Le borghesie imperialiste si preparano a una guerra che inevitabilmente sarà mondiale.

E la classe proletaria dov'è ? 

(«il comunista»; N° 183 ; Agosto-Settembre 2024)

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LA BORGHESIA È SEMPRE IN LOTTA CONTRO LE BORGHESIE STRANIERE...

 

Che la guerra guerreggiata faccia parte, da sempre, della politica della borghesia, per i marxisti non è una novità. Nel Manifesto del partito comunista Marx ed Engels lo dicono a chiare lettere:

«La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono in contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri». Ci sono stati periodi in cui la borghesia lottava contemporaneamente sia contro l’aristocrazia, sia contro le parti della sua stessa classe con interessi contrastanti col progresso dell’industria, sia contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. Una volta sconfitta definitivamente l’aristocrazia, i suoi regimi e il vecchio modo di produzione su cui si reggeva il suo dominio politico e sociale, la borghesia non ha smesso di lottare contro parti della sua stessa classe e contro le borghesie straniere. Semmai si era liberata di un nemico, potendo così volgere le proprie forze su questi altri due fronti.

Il progresso dell’industria, come ha svelato il marxismo, porta alla concentrazione economica e alla centralizzazione del potere politico; dalla “libera concorrenza” si passa alla concorrenza tra monopoli, tra poli economici che oltrepassano le frontiere. Lo Stato, massima istituzione che centralizza il potere politico e la forza militare, con lo sviluppo capitalistico perse definitivamente la sua pretesa collocazione al di sopra delle classi, mostrandosi per quello che effettivamente è: lo strumento centralizzato e centralizzatore del potere politico della classe dominante borghese. Il capitalismo, per lungo tempo e nei tempi diversi per i diversi paesi, è stato stimolato e sostenuto dallo Stato centrale che è giunto anche a intervenire direttamente in campo economico, non solo nelle grandi produzioni che richiedevano grandi risorse finanziarie (come nelle costruzioni delle flotte navali o negli armamenti), ma anche, una volta che le guerre e le massicce distruzioni provocate sono terminate, nella ricostruzione postbellica. Finita la guerra borghese inizia la pace borghese; finita la distruzione di merci, infrastrutture, fabbriche, edifici civili e masse di uomini sia in divisa militare che civili, inizia la “ricostruzione economica” al fine di riavviare prepotentemente l’apparato produttivo per il quale sono necessari in tempi brevi masse sempre più cospicue di capitali che soltanto gli Stati sono in grado di riunire rapidamente indebitandosi sempre più.

«In tutte queste lotte – continua il Manifestoessa [la borghesia] si vede costretta a fare appello al proletariato, a valersi del suo aiuto, e a trascinarlo così entro il movimento politico. Essa stessa dunque reca al proletariato i propri elementi di educazione, cioè armi contro se stessa».

Nel lungo periodo della lotta contro l’aristocrazia e le classi feudali, la borghesia non poteva fare a meno di coinvolgere le masse proletarie urbane, abituate al lavoro associato e alla disciplina di fabbrica, perciò non poteva che trascinarle nel movimento politico borghese, educandole a porre obiettivi politici ben definiti alla lotta. La libertà, l’uguaglianza, la fraternità diventano così il cemento ideologico che compatta la classe borghese e il proletariato, nascondendo però il reale contrasto tra gli interessi di classe della borghesia e gli interessi di classe del proletariato, dei lavoratori che campano esclusivamente di salario. Un contrasto che inevitabilmente emerge nel processo di sviluppo industriale dell’economia, processo che richiede masse sempre più numerose di proletari da sfruttare nelle manifatture e nelle fabbriche. L’educazione “politica” che la borghesia ha trasferito nella classe proletaria per farla combattere per i suoi interessi di classe, quando i contrasti di classe tra borghesia e proletariato assumono una dimensione non locale, temporanea o parziale, si evolve in educazione politica di classe. Il proletariato, con la sua stessa esistenza, annulla le condizioni di esistenza della vecchia società e viene spinto dallo stesso sviluppo delle forze produttive capitalistiche sulla scena come unica classe rivoluzionaria, perché le condizioni della sua emancipazione di classe dallo sfruttamento capitalistico chiedono l’abolizione del sistema salariale, l’abolizione del sistema di appropriazione esistente nella società borghese.

 

...E CONTRO IL PROLETARIATO

 

Ecco dunque che la borghesia, oltre a lottare contro le vecchie classi dominanti feudali, contro le parti di borghesia in contrasto con il progresso industriale e contro le borghesie di tutti gli altri paesi, deve lottare anche contro la classe del proletariato che lei stessa ha creato, organizzato, educato e – ci sia permesso l’uso di questo termine – politicizzato.

I contrasti tra le classi opprimenti e le classi oppresse, rilevati dagli stessi economisti e ideologi borghesi, hanno prodotto materialmente la lotta fra le classi, la lotta della borghesia a difesa dei suoi interessi generali e immediati, e la lotta dei proletari a difesa dei loro interessi immediati e generali. La grande differenza tra la lotta del proletariato contro la classe che lo sfrutta e lo opprime, e la lotta della borghesia contro i vincoli del feudalesimo e contro le classi aristocratiche, sta nel fatto che la borghesia poggiava la sua forza sociale sul modo di produzione capitalistico già presente all’interno delle forme feudali di potere, un modo di produzione – e relativi mezzi di produzione e di scambio – caratterizzato da uno sviluppo eccezionale delle forze produttive e che, proprio in ragione di questo sviluppo, premeva con sempre maggior forza contro le forme sociali e politiche che lo frenavano. La rivoluzione borghese, la cui massima espressione si è avuta nella Francia del 1789-1793, è stata certamente una rivoluzione politica, ma poggiava su una forza materiale positiva già esistente data dal capitalismo il cui sviluppo accelerò enormemente i tempi in cui le vecchie classi dominanti venivano sostituite, attraverso la rivoluzione, dalle nuove classi dominanti.

