L'America di Trump minaccia il mondo

Dopo la conferenza stampa di Trump del 6 gennaio 2025

(«il comunista»; N° 185 ; Gennaio-Febbraio 2025)

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La fase imperialista del capitalismo si caratterizza per essere la fase in cui l’economia dei paesi più avanzati, dopo essersi sviluppata grazie alla grande industria e alla «libera concorrenza», si sviluppa ulteriormente attraverso i monopoli, cioè con la concentrazione delle produzioni, dei capitali, dei trasporti e delle vie di comunicazione; una volta generati i monopoli, cioè i grandi trust internazionali, il capitalismo non torna più indietro, non torna più alla «libera concorrenza». Non solo l’epoca del cosiddetto sviluppo pacifico del capitalismo con la prima guerra imperialista mondiale è finita del tutto, ma la concorrenza tra i trust internazionali, attraverso i loro contrasti per accaparrarsi zone di influenza e mercati ha alzato sempre più la posta in gioco attraverso i mezzi della reazione, della repressione, della forza militare e della guerra. Lo sviluppo del capitalismo ha provocato, e continua a provocare ciclicamente, crisi commerciali, finanziarie, monetarie, politiche, crisi che – portato il sistema economico generale a sovraprodurre merci e capitali rispetto a quanto i mercati possano assorbire per la loro trasformazione in capitali aumentati – scuotono la società nelle sue stesse basi economiche a tal punto da ricondurla a uno stato di momentanea barbarie, alla stregua di una carestia, una guerra generale di sterminio in cui la società viene privata di tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti. Come uscirne? La borghesia non ha altre vie se non quelle, da un lato, della distruzione coatta di una massa di forze produttive e, dall’altro, della conquista di nuovi mercati e dello sfruttamento più intenso dei vecchi. Ma supera veramente le crisi? No! La storia delle crisi capitalistiche e delle guerre imperialiste dimostra quel che è stato previsto fin dal 1848 nel «Manifesto del partito comunista» di Marx-Engels: mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.

Così Lenin, nel 1915 nel suo «L’imperialismo, ultima fase del capitalismo»: L’imperialismo è il capitalismo nella sua fase di sviluppo in cui si è costituita la dominazione dei monopoli e del capitale finanziario; dove l’esportazione del capitale ha acquistato grande importanza; in cui la divisione del mondo tra i grandi trust internazionali ha avuto inizio; e dove la divisione di tutti i territori del pianeta fra grandi potenze capitalistiche è stata portata a termine. E sottolinea: L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli che introducono dovunque le loro aspirazioni alla conquista e non la libertà. Reazione in tutti i campi, qualunque sia l’ordinamento politico; estrema tensione degli antagonismi che stanno uno di fronte all’altro, tale ne è il risultato. L’oppressione nazionale e il bisogno di annessioni, cioè la violazione dell’indipendenza nazionale dei più deboli (poiché l’annessione non è altro che una violazione del diritto di una nazione a disporre di se stessa), rivestono una forma particolarmente acuta.

 

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Le parole pronunciate dal prossimo presidente americano Trump alla conferenza stampa del 6 gennaio tenuta nella sua residenza dorata di Mar-a-Lago, in Florida, hanno colpito come stilettate la gran parte dei media internazionali e dei governanti del mondo. Hanno il sapore delle spacconate, ma dietro le spacconate ci sono mire di dominio mondiale reali.

Riassumiamo alcuni punti del programmino politico che Trump, a proposito di annessioni, aumento delle tensioni degli antagonismi, oppressioni nazionali e nuove colonizzazioni, si è preso la briga di annunciare al mondo (1).

Il primo pensiero va al continente Nord-americano. La Groenlandia, l’isola artica più grande del mondo (anche se a statuto speciale, politicamente fa parte della Danimarca  che aveva rifiutato nel 2019 di venderla a Trump durante la sua prima presidenza, e nella quale gli USA hanno un’importante base militare), per le sue risorse minerarie, in particolare per le terre rare, e per la posizione geostrategica interessante per le comunicazioni satellitari e il controllo dell’Artico, è ritenuta necessaria per la sicurezza degli Stati Uniti. Perciò, se obbligati – dopo aver inondato la Danimarca di dazi su tutti i prodotti esportati negli USA – Trump annuncia che gli USA se la prenderanno con la forza. Non va dimenticato, in effetti, che l’Artico è diventato, e sempre più diventerà, una zona strategica di primaria importanza non solo per gli USA, ma anche per la Russia e per la Cina. Il Canada, verso il quale Trump prevede una politica dei dazi molto svantaggiosa per Ottawa, entra nel suo progetto di annessioni agli Stati Uniti d’America, in questo caso nobilitandolo, prospettando di farlo diventare il 51° stato dell’Unione. Il Messico, verso cui verrà aumentata la pressione politica ed economica riguardo l’immigrazione, per la quale il governo messicano è accusato di non fare abbastanza, per controllare il flusso della droga e per impedire all’immigrazione latino-americana di scavalcare i confini con gli USA. Intanto Trump lancia il proposito di cambiare nome al «Golfo del Messico» in Golfo d’America. Poi il Centro-America: il Canale di Panama, ritenuto strategico per gli USA e la cui proprietà è stata riconsegnata, secondo Trump, «vergognosamente» da Jimmy Carter a Panama: Washington intende riprenderselo, anche con l’uso della forza (2). Ma la minaccia riguarda soprattutto la Cina, che dal 2017 ha iniziato a intrattenere accordi commerciali con Panama per il controllo di due porti, su cinque, adiacenti al Canale: uno situato sul lato del Pacifico (il porto di Balboa) e l’altro sul lato dell’Atlantico (il porto di Cristobal). La cinese Hitchison Ports Holdings che controlla la Panama Ports Company, risulta essere così il più grande operatore portuale della zona: nel 2012 ha firmato il rinnovo della concessione di 25 anni con l’autorità panamense per le infrastrutture portuali. Dal Canale di Panama transita il 2,5% del commercio marittimo mondiale, e il 46% del traffico commerciale tra l’Asia settentrionale e la costa orientale degli Stati Uniti. Si capisce che l’imperialismo americano non sopporta per niente che un avversario come la Cina si stia radicando in quello che è stato per due secoli il «giardino di casa»; tanto più che la Cina, dopo l’Africa, sta lentamente allargando i suoi artigli proprio nell’America Latina, come dimostrano i vari progetti che la coinvolgono in Colombia, Perù, Brasile, Venezuela.

