Di strage in strage, la borghesia israeliana cerca la sua “soluzione finale”: cacciare dalla loro terra i palestinesi trasformandoli in profughi e schiavi salariati perenni!
Questa “soluzione” fa comodo a tutte le borghesie dell’area mediorientale e a tutti gli imperialisti in quanto i proletari palestinesi costituiscono sempre una polveriera pronta a esplodere!
(«il comunista»; N° 183 ; Agosto-Settembre 2024)
L’incursione di Hamas del 7 ottobre 2023 nei kibbutz israeliani confinanti con la Striscia di Gaza, al di là delle congetture sull’impreparazione dei servizi segreti israeliani riguardo alla necessaria prevenzione, è stata un’occasione particolarmente favorevole per conseguire lo storico disegno sionista della Grande Israele, che tutti i governi israeliani finora succedutisi al potere hanno, in modo più o meno mascherato, sempre perseguito. Il governo Netanyahu non è certo di vedute diverse.
Lo stesso 7 ottobre l’esercito di Tel Aviv si è mosso per un’estesa e prolungata rappresaglia con la quale, secondo i propositi del governo Netanyahu, Hamas e le sue ramificazioni militari e politiche sarebbero state annientate e la popolazione civile della Striscia di Gaza, che ha “scelto” di farsi governare da Hamas, avrebbe ricevuto una “lezione” che non avrebbe mai dimenticato...
All’inizio poteva sembrare, come annunciato, un’operazione militare il cui obiettivo principale era di salvare gli oltre 200 ostaggi catturati da Hamas e portati nella Striscia, e dare, nel contempo, una risposta durissima ad Hamas. I bersagli “ufficiali” dell’operazione militare israeliana a Gaza erano i capi e i miliziani di Hamas, ma nella realtà – come è sempre successo dalle guerre israelo-palestinesi, dal 1967 in avanti – proprio per il fatto che i miliziani palestinesi coabitavano e coabitano a stretto contatto con la popolazione civile (e non poteva essere diversamente, vista l’alta densità abitativa nei sempre più ristretti km quadrati di territorio in cui i palestinesi, di guerra in guerra, venivano costretti a vivere), Israele non ha mai fatto gran differenza tra miliziani armati e popolazione civile, che le rappresaglie fossero condotte direttamente da Tel Aviv o per mano di altri carnefici, come nel massacro di Amman, nel settembre 1970, in quello di Tall-el-Zaatar del 1976 e in quello di Sabra e Chatila del 1982, per non parlare delle successive Intifada. Ma è un errore credere che i massacri dei palestinesi siano imputabili soltanto a Israele o ai regimi arabi di Giordania, Libano o Siria.
La realtà storica della situazione creata subito dopo la seconda guerra imperialista mondiale vede – e non poteva essere che così – le grandi potenze “vincitrici” tenere in mano le sorti non solo dell’Europa, ma di tutto il mondo e, in particolare, del terremotatissimo Medio Oriente. Prima l’Inghilterra e la Francia, poi gli Stati Uniti, con la Russia sovietica alla finestra, hanno messo i propri artigli su quei vasti territori gonfi del preziosissimo petrolio e strategicamente importanti per le vie commerciali con l’Oriente. Dunque, tutto ciò che è successo, succede e succederà nella vecchia Palestina e in tutto il Medio Oriente, vedrà costantemente impegnati gli interessi non solo delle potenze regionali (Iran, Arabia Saudita, Egitto e i vari regimi arabi, senza escludere la Turchia), ma soprattutto delle grandi potenze mondiali. E’ cosa nota che l’Inghilterra, vecchia potenza mondiale decisiva in particolare nell’Oriente estremo e nell’Oriente vicino, è stata sostituita come potenza mondiale capace di essere presente contemporaneamente in ogni continente, dagli Stati Uniti d’America. Perciò, non esiste quadrante geopolitico del mondo, più o meno grande, nel quale Washington non abbia un proprio interesse da far valere.