 

LE CRISI DI SOVRAPRODUZIONE, TALLONE D’ACHILLE DELLA BORGHESIA

 

I nuovi rapporti economici e sociali, i rapporti di produzione, di scambio e di proprietà che la borghesia dominante ha imposto hanno creato «per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti» da far rassomigliare la società borghese moderna «allo stregone che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate». Non si spiega altrimenti come la storia del capitalismo sia una storia di continue crisi economiche, sociali e, ovviamente, politiche. La lotta della borghesia contro le borghesie di tutti gli altri paesi, che i borghesi spiegano come una lotta di concorrenza in cui non vengono rispettati la sovranità e gli accordi commerciali e politici di volta in volta sottoscritti, in realtà è una lotta tra le forze produttive sviluppate e le forme che ne contrastano il libero sviluppo. La classe dominante borghese, come lo stregone delle favole, non domina ma è dominata dalla potenza del capitalismo. E così quando il sistema capitalistico va in crisi – e nella fase moderna del capitalismo, le crisi sono cicliche e tutte di sovraproduzione – la borghesia corre ai ripari, cerca in tutti i modi di attenuare le conseguenze economiche e sociali più gravi delle crisi, ma la legge della sovraproduzione capitalistica impone, perché non si inceppi l’intero sistema economico e sociale, che, ad un certo punto quella sovraproduzione venga distrutta. E non è mai soltanto sovraproduzione di prodotti, ma anche di forze produttive già create, perciò le crisi commerciali, economiche e finanziarie si sviluppano in crisi generali, in crisi di guerra di concorrenza che si trasforma in guerra guerreggiata nella quale l’intento delle classi borghesi è di salvare, insieme al sistema capitalistico in generale, il loro potere politico “nazionale”.

Le crisi dimostrano che le forze produttive che sono a disposizione della borghesia «non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. Con quale mezzo la borghesia supera la crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse».

E’ ancora il Manifesto del 1848 che parla, e se a 176 anni di distanza queste parole assumono ancora il valore sia di un’ineccepibile spiegazione delle crisi capitalistiche, sia di una previsione di come la classe dominante borghese cerca di superare queste crisi, ciò conferma che il marxismo ha svelato il mistero della formazione, dello sviluppo e della fine della società capitalistica (nelle crisi la società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie quando una carestia, una guerra generale di sterminio le tagliano tutti i mezzi di sussistenza; l’industria il commercio sembrano distrutti), ed è l’unica teoria che ha il potere di prevedere come il corso storico del capitalismo, e la sua società divisa in classi, verranno spezzati dalla rivoluzione generale delle forze produttive moderne che lo stesso capitalismo ha creato e che ricrea costantemente senza poterle bloccare in eterno. Sarà la loro inesorabile pressione sui rapporti di produzione, di scambio e di proprietà borghesi che, ad un certo punto, spezzerà la tenuta di queste forme sociali, mandandole in frantumi. Ma dopo questa catastrofe mondiale, alla quale la guerra di concorrenza tra le maggiori potenze capitalistiche alla ricerca spasmodica di nuovi mercati e di sfruttamento dei vecchi, conduce inesorabilmente la società umana, che succederà?

Seguirà il caos, la barbarie generalizzata, la società umana tornerà al periodo primitivo degli uomini delle caverne?

La prospettiva di una catastrofe che riporterebbe la società umana indietro di millenni fa molto comodo alla classe borghese dominante, dal punto di vista ideologico e politico, perché fa da base alle sue posizioni demagogiche sulla insistente ricerca della “pace”, sulla volontà e l’interesse di ogni singolo individuo a vivere nel benessere, nella libertà, nell’uguaglianza e nella fraternità, sulla democrazia e sui “diritti” che la democrazia formalmente riconosce, naturalmente in un ordine sociale capitalistico che non deve essere minimamente scalfito, semmai “riordinato” ogni volta che le crisi economiche, politiche, sociali – vera e propria condanna del suo sistema economico e sociale che la classe borghese ormai deve ammettere a denti stretti – rischiano di farlo precipitare nel caos, nella catastrofe, appunto, nella barbarie.

 

LA BORGHESIA, CREANDO IL PROLETARIATO, CREA IL SUO FUTURO BECCHINO

 

Ma il capitalismo non ha creato soltanto potenti mezzi di produzione e di scambio, ha creato nello stesso tempo la classe del proletariato, la classe senza lo sfruttamento della quale la borghesia capitalistica non esisterebbe: condizione di esistenza del capitalismo è il lavoro salariato; il lavoro salariato è rappresentato soltanto dal proletariato, cioè dalla classe che non possiede nulla se non l’individuale forza lavoro il cui utilizzo può essere assicurato soltanto dai capitalisti che la pagano con il salario. La classe dei capitalisti, dunque la classe borghese dominante, è proprietaria di tutti i mezzi di produzione, di tutti i mezzi di scambio e si appropria dell’intera produzione, quindi anche della produzione dei beni di sussistenza. Il proletario per sopravvivere, per mangiare, per ricostituire la sua forza lavoro deve recarsi al mercato e comperare i beni di sussistenza, ma per comprarli deve avere un salario, e per avere un salario deve lavorare nelle aziende, negli uffici, nelle istituzioni borghesi. Questo non glielo deve insegnare nessuno: dalla nascita, il proletario scopre immediatamente di far parte di quella particolare razza destinata a costituire la massa di forza lavoro a disposizione del capitale che la sfrutta e la sfrutterà nei modi e nella quantità necessari per valorizzare i propri investimenti. I proletari hanno scoperto fin dall’inizio della storia del capitalismo che i loro interessi sono antagonisti a quelli dei capitalisti: senza l’applicazione del lavoro salariato ai mezzi di produzione e di scambio non ci sarebbe valorizzazione del capitale. E questa valorizzazione non è che il plusvalore che i capitalisti estorcono ai proletari in ogni giornata lavorativa, pagando loro, con il salario, soltanto le ore di lavoro giornaliere che corrispondono, in valore, alla loro sopravvivenza e alla loro riproduzione, mentre le altre ore giornaliere di lavoro cui sono costretti non vengono pagate. Ogni proletario sa che, grazie soprattutto alle innovazioni tecniche e tecnologiche apportate alla produzione e alla distribuzione, nella stessa ora di lavoro di oggi si produce una quantità di prodotti enormemente superiore a quella che si produceva all’inizio dell’Ottocento o all’inizio del Novecento, come sa che con lo sviluppo dei mezzi di trasporto sono stati ridotti enormemente i tempi di consegna delle merci in ogni parte del mercato nazionale e mondiale. Non è solo la consapevolezza dello sfruttamento giornaliero sempre più intenso che ha portato i proletari a lottare per una diminuzione delle ore giornaliere di lavoro e un aumento dei salari. E’ la consapevolezza di essere parte decisiva della ricchezza economica; l’organizzazione capitalistica nelle catene lavorative li ha spinti fin dall’inizio della storia capitalistica a organizzare la loro lotta in difesa dei loro interessi immediati. Ed è la risposta repressiva dei capitalisti e del loro Stato a chiarire ai proletari che la lotta che iniziano sul terreno economico immediato assume, a un certo grado di estensione e di acutezza, un carattere più propriamente politico.