Quanto ai paesi che fanno parte della Nato: dei 32 alleati, ben 28 fanno parte dell’Europa (rimangono fuori ad oggi Serbia, Kosovo, Bielorussia, Ucraina, il Caucaso e, naturalmente, la Russia), verso i quali, come anticipato settimane fa, l’obiettivo del commander-in-chief è che destinino non più il 2%, ma il 5% del proprio PIL al sostegno finanziario dell’Alleanza atlantica; a suo dire se lo possono permettere tutti. In realtà, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia hanno dichiarato già da tempo che non riusciranno nemmeno ad arrivare al 3% del proprio PIL... I media riportano anche un passaggio sulla guerra che Israele sta facendo contro i palestinesi, in particolare a Gaza; mentre Biden utilizza gli ultimi giorni del suo mandato per approvare un altro pacchetto di vendita a Israele di missili terra-aria, droni, bombe e artiglieria da 8 miliardi di dollari, e le tonnellate di «aiuti» alimentari e medicinali per Gaza vengono sistematicamente distrutte, Trump minaccia che: «se gli ostaggi non saranno rilasciati prima del 20 gennaio (data del suo insediamento) ci sarà l’inferno»..., come se oggi gli oltre 70.000 morti di Gaza (compresi quelli sotterrati nelle macerie degli edifici bombardati), in gran parte distrutta dai bombardamenti israeliani, senza più ospedali e scuole, una popolazione intera ridotta alla fame, alle malattie, alla repressione sistematica, allo sfollamento continuo, non rappresentasse già l’inferno voluto da tutte le democrazie del mondo, non solo da Washington e Israele!

Trump ha voluto anche sottolineare che Zuckerberg (il padrone di Meta, cioè Facebook, Instagram e Threads) ha deciso di cessare le operazioni di fact-checking sulle sue piattaforme – ossia la verifica delle informazioni che transitano su queste piattaforme attraverso società di professionisti detti «indipendenti» – e di uniformarsi al modello usato da Elon Musk sulla sua piattaforma SpaceX (nota in precedenza come Twitter). Guarda caso, Elon Musk, oltre ad essere padrone attualmente di 7.000 satelliti di bassa quota indispensabili per le comunicazioni internazionali da ogni angolo della terra (ma prevede di allungare la lista fino a 42mila satelliti, monopolizzando in questo modo le connessioni digitali nell’intero mondo), e padrone della casa automobilistica Tesla, era stato un gran sostenitore di Biden; ma, da quando ha annusato la possibilità che Trump vincesse le elezioni è diventato un suo fortissimo sostenitore tanto da diventare il suo alter ego a dimostrazione ulteriore che i miliardari quando scendono in politica non lo fanno mai per il «bene del paese», ma per il bene dei propri affari.

Nel campo dell’industria estrattiva, mentre Biden aveva cercato molto timidamente di limitare la libertà di perforazione lungo le coste degli Stati Uniti, con Trump la libertà di perforazione è assicurata, e al diavolo il Green Deal. D’altra parte, con le sanzioni contro la Russia, soprattutto per il gas e il petrolio, imposte da Washington ai paesi europei (sanzioni che hanno fatto male più ai paesi della UE che alla Russia), non è un segreto che gli USA e la Norvegia (che non fa parte della UE) siano stati i maggiori beneficiari in termini di aumento delle loro esportazioni, soprattutto di gas, verso i paesi europei. Dagli Stati Uniti la fornitura alla UE di GNL (gas naturale liquefatto, trasportabile solo con navi gasiere, da rigassificare per l’utilizzo negli impianti industriali) ha toccato quota 56,2 mld di m³ nel 2023, rappresentando il 19,4% del totale importato dalla UE, contro gli 87,8 mld di m³ forniti dalla Norvegia; ma la pressione di Washington verso i paesi europei (aumentando la lista dei prodotti europei su cui mettere pesanti dazi) è tale per cui certamente nei prossimi anni, a partire già dal 2025, il GNL americano salirà notevolmente nella classifica dei fornitori. La Germania sta già diventando, quanto a rigassificatori, il paese più attrezzato d’Europa, mentre l’Italia ha già promesso a Trump di aumentare l’importazione del GNL americano per ottenere una diminuzione dei dazi sui prodotti italiani e una percentuale inferiore non solo al 5% ma anche al 3% del PIL negli armamenti a disposizione della Nato (ad oggi, l’Italia raggiunge, in questo campo, a mala pena l’1,5% del PIL). 