Il fatto stesso che, ormai da decenni, Washington investa miliardi su miliardi di dollari in Israele per la sua funzione di gendarme “americano” nel Medio Oriente (nel tempo diventato gendarme “occidentale”), e lo protegga economicamente, politicamente, diplomaticamente e militarmente a livello mondiale, fa di Washington il maggior responsabile di tutte le azioni che la borghesia israeliana ha fatto, fa e ha in animo di fare. Certo, nei decenni trascorsi dalla fine del secondo conflitto imperialistico mondiale, i rapporti tra le varie potenze che ne sono uscite vincitrici e vinte si sono modificati, non ancora così profondamente da presentare in embrione già gli schieramenti della prossima guerra imperialista. L’emergere di potenze economiche capaci di mettere alle strette il capitalismo americano in una guerra di concorrenza che non conosce limiti (come Cina, Germania, Giappone, per citare alcune economie di cui Washington ha tutte le ragioni di temere una concorrenza sempre più acuta, senza tralasciare il nervo scoperto che risponde storicamente al nome di Russia, in particolare per la sua forza nucleare), ha in qualche modo costretto Washington a dosare in modo molto più accorto di un tempo il proprio intervento economico-militare, spingendolo a demandare ad altri paesi, particolarmente dipendenti dai suoi investimenti e dal suo peso politico internazionale, la funzione di controllo politico-militare delle aree geopolitiche in cui quei paesi sono in grado di svolgere la funzione di gendarme degli interessi capitalistici in generale e dell’imperialismo americano in particolare. Il caso di Israele è emblematico.
E allora a che serve tutto il teatro messo in piedi ogni volta che si alza la tensione in Palestina o in Libano – dove si è rifugiato quasi mezzo milione di palestinesi e dove agiscono liberamente i miliziani di Hezbollah – con l’ormai trito e ritrito “diritto” dei palestinesi ad avere un proprio Stato indipendente (per il quale né Israele, né gli Stati Uniti, tanto meno la supervalutata Unione Europea, né le altre diverse potenze mondiali hanno mai fatto nulla per facilitarne la realizzazione, oltretutto prevista dalle risoluzioni dell’ONU fin dal 1948!)? Serve a gettare fumo negli occhi ai palestinesi, alle masse arabe, ai proletari di ogni paese che, illusoriamente, si aspettano che siano le stesse grandi potenze, che hanno creato una situazione irrisolvibile, a mettere fine alla tragedia della popolazione palestinese.
Per noi marxisti era chiaro già all’epoca, finita la guerra imperialista, che tutti i problemi che l’imperialismo non aveva risolto, e non poteva risolvere dati i sempre più contrastanti interessi fra i diversi poli imperialisti, si sarebbero aggravati, e che l’aggravamento in termini economici e sociali si sarebbe abbattuto per il 99% sulle masse proletarie direttamente interessate – dunque, soprattutto dei paesi coloniali e semicoloniali – e, in altissima percentuale, anche sulle masse proletarie dei paesi che dalla guerra uscirono vinti, su cui il peso della ricostruzione postbellica sarebbe stato particolarmente duro.
Come ribadito più e più volte, abbiamo messo in risalto che la borghesia palestinese, al pari di altre, non è stata in grado di approfittare della situazione mondiale del secondo dopoguerra in cui emergevano i moti anticoloniali che mettevano a dura prova la tenuta delle vecchie potenze coloniali. La sua “rivoluzione democratica” non vide la luce come accadde invece in Algeria, in Congo o in Cina; i residui del tribalismo e precapitalistici ancora presenti in tutta l’area araba mediorientale costituivano un ostacolo che solo un grande moto insurrezionale volto a disfarsi per sempre di quei residui avrebbe potuto distruggere, ma i ceti privilegiati arabi dell’epoca, nonostante insurrezioni e sollevazioni popolari di ampia portata, preferirono mercanteggiare i propri privilegi con le nuove potenze che avevano sostituito l’impero ottomano, lasciando sostanzialmente ad esse il compito di “sistemare” le diatribe tra i vari clan e i confini dei nuovi paesi, assumendosi il compito di soffocare le spinte ribelli e rivoluzionarie delle proprie masse lavoratrici e diseredate. Nel frattempo, il capitalismo non stava a guardare, procedeva nonostante gli ostacoli sociali e politici dei vari clan e delle varie tribù, e non erano soltanto i pozzi petroliferi a richiedere manodopera salariata che stava sostituendo sempre più i piccoli contadini rovinati dalla guerra, dal commercio capitalistico e dalle espropriazioni delle loro terre.