Il terreno economico immediato è comunque e sempre il terreno fondamentale sul quale i proletari sperimentano la loro forza nell’organizzazione, nei metodi e nei mezzi di lotta, nella solidarietà coi proletari di altre categorie, di altri settori, di altre città e paesi. Ed è esattamente su questo terreno che la classe dominante borghese gioca la sua migliore carta, e non da oggi: la concorrenza tra proletari. Il Manifesto del 1848 sottolinea infatti che «il lavoro salariato», che è la condizione di esistenza del capitale, «poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro». Dunque, prima ancora di gettarsi nella lotta squisitamente politica per la sua emancipazione generale dal capitalismo, i proletari devono passare attraverso la lotta sul terreno immediato contro la concorrenza tra di loro che viene alimentata sistematicamente dai borghesi, ma non solo da loro.

Con lo sviluppo del capitalismo e l’applicazione di innovazioni tecniche e tecnologiche a qualsiasi tipo di lavorazione, si sono creati, perché necessari al completamento delle lavorazioni più diverse, strati di operai tecnicamente più abili e più istruiti pagati meglio delle altre categorie; si è creata, in sostanza, l’aristocrazia operaia di cui Engels parla già nel 1845 nella sua opera La situazione della classe operaia in Inghilterra. Si aggiungeva, così, un ulteriore elemento di concorrenza tra gli operai, dopo gli elementi determinati dalle differenze tra proletari autoctoni e di altre nazionalità, tra proletari ex artigiani e già urbanizzati e contadini espropriati e proletarizzati. Con la stratificazione delle categorie operaie, il moderno capitalismo produce anche il fenomeno dell’opportunismo operaio, che materialmente poggia sull’aristocrazia operaia che i borghesi hanno tutto l’interesse di privilegiare anche in modo consistente, non solo in termini di paghe più alte, ma anche in termini di mansioni meno pesanti, meno dure, meno faticose, meno stressanti, più pulite. Così gli operai più istruiti diventano nello stesso tempo i responsabili delle organizzazioni sindacali operaie e i capi dei partiti politici che si assumono il compito di rappresentare gli interessi più generali del proletariato. Come sottolineerà più volte Lenin, l’opportunismo operaio poggia su condizioni materiali privilegiate, assumendosi anche il compito di costituire un “esempio” per almeno una parte dei proletari che ambiscono a “elevarsi” socialmente rispetto alla grande massa. La demagogia utilizzata dalla classe borghese quando parla di popolo – nel quale tutte le classi vengono confuse – si trasferisce anche nel campo operaio quando gli opportunisti parlano degli interessi “generali” dei proletari nei quali però distinguono sempre i loro interessi immediati e individuali, cavalcando di fatto il sistema di concorrenza introdotto dalla borghesia dominante.

La borghesia dominante è quindi caratterizzata dall’essere:

- unica proprietaria di tutti i mezzi di produzione e di scambio, terra compresa;

- unica beneficiaria dell’appropriazione dell’intera produzione;

- unica beneficiaria del tempo di lavoro non pagato ai proletari, dunque del plusvalore che viene trasformato in profitto capitalistico e rendita;

- unica proprietaria dei capitali in tutte le loro varie forme: industriali, commerciali, bancarie, finanziarie, usuraie;

- e, in quanto classe economicamente e socialmente dominante, unica a disporre della forza dello Stato a difesa dei suoi interessi generali e particolari sia contro il proprio proletariato sia contro le borghesie degli altri paesi.

Questa sua forza non poteva che attirare nel proprio campo tutti quegli strati sociali che storicamente non sono stati in grado di mostrare alcuna indipendenza politica, indipendenza che soltanto interessi di classe antagonisti ad essa potevano e possono sostenere. Al di là di tutti i cedimenti che hanno portato il proletariato, nel corso della sua lotta antagonista contro la borghesia, a non prevalere, resta comunque il fatto storico che nella società borghese capitalistica una sola classe sociale è in grado di rappresentare l’ulteriore sviluppo delle forze produttive e un’organizzazione sociale non più divisa in classi antagoniste: la classe del proletariato.

Perciò, nonostante le sconfitte del proletariato nelle sue rivoluzioni – del 1848, del 1871, del 1917-27 – la classe proletaria resta tuttora l’unica classe rivoluzionaria della società moderna, anche se non ne ha coscienza.

Dal 1926-27, attraverso la vittoria controrivoluzionaria dello stalinismo, il proletariato non solo russo, ma mondiale, è stato rigettato indietro di quasi un secolo. Molti sono stati gli episodi storici, seguiti alla seconda guerra imperialista mondiale, che hanno visto coinvolte le masse proletarie: dal 1953 della rivolta a Berlino al 1956 in Ungheria, alla lunga serie delle lotte anticoloniali con punte di straordinaria forza come in Algeria, in Congo, in Vietnam, in Sudafrica, ma nessuna di queste lotte ha visto muoversi il proletariato sul proprio programma rivoluzionario di classe. Questo non deve stupire: la controrivoluzione staliniana, i cui compiti antiproletari e anticomunisti sono stati portati avanti dal post-stalinismo – perché il bersaglio vero della controrivoluzione staliniana è stato il partito comunista rivoluzionario che all’epoca era rappresentato dal partito bolscevico di Lenin e dalle sinistre marxiste di tutti gli altri partiti. La vittoria delle tattiche opportuniste nell’Internazionale Comunista – e quindi nei partiti ad essa aderenti – come i fronti unici politici, il parlamentarismo “rivoluzionario” che diventerà semplicemente parlamentarismo borghese, l’adesione all’Internazionale di movimenti e partiti non chiaramente comunisti, i governi “operai” e addirittura “operai e contadini”, l’antifascismo democratico e, infine, la teoria del socialismo in un solo paese che ha aperto allo sfascio totale dei partiti comunisti con le “vie nazionali al socialismo” –,vittoria, questa, accompagnata anche dal massacro della vecchia guardia bolscevica e dall’eliminazione di tutti coloro che potevano in qualche modo rappresentare un filo continuo con la rivoluzione d’Ottobre (per ultimo Trotsky), ha sepolto non solo le tradizioni classiste e rivoluzionarie del proletariato russo, tedesco, francese, italiano, ungherese, cinese, ma anche il ricordo di che cosa distingueva il partito di classe del proletariato da qualsiasi altro partito borghese e opportunista.

 

L'«AUTOLIMITAZIONE» DEL CAPITALISMO NON ELIMINA LO STATO DI POLIZIA

 

Generazioni su generazioni di proletari sono state educate alla democrazia, alla collaborazione di classe, al riformismo, al conservatorismo, e questo è stato facilitato dall’espansione del capitalismo del secondo dopoguerra che, per un trentennio buono, ha permesso alle borghesie imperialiste vincitrici di elargire alle masse proletarie quella serie di “garanzie” materiali che hanno preso il nome di ammortizzatori sociali, vere fondamenta della collaborazione di classe che i regimi post-fascisti hanno ereditato proprio dal fascismo.