E l’Ucraina? Biden anche per Kiev, come per Israele, ha firmato a dicembre scorso un ulteriore pacchetto di armi per 1,2 miliardi di dollari, che però non potranno essere consegnate rapidamente perché non provengono dalle scorte USA come in precedenza. Trump, da parte sua, ha promesso che continuerà a sostenere Kiev anche se non ha chiarito a quali condizioni (ma è sicuro che spingerà i paesi europei della Nato, come ha fatto Biden finora, ad aumentare il loro impegno finanziario e armato all’Ucraina). Durante tutta la campagna elettorale, sia Trump che il suo vice, J.D. Vance, hanno continuato a ribadire l’intenzione di fermare i massicci investimenti economici e militari verso Kiev (Elon Musk, giunto ai vertici delle personalità politiche legate a Trump grazie al sostegno plurimilionario alla sua campagna elettorale, non si è trattenuto dal definire Zelensky come «il più grande campione di furti di tutti i tempi». La Russia, da parte sua, pur accusando le conseguenze negative a causa dell’inflazione, delle sanzioni, dello sforzo bellico sostenuto in Ucraina e, non ultimo, del calo del consenso interno alla guerra, non ha interesse a chiudere il conflitto in tempi brevi, perlomeno fino a quando non avrà consolidato il controllo delle regioni del Donbass, dove la resistenza ucraina sta dando ancora del filo da torcere alle truppe russe, e fino a quando non avrà liberato completamente la regione di Kursk, occupata dalle truppe scelte ucraine e nella quale sono stati mandati al macello i soldati nord-coreani gentilmente «offerti» a Putin da Kim Jong-un. Trump, d’altra parte, retrocedendo dalla spacconata in campagna elettorale: porrò fine alla guerra in Ucraina in 24 ore..., sottolinea che intende ristabilire relazioni diplomatiche con Mosca, garantendo che l’Ucraina non entrerà nella Nato per 10 anni almeno e che non cercherà di riconquistare i territori occupati e annessi finora da Mosca. Ovvio che su queste basi il «programma di pace» targato Trump resta indigesto non solo a Zelensky, il che è ovvio, ma anche a un buon numero di paesi europei che hanno sostenuto, e continuano a sostenere, come nel recente vertice della Nato del 9 gennaio a Ramstein, politicamente, finanziariamente e militarmente Kiev contro Mosca; un «programma di pace» che va in direzione opposta a quanto, allo stesso vertice di Ramstein, ha dichiarato l’alto rappresentante per la politica estera per l’Unione europea, Kaja Kallas (3): «continueremo a mobilitare tutte le risorse necessarie per garantire la vittoria dell’Ucraina»...[?!?].

L’immigrazione è l’altra questione centrale verso cui Trump aveva già mostrato il suo atteggiamento repressivo negli anni della sua prima presidenza. Nel 2017, all’inizio del suo primo mandato, vietò l’ingresso negli Stati Uniti di tutti i musulmani, bloccando inoltre per quattro mesi l’ingresso nel paese di tutti i rifugiati, cosa che lo mise in contrasto con il suo stesso Dipartimento di Giustizia. Oggi sostiene che userà l’esercito per deportare gli immigrati giunti clandestinamente negli Stati Uniti nei limiti delle leggi vigenti; e a coloro che gli ricordano che la Costituzione proibisce l’uso dell’esercito per il mantenimento dell’ordine pubblico, risponde che la Costituzione «non impedisce all’esercito di intervenire se si tratta di un’invasione del nostro paese, e io considero ciò un’invasione del nostro paese» (4). Il fatto che Trump abbia ridato a Tom Homan, un funzionario del Dipartimento immigrazione noto per la sua linea dura contro gli immigrati, l’incarico di gestire la politica sull’immigrazione, come nella sua precedente amministrazione (era stato l’ideatore  dell’ingabbiamento e della separazione dei figli dai genitori per le famiglie immigrate) fa capire che le minacce di Trump non solo parole di propaganda. E il fatto che Tom Homan, svolgendo lo stesso incarico anche sotto la presidenza di Barak Obama, sia stato premiato nel 2015 da Obama stesso con una delle più alte onorificenze riservate ai civili, Presidential Rank Award (5), dimostra nei fatti che la politica americana, che sia gestita dai Democratici o dai Repubblicani, sostanzialmente non cambia nei suoi aspetti fortemente repressivi rispetto all’immigrazione.