E’ così che le masse palestinesi, costituite in genere da piccoli contadini e piccoli commercianti, vennero trasformate in masse proletarie, in braccia salariate a disposizione di qualsiasi borghesia, di qualsiasi capitalista, tanto più in quanto profughi perenni. Come in tutte le altre parti del mondo, il procedere del capitalismo non si ferma di fronte all’impotenza di una particolare borghesia: ci sono altre borghesie, più organizzate e più forti che prendono il posto di quelle più deboli e in ritardo storico; lo sviluppo capitalistico se, da un lato, rovina interi strati di popolazione e provoca uno sviluppo ineguale in molte parti del mondo, dall’altro non può che produrre sempre più proletari, lavoratori salariati, lavoratori senza riserve costretti a sottostare alle leggi borghesi e ai rapporti di produzione e sociali che il capitalismo detta alle stesse borghesie.
La grande novità che apparve in Palestina tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso è stata la creazione di una massa proletaria spogliata di tutto, della terra, del proprio lavoro artigianale, della propria casa, di quella che poteva diventare la propria “patria” e non lo diventò. Profughi perenni, i proletari palestinesi – proprio perché proletari, e perché usi alla lotta armata e indomiti – hanno sempre costituito un pericolo potenziale per tutte le borghesie della regione, a partire dalla sua stessa borghesia, che ha usato il loro sangue per rafforzare i suoi rapporti di classe con le borghesie più potenti che, di volta in volta, si rendevano più disponibili a spalleggiarla.
Ma la lotta dei proletari palestinesi, che attendono da decenni un territorio, continuamente illusi dalla loro stessa borghesia di poterlo ottenere come nazione “indipendente” e in cui i rifugiati in altri paesi potessero finalmente rientrare, ha, in realtà, un’altra prospettiva: una prospettiva di classe, la prospettiva di una lotta che unisca i proletari degli stessi paesi in cui si sono rifugiati – come già era iniziato a succedere nel 1982 a Beirut –, una lotta che si pone oggettivamente sul piano internazionale sia perché i proletari palestinesi sono presenti e sfruttati in molti paesi mediorientali, dunque non solo in Israele, sia perché devono combattere, come è già avvenuto più volte nel corso dei decenni passati, contro le borghesie della regione che, al di là dei contrasti che hanno costantemente tra di loro, si sono sempre alleate contro i proletari palestinesi.
Questa lotta che, certo, non è realizzabile sulla base della semplice volontà di qualche organismo sovranazionale, nemmeno se si trattasse del partito comunista rivoluzionario, può emergere solo in situazioni in cui i proletari riescano a distruggere la concorrenza tra di loro che la borghesia palestinese stessa, in primis, e tutte le altre borghesie, alimentano costantemente sapendo che questa concorrenza tra proletari è un fattore favorevolissimo allo sfruttamento dei proletari stessi, e alla loro divisione.
Non va, d’altra parte, sottovalutato il comportamento del proletariato israeliano, soprattutto della sua maggioranza ebraica; questa funziona, nei confronti dei proletari palestinesi e nei confronti degli stessi proletari israeliano-arabi, come una vera e propria aristocrazia operaia, legata a doppia mandata agli interessi di conservazione della borghesia israeliana. Più la borghesia israeliana continua ad espropriare terre ai palestinesi, costringendoli a piegarsi agli interessi israeliani o a emigrare, più essa ha interesse a legare a sé, attraverso privilegi di ogni tipo, la massa di proletari israeliani. Perciò, sebbene nella prospettiva classista e rivoluzionaria della lotta proletaria non possa mancare l’appello all’unione tra proletari al di sopra delle nazionalità per combattere contro il vero nemico di tutti i proletari, la borghesia dominante, i proletari palestinesi come non si devono attendere la soluzione o il miglioramento delle loro condizioni sociali ed economiche dalla borghesia palestinese, o da quella degli altri Stati e tanto meno da quella dei paesi imperialisti, così non devono attendersi che l’aristocrazia operaia israeliana si muova a difesa dei loro diritti, del loro riconoscimento come popolo che ha “diritto” a essere indipendente. Non è un caso che in tutte gli episodi di soprusi, di sopraffazioni, di occupazione delle terre palestinesi con azioni armate da parte dei coloni israeliani e di guerra condotti dalla borghesia israeliana, nessun serio movimento di opposizione proletario si sia visto da parte dei proletari israeliani. Questi ultimi sono ancora troppo legati ai privilegi materiali che la borghesia dominante concede loro per gettarli alle ortiche e abbracciare non solo e non tanto la “causa palestinese” (che sarebbe già un passo avanti nel dimostrare di non essere complici dell’oppressione nazionale della propria borghesia) quanto la “causa proletaria” in cui riconoscersi.
