Nota di chiarimento politico sull'articolo «Le tesi di partito sulla questione cinese (1964)»

(«il comunista»; N° 97-98 ; Novembre 2005 ) («il programma comunista»; N° 23; 15 dicembre 1964)

Ritorne indice  Ritorno temi  Ritorno archivio

 

 

Attenzione!

 

Un passaggio delle Tesi sulla questione cinese, pubblicate nel n. 23 del 1964 di “il programma comunista” va compreso bene e spiegato perché vi è una generalizzazione che può portare ad equivoci.

 

Il punto 7) delle Tesi, nel capitoletto: «Democrazia e proletariato: la questione nazionale”, afferma, dopo aver detto delle due fasi del capitalismo per le aree geografiche, e dopo aver definito con citazione da Lenin, così la fase uno:

«Nell’Europa occidentale, la epoca delle rivoluzioni democratiche borghesi abbraccia un intervallo di tempo abbastanza preciso che va suppergiù dal 1789 al 1871”, sottolineando: «E’ questa l’epoca dei moti nazionali e della creazione di Stati nazionali. Chiuso questo periodo, l’Europa occidentale si era trasformata in un sistema costituito di Stati borghesi, di Stati nazionali generalmente omogenei. Cercare oggi il diritto di libera disposizione dei programmi dei socialisti di Europa occidentale, è non sapere l’abc del marxismo».

Poi il testo passa alla fase due del capitalismo, cioè all’altra grande area geografica:

«Nell’Europa orientale e in Asia, l’epoca delle rivoluzioni democratiche borghesi è cominciata solo nel 1905. Le rivoluzioni in Russia, in Persia, in Turchia, in Cina, le guerre nei Balcani, questa la catena degli avvenimenti mondiali della nostra epoca nel nostro Oriente».

 

Le Tesi, una volta sottolineate queste due fasi, continuano così:

«Oggi (il 1964), questa fase si è egualmente conclusa per tutta l’area afro-asiatica. [corsivo originale del testo]. Dovunque si sono costituiti, alla fine della II guerra mondiale, degli Stati nazionali, più o meno “indipendenti”, più o meno “popolari”, che promuovono in modo più o meno “radicale” l’accumulazione del capitale. Per questo solo fatto, l’ “estremismo” cinese non può presentarsi come la teoria di un movimento nazionale rivoluzionario, ma come un’ideologia ufficiale di Stato borghese costituito, come un programma di collaborazione di classe con tutto ciò che questo comporta in frasi “socialiste”».

 

Segue il punto 8), in cui si afferma:

«Neanche nella fase delle rivoluzioni democratiche borghesi, i comunisti non possono erigere a feticcio la “questione nazionale” e non devono collocarne la soluzione al di sopra degli interessi di classe e della propria lotta. Il proletariato rivoluzionario non deve dimenticare che il suo compito storico è di distruggere lo Stato borghese e i rapporti di produzione capitalistici per instaurare una società in cui le classi spariranno, e con esse spariranno le differenze fra Stati e le stesse nazioni. Nel suo sviluppo il capitalismo abbatte le frontiere nazionali, superate dalle sue merci e dai suoi eserciti. Distruttori di rapporti di proprietà, esso infrange  le entità nazionali e impone le sue forme di dominazione mondiale ai paesi più avanzati come ai popoli oppressi. I comunisti non possono quindi attendere dal capitale che esso crei un’armoniosa  “società delle nazioni” in cui i rapporti fra Stati siano regolati conformemente al “diritto delle genti”. Era invece loro permesso di sperare che l’abbattimento del capitalismo mondiale evitasse all’Oriente la fase dell’accumulazione capitalistica e della costituzione in Stati nazionali borghesi.

«Noi ignoriamo – diceva ancora Lenin – se l’Asia giungerà prima della bancarotta del capitalismo a costituirsi in un sistema di Stati nazionali indipendenti sul modello dell’Europa. Ma una cosa è incontestabile, cioè che risvegliando l’Asia il capitalismo ha suscitato anche laggiù dei moti nazionali; che questi tendono a costituire degli Stati nazionali; che questi Stati assicurano appunto al capitalismo le condizioni migliori di sviluppo» (da: Del diritto dei popoli di disporre di se stessi).

 

Nei punti successvi , fino alla fine delle Tesi, non vi è più alcun accenno all’area afro-asiatica.