Sulla grande questione del clima, la posizione di Trump e dei suoi sostenitori è nota: ritirerà nuovamente gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sul clima che Biden aveva ristabilito, e uscirà dalla Convenzione Onu che orienta le politiche globali in materia. Gli Stati Uniti, dopo la Cina, sono tra i maggiori responsabili di emissioni di CO2 nell’atmosfera; uscire ufficialmente dall’Accordo di Parigi e dagli impegni formalmente presi in quella sede e successivamente significa continuare a infischiarsene di tutti gli «accordi» sottoscritti e gli «impegni» presi, mostrando per l’ennesima volta che tutto ciò che va contro il profitto capitalistico ora e subito non viene tenuto in nessuna considerazione, tanto più se, come nel caso delle emissioni di gas serra, si tratta di cambiare radicalmente i metodi inquinanti di produzione e di consumo aumentando notevolmente i costi di produzione e di trasporto. D’altra parte, tutto il settore minerario legato alle fonti fossili per la produzione di energia si dovrebbe drasticamente ridimensionare; non solo i grandi produttori ed esportatori di petrolio, prodotti petroliferi, gas naturale e carbone, ma anche tutte le industrie di produzione che funzionano a energia elettrica e i trasporti terrestri e marini, e che finora hanno guadagnato miliardi di miliardi di utili, dovrebbero rinunciarvi per decenni in attesa della sostituzione delle fonti fossili con le fonti rinnovabili... Si è mai visto il capitale fermarsi anche solo un minuto? Si è mai visto il capitalismo modificare il proprio carattere mercantile, predatorio e anarchico per andare incontro ai bisogni della salute umana, armonizzandosi con l’ambiente naturale? No, e non ce la farà mai, perché il suo modo di produzione e di consumo riduce qualsiasi attività umana, qualsiasi relazione, qualsiasi rapporto, qualsiasi bisogno, qualsiasi oggetto, a merce; e, dato che viviamo nella natura, anche la natura e tutto ciò che la costituisce, dall’acqua all’aria, dal suolo al sottosuolo, dalle foreste ai terreni coltivabili, è trattato come una merce. Solo che la natura è molto, ma molto più forte dell’animale-uomo e per quanto l’animale-capitalista cerchi di piegarla alle leggi del capitale, la natura si ribella sempre più spesso fino a rendere invivibile l’ambiente, infischiandosene del mercato, della proprietà privata, del denaro e delle conferenze borghesi sul clima con le quali gli inquinatori si prendono gioco dell’umanità intossicata.

In campo sanitario, Trump, come aveva già minacciato a suo tempo, oggi insiste ancor più nella decisione – dal primo giorno del suo insediamento, come scrive il Financial Times – di ritirare gli Stati Uniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità; essendo gli USA il primo finanziatore dell’Oms, è ovvio quale danno subirebbe questa organizzazione. D’altra parte, come dimostrato anche dall’ultima pandemia di Sars-Cov2, questa organizzazione non è che l’amministrazione degli interessi delle Big Pharma, e soprattutto delle prime dieci al mondo (le americane Eli Lilly, Johnson & Johnson, Abbvie, Pfizer e Amgen, la danese Novo Nordisk, la tedesca Merck, le svizzere La Roche e Novartis e l’inglese AstraZeneca che, insieme, rappresentano un fatturato di oltre 420 mld USD). Per quanto riguarda le vaccinazioni, è noto che Trump aveva considerato la pandemia di Sars-Cov2 come fosse un’influenza stagionale, e che si era sempre opposto agli obblighi vaccinali, salvo alcuni come quello contro la poliomielite.

Trump si è pronunciato anche in campo finanziario, proponendo di costituire una specie di «riserva strategica» di bitcoin gestita dal Tesoro statunitense; il bitcoin, secondo lui, sarebbe il futuro della finanza, nonostante la potenziale frode delle valute digitali e la loro estrema volatilità. David Sacks, grande sostenitore di Trump, proviene dal gruppo di imprenditori della Silicon Valley che avevano dato vita nel 1999 alla società PayPal e che dopo la vendita a eBay si sono staccati fondando ognuno altre società, sempre in campo tecnologico e digitale (tra cui anche Elon Musk), come You Tube, Yammer, Yelp, Craft Ventures, Tesla, SpaceX, Airbnb ecc.. Costui è stato incaricato da Trump di occuparsi della regolamentazione delle criptovalute e di supervisionare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, in concorrenza diretta con la Cina. 

Al momento Trump non si è ancora espresso chiaramente sulla politica sociale interna della sua amministrazione, ma è certo che, dopo aver lisciato il pelo alla classe operaia per ottenere i suoi voti – come nel caso delle visite fatte agli operai del settore auto durante i 50 giorni di sciopero alla Ford, alla Gm e alla Stellantis nell’autunno 2023 – non adotterà una politica molto diversa da quella di Biden. Continuerà, di fatto, a salvaguardare il tenore di vita degli strati operai che lavorano nei settori economici strategici e di vitale importanza per l’economia statunitense (metalmeccanico, petrolchimico, difesa ecc.), e a lasciare che i capitalisti privati se la vedano coi propri operai sia in termini di accordi sindacali sia in termini di libertà nel fissare le condizioni di lavoro e di salario in quei settori che, per «tradizione», sfuggono alle regole e ai diritti formali: l’edilizia, l’agricoltura, la ristorazione, la logistica, i trasporti privati, il piccolo commercio ecc. Nel frattempo, ha promesso di concedere il perdono presidenziale a tutti i condannati per l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio 2021 per il quale, d’altra parte, lui non è stato processato come ispiratore, ma è evidente che si sente in un certo senso «debitore» verso tutti coloro che dimostrarono di sostenere anche con la violenza le sue accuse di brogli elettorali a carico di Biden.     

 

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L’America imperialista va fiera della propria democrazia, una democrazia che nel tempo ha superato l’alto grado di civiltà politica e sociale assegnato alla democrazia inglese, tanto da diventare una bandiera da esportare in tutto il mondo e per la vittoria della quale si è giustificato e si giustifica ogni intervento militare, non solo dalla seconda guerra imperialistica mondiale, ma fin dalla prima. Le basi del particolare carattere aggressivo dell’imperialismo americano sono rivelate dalla stessa storia del capitalismo impiantato nel nuovo continente dove la borghesia non ha avuto il compito storico di rivoluzionare il modo di produzione feudale e di eliminare il potere politico di monarchie e aristocrazie, ma quello di impiantare ex novo il modo di produzione capitalistico importato dall’Europa che, con tutta la sua potenza rivoluzionaria sul piano economico, ha distrutto facilmente il sistema arcaico dei nativi americani che fondavano la loro sopravvivenza sulle risorse naturali esistenti sfruttate di stagione in stagione anche attraverso il nomadismo, e ha vinto nella guerra civile americana contro gli Stati confederati del Sud che si arricchivano con lo schiavismo.