Verrà il momento in cui i proletari israeliani dovranno rispondere della loro complicità con la propria borghesia; le stragi di Gaza e di Cisgiordania peseranno anche su di loro. Se valeva quanto dicevano Marx ed Engels a proposito dei popoli che opprimono altri popoli, vale ancor di più a proposito dei proletariati che si rendono complici della propria borghesia nell’oppressione di altri popoli e di altri proletariati. La storia ha una giustizia non scritta su tavole della legge, ma sui fattori materiali che portano le classi produttrici dominate e sfruttate a sollevarsi contro le classi dominanti e sfruttatrici. Saranno la lotta di classe e la rivoluzione, come già nei tentativi del 1848, del 1871 e del 1917, a fare giustizia, abbracciando la causa di un’emancipazione che per suo fine non ha tanto il riconoscimento dei “diritti” degli oppressi a una vita più “dignitosa”, gentilmente concessa dalle classi borghesi dominanti, quanto l’eliminazione di una società eretta sulla divisione in classi, sul modo di produzione capitalistico che ha trasformato ogni attività umana e ogni essere umano in merce, sul dominio politico e sociale di una classe dominante che non pone alcun limite alla ferocia nello schiacciare movimenti e popoli che si mettono di traverso ai suoi interessi.
Sostenere questa prospettiva, oggi, che all’orizzonte visibile non appare una lotta proletaria con le caratteristiche della lotta di classe e rivoluzionaria, può sembrare un sogno da visionari. Lo sembrava anche nel 1917, in piena guerra imperialista mondiale, quando il proletariato russo – all’epoca in minoranza notevole rispetto alla massa contadina – si sollevò contemporaneamente contro la guerra imperialista, contro lo zarismo e contro la borghesia nazionale – e abbracciò questa stessa prospettiva con tale forza e convinzione da generare in tutte le potenze imperialistiche il reale timore di perdere il controllo non solo della Russia, ma di tutto il mondo. Nel 1848 i proletari rivoluzionari in Europa furono sconfitti a Milano, a Vienna, a Francoforte, a Berlino, a Budapest, a Parigi nel giro di un mese perché troppo isolati gli uni dagli altri e perché la loro lotta non aveva ancora raggiunto l’apice del programma internazionale del comunismo rivoluzionario che solo il Manifesto di Marx ed Engels poté rappresentare. Nel 1871 la rivoluzione dei comunardi durò poco più di due mesi, ma riuscì ad esprimere i punti cruciali che il marxismo aveva già messo in evidenza: gli interessi di classe di proletari si scontrarono direttamente con gli interessi di classe della borghesia francese e prussiana – ragione per cui esse si allearono contro il proletariato di Parigi –, e solo l’assenza di un chiaro e preciso programma rivoluzionario di lunga durata e l’estremo isolamento dei proletari sia in Francia che in Europa, determinarono la loro sconfitta. Nel 1917 la rivoluzione proletaria vinse e, sulla scorta dell’esperienza della Comune di Parigi, instaurò la dittatura di classe politicamente prevista e molto più organizzata, suscitando in tutta Europa e nelle colonie una spinta rivoluzionaria di grandissima portata che avrebbe potuto ottenere quel che la Comune di Parigi non riuscì a realizzare, ossia l’avvio di una rivoluzione mondiale del proletariato d’Europa e del mondo; ma nel giro di un decennio – a causa del cedimento ai presupposti ideologici e tattici dell’opportunismo socialdemocratico dei partiti comunisti più importanti, come quelli di Germania e Francia e del reale isolamento della dittatura proletaria sovietica – il potere proletario si piegò su sé stesso rendendosi prigioniero di una degenerazione che lo erose dall’interno, e la rivoluzione proletaria mondiale che avrebbe potuto riprendere vigore in Germania nel 1923 e in Cina nel 1927 venne sostituita dalla ragion di Stato russo e dalle oscene “vie nazionali al socialismo”.