Ma un altro fenomeno economico si è imposto nel secondo dopoguerra.

Come precisato nello scritto Forza violenza dittatura della lotta di classe (1):

«Il nuovo metodo pianificatore di condurre l’economia capitalistica, costituendo, rispetto all’illimitato liberismo classico del passato ormai tramontato, una forma di autolimitazione del capitalismo, conduce a livellare intorno ad una media l’estorsione di plusvalore». Il nuovo fenomeno, quindi, è la forma di autolimitazione nell’estorsione di plusvalore dal lavoro salariato. Ma vale la pena proseguire riproducendo l’intero brano:

«Vengono adottati i temperamenti riformistici propugnati dai socialisti di destra per tanti decenni, e vengono così ridotte le punte massime e acute dello sfruttamento padronale, mentre le forme di materiale assistenza sociale vanno sviluppandosi [i famosi ammortizzatori sociali, NdR]. Tutto ciò tende al fine di ritardare le crisi di urto tra le classi e le contraddizioni del metodo capitalistico di produzione, ma indubbiamente sarebbe impossibile pervenirvi senza riuscire a conciliare, in una certa misura, l’aperta repressione delle avanguardie rivoluzionarie, e un tacitamento dei bisogni economici più impellenti delle grandi masse. Questi due aspetti del dramma storico che viviamo sono condizione l’uno dell’altro: il vecchio Churchill ha detto con ragione ai laburisti: non potete fondare una economia di Stato senza uno Stato di polizia. Più interventi, più regole, più controlli, più sbirri. Il fascismo consiste nella integrazione tra l’abile riformismo sociale e l’aperta difesa armata del potere statale. Non tutti i suoi esempi sono alla stessa altezza, ma quello tedesco, spietato nell’eliminare i suoi avversari fin che si vuole, attuò un tenore di vita economica media molto alto e una amministrazione tecnicamente ottima, e quando prescrisse limitazioni di guerra le fece pesare anche sulle classi abbienti in una inattesa misura.

«Adunque se in fase totalitaria l’oppressione borghese di classe aumenta la proporzione di impiego cinetico della violenza rispetto a quella potenziale, l’insieme della pressione sul proletariato non ne risulta aumentato ma diminuito. Appunto per questo la crisi finale della lotta di classe subisce storicamente un rinvio». Abbiamo sottolineato appositamente quest’ultima frase per due motivi: il primo, perché si intende non un rinvio di qualche anno, ma di decenni – a un certo punto, prevedendo la prima grande crisi mondiale dell’economia capitalistica per il 1975, ci auguravamo di vedere finalmente, in contemporanea, la crisi sociale rivoluzionaria nella quale il proletariato sarebbe passato da una ripresa della lotta di classe avviata negli anni precedenti (e gli scioperi operai del 1968 in Francia e l’autunno caldo del 1969 in Italia avevano la potenzialità cinetica di superare i limiti immediati della lotta economica di classe) al suo sviluppo nella lotta rivoluzionaria in occasione della grave crisi economica e sociale che avrebbe colpito la classe operaia non solo dei paesi della periferia dell’imperialismo ma anche dei paesi imperialisti stessi.

La crisi economica mondiale c’è stata, la crisi rivoluzionaria no. Ma non c’è stata nemmeno una vera ed estesa ripresa della lotta di classe che avrebbe potuto costituire le basi necessarie per la lotta rivoluzionaria futura.

Che cosa è mancato al proletariato che scendeva comunque in lotta perché le condizioni di esistenza erano diventate intollerabili? Il proletariato dei paesi imperialisti, il più organizzato, il più istruito, il più “politicizzato”, quello che avrebbe dovuto dare il più forte segnale alla ripresa della lotta di classe contro le grandi borghesie e che avrebbe dovuto trascinare nella lotta anche i proletariati dei paesi più deboli e oppressi dai propri paesi imperialisti, non ebbe la forza di superare i limiti in cui le sue lotte venivano rinchiuse: limiti di ordine sociale, politico, organizzativo e, naturalmente, economico. E anche quando qualche limite veniva talvolta superato dalla spinta materiale della lotta, il proletariato ricadeva nelle mille trappole che la democrazia, la socialdemocrazia e il nazionalcomunismo avevano preparato per impedire che il proletariato, e in particolare le sue avanguardie di lotta, imboccassero l’unica via che avrebbe permesso il ricongiungimento con la tradizione classista delle lotte del passato: la lotta contro la concorrenza tra proletari, la lotta contro la collaborazione di classe, la lotta in difesa esclusiva degli interessi di classe dei lavoratori salariati, un terreno di lotta che fondamentalmente non cambia se il paese è imperialista o no. Una lotta anticapitalistica e antiborghese perché si caratterizza non solo per obiettivi concretamente antagonisti agli interessi borghesi, ma anche per l’uso di mezzi e metodi di lotta classisti; dunque con obiettivi, mezzi e metodi di lotta del tutto incompatibili con gli obiettivi, i mezzi e i metodi della democrazia e della collaborazione di classe.

E’ dalla lotta classista che possono rinascere le organizzazioni classiste del proletariato, le sue associazioni economiche, i suoi sindacati di classe. E non è un caso che le borghesie di ogni paese, sulla scorta dell’esperienza che anche loro hanno accumulato e delle lezioni che anche loro hanno tratto dalle lotte del proletariato, si siano date tanto da fare per influenzare e, infine, istituzionalizzare le organizzazioni sindacali operaie attraverso una serie di concessioni sia economiche che politiche in modo che gli obiettivi della lotta operaia fossero sempre compatibili con la conservazione sociale e con gli interessi borghesi.

Di fronte alla forza sociale messa in campo dal proletariato nella lotta di difesa delle sue condizioni di esistenza, e alla sua forza d’urto che da potenziale, virtuale, può diventare cinetica, la borghesia – interessata principalmente a non fermare la complessa macchina produttiva dalla quale ricava i suoi profitti –, utilizzando il suo potere economico, politico e poliziesco, usa ogni misura, ogni manovra, ogni strategia per riportare le masse proletarie nei famosi limiti compatibili con gli interessi del suo dominio. Le forze dell’opportunismo sindacale e politico, ammaestrate alla difesa dell’ordine costituito, pur lasciate libere di dibattere su quali riforme, quali aggiustamenti, quali misure possono essere accettate almeno da una parte dei proletari, costituiscono una difesa decisiva del capitalismo. La loro forza è data dalle concessioni che le lotte operaie riescono a strappare al padronato e allo Stato borghese, concessioni ottenute certamente dalla lotta operaia, ma inquadrate in quella programmazione strategica che la borghesia post-fascista ha assunto come base indispensabile per deviare e paralizzare le spinte di classe del proletariato ogni volta che le crisi inevitabili del capitalismo comportano un generale peggioramento delle sue condizioni di esistenza. Quella programmazione strategica è sostanzialmente la forma di autolimitazione del capitalismo, che conduce a livellare intorno ad una media l’estorsione di plusvalore, di cui parlava il nostro scritto “Forza violenza dittatura nella lotta di classe”.

