Non si sfugge ai dominanti rapporti di produzione e di proprietà borghesi abbandonando il lavoro

I proletari posseggono una forza sociale storica potentissima, ma devono metterla in movimento non fuggendo, ma impegnandosi nella lotta di classe contro il sistema capitalistico

(«il comunista»; N° 184 ; Dicembre 2024)

Ritorne indice

 

 

LE DIMISSIONI DAL LAVORO : UN FENOMENO DI MASSA

 

Due recenti pubblicazioni affrontano la tematica delle condizioni bestiali di lavoro cui il sistema capitalistico sottopone l’odierna classe lavoratrice, al punto da provocare dimissioni di massa come forma di fuga disperata dalla barbarie capitalista, dall’annientamento della vita dei proletari. Ci riferiamo ai volumi di Francesca Coin, Le grandi dimissioni e di Andrea Colamedici e Maura Gancitano, Ma chi me lo fa fare ? Come il lavoro ci ha illuso : la fine di un incantesimo. (1)

Le dimensioni del fenomeno vengono efficacemente sintetizzate nel passo che segue : « Negli Stati Uniti, ben quarantotto milioni di persone hanno deciso di licenziarsi nel 2021. Nel 2022 il numero è salito a cinquanta milioni e mezzo. […].

In Italia, le dimissioni volontarie hanno sfiorato i due milioni nel 2021 e hanno superato questa soglia nel 2022 ; e il dato non tiene conto di chi rifiuta proposte inadeguate, fatte di paghe troppo basse o di orari troppo lunghi ; di chi opta per il prepensionamento, per uscire definitivamente dal mercato del lavoro ; di chi decide di non rinnovare un contratto a termine o di chi abbandona un lavoro in nero o come finta partita Iva : tutte esperienze che non vengono intercettate dai dati ufficiali.

In Cina, il movimento di protesta Tang ping (« sdraiarsi ») nasce come una forma di resistenza sociale al 996, un sistema che richiede di lavorare dalle nove alle ventuno per sei giorni alla settimana. La protesta è stata seguita da un altro movimento, Let it rot (bailan, « lascialo marcire »). Let it rot sostiene che un sistema che costringe intere generazioni a rimanere chine sulla scrivania per anni, per educarle al lavoro e alla competizione, e poi le abbandona alla disoccupazione non funziona. Partecipare a un meccanismo del genere, che ti consuma e ti lascia ai margini della società, non ha senso, dicono i bailan. Tanto vale sdraiarsi e lasciarlo marcire.

In India, il rapporto The Great X dell’agenzia di reclutamento Michael Page, pubblicato nel giugno 2022, avvisava che « l’86 per cento dei lavoratori di tutti i settori, di tutte le età e di ogni livello prevedeva di dimettersi nei sei mesi successivi. » (2).

« In Italia, nel terzo trimestre 2022, c’era un tasso di disoccupazione al 7,9 per cento, che arrivava al 23,71 tra i giovani. Nello stesso periodo, il tasso di posti vacanti, ovvero il rapporto percentuale fra il numero di posti vacanti e il totale delle posizioni lavorative, si aggirava attorno al 2 per cento, che corrisponde a circa cinquecentomila posti. Ancora : negli stessi mesi c’erano circa 2,3 milioni di persone disoccupate e 2,5 milioni di scoraggiati, per un totale di quasi cinque milioni di persone fuori dal mercato del lavoro. [..] in Italia, infatti, c’è un posto di lavoro disponibile ogni quattro, quasi cinque, persone disoccupate, senza nemmeno prendere in considerazione gli scoraggiati. Chi lascia il lavoro, dunque, corre il rischio di non trovarne un altro. Nonostante questo, le dimissioni volontarie sono aumentate anche qui.

« Nel 2021 ci sono stati quasi due milioni di dimissioni volontarie, una soglia che è stata superata nel corso del 2022. Nel terzo trimestre del 2022, il tasso di abbandono era al 3,2 per cento, il piú elevato negli ultimi quindici anni. Il Rapporto annuale 2022 sulle comunicazioni obbligatorie, curato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, offre una prima istantanea sulla geografia delle dimissioni volontarie in Italia nel 2021. L’aumento tendenziale rispetto al 2020, infatti, era pari al 30,6 per cento.

« Sempre secondo il rapporto, in quell’anno il fenomeno coinvolgeva principalmente le regioni del Nord, in particolare Lombardia e Veneto, dove le cessazioni richieste dal lavoratore avevano incrementi superiori rispetto all’anno precedente (rispettivamente +37,7 e +34,9 per cento) e un po’ piú bassi nel Mezzogiorno, dove gli incrementi erano comunque elevati : Molise (+21,8), Lazio (+23,9), Puglia (+17,3), e Sicilia (+18,9). » (3).

Tutto ciò rappresenterebbe la « fine dell’epoca in cui regnava la speranza che il lavoro consentisse di realizzare i nostri sogni di emancipazione, mobilità sociale e riconoscimento. In cui si pensava che il lavoro fosse parte di un sistema virtuoso che salva il mondo dalla fame e dalla povertà. Quell’epoca è finita. Il sistema in cui viviamo è rotto » (4).