La storia va letta senza pregiudizi ideologici, e degli avvenimenti che segnano le varie fasi storiche vanno fatti i bilanci dinamici che soltanto il marxismo è stato ed è in grado di fare. Lo ha insegnato Marx fin dal 1848 e lo ha insegnato Lenin fin dal 1914: insegnamenti che le forze dell’opportunismo mondiale hanno cercato di mistificare e seppellire, ma dai quali solo una corrente politica ben definita, la Sinistra comunista d’Italia, ha dimostrato di saperli trarre grazie a un solo metodo, quello di applicare intransigentemente il marxismo – dunque il materialismo storico e dialettico – alla storia delle società umane, al loro sviluppo e alle loro contraddizioni, con la tenacia e la pazienza che caratterizzano le ricerche scientifiche che non si lasciano imbrigliare dagli anni di vita dello scienziato x o y.
La rivoluzione industriale che ha segnato l’esordio del capitalismo nel mondo ha iniziato i suoi passi in Inghilterra e nel 1640 ha sviluppato la sua prima rivoluzione borghese. Per arrivare alla rivoluzione francese, quindi alla rivoluzione nell’Europa feudale, la borghesia ha impiegato 150 anni, ma intanto il capitalismo come modo di produzione procedeva nel suo inarrestabile sviluppo. Per arrivare alla rivoluzione antifeudale in Russia ci sono voluti altri 130 anni circa, mentre il capitalismo si stava trasformando in capitalismo monopolistico e, quindi, imperialistico, facendo maturare le sue contraddizioni nel conflitto imperialistico mondiale del 1914-18, mentre Asia e Africa continuavano a rimanere nel sottosviluppo economico e, in buona parte, nelle forme dispotico-feudali-tribali che le potenze imperialistiche cercavano di mantenere ancora in vita per loro esclusivi interessi di controllo economico e di influenza politica. Ma lo sviluppo delle forze produttive che il capitalismo aveva avviato da lungo tempo e che le potenze imperialistiche, pur cercando di rallentarlo, non poteva interrompere, era destinato a infrangersi contro le forme politiche e sociali antiche non più adatte alla moderna industria, al moderno commercio e alla finanza. La seconda guerra imperialista mondiale, mentre confermava la previsione marxista sulle contraddizioni sempre più acute dello sviluppo capitalistico e sui contrasti sempre più acuti tra le potenze imperialistiche, apriva anche la lunga stagione dei moti anticoloniali in Asia e in Africa. Si arriverà, nel 1975, alla prima grande crisi capitalistica mondiale con cui si chiuderà la lunga stagione dell’espansione economica e finanziaria postbellica e degli stessi moti anticoloniali, ma, non essendo ancora riemerso il movimento di classe del proletariato dal profondo arretramento subito negli anni 1926-27, quei moti anticoloniali non ebbero la possibilità – come il programma dell’Internazionale comunista aveva indicato nelle sue tesi del 1920, per la realizzazione del quale tutti i comunisti del mondo avrebbero dovuto lavorare – di agganciarsi alla lotta di classe che il proletariato nei paesi imperialisti avrebbe dovuto scatenare contro le rispettive borghesie, approfittando delle difficoltà che proprio i moti anticoloniali avevano provocato. E così, grazie soprattutto agli effetti tragici che ebbero le diverse ondate opportuniste sul movimento proletario mondiale, oggi i proletari dei paesi più deboli e sistematicamente saccheggiati dalle forze imperialiste, subiscono i colpi più duri sia delle crisi in cui i loro paesi sprofondano, sia dell’oppressione salariale e nazionale esercitata dai paesi imperialisti più forti.