 

Per tutti i gruppi che negano la tattica comunista sostenuta dal partito negli anni Cinquanta-Settanta circa i moti rivoluzionari nelle aree afro-asiatiche, la questione «nazionale», intesa come moto rivoluzionario per la costituzione di uno Stato nazionale indipendente – quindi certamente una rivoluzione borghese sia dal punto di vista politico che economico –, non si pone più come si poneva all’epoca di Lenin e della Terza Internazionale; dunque, questi gruppi sostengono che tra i compiti del proletariato mondiale non doveva esserci più il sostegno del proletariato a questi moti, pur organizzandosi in modo del tutto indipendente dalle altre classi e persegua – dichiarandolo, come fecero i bolscevichi nel 1905 e, ancor più, nel 1917 – contemporaneamente i suoi obiettivi storici di classe, quindi la lotta contro la borghesia nazionale una volta raggiunto il potere (tanto più se raggiunge esso stesso il potere come nel caso dell’Ottobre 1917) per abbatterne lo Stato ed instaurare la sua dittatura di classe.  

La posizione di questi gruppi, con più o meno distinzioni formali, in realtà riproponeva la posizione dei menscevichi: che la borghesia faccia la sua rivoluzione antifeudale e, nel caso dell’epoca storica più recente, «antimperialista»; che la borghesia sviluppi il capitalismo economico nel paese arretrato, crei le masse proletarie che questo sviluppo comporta, dopodiché il proletariato avrà finalmente l’occasione storica – creata la sua forza di classe, grazie allo sviluppo del capitalismo nazionale – di porsi sul terreno rivoluzionario «puro», ossia sul terreno in cui le classi in lotta saranno soltanto il proletariato e la borghesia.

A parte la lettura sbagliata dei rapporti tra le classi nella società divisa in classi, e soprattutto nella società capitalistica (non solo la classe borghese è in realtà divisa in due: i proprietari terrieri e i capitalisti industriali/finanziari), ma, oltre al proletariato, esiste un contadiname povero e anche la piccola borghesia commerciale, industriale, artigianale, contadina, quelle mezze classi che normalmente dipendono e sostengono la grande borghesia, ma che, in determinati svolti storici in cui il proletariato dimostra una reale forza di classe capace di capovolgere a proprio favore le sorti dello scontro con la borghesia dominante, è possibile che una parte di esse si accodi al movimento rivoluzionario del proletariato, mentre altre parti  rimangono  al servizio della grande borghesia reazionaria o tendenzialmente «neutrali» in attesa di mettersi dalla parte del vincitore una volta decretato dalla lotta.   

Dalla lettura sbagliata di quel passaggio contenuto nel testo delle Tesi sulla questione cinese, il gruppo di Schio, ad esempio, ha tratto la conclusione che per tutta l’area africana, oltre che per l’area asiatica, il tema della questione nazionale non si poneva più secondo l’impostazione data a suo tempo da Lenin,  dall’Internazionale Comunista e dal partito. La posizione del tutto formale e antidialettica che accomuna i vari gruppi di questo genere era ed è la seguente: le rivoluzioni nazionali si svolgono nel quadro della strategia mondiale dell’imperialismo, cioè nel quadro o degli interessi dell’imperialismo americano o in quello degli interessi dell’imperialismo russo, i due imperialismi che all’epoca, coi loro contrasti diretti e indiretti, dominavano la scena mondiale. Perciò le lotte di classi e di Stati nel mondo dei popoli non bianchi, per questi gruppi, perdeva automaticamente la caratteristica di essere storico campo vitale per la critica rivoluzionaria marxista (vedi riunione del partito a Firenze, gennaio 1958). E’ evidente che il gruppo di Schio, alla pari di molti altri gruppi, non si sono preoccupati minimamente di chiedersi come mai in quelle tesi sulla questione cinese del 1964 c’è stato l’accenno all’area afro-asiatica, un’immensa area che è stata sottosposta a studi molto approfonditi, per l’Asia e il Medio Oriente, per il mondo arabo esteso in tutto il Nord Africa, per tutti gli altri paesi dell’Africa. Per rendersene conto, basta scorrere le annate del «programma comunista», dal 1951 a tutti gli anni Settanta. Ma quando si viene colpiti da un’ottusità cronica rispetto alla dialettica storica, non c’è verso, non se ne esce.