 

IL LAVORO SALARIATO NON È LIBERTÀ MA SFRUTTAMENTO

 

Speranze inesistenti e sogni mal riposti perché nelle società divise in classi non è mai esistito il “lavoro” neutro, al di fuori dei rapporti di classe ; tantomeno è mai esistito un lavoro in grado di generare miracolosamente benessere e felicità. Il lavoro, nella società capitalistica, è lavoro salariato, cioè è lo sfruttamento da parte della borghesia capitalistica della forza lavoro operaia alle condizioni che risultano dai rapporti di produzione e sociali tra la borghesia e il proletariato, rapporti imposti dalla borghesia dominante e padrona di tutti i mezzi di produzione e dell’intera produzione sociale. La permanenza e la continuità nel tempo di questi rapporti di produzione e sociali borghesi non possono che rafforzare il potere economico, sociale e politico della borghesia dominante e nessuna loro riforma – perdurando la struttura economica del capitalismo – potrà modificarli a vantaggio generale della classe lavoratrice. Eppure le suggestioni psicologiche e le illusioni vengono dispensate, da sempre, a piene mani, dai propagandisti del capitale : « Circa un secolo fa – annota  Coin – l’economista britannico John Maynard Keynes ha tenuto a Madrid un importante discorso poi pubblicato con il titolo Prospettive economiche per i nostri nipoti, che preconizzava come, nel nostro tempo, la crescita della capacità produttiva avrebbe consentito di risolvere il problema della scarsità e di marginalizzare il ruolo del lavoro nella nostra vita » (5).

Per ristabilire l’ottimismo e la fede nel capitalismo, messi a dura prova dopo la grande crisi del 1929, Keynes sosteneva che quella fase rappresentava soltanto un periodo transitorio, che preludeva a una fase di crescente benessere, se non di vera e propria « beatitudine » ; il « problema economico », « il problema del bisogno e della miseria, e la lotta economica tra le classi e i paesi, non è che un terribile pasticcio, un pasticcio contingente e non necessario » (6).

Da qui la sua famosa profezia : « l’umanità sta procedendo alla soluzione dei suoi problemi economici. Mi sentirei di affermare che di qui a cento anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno », se non di più. La crescita della produttività avrebbe permesso una riduzione del lavoro e del carico lavorativo tale per cui la preoccupazione prioritaria dell’uomo sarebbe stata solamente quella di come impiegare il proprio tempo libero e godere della propria « beatitudine economica ». Un vero e proprio paradiso in terra, insomma…

Contrariamente alle previsioni di Keynes l’enorme sviluppo tecnologico e l’applicazione della scienza alla produzione capitalistica non hanno consegnato ai lavoratori un maggiore tempo di vita, minori fatiche nella produzione ; non solo non è migliorata la qualità della vita, ma il lavoro è degradato ovunque al livello di una moderna schiavitù, sono aumentati gli orari ed i ritmi di lavoro, nel quadro di una devastante precarizzazione dei rapporti di lavoro, in tutti i continenti.

La caduta del saggio di profitto, conseguente alle crisi cicliche che attanagliano il sistema capitalista, ha come risvolto l’abbassamento generalizzato dei salari, cioè di quello che comunemente, ed erroneamente, viene chiamato costo del lavoro. In realtà, il capitalista compra non il lavoro ma la forza-lavoro, cioè la capacità di lavoro del lavoratore privo di proprietà, se non delle proprie braccia, che è costretto a presentarsi sul mercato per vendere, appunto, la propria forza-lavoro.

Del resto il capitalismo non vive in funzione del benessere collettivo ma in ragione dei propri interessi di classe, cioè in funzione del profitto e quindi dell’intensificazione del saggio di sfruttamento, determinante per incrementare il profitto stesso.

« Noi vediamo dunque – osservava Marx fin dal 1847 – che […] nel quadro dei rapporti fra capitale e lavoro salariato, gli interessi del capitale e quelli del lavoro salariato, sono diametralmente opposti » (7). Questa contraddizione si esprime, sotto il dominio di classe borghese, nella sottomissione del tempo di pluslavoro altrui che, in periodi di crisi, non può che intensificarsi.  In questo quadro, a dispetto della retorica ideologica borghese, non solo non si valorizzano le « risorse umane », ma si distrugge, con il progresso tecnologico, la forza-lavoro in quanto parte variabile del capitale, cioè il tempo di lavoro necessario (per il suo valore d’uso, la sussistenza) rispetto alla parte supplementare (per il suo valore di scambio, la ricchezza astratta).

Questa è la chiave di lettura che spiega quanto avviene nel civilissimo e progredito Occidente capitalistico, a partire dall’Italia dove :

« La Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati offre un’istantanea impietosa del lavoro nel Paese, caratterizzato com’è dall’imposizione “di ritmi e condizioni di lavoro non sostenibili”, da vessazione, da episodi di violenza, intimidazione e minacce. “Lo sfruttamento e il caporalato sono presenti ovunque e questo non è degno di un Paese civile”. » (8).

Si è affermata una « cultura del lavoro tossica, fatta di salari bassi e turni massacranti, di mobbing e di bullismo, di scarsa sicurezza del e sul lavoro, di vessazioni e di cultura antisindacale. In molti casi, gli stessi elementi per lungo tempo considerati fondanti di un sistema win-win – che permetteva cioè di abbassare il costo del lavoro e di minare alla base le possibilità rivendicative della classe precaria – sono diventati espressione di un sistema lose-lose, in cui la fuga del personale scandisce una situazione insostenibile » (9).

A farne le spese sono soprattutto « i giovani [che] vengono spinti ad accettare lavori sottopagati o persino gratuiti, umiliati, atomizzati e automizzati » (10).

Il quadro complessivo, per la classe dominata è devastante : « Quando il salario è basso, tuttavia, non c’è contropartita per i sacrifici che vengono imposti (11) […]  il vero problema, oggi, non è chi può permettersi di non lavorare, ma chi lavora sempre e nonostante questo non riesce a racimolare i soldi per pagare sia l’affitto che la cena » (12).

Non manca un riferimento a Marx : « La compravendita di forza lavoro – sottolinea Coin nella sua citazione – non è “un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale comune a tutti i periodi della storia” , ha scritto Karl Marx » (13).

Ed ancora, riferendo ancora il pensiero di Marx, Coin scrive : « Per costringere le persone a vendere la propria capacità di lavorare, infatti, bisogna privarle dei mezzi di sussistenza. Il lavoro salariato non è una condizione naturale. È una relazione sociale che dipende dall’accesso alle condizioni materiali di riproduzione » (14).