I proletari palestinesi si trovano in questo cerchio infernale, come molti altri proletari costretti dalle carestie, dalle guerre regionali, dalle crisi economiche e dalle più brutali repressioni a diventare profughi permanenti, alla ricerca spasmodica di una terra o un porto dove interrompere, almeno per un po’, la loro fuga. I proletari palestinesi, e di Gaza in particolare, stanno subendo la più lunga e atroce repressione la cui mano armata evidente è targata Israele, ma consentita e voluta dalle molte mani mascherate dei paesi arabi, dei paesi europei e, non ultime, degli Stati Uniti d’America, che hanno interesse che la polveriera palestinese venga definitivamente spenta.
Per come stanno le cose, Washington, Londra, Parigi, Berlino, Mosca, Roma, Pechino, il Cairo, Riyad, Amman e cento altre capitali possono continuare a succhiare il sangue dei rispettivi proletariati senza temere il contagio di una lotta indomita che ancora una volta è soffocata per mano israeliana; anche Teheran e Damasco, al di là del sostegno dato alle milizie sciite degli Hezbollah e alla loro avversione storica verso Israele, non amano particolarmente i palestinesi, visto che l’Iran non accoglie nessun rifugiato palestinese perché non ha alcun interesse a portarsi in casa una “polveriera”, e che la Siria, pur ospitando forzatamente circa mezzo milione di rifugiati palestinesi li costringe a condizioni di vita miserrime e senza alcun reale supporto e protezione. Il loro cosiddetto sostegno attraverso il finanziamento e l’armamento degli Hezbollah libanesi è in realtà concesso esclusivamente in funzione anti-Israele. Anzi, per l’Iran in particolare, più la “questione palestinese” rimane irrisolta e più Teheran riesce ad agire come potenza regionale con mire di egemonia nell’intera regione, contrastata certamente da Israele, Stati Uniti e anche Arabia Saudita, ma, dopo l’inizio della guerra israeliana contro Gaza e i suoi bombardamenti a tappeto sulle teste della popolazione civile palestinese, i famosi “accordi di Abramo” che dovevano, su iniziativa di Washington, giungere ad avvicinare Tel Aviv anche a Riyad in funzione anti-iraniana, si sono bloccati aprendo la strada ad accordi completamente opposti, perorati dalla Cina, tra Riyad e Teheran in funzione anti-Israele. E questo è solo un frammento delle continue complicazioni e cambi di fronte di cui il Medio Oriente è campione, ma dimostra che, per l’ennnesima volta, “amici” e “nemici” dichiarati dei palestinesi hanno tutti un interesse convergente perché la “questione palestinese” non sia mai risolta.
Davvero il governo di Netanyahu, massacrando più palestinesi possibile a Gaza, continuando a rubare terra ai palestinesi in Cisgiordania e costringendo altre centinaia di migliaia di palestinesi a cercare rifugio altrove, aumentando i già 5 milioni di profughi nei vari paesi arabi, riuscirà a eliminare la pluridecennale spina palestinese nel fianco e a realizzare finalmente l’eterno sogno della Grande Israele? Se la storia è stata finora maledetta per i palestinesi lo è altrettanto per gli israeliani. Troppi interessi borghesi contrastanti sono andati accumulandosi in quella regione e nemmeno il temuto allargamento della guerra con l’intervento dell’Iran – provocato d’altra parte dalle incursioni armate di Israele in territorio iraniano – potrebbe portare una “soluzione”, proprio perché il problema non è locale, ma internazionale: diventerebbe di colpo una questione “vitale” non solo per Israele o l’Iran, ma per gli Stati Uniti e, dunque, per la Cina che non si sarebbe mossa allo scopo di mettere d’accordo Iran e Arabia Saudita se non avesse avuto mire, a parte la fornitura di petrolio, di influenza imperialista in tutta la regione mediorientale e da qui verso il Corno d’Africa e il Mediterraneo.