 

Ci si può chiedere come mai in queste Tesi si è sentito il bisogno di sostenere che la fase delle rivoluzioni borghesi e della costituzione di Stati nazionali (oggi, 1964) si era conclusa per tutta l’area afro-asiatica. Dai lavori successivi sulla questione nazionale e coloniale, e sui moti anticoloniali svoltisi in Africa negli anni successivi alla fine della seconda guerra imperialistica mondiale, è evidente che, nel dire che l’epoca delle rivoluzioni democratiche borghesi si era conclusa anche per l’area afro-asiatica non si intendesse parlare dell’intero continente Africa geograficamente inteso (come d’altra parte non si intendeva parlare dell’intero continente Asia, geograficamente inteso, dal Vicino e Medio Oriente all’Estremo Oriente, ma solo ai loro paesi più determinanti), ma solo della parte del Nord-Africa, la cosiddetta «Africa bianca» che storicamente è stata molto più legata ai sommovimenti sociali riguardanti le nazioni del Mediterraneo, e del Vicino e Medio Oriente. Tutto il mondo arabo – quindi dall’Iraq alla Siria al Libano, dalla Giordania alla Palestina, dall’Arabia Saudita al Kuwait e agli Emirati del Golfo, dallo Yemen all’Oman, e dall’Egitto a tutto il Nord-Africa che comprende Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e il Sahara occidentale – era oggettivamente investito dai movimenti di queste popolazioni che tendevano ad  approfittare dell’indebolimento delle grandi potenze colonialiste dominatrici di tutta quell’area (Inghilterra e Francia), causato dalle conseguenze della stessa guerra mondiale, e dalla sconfitta della Germania a cui molti sceicchi e califfi si erano legati durante la guerra grazie al sostegno del nazismo al nazionalismo arabo, per sganciarsi dal dominio coloniale.  

Nell’articolo Teoria e pratica nella questione coloniale (il programma comunista, n. 5 del 1958), uscito nello stesso periodo in cui veniva pubblicato l’importante resoconto della Riunione di Firenze, 25-26 gennaio 1958, intitolato Le lotte di classe e di Stati nel mondo dei popoli non bianchi, storico campo vitale per la critica rivoluzionario marxista, si mette in evidenza come un’epoca storica prende il nome dal modo di produzione dominante, precisando però che «tale dominio non esclude la sopravvivenza massiccia di modi di produzione più antichi» [sottolineatura in neretto a nostra cura] – il che dimostra la teoria dello sviluppo ineguale del capitalismo – e perciò affermando che anche per il proletariato esiste un periodo inferiore o un periodo superiore della sua esistenza politica, il che si sintetizza nel dire che di fronte a sé il proletariato si trova dinanzi la rivoluzione nazionale (antifeudale, o anticoloniale) o la rivoluzione socialista, o entrambe; e che, come affermato da Lenin, nel 1914, ribadendo Marx ed Engels, se nell’Europa occidentale (o continentale) e nell’America del Nord il periodo delle rivoluzioni nazionali e della costituzione di Stati indipendenti e omogenei termina col 1871, così non è per l’Europa orientale e per l’Asia, dove «il periodo delle rivoluzioni democratiche borghesi è cominciato soltanto nel 1905. Le rivoluzioni in Russia, in Persia, in Turchia, in Cina, le guerre dei Balcani: ecco la catena degli avvenimenti mondiali del nostro periodo nel nostro “Oriente”».

Questo articolo, dopo aver preso di mira le posizioni dei «marxisti da strapazzo» che negavano al partito di dover comprendere nel suo programma politico rivoluzionario la lotta del proletariato  nelle rivoluzioni democratico-nazionali in tutte le aree dei popoli non bianchi in cui non era ancora risolto il problema della costituzione dello Stato nazionale indipendente e omogeneo e del superamento dei modi di produzione precapitalistici (problema sintetizzato nella rivendicazione dell’autodecisione dei popoli), si conclude così: «Nel 1914, cioè in un momento in cui i movimenti nazionali nelle colonie erano ancora allo stato latente, Lenin prevedeva sicuramente il “risveglio” dell’Asia», ma non dell’Africa, «continente che Lenin riteneva, nel 1914, ancora fuori dal periodo delle rivoluzioni nazionali democratiche borghesi». A questo continente il nostro partito punterà necessariamente l’attenzione poichè il suo «risveglio» è dovuto alle conseguenze della seconda guerra imperialistica mondiale; se per l’Asia era il 1914, cioè in concomitanza con la prima guerra imperialistica mondiale, la data convenzionalmente presa come riferimento per il «risveglio» dell’Asia, per l’Africa possiamo prendere il 1939, ossia il periodo concomitante con la seconda guerra imperialistica mondiale, come data convenzionalmente presa come riferimento per il «risveglio» dell’Africa.   