Qui si ferma l’autrice. E le sfugge la parte decisiva del ragionamento di Marx, fondamentale per capire le ragioni scientifiche, e quindi il meccanismo, dello sfruttamento.

Il contenuto del rapporto capitalistico di produzione è il rapporto, lo scambio di attività tra lavoro salariato e capitale, tra operaio e capitalista. L’operaio è solo apparentemente libero di scegliere. In realtà, non essendo proprietario dei mezzi di produzione, l’operaio non è « padrone » di nulla. A maggior ragione non lo è del proprio lavoro e del prodotto del proprio lavoro. Quindi l’operaio non vende al capitalista il lavoro ma la propria capacità di lavoro, la propria forza-lavoro (15).

Marx spiegò chiaramente, a dispetto dei sordi che ieri come oggi si ostinano a non voler capire, che la merce forza-lavoro viene venduta al capitalista secondo il valore determinato dalla quantità di lavoro oggettivamente incarnato nell’operaio, cioè della quantità di lavoro necessaria a riprodurre la stessa forza lavoro giorno dopo giorno e lo stesso operaio. Il capitalista compra il valore d’uso della merce forza-lavoro, consistente nella capacità di creare nel processo lavorativo un valore che accresce, e non solo conserva, il capitale.

Il plusvalore, cioè la differenza tra il valore creato dal lavoro vivo nel processo di produzione e il valore che il capitalista paga all’operaio sotto forma di salario, è la chiave di lettura di tutto.

La categoria che esprime il grado di sfruttamento reale nel lavoro è il saggio di plusvalore, dato dal rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario o, che è lo stesso, fra lavoro retribuito e lavoro non retribuito. « L’arcano dell’autovalorizzazione del capitale si risolve nel suo potere di disporre di una determinata quantità di lavoro altrui non retribuito » (16).

La forma sociale capitalistica di produzione, i rapporti capitalistici di produzione e di proprietà, sono la causa necessaria del fatto che l’operaio, e quindi anche il prodotto del suo lavoro, appartengono al capitalista. Non si tratta, quindi dell’accanirsi di capitalisti insensibili o della mancata attuazione di qualche riforma legislativa da parte del governo di turno, ma delle leggi di funzionamento del sistema in cui viviamo, un sistema che, proprio perché dominante come lo definiva Marx, determina le condizioni di produzione e di vita dei proletari.

Non è un caso che i nostri autori dimentichino questa parte fondamentale di Marx ; è un vezzo che risale a Proudhon che ignorava del tutto la categoria di plusvalore e, prima ancora (e conseguentemente) non comprendeva le categorie di « valore del lavoro » e di « salario ». Per Proudhon si trattava di licenze poetiche, di espressioni figurate su cui non perdere tempo. Per Marx si trattava di forme fenomeniche necessarie. Ignorare le categorie scientificamente analizzate da Marx è alla base del mondo delle apparenze che il capitalismo costituisce nelle teste dei lavoratori, l’apparenza che il lavoro dell’operaio venga retribuito interamente. Marx rileva che « su questa forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche dell’economia volgare » (17).

 

L’IMPRESSIONANTE ATTUALITÀ DEGLI INSEGNAMENTI DI MARX

 

Questa premessa è fondamentale per orientarci, senza inventare nulla ; solo riprendendo l’impostazione di Marx è possibile comprendere anche l’attuale fenomeno dei salari bassissimi, al punto da essere al di sotto della riproduzione della forza lavoro individuale e da provocare gli attuali, numerosissimi, casi di dimissioni come illusoria via d’uscita dalla prigione della produzione capitalistica. Marx, analizzate le « conseguenze distruttrici del sopralavoro », spiega che « si scoprono qui le fonti delle sofferenze che destinavano l’operaio alla sottoccupazione » (18).

La sottoccupazione (oggi diremmo il precariato) sopprime il nesso tra lavoro retribuito e lavoro non retribuito, elimina ogni regolarità del lavoro ed afferma « metodi per la riduzione del prezzo del lavoro indipendenti dall’assottigliamento del salario giornaliero o settimanale nominale ». Non è un quadro differente da quello che Coin descrive così nel suo, libro : « Se dovessi riassumere ciò che è emerso, direi che alcune delle ragioni che spingono le persone a lasciare accomunano esperienze tra loro distinte : 1) I tagli all’organico, ai tempi morti, ai costi ; 2) L’uso estensivo di contratti precari, part time o in nero, di appalti per esternalizzare fasi del processo produttivo, di cooperative per la fornitura di manodopera con salari e diritti vicini allo zero ; 3) Una sorveglianza continua, fatta di forme di controllo autoritario o di meccanismi di feedback digitale, capaci di tracciare le prestazioni e di aumentare continuamente i carichi di lavoro ; 4) Una cultura antisindacale, trasversale al mondo del lavoro » (19).

La chiarezza e lucidità che è presente nella parte descrittiva viene del tutto meno quando si tratta di comprendere le cause dell’oppressione capitalistica nel posto di lavoro. Eppure le caratteristiche fondamentali descritte da Coin presentano caratteristiche analoghe con quelle analizzate da Marx, sulla scorta del censimento del 1861, a proposito dell’evoluzione del capitalismo in Inghilterra e Galles. Allora, come oggi, l’alternarsi di ampliamento quantitativo e di sviluppo qualitativo della produzione in seguito al progresso tecnico, generava la precarietà e l’instabilità nelle condizioni di vita del lavoratore, l’attrazione e la repulsione, che si susseguivano incessantemente, degli operai da parte della produzione, la riduzione forzata del salario al di sotto del valore della forza-lavoro.