La borghesia palestinese che esprime l’ANP ha già dimostrato di essere pronta a vendersi al miglior offerente: Israele, Arabia Saudita, Iran, Egitto, Turchia, Stati Uniti o Cina che sia; ma il suo “valore commerciale” dipende dalla capacità di funzionare come gendarme in seconda delle masse palestinesi ed è con questa mira che si è offerta di prendersi a carico la “gestione” di Gaza dopo, naturalmente, che Hamas sia stato debellato da Israele e che le migliaia di sfollati palestinesi, che non sanno più dove rifugiarsi, siano talmente prostrati da accettare qualsiasi “padrone” pur di sopravvivere.
I proletari di Gaza, di Cisgiordania, i proletari palestinesi rifugiati in Giordania, in Siria, in Libano, in Egitto e in qualsiasi altro paese, hanno un interesse comune sia immediato che futuro: quello di riconoscersi membri della stessa classe proletaria, al disopra dello sparpagliamento nei diversi territori, antagonista prima di tutto della stessa classe borghese palestinese che li ha sistematicamente traditi lucrando sul loro sangue, e di riconoscere come propri amici e propri alleati tutti i proletari di qualsiasi altra nazionalità disposti a lottare contro l’oppressione che le rispettive borghesie attuano sistematicamente nei confronti dei proletari palestinesi; su questa base, sarà possibile poggiare sia la lotta contro la concorrenza tra proletari, sia la lotta contro la collaborazione di classe alimentata costantemente dalla borghesia palestinese e dalle altre borghesie, interessate tutte a difendere innanzitutto la loro fetta, anche se piccola e mercanteggiata con le grandi potenze, di dominio politico e sociale.
La lotta di classe, la cui finalità è la rivoluzione anticapitalistica e, quindi, antiborghese, non nasce dalla sera alla mattina, ma è il risultato di molte lotte locali, immediate, e perciò anche di molte sconfitte, che formano però un’esperienza su cui si forma la coscienza classista proletaria che supera ogni limite locale e immediato, puntando a unificare le lotte locali e immediate nella prospettiva di un’estesa lotta di classe in cui coinvolgere i proletari di qualsiasi altra nazionalità. Come affermavano Marx ed Engels nel Manifesto dei Comunisti, il vero risultato della lotta proletaria è la solidarietà di classe – ben distinta e opposta alla solidarietà nazionale – perché è questa solidarietà che cementa l’unione dei proletari in una lotta che per orizzonte ha il mondo intero. Ed è grazie a questa lotta che il proletariato di qualsiasi paese incontra il suo partito di classe, il partito che possiede quella coscienza di classe che equivale alle finalità storiche della lotta del proletariato mondiale, finalità che non potranno essere raggiunte se non per la via della rivoluzione di classe, della rivoluzione proletaria. E’ di questo che la borghesia di ogni paese ha paura: non ha mai avuto paura del proletariato in quanto classe salariata perché è la borghesia che l’ha creata, e sullo sfruttamento della quale vive come classe dominante. Essa ha paura che il proletariato prenda coscienza di essere non solo la classe produttrice di ogni ricchezza esistente – e di cui viene espropriato fin dal suo primo atto produttivo – ma di essere la classe che ha la forza sociale per sovvertire completamente la società capitalistica, distruggendone rivoluzionariamente le basi politiche di dominio per poter sovvertire poi la struttura economica e passare dal capitalismo al comunismo, dalla società mercantile nella quale dominano il denaro e le esigenze del capitale alla società in cui la produzione è indirizzata esclusivamente alla soddisfazione delle esigenze di vita della specie umana e non del mercato. Questa paura, la borghesia internazionale l’ha avuta negli anni gloriosi della rivoluzione d’Ottobre e della sua influenza sul proletariato mondiale. Tornerà ad averla in futuro, perché lo stesso sviluppo delle forze produttive che il capitalismo non può fermare se non, temporaneamente, con le distruzioni di guerra, chiede da almeno centocinquant’anni la distruzione delle forme capitalistiche che lo frenano.