La forma capitalista di produzione, una volta abolita la schiavitù, non ha fatto che sostituire i negrieri schiavisti con i negrieri industriali universalizzando la schiavitù salariale ai proletari di qualsiasi nazionalità, colore della pelle, sesso o età. Ciò che stava diventando lo Stato in Europa – con la sua trasformazione da organo al servizio della società a organo degli interessi specifici della classe borghese dominante contro la società stessa –lo Stato dell’Unione nordamericana lo era già fin dal suo primo momento: un vero e proprio consiglio di amministrazione del capitale.

Engels, nella sua prefazione del 1891 a La Guerra civile in Francia di Marx scrive: «In nessun paese i “politici” formano una sezione della nazione così separata e così potente come nell’America del Nord. Quivi ognuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere viene a sua volta governato da gente per cui la politica è un affare, che specula sui seggi tanto delle assemblee legislative dell’Unione quanto dei singoli Stati, o che per lo meno vive dell’agitazione per il proprio partito e dopo la vittoria di questo viene compensata con dei posti». Che cosa è cambiato dal 1891 al 2025? Sì, è cambiata in peggio, perché la situazione che vedeva nel 1891 «due grandi bande di speculatori politici che entrano in possesso del potere, alternativamente, e lo sfruttano con i mezzi più corrotti e ai più corrotti fini» si è ancor più incancrenita, diventando un modello per tutto il mondo, confermando quanto sosteneva Engels: «la nazione è impotente contro questi due grandi cartelli di politicanti che si presumono al suo servizio, ma in realtà la dominano e la saccheggiano» (6).

E’ la prima guerra imperialistica mondiale che ha «obbligato definitivamente gli Stati Uniti», come afferma il Manifesto finale del II Congresso dell’Internazionale Comunista, «a rinunciare al loro conservatorismo continentale. Espandendosi il suo sviluppo, il programma del suo capitalismo nazionale – l’America agli Americani (dottrina Monroe) – è stato rimpiazzato dal programma dell’imperialismo: “il mondo intero agli americani”. Non contentandosi più di sfruttare la guerra con il commercio, con l’industria e con le operazioni di borsa, cercando altre fonti di ricchezza oltre a quelle che, quando era neutrale, traeva dal sangue europeo, l’America è entrata in guerra e ha giocato un ruolo decisivo nella sconfitta della Germania e si è immischiata nella risoluzione delle questioni politiche dell’Europa e del mondo» (7). E’ il momento in cui gli Stati Uniti d’America si preparano, non a «rientrare nel loro guscio», ma a sostituire la Gran Bretagna come prima potenza imperialista mondiale, cosa che avverrà con la seconda guerra mondiale. Prosegue il Manifesto dell’Internazionale del 1920: «continuando ad asservire con mezzi progressivamente più violenti il continente americano, trasformando in colonie i paesi dell’America centrale e meridionale, i democratici e i repubblicani si preparano, per tappare la falla costituita per loro dalla Lega delle nazioni creata dall’Inghilterra, a costituire una loro propria Lega, nella quale l’America del Nord giocherà un ruolo da centro mondiale. Per affrontare la situazione sul giusto versante, essi hanno intenzione di trasformare la loro flotta, nel corso dei prossimi tre o cinque anni, in uno strumento potente più di quanto sia la flotta britannica». E’ esattamente quel che è successo; con la seconda guerra mondiale, vinta dall’alleanza degli imperialismi occidentali, sconfitta la rivoluzione proletaria in Europa e in Russia, trasformata la Russia rivoluzionaria in una Russia controrivoluzionaria di prim’ordine, gli Stati Uniti d’America sono diventati effettivamente l’imperialismo dominante nel mondo. Ciò nonostante, la prospettiva del marxismo rivoluzionario, tratteggiata nel Manifesto di Marx ed Engels, ribadita col primo tentativo di dittatura proletaria dalla Comune di Parigi, restaurata da Lenin e messa alla base della vittoria rivoluzionaria nell’Ottobre 1917 in Russia e ribadita nelle potenti tesi dell’Internazionale Comunista nel suo secondo congresso del 1920, è stata ripresa nella lotta contro lo stalinismo e ogni altra deviazione dal marxismo, lotta portata avanti dalla Sinistra comunista internazionale, e in particolare dalla Sinistra comunista d’Italia, alla quale la storia stessa del movimento comunista internazionale ha assegnato il compito di guidare non solo la restaurazione del marxismo come dovette fare Lenin nel primo ventennio del Novecento, ma anche la ricostituzione del partito comunista rivoluzionario a livello mondiale per il quale era vitale che fossero tirati i bilanci dinamici delle rivoluzioni e, soprattutto, delle controrivoluzioni.