I « reparti esterni alla fabbrica - scrive Marx, con straordinaria capacità di leggere l’attuale condizione dei lavoratori impegnati in attività produttive precarie ed esternalizzate – vengono sottoposti ad uno sfruttamento mostruoso ; [...] La rivoluzione del modo di esercitare un’attività industriale che è prodotto necessario della trasformazione del mezzo di produzione, si compie in una policroma fusione di forme di transazione » (20).

Inoltre, occorre aggiungere che la subordinazione al capitale, il frazionamento delle operazioni, la loro intensificazione ed accelerazione spasmodica, la ricerca di un tempo completamente produttivo e senza pause – che rendono l’attività umana fonte di mortificazione al punto tale da provocare la fuga di massa dalla galera-lavoro – sono la concretizzazione diretta ed attuale del concetto marxista di impoverimento che, non a caso, riguarda l’intera dimensione dell’esistenza del lavoratore.

Le dimissioni di massa a loro volta aggravano il circolo vizioso tipico della produzione capitalistica. Inconsapevolmente i lavoratori in fuga dalla schiavitù salariale, in realtà la alimentano. Diventano essi stessi un’ulteriore arma di pressione sugli occupati, per ridurne i salari ed allargare la giornata lavorativa : si creano così le condizioni per ridurre la domanda di forza-lavoro e, quindi, per incrementare ulteriormente le fila dei disoccupati.

 

UNA CLASSE PRECARIA ?

 

Le suggestioni ideologiche borghesi portano gli autori dei due volumi in questione a tentare di smarcarsi da ogni possibile accostamento al marxismo. Così possiamo leggere : « È oggettivo, però : parlare di classe oggi è più difficile, anche perché la condizione di precarietà è molto più diffusa di un tempo e le differenze di classe sono diventate molto più difficili da delineare » (21).

 Si è precari perché ciò che si può ottenere è raggiungibile soltanto attraverso un « dono » altrui : non si è padroni del proprio destino, né dei propri mezzi (figurarsi quelli di produzione). Si è precari quando si è dipendenti dagli altri, e per ottenere ciò che è necessario alla propria sopravvivenza si deve pregare, costantemente chiedere a terzi, senza il diritto di avere diritti, sperando di trovare qualcuno che compri la propria forza-lavoro...

Non esiste una « classe precaria » (22). I precari fanno parte a pieno titolo del moderno proletariato per il semplicissimo fatto di essere parte di quella classe caratterizzata dalla necessità di vendere la propria capacità di lavoro per vivere ; e ciò, nel perdurare delle costrizioni storiche poste dal rapporto tra capitale e lavoro salariato, riguarda tutto il proletariato (occupati, disoccupati e inoccupati, stabili e precari, attivi e in riserva, passati, presenti e futuri, lavoratori e pensionati).

Il capitale ha bisogno di ridurre il tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza lavoro, in rapporto alla giornata lavorativa, e di una diminuzione della massa lavoratrice necessaria in rapporto alla popolazione in conseguenza della crisi che si presenta nelle forme di sovrapproduzione e sovrappopolazione ; ne consegue che l’analisi che si deve fare non si può limitare solo alla banale dicotomia tra occupazione e disoccupazione. Senza ripercorrere qui tutta l’analisi marxista sulla crisi di lavoro e sulle sue forme, basterà qui rammentarne i criteri di fondo concentrati sulla scissione tra lavoratori attivi e di riserva. Questi ultimi, il famoso esercito industriale di riserva di Marx ed Engels, fanno parte del proletariato a pieno titolo come gli attivi, e il salario sociale e globale di classe riguarda anche loro.

Marx, non a caso, prestò particolare attenzione a quegli strati ancora non proletarizzati ma pronti, in quanto latenti, a entrare nel mercato capitalistico del lavoro (i contadini dell’Ottocento e fino ai giorni nostri, gli emigranti di ieri e di oggi), ai margini della proletarizzazione sicura e stabile, in quanto stagnanti nelle mille forme del lavoro irregolare, saltuario, parziale, ridotto, stagionale, occasionale e quindi decisamente anche sottopagato.

L’attualità di tale analisi non ha bisogno di commenti ed è la premessa necessaria per comprendere la connessione, che appare come realmente contraddittoria, tra fenomeni a prima vista assai diversi : la crescente proletarizzazione, l’aumento del tempo di lavoro complessivo e dei singoli in attività, insieme alla diminuzione dell’occupazione (stabile e no) e del valore della forza-lavoro. I lavoratori che si dimettono sono stati schiacciati tra l’incudine e il martello rappresentati da questi fenomeni. Marx chiarisce al riguardo : « Il capitale tende, naturalmente, a collegare il valore eccedente assoluto con quello relativo ; dunque : massima estensione della giornata lavorativa col massimo numero di giornate simultanee e, in pari tempo, riduzione al minimo, da un lato, del tempo di lavoro necessario, dall’altro, del numero di operai necessari » (23).

Questa « esigenza contraddittoria », come la definisce Marx, di aumentare le ore lavorative si traduce nella riduzione sia del numero dei lavoratori necessari (non solo la disoccupazione ma, soprattutto, la precarizzazione, senza che ciò comporti la formazione di una « classe precaria ») sia del tempo di lavoro necessario. Chi pensa di « liberarsi » dal giogo dello sfruttamento fuggendo dalla produzione capitalistica contribuisce inconsapevolmente a rafforzare e semplificare il meccanismo che porta all’intensificazione (maggiore produzione nell’unità di tempo) della produzione della forza produttiva del lavoro nella sua divisione e combinazione.