La borghesia dei paesi imperialisti più forti, vincitori della seconda guerra mondiale, padroni del mondo, ha deciso non solo di adottare nei confronti delle masse proletarie una strategia di questo tipo, ma di osservarla in modo più conseguente possibile tanto da piegare le politiche economiche (e monetarie) dei grandi poli imperialisti a una gestione tendenzialmente sovranazionale dell’economia dei paesi coinvolti.

 

CHE COSA TEME LA BORGHESIA?

 

La classe borghese, padrona del mondo, aldilà degli scontri di guerra che mettono le borghesie nazionali una contro l’altra per strapparsi a vicenda fette di mercato in cui piazzare le proprie merci e i propri capitali, mentre assume la posa della classe invincibile e capace di affrontare e superare qualsiasi crisi scoppi nella sua società, mostra in realtà un timore storico nei confronti della classe del proletariato. Teme, infatti, che la classe proletaria, spinta da quella forza materiale insopprimibile che è la resistenza e la ribellione alle sue condizioni sociali di esistenza, sviluppi a un certo punto una tale pressione sulle esistenti forme sociali di dominio da mandarle in mille pezzi. Come il vapore in continuo aumento all’interno della caldaia preme sulle sue pareti fino a farla scoppiare, così le forze produttive sviluppate all’interno dei rapporti di produzione, di scambio e di proprietà borghesi giungono a un certo punto a premere su di essi tanto da mandarli in mille pezzi. Le valvole di sfogo che servono per non mandare in frantumi la caldaia, e per avere sempre sotto controllo l’energia rappresentata dal vapore prodotto, trasferite in campo sociale sono tutte quelle misure che la borghesia, raccogliendo anche i “suggerimenti” da parte delle forze opportuniste, mette in campo per mantenere le tensioni sociali sotto controllo: sono i famosi ammortizzatori sociali, le cosiddette riforme sociali, i “ristori” – naturalmente temporanei – a fronte di periodi di crisi come quello dovuto alla pandemia da Covid-19, gli aumenti delle pensioni minime, misere in partenza e miseri i “ritocchi”, ecc. ecc. Ma questo tipo di interventi sono previsti, in misura contenuta, anche per la classe borghese, soprattutto da borghesie che hanno una tradizione centralistica con una politica di collaborazione di classe che prevede dei vantaggi per il proletariato (come ad esempio la borghesia tedesca) non riconosciuti nella stessa misura negli altri paesi.

Tutte queste misure sociali fanno parte di quell’armamentario capitalistico che le borghesie più forti utilizzano per rafforzare il loro dominio nazionale e internazionale, ma che – di fronte a situazioni di crisi generale, non solo economica ma anche politica – con estrema rapidità sono in grado di rimangiarsi, salvandole soltanto per una parte del proletariato (quella che noi marxisti chiamiamo aristocrazia operaia) per poter continuare a dividere i proletari mettendoli gli uni contro gli altri; una parte di proletariato che, ideologicamente e politicamente attratta nel campo della conservazione dei suoi piccoli privilegi, ma sufficienti per elevarla socialmente dalla grande massa proletaria, ha usato, usa e userà come membri, insieme alla piccola borghesia e al sottoproletariato, della propria truppa mercenaria contro le masse proletarie spinte a lottare per i propri interessi di classe, immediati e, tanto più, generali.

Quel che è avvenuto nella seconda guerra imperialistica mondiale e nel suo lungo dopoguerra non ha rappresentato un’eccezione storica: la borghesia ha sempre cercato, dopo averle combattute e tollerate nei diversi periodi storici, di influenzare e di attirare le organizzazioni operaie nella sempre più stretta collaborazione. Nella lotta di classe che la borghesia conduce contro il proletariato ha capito che il movimento classista del proletariato si sarebbe sempre riorganizzato data la spinta materiale spontanea della classe operaia a lottare per migliori condizioni di vita e di lavoro; perciò ha sempre cercato di attirare nel suo campo della conservazione sociale, attraverso i mezzi e i metodi della democrazia, i capi sindacali e i capi politici. Con il fascismo la borghesia ha imparato che il metodo più efficace per ottenere una duratura collaborazione di classe non era quello di cancellare le organizzazioni sindacali operaie – dopo aver distrutte le organizzazioni sindacali di classe – ma di sostituirle con organizzazioni sindacali riconosciute giuridicamente trasformandole in organi dello Stato borghese. Anche la borghesia ha appreso la lezione storica secondo la quale il movimento proletario, in assenza del partito di classe alla sua guida, pur se forte dal punto di vista della consistenza numerica e della combattività, non ha possibilità di vincere la guerra di classe che materialmente è spinto a scatenare contro di essa. In assenza di un chiaro programma storico rivoluzionario e di obiettivi di classe, quindi rivoluzionari, che colleghino la sua lotta sul terreno immediato alla lotta politica generale per la conquista del potere politico,– rappresentati entrambi solo dal partito comunista rivoluzionario – il movimento proletario andrà certamente incontro alla sconfitta, sconfitta che sarà tanto più bruciante quanto più il movimento proletario è stato vicino alla lotta rivoluzionaria e alla vittoria.

Indiscutibilmente la sconfitta subita dal proletariato internazionale, quindi non solo russo, tedesco, italiano o cinese, nel 1926 -27 con il definitivo rovesciamento del programma, della linea politica e delle tattiche della rivoluzione comunista da parte della stessa Internazionale proletaria e della sua guida bolscevica, ha gettato il movimento proletario internazionale nell’abisso della controrivoluzione, rimodellando la sua lotta in lotta per la democrazia, per la patria, per una Stato “liberale” in cui riconquistare i “diritti” che il fascismo aveva eliminato, in sostanza per la salvaguardia del capitalismo come modo di produzione e del potere borghese come sua espressione politica.

 

NELL'OGGI SI PREPARA LA RIPRESA DI CLASSE DI DOMANI

 

Da quella sconfitta il proletariato di ogni paese poteva e potrà riprendersi?

Quali sono le condizioni perché il movimento proletario riprenda il suo cammino sul terreno di classe?

Potrà farlo senza la guida del partito di classe?