 

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Per una potenza imperialistica come l’America, nonostante vi sia sempre una certa differenza tra la politica interna e la politica estera, è indubbio che la politica estera, cioè la politica che agisce sulle relazioni internazionali in base ai rapporti di forza già esistenti e in via di modificazione, è sempre più rilevante, dettando conseguenze economiche, politiche, finanziarie, sociali e militari che pesano in modo consistente sulle condizioni di vita e di lavoro del proletariato, e sul cui terreno si giocheranno gli effetti dell’antagonismo di classe che nella società borghese non sparisce mai. Tanto più se, come è evidente nella politica delle maggiori potenze imperialistiche mondiali, la situazione generale si sta avvicinando sempre più a una crisi mondiale che sboccherà in una terza guerra mondiale, guerra che soltanto una forte ripresa della lotta di classe e rivoluzionaria potrà affrontare dando al proletariato mondiale una prospettiva alla società umana, immersa nelle contraddizioni irrisolvibili del capitalismo imperialista, del tutto opposta a quella borghese e imperialista, trasformando la guerra imperialista in guerra di classe per l’abbattimento del dominio borghese e del suo Stato e per la dittatura del proletariato esercitata dal partito di classe, la sola che può fronteggiare e vincere la dittatura del capitale.

Lo sguardo di Washington, dalla seconda guerra imperialista mondiale in poi, e non è una novità, è perennemente rivolto sull’intero pianeta, mirando a prevalere sui mercati più importanti per lo sbocco delle merci americane e per i propri capitali da investire fruttuosamente facendo del dollaro americano la moneta internazionale. La vittoria americana nella seconda guerra imperialista mondiale non ha soltanto surclassato le economie tedesca e giapponese – non parliamo dell’economia italiana che, nei loro confronti, era e rimane imperialista ma «stracciona» – ma ha piegato ai propri interessi planetari anche la Gran Bretagna e la Francia, usando contro di loro – e quindi contro l’Europa – non solo l’Alleanza atlantica (la Nato) sul terreno specificamente militare, ma anche l’alleanza con la «nemica» Russia di Stalin, necessaria per la spartizione del controllo imperialistico del continente europeo, consegnando ai reciproci rapporti di forza la contesa nel resto del mondo.

Dopo il consolidamento nel mondo della potenza economica, finanziaria, politica e, dunque, imperialistica degli Stati Uniti durante il trentennio di espansione capitalistica nel secondo dopoguerra, scoppia la grande crisi mondiale del 1973-75 che rimette in gioco i rapporti di forza fra le maggiori potenze. Nella metà degli anni Settanta del secolo scorso si conclude anche il lungo periodo dei moti anticoloniali che scossero la tenuta delle vecchie potenze coloniali rimettendole ancor più nelle mani dell’imperialismo americano; quell’imperialismo delle portaerei, come scrivemmo un tempo (8), che è in grado di dominare gli oceani e i mari per «portare la sua offesa in qualunque parte del mondo», sia sul piano dello scontro con altre potenze imperialistiche per la supremazia nel mondo, sia sul piano dello scontro con le forze del proletariato rivoluzionario quando, risorto come classe rivoluzionaria, si metterà in marcia per la conquista del potere e contro il quale – come già successe durante la Comune di Parigi e, successivamente, nei confronti della rivoluzione proletaria in Russia – tutti gli Stati del mondo si alleeranno perché soltanto la rivoluzione proletaria e comunista è in grado di abbattere il potere borghese e capitalista in ogni paese.

Vi sono comunque potenze imperialiste ancora embrionali o in una fase inferiore dell’imperialismo del proprio sviluppo capitalistico che si muovono ancora secondo un espansionismo «nelle forme del colonialismo (occupazione del territorio degli Stati minori)», come a suo tempo era la Russia e, in buona parte, lo è ancora, come dimostrano le sue guerre nel Caucaso, in Afghanistan, in Ucraina.

E come dimostra la politica annessionistica della Cina verso Hong-Kong, Macao, Tibet, Taiwan. Aldilà dello sviluppo tecnologico in campo missilistico, grazie al quale è possibile che i sistemi più avanzati lancino missili balistici intercontinentali, con testate convenzionali, nucleari, termonucleari e biologiche, coprendo lunghe distanze, dai 5.500 agli 11.000 km (cioè la distanza tra Los Angeles e San Pietroburgo) e con potenza anche di 1 megatone (cioè 1000 chilotoni) (9), il predominio sugli oceani è ancora l’obiettivo principale delle superpotenze imperialistiche. Non per nulla gli Stati Uniti, già in grado di spostare ben 11 portaerei contemporaneamente, prevedono di averne a disposizione nei prossimi anni altre nove.

Indiscutibilmente, data la loro potenza finanziaria capace di investire trilioni di dollari negli armamenti di terra, aria e mare, gli Stati Uniti restano la potenza imperialistica più forte al mondo, ma, a differenza degli anni Cinquanta-Ottanta del secolo scorso, nei quali la loro posizione dominante nel mondo era sostanzialmente incontrastata nonostante lo sviluppo economico eccezionale della Germania e del Giappone (le due potenze imperialistiche vinte e semidistrutte nella seconda guerra mondiale), negli ultimi trent’anni i rapporti di forza nel mercato mondiale si stanno ulteriormente modificando, facendo emergere sullo scacchiere internazionale, oltre alla Russia, altre potenze economiche di grande rilevanza (Cina, India, Indonesia, Brasile, Messico, Turchia, Corea del Sud), mentre è tornata in auge la corsa alla costituzione di blocchi imperialisti finalizzati sia a difendere le proprie economie dall’aggressione dei blocchi avversari, sia a preparare le basi per gli inevitabili futuri scontri militari.