 

IL FALSO MITO DEL NEOLIBERISMO E LE NOSTALGIE RIFORMISTE

 

Coin scrive : « Chi lascia il lavoro oggi, spesso, non sente di poter cambiare il mondo, vuole sopravvivere » (24) ma non si rende conto di aiutare ulteriormente il proprio carnefice in una sorta di sindrome di Stoccolma « sui generis » applicata ai rapporti tra padrone e lavoratore in conseguenza della quale il lavoratore è sempre più perdente. Come uscirne ? Come superare una situazione disumana per cui « abbiamo trasformato un potenziale strumento di liberazione nella più sottile e pervicace forma di schiavitù mai apparsa sulla Terra » (25), dove « Il lavoro così com’è oggi non è altro che un mucchio di rovine del passato che dovremmo avere il coraggio di spazzare via » (26).

Purtroppo non si può « spazzar via » nulla se si sbaglia nell’individuare il responsabile dell’irrazionalità e della disumanità che colpisce la società nella « corrente del neoliberismo » (27) anziché nel capitalismo. E’ illuminante questo passo : « Se per gran parte del Novecento queste idee – quelle della Scuola di Francoforte e quelle della Scuola di Vienna – sono state costrette a coesistere, e spesso a confrontarsi sul territorio della democrazia, dalla fine degli anni Settanta il neoliberismo ha sostanzialmente occupato tutto lo spazio. Secondo Marco Revelli, dopo cinquant’anni di economia keynesiana basata sul valore fondativo dell’uguaglianza e dopo una serie di grandi lotte che stavano mettendo a serio rischio il sistema di potere dei grandi imprenditori e possidenti americani, a partire dagli anni Settanta del Novecento prese pienamente piede un paradigma socioeconomico orientato alla rottura di tutti i precedenti compromessi sociali ; quelli che, fino ad allora, avevano contribuito a formare l’idea prevalente di società giusta, ben lontana dal realizzarsi pienamente ma comunque funzionale a porre una meta chiara a tutti. Il nuovo paradigma neoliberista è diventato egemonico e ha spinto politici, esperti di think tank e industriali a condannare le riforme socialdemocratiche precedenti e attuare velocemente politiche di liberissimo mercato. » (28).

La tesi sostenuta da Colamedici e Gangitano, ed assai diffusa nella sinistra politica ed intellettuale è profondamente falsa, travisa la realtà, ne fornisce una rappresentazione tipicamente ideologica, cioè capovolta.

Non è il liberismo la causa dei mali sociali, della miseria e della disperazione sociale diffusa ; è la crisi del capitalismo conseguente all’esaurimento del boom postbellico, ad aver reso necessaria, per la classe dominante, la svolta liberista. Tutte le misure neoliberiste – dai licenziamenti alla compressione dei salari alla precarizzazione del lavoro alla liberalizzazione del mercato finanziario, alla distruzione del welfare – sono state finalizzate a rilanciare i profitti e ridurre i costi di produzione per i capitalisti e questo è vero al di là dei risultati fallimentari ottenuti dalle politiche neoliberiste, che non potevano che essere tali in conseguenza delle cause strutturali della parabola storica del sistema capitalista, dovute alla crisi di sovrapproduzione in cui il capitalismo cadrà continuamente.

L’errata impostazione di Colamedici e Gangitano consegue al travisamento e alla lettura, anch’essa ideologica, del keynesismo che non ha mai risolto i problemi del capitalismo. Senza il secondo conflitto mondiale e la gigantesca distruzione di merci e uomini che essa doveva necessariamente comportare, non sarebbe stata possibile nessuna uscita del capitalismo dalla crisi del 1929 né, tantomeno, si è verificata una ripresa fondata sull’uguaglianza personale ma anche, e soprattutto, sulla spremitura, sotto il timbro della democrazia, della classe lavoratrice, dei paesi vinti come di quelli vincitori.  Keynes (e, seguendo i suoi suggerimenti, Roosevelt) si fece promotore premuroso di concessioni sociali ai proletari perché questo era determinante per rilanciare il consumo delle masse ed indirizzarlo su binari utili alla riproduzione del sistema ed esorcizzare ogni possibile rischio rivoluzionario, assicurando stabilità sociale al capitalismo in cambio di riforme sociali (29).

L’alternativa viene individuata, dai nostri autori, secondo un cliché consolidato, in un capitalismo « dal volto umano » o, per dirla con Marx, in un capitalismo senza i vizi del capitalismo, riprendere le bandiere della socialdemocrazia che il liberismo ha buttato nel fango, secondo uno spartito che ha accomunato, ad esempio, Syriza in Grecia, La France Insoumise in Francia, Esquerda Unida e Sumar in Spagna, Die Linke e la Coalizione Sahra Wagenknecht in Germania.

A titolo esemplificativo del campionario ideologico riformista propugnato dagli autori dei libri che stiamo esaminando, citiamo il seguente passo : « In Spagna […] la ministra del Lavoro Yolanda Díaz ha voluto una riforma complessiva del mercato del lavoro che va in direzione opposta e contraria rispetto a quanto è accaduto negli ultimi quarant’anni. Non è fantascienza : è possibile » (30).

Talmente contraria, verrebbe da dire, che la Confindustria spagnola sostiene convintamente la riforma varata dalla ministra, nel quadro di un programma di concertazione, finalizzata ad assicurare la pace sociale, come puntualmente avvenuto dall’avvento del governo Sanchez.

Facciamo una breve digressione proprio su questa riforma, mitizzata dagli opportunisti assai distratti, come Coin. Se non ci si fa travolgere dalla suggestione del modello miracoloso, quello spagnolo, da imitare, si scopre che resta ben poco : non vengono toccate le norme che disciplinano i licenziamenti. Così, in caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, ad esso spetta la miseria di un’indennità pari a 33 giorni di salario per anno di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità, ancor meno di quanto previsto in Italia dal famigerato Jobs act. La riforma, inoltre, ha introdotto un « contratto a tempo indeterminato » che rappresenta il paravento del peggior precariato : infatti si prevede formalmente l’assunzione del lavoratore a tempo indeterminato ma, in realtà, il lavoratore lavora quando occorre all’azienda, con notevoli penalizzazioni nei periodi di inoccupazione. Questa normativa riguarda, in Spagna, circa un milione e mezzo di lavoratori salariati.