Come già ricordato sopra, la sconfitta che la rivoluzione in Russia e nel mondo ha subito negli anni Venti del secolo scorso ha rigettato indietro di decenni e decenni l’intero movimento proletario internazionale. Quella sconfitta non ha soltanto reso più facile che le masse proletarie fossero irreggimentate negli eserciti della controrivoluzione sia in campo economico che in quello politico, ma – con la generale e profonda falsificazione del marxismo, delle sue tesi fondamentali e dei suoi obiettivi storici –,è stata molto più profonda di quella subita dal proletariato parigino nel 1971 con la Comune di Parigi. Non c’è dubbio che questo fosse l’obiettivo della controrivoluzione borghese e staliniana: piegare per sempre il proletariato alle esigenze borghesi e capitalistiche, e fare in modo che, tutte le volte che le condizioni economiche e sociali lo avrebbero spinto a lottare fosse incanalato sistematicamente nei meandri della democrazia, della difesa dell’economia nazionale, della difesa della patria, e fosse spinto a non credere più nella lotta di classe, troppe volte deviata e tradita, rendendola – secondo la borghesia – una lotta senza vie d’uscita e, secondo gli opportunisti di ogni risma, una lotta “utopistica” in cui il proletariato avrebbe sprecato le sue energie per non ottenere nulla.

L’immediatismo, cioè la politica che nega alla lotta proletaria la possibilità di incanalarsi su obiettivi storici e lontani nel tempo, inducendo invece i proletari a lottare per obiettivi immediati e capaci di soddisfare esigenze modeste ma la cui soddisfazione appare raggiungibile anche senza la mobilitazione continua di grandi masse, l’immediatismo, dicevamo, è il virus letale della lotta proletaria. Sposta il perno della lotta proletaria dagli obiettivi di classe – quindi esclusivamente proletari anche sul terreno della difesa immediata – a obiettivi compatibili con quelli della classe borghese. E’ la politica dell’opportunismo socialdemocratico e nazionalcomunista con la quale le forze falsamente operaie imprigionano l’intero proletariato nella gabbia del lavoro salariato, della concorrenza tra proletari, della collaborazione di classe.

Ci sono dei gruppi sedicenti comunisti che sostengono che la ripresa del movimento di classe del proletariato sarà facilitata dallo stesso capitalismo il quale, a causa delle sue insanabili contraddizioni interne, tende a far decadere la sua forza di resistenza storica. Tale decadenza, immaginata graduale e continua, darebbe la possibilità alle masse proletarie di far cadere il potere borghese con una semplice spallata, contando sulla propria grande forza numerica e sul fatto che, bloccando la produzione – magari con uno sciopero generale a livello internazionale –, metterebbe in ginocchio l’economia capitalistica, costringendo in questo modo la borghesia a cedere il potere, a dichiararsi sconfitta e a subire la sorte che la storia le riserverà. Un’idea di questo tipo non è che una rivisitazione del classico riformismo socialista e socialdemocratico che prospettava la possibilità, da parte del proletariato, di giungere al socialismo con la sola forza delle riforme imposte al potere borghese, con la lotta e attraverso la legalità, senza dover ricorrere alla violenza della lotta di classe e alla violenza della lotta rivoluzionaria. Riformismo, pacifismo e legalitarismo vanno a braccetto: uno senza l’altro non sta in piedi. Sullo stesso terreno si collocano altre posizioni che si sono distinte con alcune modifiche formali: ad esempio, il “sindacalismo rivoluzionario” – che nega la funzione vitale del partito di classe nella lotta per il socialismo – accetta l’uso della violenza nella lotta di classe contro la violenza del potere borghese, ma assegna solo alle masse proletarie il compito di decidere, di volta in volta, che programma politico, che tattica e che azioni adottare; masse che necessariamente sarebbero chiamate a votare “a maggioranza” programma, tattiche, azioni... In questo modo si attribuirebbero la lotta di classe, i suoi obiettivi storici, la sua compattezza, l’unità d’azione e la capacità di resistere e riprendersi ad ogni sconfitta, non a una centralizzazione teorica e politica che preveda l’intero percorso storico da seguire fino alla completa vittoria del socialismo, ma al contingente stato d’animo delle masse, decretando così la loro incapacità, nonostante il grado di combattività e di eroismo che possono esprimere, a dare alla propria forza numerica, alla propria spinta combattiva e al proprio eroismo, un futuro definito, chiaro, teoricamente invariante, politicamente fermo e tatticamente intelligente.

Contro il potere borghese, sempre più centralizzato, sempre più saldo nei suoi obiettivi storici e immediati e sempre più organizzato e armato, il proletariato, se non si oppone e non lotta con altrettanta forza centralizzata, saldezza nei suoi obiettivi storici e immediati, e sempre più organizzato e armato, non potrà mai dare alla propria lotta la finalità storica che ne fa l’unica classe rivoluzionaria della società attuale: sarà sempre in balìa della classe borghese, continuerà ad essere la classe degli schiavi salariati, la classe per il capitale.

Il proletariato – che ha già dimostrato nella storia del suo movimento non solo di lottare per l’emancipazione dalle sue condizioni di schiavitù salariale, che è la sua finalità storica, ma anche di fare della propria lotta lo strumento della rivoluzione di classe – nasce come classe per il capitale, ma per diventare classe rivoluzionaria, classe per sé (Marx), e quindi per dare alla propria emancipazione un reale percorso storico e una finalità chiara e definita, ha avuto bisogno di una teoria rivoluzionaria che non fosse legata semplicemente al terreno economico e politico dominati dalla classe borghese e dalla sua ideologia. Questa teoria non poteva sorgere semplicemente dalle condizioni materiali del proletariato, e nemmeno dalla lotta che il proletariato faceva contro i capitalisti; doveva nascere al di sopra e fuori dalle condizioni contingenti del proletariato, doveva partire da un metodo di interpretazione della storia delle società divise in classi e della lotta fra le classi (il materialismo storico e dialettico) e doveva trarre da questa interpretazione una conclusione altrettanto storica e dialettica dopo aver preso dalla storia del pensiero dei secoli precedenti gli elementi che, riuniti in un insieme organico, diedero il risultato finale: la teoria della rivoluzione comunista, come guida del movimento rivoluzionario dell’unica classe rivoluzionaria della società moderna, appunto il proletariato, i lavoratori salariati, i senza riserve, coloro che posseggono soltanto la forza lavoro e che, nel capitalismo, sono i veri produttori della ricchezza sociale.

La teoria marxista, quindi, rappresenta quello che noi abbiamo sempre definito il partito storico, la parte invariante, non contingente, non sottoposta a voti di maggioranza, la guida stabile dell’intero percorso che porterà il proletariato dall’essere solo classe per il capitale, all’essere classe per sé, ossia classe che, emancipando sé stessa, emancipa l’intera umanità perché di questa società borghese non avrà nulla da conservare, ma tutto da eliminare: la divisione in classi, l’oppressione di classe, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, lo Stato come forza armata di una classe dominante che non esisterà più.