Come tutte le alleanze borghesi, anche le organizzazioni internazionali costituitesi in questi ottant’anni, dalla fine del secondo macello mondiale, sono destinate ad essere messe in discussione dalle crisi economiche, monetarie e commerciali che hanno punteggiato tutto questo lungo periodo storico. Queste organizzazioni sono nate per affrontare le crisi capitalistiche che inevitabilmente si sono presentate e si presentano ciclicamente sul mercato mondiale, ma sono destinate ad essere modificate o distrutte dalle crisi che stanno avvenendo e avverranno nel prossimo futuro. L’Unione Europea, nata come cooperazione economica tra i paesi europei, strada facendo tenta di trasformarsi in un’organizzazione politica e, quindi, militare, come il sostegno all’Ucraina nella guerra contro la Russia potrebbe dimostrare; ma i contrastanti interessi dei maggiori protagonisti dell’imperialismo europeo occidentale (Gran Bretagna, Germania, Francia) minano continuamente la loro «unione». Nello steso tempo, si porta appresso però tutte le contraddizioni che i diversi interessi nazionali generano e che la stessa guerra russo-ucraina ha rimesso in rilievo, non solo dal punto di vista economico-politico, ma anche da quello militare; i tentativi di costituire una forza armata europea, i cui protagonisti principali sono stati Francia e Germania, non solo sono stati contrastati dagli USA e dalla Gran Bretagna, ma trovano fattori di contrasto anche tra i paesi che più recentemente sono entrati a far parte della Nato, soprattutto nell’Est Europa. Tutti questi contrasti, almeno a livello di relazioni dirette tra le forze imperialiste che si riconoscono come occidentali, sono destinati a crescere e a esplodere, e se non sono ancora esplosi è perché subiscono ancora l’influenza e il peso dell’imperialismo americano che, come è apparso molto evidente a noi marxisti fin dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale, ha piegato l’Europa al suo controllo.

Trump, oggi, come ieri tutti i presidenti democratici e repubblicani, si muove secondo una traiettoria che non è indicata dalle idee balzane che possono formarsi nella testa di ogni «uomo forte» che ha la ventura di sedersi sul trono più alto della politica o dell’economia, ma dagli interessi profondi di un’economia che, concentrandosi sempre più, non fa che acutizzare tutti i fattori di crisi che cerca man mano di superare. Di questo, da comunisti rivoluzionari, siamo convinti da sempre e il nostro compito è di preparare il partito di classe che domani dovrà guidare il proletariato nella rivoluzione anticapitalistica, perciò antimperialistica, a livello mondiale.

Le oligarchie dell’alto capitalismo – scrivevamo nel 1951 (10) – operano nell’economia, nella produzione, nell’industria, nella finanza con una prassi che conduce alla guerra, perché un diverso operare ne diminuirebbe i profitti e lederebbe gli interessi per vie diverse. Ma anche i membri di queste oligarchie, personalmente presi, non potrebbero, anche volendo, operare in modo radicalmente opposto, e anche se pensassero di conciliare la tutela dei loro interessi col rinvio o lo scongiuramento della guerra [come il papa di Roma sta invitando a fare da anni secondo la sua teoria della “guerra mondiale a pezzi”, NdR], arriverebbero alle stesse conseguenze. Invece quindi della grossa balordaggine, di solo effetto pubblicistico e valevole a spostare un poco di rapporto di forze partigiane (se tante ve ne saranno domani in giro), di gridar loro, ai capi di governo e di affari: fermatevi in tempo, vivete, producete, guadagnate, ma non fate la guerra, ricordatevi che eravate la salvezza del mondo fino al 1945 e vedete di non atomizzarlo.

Il fatto è che i borghesi non possono che inseguire e difendere gli interessi del capitalismo, e le grandi oligarchie economiche, finanziarie, militari non possono muoversi se non secondo leggi che non controllano e che li spingono costantemente ad escalations che vorrebbero dominare ma da cui vengono invece dominati. Ribadiamo quanto dicevamo nell’articolo del 1951 citato: voi, oligarchie dell’alto capitalismo, come classe borghese, non potete fermarvi nella vostra opera di oppressione imperiale sul mondo, solo la rivoluzione proletaria mondiale lo può, distruggendo il vostro potere; una rivoluzione che non potrà essere fermata né dalla vostra pace, né dalla vostra guerra: una via di salvezza diversa non esiste.

Le forze produttive vive, le forze del lavoro vivo rappresentate dal proletariato mondiale avranno ragione, con la rivoluzione, del vostro mondo oppressivo nel quale non siete più in grado di difendere i vostri privilegi se non distruggendole.

Il proletariato di ogni paese deve regolare i conti con la propria borghesia di casa, e questo vale per il proletariato americano, cinese, britannico, russo, francese, brasiliano, giapponese, italiano, sudafricano o iraniano, o di qualsiasi altro paese, ma è certo che la prossima rivoluzione non potrà svolgersi, pur iniziando dall’anello più debole della catena oppressiva imperialistica – come fu nel caso della Russia del 1917 – se non nel quadro mondiale.

 


 

(1) Le notizie sono ricavate da il fatto quotidiano, il post, https://energiaoltre.it, ispionline.it, https://wired.it/article/trump-cosa-fara-immigrazione-bitcoin.ucraina-gaza-clima

(2) La storia del Canale di Panama iniziò con Simón Bolívar che incaricò l’ingegnere inglese John Lloyd di studiare la possibilità di costruire il canale che avrebbe collegato via mare l’Atlantico al Pacifico. Il movimento bolivariano, sconfitti gli spagnoli, fondò nel 1819 la Repubblica Grande Colombia che riuniva i territori di Nuova Granada, Panama, Quito e Venezuela, e che, nell’idea di Bolívar, doveva essere la base federale per unire tutto il Sud America dopo averlo strappato alle potenze coloniali di Spagna e Portogallo; ma, dati i contrasti tra le varie nazionalità, il grande progetto federativo nel 1830 andò in fumo e si costituirono gli Stati indipendenti di Ecuador, Venezuela e Nuova Granada. Nuova Granada, che comprendeva anche il territorio di Panama, prenderà poi il nome di Colombia.