Quanto ai contratti a termine, anche in questo caso la riforma Diaz è stata uno specchietto per le allodole. Infatti la conclusione del lavoro per la quale si presta la propria opera non determina più l’automatica estinzione del contratto, in quanto il padrone deve prospettare al lavoratore una proposta di ricollocamento. In caso di rifiuto da parte del lavoratore o di impossibilità di un ricollocamento, scatta l’estinzione del contratto con un’indennità corrispondente al 7% del contratto collettivo corrispondente. Anche su questo punto la « riforma » ha pienamente soddisfatto i padroni.

Il modello riformistico spagnolo, come gli altri che abbiamo citato, fa acqua da tutte le parti e rivela la sua inconsistenza ed il suo carattere illusorio e dannoso per i lavoratori perché ripropone ancora una volta l’illusione di una possibile riforma « democratica » del capitalismo proprio in un periodo storico dove non ne sussiste presupposto alcuno !

Oggi ci troviamo di fronte ad « un burnout di massa, insomma, che pone tutti di fronte a un bivio : continuare a lavorare come se niente fosse, lasciandosi masticare a oltranza, o ripensare il ruolo, lo spazio e il senso del lavoro nelle nostre vite, senza fretta, trasformandolo in uno slancio capace di creare un agire comune che dia davvero dignità alla vita. » (31).

Resta l’incognita irrisolta del come questo « slancio » rinnovatore possa realizzarsi.

Oggi la coscienza politica della classe lavoratrice è di gran lunga più arretrata di quella di un secolo addietro. Ed all’interno di essa penetrano sistematicamente ideologie reazionarie e suggestioni aclassiste, nazionalismi e corporativismi di ogni genere che rendono impensabile una acquisizione spontanea della coscienza, al di fuori del solido rapporto con il partito rivoluzionario.

E’ puro velleitarismo piccolo-borghese, conservatore dell’ordine sociale esistente, affermare che : « dovremmo educarci a una nuova cittadinanza attraverso la pratica concreta di attività politiche che, come sottolinea la filosofa Dominique Méda, sono le sole capaci davvero di strutturare un tessuto sociale, il grande assente del nostro tempo » (32).

Colamedici e Gangitano si incartano sempre più, non riuscendo a dare oltre una pura esplicazione di desideri fine a se stessi : « Per riscoprire il senso del lavoro e, quindi, della vita dobbiamo lavorare meno, e dedicare quelle ore recuperate non solo all’ozio, ma anche – e forse soprattutto – alla vita politica, alla partecipazione, alla gestione collettiva, reinventando in questo modo lo spazio pubblico » (33).

Nella proposta debolissima che leggiamo manca del tutto, proprio perché si esclude il ruolo del movimento di classe del prolletariato e il ruolo del partito rivoluzionario, il ponte in grado di collegare la situazione di straordinaria arretratezza delle coscienze alla « vita politica, alla partecipazione, alla gestione collettiva » e si ricade così dalla padella del volontarismo alla brace del riformismo : « Non è più tempo per grandi sistemi filosofici – scrivono Colamedici e Gangitano – per utopie da realizzare e neppure per teorie economiche alternative al neoliberismo : cerchiamo di fare piccoli aggiustamenti, ma senza pensare di poter dare vita a qualcosa di davvero diverso » (34).

Nessuna regalia è pensabile oggi per la classe operaia, briciole a disposizione non ce ne sono più ; non fa alcuna differenza, a tal proposito, quale sia il governo scelto dalla classe dominante.

L’apparente « buon senso » dell’ipotesi riformista mistifica la realtà dei rapporti di classe che i lavoratori verificano ogni giorno sulla loro pelle. Ogni tipo di rivendicazione, anche la più elementare (la difesa del salario, del posto di lavoro, ecc) è irrisolvibile entro l’ambito riformista ; l’agonia del capitale impone una dinamica distruttiva agli sfruttati, trasforma in un calvario le condizioni di vita dei lavoratori.

La prospettiva rivoluzionaria è l’unica che può dare concretezza alle lotte operaie, strappare i lavoratori dal « bornout di massa », di cui scrivono Colamedici e Gangitano, dalla solitudine, da scelte autolesioniste come quella dell’autolicenziamento, fughe verso il nulla che aggiungono nuovi disastri e nuove mortificazioni a quelli già esistenti per i proletari, sempre più schiacciati dall’oppressione della classe dominante.

La ricerca di soluzioni individualistiche, prima di tutte la fuga dal lavoro, ancorché istintivamente comprensibili, sono strutturalmente errate e, appunto, autolesioniste. Non a caso Marx non ha mai considerato la società capitalistica come una somma di singolarità di individui, ma come l’espressione di rapporti sociali – entro cui gli appartenenti alle diverse classi si relazionano – che sono determinati, in ultima istanza dall’opposizione tra capitale e lavoro, rapporti sociali da cui non si può sfuggire individualmente secondo una spirale che è tanto sbrigativa quanto distruttiva per i suoi autori.

Una soluzione sbagliata, come le dimissioni dal lavoro, può esprimere, comunque, esigenze positive di liberazione dalla brutalità schiavistica della produzione capitalistica è un’esigenza diffusa : « Il problema, dunque – scrive Coin – […] È che la vita non è una merce. La ricchezza non è il denaro. Perciò le persone rifiutano di lavorare : per vivere. “I ricchi ci rubano il tempo per vivere”, hanno detto le piazze francesi. In modo capillare e diffuso, parole come queste attraversano le piazze e fanno capolino nelle nostre conversazioni quotidiane, dando voce all’urgenza di riprendersi il tempo per vivere, per riposare e per rigenerare il pianeta. » (35). « Immaginare – aggiungono Colamedici e Gangitano – una vita in cui godersi molte ore libere e molti giorni di vacanza appare dunque come un inedito a livello morale, su cui rischiamo di esprimere d’acchito un giudizio negativo. È, in breve, una blasfemia. » (36).