Ma, per arrivare a questo risultato storico, è necessario dialetticamente – come lo è stato per le rivoluzioni di classe delle passate società – passare attraverso la fase della rivoluzione armata del proletariato, la conquista violenta del potere politico e l’abbattimento dello Stato borghese, l’instaurazione della dittatura proletaria al posto della dittatura borghese, la rivoluzione a livello internazionale e gli interventi dispotici nell’economia capitalistica per trasformarla in economia socialista, prima, e in economia comunista, poi, nella quale sarà imperante il principio: da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni. La condizione per giungere a questo risultato storico passa attraverso la ripresa della lotta di classe del proletariato. Senza questo passaggio, la situazione generale di oppressione salariale e di oppressione borghese e imperialistica non cambierà; semmai peggiorerà, come è già peggiorata finora, come la insistente preparazione alla guerra sempre più estesa e mondiale sta dimostrando.

 

CERTEZZA STORICA DELLA FUTURA RIVOLUZIONE

 

Senza dubbio, osservando la situazione di depressione in cui versano ancora le masse proletarie sia dei paesi imperialisti che di tutti gli altri paesi, sembra che il proletariato non ce la potrà mai fare a risollevarsi, a riconquistare il terreno della sua lotta di classe e a porsi di fronte alle classi borghesi di tutto il mondo come la temuta classe rivoluzionaria.

Ma la storia delle società divise in classi e la storia delle lotte fra le classi non si muove con andamento sinusoidale, che da una fase ascendente passa a una fase discendente, per poi risalire  e continuare così indefinitamente. Secondo questa visione fatalista e, insieme, gradualista (teoria della decadenza del capitalismo), una volta che il capitalismo ha finito il suo ramo discendente, il socialismo verrà da sé, senza lotte, senza scontri armati, e senza partito; una visione secondo la quale elementi del socialismo compenetrano progressivamente il tessuto capitalistico (2) per cui non sarebbero necessarie né la rivoluzione, né la dittatura proletaria esercitata dal partito per intervenire dispoticamente nell’economia capitalistica al fine di trasformarla in economia socialista.

«Marx – scrivevamo nel commentare la Tavola II dello scritto a cui ci siamo riferiti sopra – non ha prospettato un salire e poi un declinare del capitalismo, ma invece il contemporaneo e dialettico esaltarsi della massa di forze produttive che il capitalismo controlla, della loro accumulazione e concentrazione illimitata, e al tempo stesso della reazione antagonistica, costituita da quella delle forze dominate che è la classe proletaria. Il potenziale produttivo ed economico generale sale sempre finché l’equilibrio non è rotto, e si ha una fase esplosiva rivoluzionaria, nella quale in un brevissimo periodo precipitoso, col rompersi delle forme di produzione antiche, le forze di produzione ricadono per darsi un nuovo assetto e riprendere una più potente ascesa» (3).

La condizione che permetterà al proletariato di riconquistare il terreno della lotta di classe, economico prima ancora che politico, sarà quella in cui riuscirà a spezzare la collaborazione tra le classi, a combattere la concorrenza tra proletari, armi della classe borghese fornite anche alle forze opportuniste, per impedire al proletariato proprio di riconoscersi come classe antagonista e di riconoscere i propri interessi anche immediati del tutto opposti a quelli della borghesia, e di costringerlo a rimanere perciò prigioniero della schiavitù salariale senza opporvisi in modo efficace.

Marx ed Engels, nel Manifesto del 1848, dichiaravano che: «Il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il successo immediato ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre più». Ciò non significa che i risultati eventualmente ottenuti dalle lotte di difesa economica – sindacali, per dirla con un termine usatissimo – non abbiano valore, o che i sindacati, siccome sono preda dell’opportunismo, tanto più da quando sono diventati un’istituzione borghese, non sono più organismi nei quali i comunisti debbano intervenire; significa che le eventuali concessioni che i capitalisti e la borghesia sono costretti dalla lotta operaia a rilasciare, sono risultati effimeri, contingenti, che possono essere rimangiati dalla borghesia in un successivo momento – come è successo e succede in ogni epoca – mentre la solidarietà di classe creata nelle lotte operaie è l’elemento più significativo della lotta di classe perché è grazie ad essa che la lotta può essere ripresa ed estesa successivamente. I proletari devono abituarsi a non farsi la concorrenza, a non rinchiudersi nelle diverse forme di corporativismo, a non trincerarsi nei piccoli privilegi che i capitalisti concedono, in generale,  proprio per dividere i proletari, per mettere i proletari gli uni contro gli altri.

C’è chi non capisce che il lavoro di partito all’interno della classe organizzata nei sindacati – un lavoro che può essere svolto apertamente fino a quando formalmente l’attività dei comunisti rivoluzionari non venga statutariamente esclusa – è un lavoro indispensabile per far conoscere ai proletari il partito di classe, il suo programma, gli obiettivi generali della lotta del proletariato stesso, e per conquistare la fiducia da parte delle loro avanguardie di lotta. Senza questa influenza diretta del partito sulle masse proletarie non vi sarà mai una reale preparazione del proletariato alla rivoluzione di classe. Il proletariato, grazie alla sua lotta di classe sul piano economico come su quello contro la guerra, può arrivare a porsi oggettivamente sul terreno rivoluzionario – lo ha fatto in particolare con la Comune di Parigi, con la rivoluzione del 1905 e del febbraio 1917 in Russia, e l’ha fatto anche a Canton e Shanghai nel 1927 –, ma senza la guida del partito comunista rivoluzionario, del partito marxista, non ha potuto, e non poteva, portare la sua lotta a carattere rivoluzionario alla conclusione e all’estensione storica che invece è stata raggiunta con la rivoluzione d’Ottobre. D’altra parte, anche il partito comunista rivoluzionario ha bisogno di prepararsi alla lotta rivoluzionaria, deve dimostrare al movimento proletario e, in particolare, ai suoi strati più avanzati, di essere la sua guida necessaria, il suo punto di riferimento, la sua bussola, e questo lo può ottenere soltanto lottando al suo fianco, importando nella lotta proletaria gli elementi di bilancio storico delle lotte del passato e di previsione delle lotte future, assumendosi in pieno la responsabilità politica, oltre che tattica e organizzativa, delle decisioni che, a seconda dello svolgimento di quella che è una vera e propria guerra di classe, vanno prese e imposte.