Il progetto del Canale di Panama rimase in sospeso fino al 1879, quando al congresso internazionale di Parigi tornò in auge grazie al francese Lesseps (costruttore del Canale di Suez), che però non trovò gli investimenti necessari; entrò al suo posto, nel 1885, Eiffel, ma anche la sua società fallì. Nel 1901 gli Stati Uniti ottennero da Bogotà l’autorizzazione a costruire il Canale e a gestirlo per 100 anni, ma l’accordo secondo cui gli USA avrebbero assunto il pieno controllo e la piena gestione del Canale non venne ratificato dal governo colombiano. E così Washington, nel 1903, promosse e organizzò la sommossa a Panama che si rese «indipendente» dalla Colombia, ma dipendente dagli USA. Nel 1907 iniziarono i lavori da parte del genio militare statunitense e terminarono nel 1914, mentre l’inaugurazione ufficiale avvenne nel 1920.

Gli Stati Uniti già nel 1901 avevano ottenuto il diritto permanente di controllo e di gestione del Canale e di tutta la Zona circostante, ma successivamente, nel 1977, dopo anni di tensione tra i due paesi, il presidente americano Carter firmò un ulteriore trattato con il capo della giunta militare panamense Torrijos perché il Canale e la Zona circostante del Canale tornassero, il 31 dicembre 1999, interamente nelle mani del governo di Panama.

(3) Cfr. https://www.lumsanews.it/a-ramstein-la-nato-rafforza-il-sostegna-a-kiev-mentre-cresce-la-tensione-con-mosca/

(4) Cfr. https://www.wired.it/article/trump-cosa-fara-immigrazione-bitcoin-ucraina-gaza-clima

(5) La presidenza degli Stati Uniti ha a disposizione ogni anno due categorie di onorificenze del Presidential Rank Award: la Distinguished Rank, che premia i funzionari senior riconosciuti per i risultati straordinari e duraturi nella loro attività, ai quali viene erogato anche un premio in denaro pari al 35% della loro retribuzione base annua; ed è questo premio che ha ricevuto Tom Homan da Obama. E la Meritorious Rank, che premia i funzionari meno anziani, ma egualmente riconosciuti per i risultati straordinari nella loro attività, per i quali il premio in denaro consiste nel 20% della loro retribuzione base annua.

(6) Cfr. «La Guerra civile in Francia», di K. Marx, Introduzione di F. Engels all’edizione tedesca del 1891,  Editori Riuniti, Roma 1977, p. 26.

(7) Cfr. l’Internationale Communiste, n. 13, septembre 1920, pp. 2333-2348; in italiano in Il biennio rosso 1919-1920 della Terza Internazionale, a cura di S. Corvisieri, Edizioni Jaka Book, Milano 1970, pp. 513-514. 

(8) Cfr. l’articolo L’imperialismo delle portaerei, «il programma comunista», n. 2 del 1957. Attenzione: in questo articolo si cita un quotidiano di Roma, «Il Tempo», che riporta cifre non esatte; si sostiene infatti che la marina da guerra americana disponeva di centotre portaerei in grado di ospitare cinquemila velivoli tra aerei a reazione, bombardieri ed elicotteri.

In realtà, una verifica fatta dal sito «n+1» dimostra che all’epoca gli USA avevano una dozzina di portaerei capaci di stipare al massimo un migliaio di aerei. Ciò non toglie che gli Stati Uniti all’epoca fossero comunque in grado di controllare gli oceani attraverso le proprie portaerei surclassando di gran lunga ogni altra potenza imperialistica. Oggi, secondo wikipedia, gli USA posseggono ben 11 portaerei in attività, più 2 in costruzione e ben altre 7 in progetto; la Cina ne possiede 2 attive, più 1 in costruzione e 1 in progetto; la Russia ne possiede 1 attiva e ne ha 6 in progetto; il Regno Unito ne possiede 2 attive; la Francia 1 attiva e 1 in progetto; il Giappone ne ha 2 attive; l’India ne ha 1 attiva, 1 in corso di prova e 1 in progetto; l’Italia ne possiede 2. Ma tra tutte queste, quel che fa la differenza non è soltanto il numero, ma il possesso o meno di superportaerei, cioè con un dislocamento di oltre 63,5 tonnellate. Delle cifre sopra riportate, gli USA hanno ben 10 superportaerei attive, il Regno Unito 2, la Russia e la Cina 1 ciascuna. 

(9) Le atomiche sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki avevano una potenza, rispettivamente, di «solo» 15 e 21 chilotoni; i missili balistici intercontinentali perciò possono portare testate in grado di radere al suolo intere città superpopolate (vedi: https://www.fanpage.it/innovazione/tecnologia/cose-un-missile-balistico-intercontinentale-e-perche-e-molto-più-devastante)

(10) Si tratta del “filo del tempo” intitolato Non potete fermarvi, solo la rivoluzione proletaria lo può, distruggendo il vostro potere, pubblicato sull’allora giornale di partito “battaglia comunista”, n. 1 del 1951. Rintracciabile facilmente nel sito www.pcint.org, Textes et thèses, in italiano, Sul filo del tempo (1949-1955).

 

 

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