 

NON ESISTONO VIE D’USCITA NEL CAPITALISMO

 

In realtà non si tratta di un sogno utopico né, tantomeno, un inedito ; Marx ha spiegato chiaramente l’unico modo possibile in cui l’aumentata produttività del lavoro può produrre una riduzione della giornata lavorativa, ma ciò è impossibile nel capitalismo : « L’eliminazione della forma di produzione capitalistica – osserva Marx trattando della giornata lavorativa nella società comunista – permette di limitare la giornata lavorativa al lavoro necessario. Tuttavia quest’ultimo, invariate rimanendo le altre circostanze, estenderebbe la sua parte : da un lato, perché le condizioni di vita dell’operaio si farebbero più ricche e le esigenze della sua vita maggiori. Dall’altro lato, una parte dell’attuale pluslavoro rientrerebbe allora nel lavoro necessario, cioè nel lavoro necessario per avere un fondo sociale di riserva e di accumulazione » (37).

Marx indica quali fattori all’origine dell’aumento della produttività, e quindi dell’abbreviamento della giornata lavorativa, nella società comunista, l’economia del lavoro (economia di mezzi di produzione ed eliminazione di ogni lavoro inutile) e la generalizzazione del lavoro. Invece « nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe mediante la trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse » (38). Soltanto la società comunista, una volta aboliti il sistema anarchico della concorrenza e la proprietà privata dei mezzi di produzione, si sbarazzerà di una gran mole di spese superflue e distribuirà il lavoro in modo uniforme tra tutti i membri della società capaci di lavorare, il che renderà possibili ulteriori riduzioni della giornata lavorativa e la conquista di tempo « per la libera attività mentale e sociale degli individui » (39).

Colamedici e Gancitano esprimono un’esigenza corretta ma la riducono ad un pio desiderio, a volontarismo velleitario e sterile, proprio perché la loro prospettiva è priva della bussola rivoluzionaria : « Abbiamo bisogno – scrivono – di un risveglio collettivo del desiderio, un reincantamento del mondo : perché c’è il potenziale per rendersi conto che il lavoro non è solo l’industria, non è soltanto l’atto di produrre, trasformare e ancora produrre e trasformare, ma è anche l’arte di ricreare la vita, di rigenerarla, di accompagnare la fioritura del creato » (40).

 

IL TEMPO LIBERATO E LA LIBERAZIONE DALLO SFRUTTAMENTO : IL COMUNISMO

 

Solo nel comunismo fra tempo libero e tempo di lavoro non esiste più quel rapporto di contraddizione, che è invece presente nel capitalismo. L’uno, al contrario, stimola l’altro. Il comunismo, precisa Marx, non significa affatto « rinuncia al godimento, bensì […] sviluppo di capacità, di capacità atte alla produzione, e perciò tanto delle capacità quanto dei mezzi di godimento » (41).

Alla legge del valore, che è alla base del modo di produzione capitalistico, subentra nel comunismo la legge dell’economia del tempo che riveste un’importanza « essenziale » e che « come per il singolo individuo, così per la società, la totalità del suo sviluppo, delle sue fruizioni ed attività dipende dal risparmio del tempo ». Marx conclude che l’« economia di tempo e [la] ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei diversi rami di produzione, rimane dunque la prima legge economica sulla base della produzione sociale. E’ una legge che vale anche ad un livello molto più alto. Ciò tuttavia è essenzialmente diverso dalla misurazione dei tempi di scambio (lavori o prodotti del lavoro) mediante il tempo di lavoro » (42). Soltanto la massima economia del tempo di lavoro consentirà di realizzare lo scopo della società comunista, cioè « il libero sviluppo delle individualità […] lo sviluppo artistico, scientifico, ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro » (43).

I proletari devono « solo rendersi conto di ciò che si svolge davanti i loro occhi e farsene portavoce ». « Finché nella miseria non vedono che la miseria, senza scorgerne il lato rivoluzionario, sovvertitore, che rovescerà la vecchia società » non potranno che subire il dispotismo capitalista, così come avviene oggi. « Ma quando questo lato viene scorto, la scienza prodotta dal movimento storico – e al quale si è associata con piena cognizione di causa – ha cessato di essere dottrinaria per essere rivoluzionaria. » (44).