Se il partito di classe non si abilita a questo compito – e lo può fare solo a condizione di mantenere saldo il maneggio della teoria marxista e di applicare i suoi dettami nelle diverse situazioni – è destinato a mettersi alla coda del movimento, a farsi “dirigere” dalla massa proletaria e dai suoi alterni e oscillanti stati d’animo; in sostanza, invece di essere l’arma vincente della rivoluzione proletaria, diventa l’arma vincente della controrivoluzione.

Il movimento delle classi proletarie, nel tempo, ha accumulato molte esperienze positive grazie alle quali i suoi atteggiamenti politici sono maturati fino ai grandi avvenimenti storici aperti dalla rivoluzione d’Ottobre del 1917, alla costituzione dell’Internazionale Comunista nel 1919, alla vittoria in campo militare contro gli eserciti della controrivoluzione interna ed esterna (le guardie bianche zariste e il loro supporto da parte delle potenze imperialistiche), al superamento della drammatica crisi di Kronstadt e al sostegno per anni del movimento rivoluzionario internazionale. Ma tutto questo non è bastato perché la rivoluzione proletaria potesse procedere vittoriosamente in Ungheria, in Germania, nella stessa Italia e nella lontana Cina. Non sono stati gli eserciti imperialisti a battere la rivoluzione proletaria di Russia, d’Ungheria, di Germania: è stata l’influenza delle illusioni democratiche e socialdemocratiche ancora radicate nel proletariato occidentale a non permettere a questo proletariato di congiungersi con il proletariato rivoluzionario di Russia sullo stesso terreno antiborghese, anticapitalistico. Il dramma e i sacrifici vissuti dalle masse proletarie dell’epoca hanno inciso nel profondo del loro movimento, assumendo inevitabilmente una dimensione mondiale, in modo tale da farle indietreggiare di molti decenni rispetto ai livelli di lotta rivoluzionaria raggiunti negli anni della rivoluzione russa nel secolo scorso. I partiti comunisti radunati nell’Internazionale Comunista, a causa della loro degenerazione politica e teorica, si sono trasformati da vettori della rivoluzione proletaria e comunista in vettori della borghesissima controrivoluzione che prese il nome dal suo rappresentante di maggior spicco, Stalin. Nulla poterono le sinistra marxiste che all’epoca si opposero al corso degenerativo dell’Internazionale Comunista e del partito bolscevico che era alla sua direzione; troppo forte lo tsunami controrivoluzionario, e di quelle sinistre marxiste si salvò soltanto la Sinistra comunista d’Italia, piccolo gruppo di militanti comunisti che non si fece seppellire dalla controrivoluzione staliniana, resistendo sulle posizioni teoriche e politiche fondamentali che caratterizzarono non solo il partito di Lenin ma anche i primi due congressi dell’Internazionale Comunista.

Potrà mai il comunismo rivoluzionario tornare a incutere la grande paura che le classi borghesi del mondo ebbero negli anni dal 1917 al 1924-27? Potrà mai il comunismo rivoluzionario tornare ad essere l’arma vincente del movimento proletario internazionale di domani?

La visione marxista della storia delle società umane e della lotta fra le classi non si piega agli eventi che sono risultati negativi per lo sviluppo del movimento rivoluzionario, come non si è mai piegata alla concezione individualistica delle vittorie e delle sconfitte nella lotta fra le classi. Sono le forze sociali che rappresentano le forze produttive e le forme di produzione che, nel loro urto storico, decidono i tempi della rivoluzione; il loro urto, provocato dagli equilibri spezzati tra forze e forme di produzione, mette in moto il movimento rivoluzionario delle forze produttive che, nei dati svolti storici, può essere assente, in via di costituzione o già costituito e maturo per dare l’assalto al potere borghese e al suo ordine costituito, in uno o in più paesi. Il successo del movimento rivoluzionario del proletariato è determinato dal partito che lo dirige: se il partito ha saputo valutare la situazione storica, prepararsi adeguatamente conducendo con successo un’opera di penetrazione politica e teorica nelle masse proletarie, dimostrando di essere all’altezza del compito rivoluzionario, allora la rivoluzione proletaria ha trovato la sua vera guida.

La situazione storica in cui le masse proletarie si lanciano contro l’ordine borghese costituito e trovano in questo loro potente movimento il partito di classe preparato e pronto a dirigerle è una situazione storica eccezionale. Il partito di classe è tale se sa che deve prepararsi a quella situazione storica eccezionale, mantenendo ferme e invarianti le basi teoriche e politiche fondamentali che fanno del partito rivoluzionario la coscienza di classe, la guida che non solo ha chiari gli obiettivi storici della rivoluzione proletaria, ma che sa prevedere i passaggi necessari da compiere perché il movimento rivoluzionario abbia successo. Lo hanno insegnato Marx, Engels, Lenin: il partito di classe dirige la rivoluzione, non la “fa”; a farla sono le masse proletarie spinte oggettivamente e incoscientemente contro le forme sociali borghesi, ma perché la rivoluzione abbia successo, quindi corrisponda effettivamente al balzo storico da una società all’altra – in questo caso, dall’ultima società divisa in classi che la storia umana ha conosciuto, alla società senza classi, alla società di specie – le masse proletarie devono essere guidate, dirette verso obiettivi chiari e organicamente legati all’intero processo rivoluzionario, appunto fino al socialismo integrale, al comunismo. Il partito proletario che non si prepara a svolgere questo compito storico non è il partito di classe, è semplicemente uno dei tanti partiti proletari che pullulano nella società borghese e che hanno il compito – cosciente o incosciente non ha molta importanza – di deviare il proletariato dal suo corso rivoluzionario.

Noi, in linea storica con la Sinistra comunista d’Italia e con il marxismo, lavoriamo e combattiamo perché quel partito di classe si ricostituisca sulle stesse basi marxiste su cui si era costituito il Partito comunista d’Italia nel 1921 e l’Internazionale Comunista del 1919-1920.

 


 

(1) Cfr. Forza violenza dittatura nella lotta di classe, scritto tra il 1944 e il 1945, mentre l'Italia era ancora occupata dall'esercito tedesco e, successivamente, risalendo da Sud verso Nord, dall'esercito anglo-americano, venne poi pubblicato in diverse puntate nell'allora rivista di partito, "Prometeo", tra il 1946 e il 1948. Fa parte del volume Partito e classe, edito dal partito nel 1972, riportante alcuni scritti del 1921-22 e altri del secondo dopoguerra.

(2) A questo proposito vedi Il rovesciamento della prassi nella teoria marxista, e le sue tabelle esplicative, in "Partito e classe", "i testi del partito comunista internazionale" n. 4, Napoli 1972, in particolare la Tavola I, p. 130.

(3) Ibidem, p. 131.

 

 

Partito Comunista Internazionale

Il comunista - le prolétaire - el proletario - proletarian - programme communiste - el programa comunista - Communist Program

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