gennaio chiedendo salari più alti (il 45% in più!) e – ma questo non manca mai nel caso degli insegnanti – una riforma dell’istruzione. Questo sciopero, però, non ha portato a nulla di concreto. Il governo ha annunciato che gli stipendi degli insegnanti saranno regolamentati da una nuova legge sullo status giuridico, e questo preoccupa molto i lavoratori della categoria che temono di non poter più contare sul loro status di dipendenti pubblici perdendo in questo modo alcuni diritti del lavoro, soprattutto se la loro retribuzione viene legata agli obiettivi di rendimento fissati di anno in anno. Chi rispetterà questi obiettivi potrà guadagnare di più, chi non li rispetterà guadagnerà di meno.Inoltre il governo ha inasprito le regole dello sciopero, nel senso che gli insegnanti sono tenuti a tenere almeno la metà delle lezioni anche durante lo sciopero e a garantire che gli alunni delle classi successive non perdano alcuna parte delle lezioni; per non aver rispettato queste regole alcuni insegnanti sono stati già licenziati con l’accusa di «disobbedienza civile»!

Alla dura risposta del governo riusciranno gli insegnanti a resistere sul fronte di lotta per ottenere non solo condizioni di lavoro migliori e salari più alti in modo da contrastastare l’eccezionale aumento dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari, ma anche per abolire le nuove regole che vincolano gli insegnanti ad obiettivi di rendimento, studiati apposta per non nessere raggiunti, e per evitare di «scioperare lavorando»?

Il problema di fondo è sempre lo stesso: la lotta in difesa delle condizioni immediate di esistenza non può essere separata da un inquadramento generale che preveda l’oganizzazione proletaria indipendente non solo dalle istituzioni borghesi ma anche dalle confederazioni sindacali collaborazioniste. I sindacati ufficiali hano dato per l’ennesima volta dimostrazione del loro collaborazionismo più sfacciato, accettando nel dicembre scorso un misero 16% di aumento del salario minimo (il salario minimo di base, «minimálbér» secondo i dati napi.hu, arriva al lordo di 232mila fiorini, ossia 593 euro) e del 14% per i lavboratori più qualificati, «bérminimum», con un lordo di 296.400 fiorini, ossia 758 euro). Naturalmente per far accettare questi ridicoli aumenti di salario anche al padronato il governo ha dovuto rassicurarlo che le tasse sul salario a carico dei datori di lavoro nel 2023 non aumenteranno, mentre i lavoratori saranno costretti a decidere a che cosa rinunciare, perfino sul piano dei generi di prima necessità.

(https: // www.penzcentrum. hu/oktatas / 20230127 / ujabb-csapas-varhat- a-pedagogusokra - ezt- is- elvenne- toluk- a- kormany-1133444; e https://telex.hu/english/2022/12/05/THE-8-most-important-t hings- you-should- know-about- the-hungarian-teachers-protests).

 

 

CINA

 

7.1.2023. Gli operai della fabbrica di forniture mediche Zybio (Zhongyuan Huiji) a Chongqing, dove si producono i kit per i test antigenici Covid-19, sono scesi in sciopero. Per il calo degli ordini di kit di analisi la direzione della Zybio ha previsto di licenziare la metà circa dei 20.000 dipendenti dell’azienda; ma gli operai devono ancora ricevere parte dei salari non pagati lo scorso anno! Non sappiamo come si è concluso lo sciopero, ma il fatto che in Cina ormai le masse operaie scendano in sciopero a difesa dei propri diritti è di buon auspicio perché, pur dovendo confrontarsi non solo con capitalisti spietati ma anche con un governo che rafforza sempre più le misure del controllo sociale, non temono di manifestare nelle strade e nelle piazze.

(https://clb.org.hk/content/massive-protest.chongqing-belies-company%E2 %80 %99s- recent- labour-awards-official-trade-union)

 

 

TURCHIA

 

5.1.2023. A Gaziantep (la città sede del governo provvisorio dell’opposizione siriana e una delle città turche che hanno accolto il maggior numero di rifugiati siriani), nella fonderia di Küsget, 200 lavoratori siriani sono scesi in sciopero per un aumento salariale dopo che il governo turco aveva deciso di fissare, a partire da gennaio 2023, il salario minimo mensile a 8.500 lire turche (422 euro circa). Gli operai siriani in sciopero, che sono pagati meno degli operai turchi, chiedono un aumento mensile di oltre 4.300 lire turche (oltre 200 euro) visti gli altri costi dell’energia, dei generi di prima necessità, richiesta rifiutata dai padroni, che però hanno rilanciato concedendo un aumento di salario solo in cambio di un aumento del 10% dell’orario di lavoro giornaliero. In Turchia l’orario giornaliero di lavoro è solitamente di 10 ore, e non sono previsti giorni di ferie all’anno; significherebbe lavorare 11 ore al giorno sacrificando ulteriormente il tempo per la famiglia e la vita privata. Dopo 4 giorni di sciopero, in cui si sono aggiunti altri 150 scioperanti, i padroni hanno ritirato la richiesta dell’aumento del 10% dell’orario giornaliero di lavoro e concesso un aumento di salario di 3000 lire turche (149 euro). La lotta si è quindi conclusa positivamente.

(https://syrianobserver.com/news/81085/syrian-and-turkish-workers-on-strike-in-gaziantep -slavery-working-conditions.html)

 

 

Partito Comunista Internazionale

Il comunista - le prolétaire - el proletario - proletarian - programme communiste - el programa comunista - Communist Program

www.pcint.org

 

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