Il grande obiettivo storico del comunismo, dunque della liberazione dell’intera umanità dal giogo della divisione in classi della società, è certamente possibile e attuabile nel tempo, non solo grazie allo sviluppo tecnico e industriale del capitalismo e al lavoro associato coi quali la borghesia ha creato i suoi seppellitori in ogni paese del mondo : i proletari, ma soprattutto come risultato della lotta di classe proletaria che da un paese all’altro unisca i proletari in un unico grande e invincibile esercito rivoluzionario. Hanno dato a Marx ed Engels sia degli utopisti sia dei terroristi, ma il fatto che ancora oggi, a più di centosettant’anni di distanza, i borghesi debbano fare i conti con la dottrina rivoluzionaria del comunismo scientifico che da allora chiamiamo marxismo, la dice lunga sui limiti storici della classe borghese e della sua società e sulla necessità di farla finita con il sistema capitalistico. Le basi mondiali su cui si svolge la controrivoluzione borghese sono dialetticamente le stesse basi della rivoluzione proletaria. E’ con questa certezza che i comunisti marxisti, per quanto ridotti ad un pugno di militanti a causa della vittoria della controrivoluzione, perseverano nel difendere e tener viva la dottrina marxista sapendo che giungerà un giorno in cui i proletari rivoluzionari, guidati dal loro partito di classe, riprenderanno la lotta che ha collegato la Comune di Parigi del 1871 alla rivoluzione d’Ottobre 1917 in Russia e che, dalle lezioni tratte da queste due grandi rivoluzioni e, soprattutto, dalle controrivoluzioni che le hanno vinte, potrà rinnovarsi con maggiore forza ed efficacia per far fare all’umanità un salto di qualità mai raggiunto da nessuna società divisa in classe, nemmeno dalla società borghese che, tra tutte, ha avuto il pregio storico di avere creato la classe rivoluzionaria del proletariato, l’unica classe produttrice della ricchezza sociale e l’unica che ha storicamente il compito – partendo dalle sue condizioni sociali di senza proprietà, senza riserve, proprietaria della sola forza lavoro individuale – di dar vita ad una società di specie, senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo, senza oppressioni, senza guerre. Il lavoro non sarà più salariato, ossia una merce, ma l’attività umana a cui parteciperanno tutti gli esseri umani secondo una pianificazione della produzione e della distribuzione che risponderà esclusivamente alle esigenze della vita sociale e non del mercato ; sarà una gioia e non un tormento, un’esigenza naturale da cui non vi sarà alcuno stimolo a scappare, semmai a seguirla spontaneamente.

 


 

(1) Questa tematica ha trovato riscontro anche in diversi articoli apparsi su quotidiani e periodici : ricordiamo, tra gli altri, M. Bentivogli, Fuga dal lavoro che opprime, “L’Espresso”, 2/1/2022, pp. 42-43, L. Manconi, Dietro le dimissioni di massa, “la Repubblica” 2/12/2021,

(2) F. Coin, Le grandi dimissioni, Einaudi editore, Torino, 2023, pp. 9-10.

(3) Ivi, pp. 95-96.

(4) Ivi, p. 6.

(5) Ivi, p. 244.

(6) J. M. Keynes, Esortazioni e profezie, Milano, Il Saggiatore Mondadori, Milano, 1968, p. 12

(7) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, in K. Marx, Opere, Newton Compton Editori, 1975, p. 334.

(8) F. Coin, Le grandi dimissioni,cit., p. 240.

(9) Ivi, pp. 12-13.

(10) A. Colamedici, M. Gancitano, Ma chi me lo fa fare ? Come il lavoro ci ha illuso : la fine dell’incantesimo, Harper Collins, Milano, 2023, p. 7.

(11) Coin, Le grandi dimissioni,cit., p. 48

(12) Ivi, p.7

(13) Ivi, p. 242

(14) Ivi, pp. 93-94

(15) P. Krugman scrive : Il lavoro « ci appare improvvisamente in tutta la sua povertà e pericolosità […] ripetitivo, spesso nocivo e sottoposto a ritmi intollerabili, pagato male e, in definitiva, causa di alienazioni. Proprio nell’accezione originaria-marxiana ! del termine. Ovvero quel processo che fa del lavoratore un’appendice di ciò che egli stesso produce” in Grandi dimissioni. La rivolta dei lavoratori durante il sogno americano », “The post internazionale”, 29 dicembre 2021/ 6 gennaio 2022, pp. 102-106

(16) K. Marx, Il Capitale, Edizioni Rinascita, Roma, 1952, volume primo, II, p.  250

(17) Ivi, p. 257

(18) Ivi, p. 263

(19) Coin, Le grandi dimissioni, cit., p. 239-240

(20) Ivi, p. 184

(21) Colamedici, Gancitano, Ma chi me lo fa fare ? Come il lavoro ci ha illuso : la fine dell’incantesimo, p.75

(22) Coin, Le grandi dimissioni, cit., pp. 12 e sgg

(23) K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica. Grundrisse, Manifestolibri, 2012, Roma, p.  534

(24) Coin, Le grandi dimissioni, cit., p. 7

(25) Colamedici, Gancitano, Ma chi me lo fa fare ? Come il lavoro ci ha illuso : la fine dell’incantesimo, cit., p. 6

(26) Ivi, p. 7

(27) Ivi, p. 7

(28) Ivi, pp. 58-59

(29) Le riforme di Roosevelt risposero a due esigenze pressanti : riorganizzare il capitalismo in modo da far superare la crisi e stabilizzare il sistema ; ma anche intercettare la crescita allarmante della ribellione spontanea che imperversava nei primi anni della presidenza Roosevelt : affittuari e disoccupati organizzati, movimenti di solidarietà, scioperi generali in varie città, in H. Zinn, Storia del popolo americano. Dal 1492 ad oggi, Il Saggiatore, Milano, 2005, p. 269

(30) Coin, Le grandi dimissioni, p. 243

(31) Colamedici, Gancitano, Ma chi me lo fa fare ? Come il lavoro ci ha illuso : la fine dell’incantesimo, cit., p. 9

(32) Ivi, p. 125

(33) Ivi

(34) Ivi, p. 99

(35) Coin, Le grandi dimissioni,cit., p. 246

(36) Colamedici, Gancitano, Ma chi me lo fa fare ? Come il lavoro ci ha illuso : la fine dell’incantesimo, cit., p. 115

(37) K. Marx, Il Capitale, Edizioni Rinascita, Roma, volume primo, 2, p. 244

(38) Ivi, p. 245

(39) Ivi

(40) Ivi, p. 125

(41) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, Firenze, 1970, volume II, p. 410

(42) Ivi,  vol.I, p. 118-119

(43) Ivi, vol. II, p. 402

(44) K. Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma, 1969, p. 107

 

 

Partito Comunista Internazionale

Il comunista - le prolétaire - el proletario - proletarian - programme communiste - el programa comunista - Communist Program

www.pcint.org

 

Top - Ritorne indice