La rivoluzione proletaria punta a raggiungere lo scopo di dare a tutti più tempo per vivere e meno ore per il lavoro sociale, necessario, ma senza sprechi, ed è per questo che è l’unica rivoluzione di classe che ha lo scopo di superare la società borghese fondata sulla divisione in classi, di far scomparire la divisione in classi della società perché lo sviluppo delle forze produttive consentirà di programmare armonicamente l’economia sia a livello mondiale che secondo le reali esigenze di vita della specie umana liberandola definitivamente dalla necessità di dedicare la gran parte della propria vita alla produzione di merci, di capitali, di profitti. Non essendoci più la divisione in classi, non ci saranno più classi dominanti e classi dominate, ma per arrivarci è necessario dialetticamente passare per la rivoluzione di classe, per la dittatura di classe, per la rivoluzione mondiale. La “quantità” di lotte del proletariato mondiale trasformata in “qualità” di lotta di classe e rivoluzionaria, porterà l’umanità a passare dal regno della necessità al regno della libertà, cioè alla vita sociale senza oppressioni, senza contraddizioni, senza guerre. Ogni essere umano potrà dedicare il proprio tempo, dopo aver dato il suo contributo al lavoro sociale utile a tutta l’umanità, a sé stesso, alle proprie inclinazioni, alle proprie pulsioni, all’ozio, al divertimento, alla conoscenza, alla scienza.
Ci dicono che siamo visionari, che siamo dei sognatori, degli utopisti. In realtà siamo semplicemente dei marxisti che credono nel socialismo scientifico, per riprendere le parole di Engels, quindi a un metodo per interpretare la storia dell’uomo e della sua società in divenire, allo stesso modo di come hanno fatto e fanno le scienze naturali che non si fermano mai al primo risultato, proprio perché il mondo naturale, il mondo biologico di cui fa parte anche l’uomo, è costantemente in movimento, in evoluzione.
Essere rivoluzionari nel 1848, nel 1871, nel 1917, nel 1926, nel 1945, nel 1975 e oggi 2024, voleva dire e vuol dire anche sognare la rivoluzione, sognarla anche più vicina di quel che effettivamente è stata e sarà, ma le conferme storiche dello stesso sviluppo estremamente ineguale e contraddittorio del capitalismo che il marxismo ha previsto scientificamente, hanno fatto e fanno del nostro sogno di ieri e di oggi la realtà di domani, al di là della vita personale del militante comunista dell’Ottocento, del Novecento o del Duemila.
Fa parte di questo sogno anche il risveglio del proletariato alla lotta classista; che avvenga in terra di Palestina o in Ucraina, in Iran o in Cina, in Brasile o in Sudafrica, o nella nostra putrefatta Europa, oggi ha importanza relativa. I comunisti rivoluzionari che si opposero alla guerra imperialista mondiale del 1914, in Germania, in Italia, in Francia, nella Russia stessa, sognavano sicuramente la rivoluzione, nonostante il tradimento inaspettato della Seconda Internazionale e dei suoi partiti, ma non si aspettavano che la rivoluzione proletaria attesa dal 1848 scoppiasse proprio nel paese più arretrato d’Europa, nella Russia zarista e in piena guerra imperialista. Eppure è successo.
Un domani la rivoluzione proletaria potrebbe scoppiare in un paese importante, ma con una tenuta politica e sociale indebolita dai contrasti interimperialistici o dalla guerra. Sicuramente la classe borghese in tutti questi decenni ha fatto e farà di tutto perché non succeda da nessuna parte. Noi, comunisti rivoluzionari, ci prepariamo da lungo tempo, e non importa se oggi siamo un piccolo pugno di compagni, perché sappiamo che succederà, e non importa in quale paese avrà inizio.
La rivoluzione di domani per camminare avrà le gambe dei proletari palestinesi, italiani, algerini, brasiliani, tedeschi, ucraini o coreani? Non lo sappiamo, ma è certo che saranno i proletari che alle spalle hanno potuto accumulare esperienze significative di lotta in difesa dei propri interessi di classe, e che abbiano potuto incontrare il partito comunista rivoluzionario, saldo teoricamente e temprato anch’esso nella lotta di classe. Noi lottiamo perché il partito di classe sia pronto quando i fattori favorevoli alla ripresa della lotta di classe e alla rivoluzione si presenteranno, sicuri che questi fattori si presenteranno.
Partito Comunista Internazionale
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