«Ogni accadimento storico, anche se si verifica in sedi lontane dai paesi in cui il ritmo di sviluppo delle forze sociali è più veloce, è condizionato dall’evoluzione della storia mondiale», è scritto nella parte finale dello studio «Peculiarità dell’evoluzione storica cinese» (cap. «Ripiegamento del capitalismo asiatico», il programma comunista, n. 8 del 1958), e tale evoluzione della storia mondiale era costituita dallo sviluppo della tecnica di costruzione delle flotte navali (sviluppo facilitato dal Mediterraneo, mare interno in cui i diversi popoli che vi si affacciavano, nelle loro relazioni e nei loro conflitti, erano spinti ad innovare continuamente i navigli utilizzati per invadere altri territori o per difendersi dagli attacchi che venivano dal mare), grazie al quale sviluppo le potenze navali «mediterranee» dovranno lasciare il primato alle potenze navali atlantiche che, con la scoperta dell’America e la circumnavigazione dell’Africa diventeranno i dominatori degli oceani (spagnoli e portoghesi prima, poi olandesi, inglesi e francesi). Lo sviluppo del capitalismo nei grandi paesi d’Europa e d’America raggiungerà, come dimostrò Lenin, la sua fase monopolista, quindi imperialista; ma tale sviluppo avverrà tendenzialmente a detrimento di uno sviluppo veloce del capitalismo nei continenti d’Asia e d’Africa e, in parte, dell’America centrale e del Sud.

In Europa, le potenze capitalistiche maggiori, spinte a primeggiare e a sottomettere gli altri paesi al proprio dominio, non si fecero alcuno scrupolo nell’allearsi con le potenze feudali e reazionarie pur di impedire ai concorrenti di prevalere e, soprattutto, alle proprie masse proletarie di spingere la propria lotta di classe alla rivoluzione per la presa del potere (vedi il 1848-50 europeo e, in particolare, il 1871 della Comune di Parigi). Nel resto del mondo, in Asia, in Africa, gli imperialismi europei e, successivamente, americano, giapponese e russo, nei loro conflitti per dominare su territori economici considerati strategici dal punto di vista della posizione geopolitica e dal punto di vista della loro ricchezza di materie prime utili ed indispensabili per le relative economie industriali, avevano interesse sì a sviluppare infrastrutture e strutture capitalistiche per facilitare i propri interessi nazionali e imperialistici, ma nel contempo a mantenere rapporti economici, sociali e politici, il più arretrati possibile per facilitare il controllo sui quei paesi e sui territori sottoposti al loro dominio. Con lo sviluppo dell’imperialismo capitalistico, il colonialismo dell’epoca delle monarchie assolute evolverà in un colonialismo più moderno e corrispondente alla fase imperialistica, contro il quale, in periodi storici diversi e segnati in particolare dalle guerre mondiali, si sollevarono in Asia e in Africa in tempi diversi, i moti anticoloniali, le rivoluzioni democratico-borghesi di cui il marxismo si è sempre occupato.

Se l’Africa ha avuto uno sviluppo storico più lento dell’Europa e dell’Asia, la causa va cercata non nell’imbecille teoria razzista secondo la quale esisterebbero razze geneticamente «selvagge» rispetto a razze geneticamente «civili», ma nella conformazione fisica del grande continente e nel tipo di rapporti che le popolazioni indigene ebbero con i popoli più civilizzati, come gli europei. Con un Nord affacciato sul Mediterraneo e perciò esposto nei millenni alle invasioni e alle diverse civiltà (dalla fenicia alla persiana, dalla greca alla romana e poi all’araba), diviso dall’Africa nera, separata dal nord dal vasto deserto del Sahara e immersa nell’enorme foresta tropicale, a sua volta separata dall’Africa australe da altri deserti, con due oceani, ad occidente l’Atlantico e ad oriente l’Indiano, che formavano due distese d’acqua insormontabili – fino all’epoca moderna – vista l’assenza di arcipelaghi e isole come invece esistono tra l’oceano Indiano e il Pacifico (cosa che ha favorito i rapporti tra le popolazioni dell’Asia). Ciò nonostante, sono esistite delle antiche civiltà nell’Africa nera, che però sono state chiuse e poi distrutte dal colonialismo bianco, soprattutto dopo la scoperta dell’America e quando nelle piantagioni, avendo bisogno di moltissime braccia di lavoro, furono portate masse di schiavi dall’Africa. La tratta degli schiavi da un lato, la ricerca dell’oro, dall’altra, costituirono le cause principali dell’arretatezza dell’Africa: comunità, villaggi, città furono devastati e spopolati dai mercanti di schiavi e dagli sfruttatori delle miniere d’oro. Queste «due forme di rapina coloniale – diremo nell’articolo Aspetti della rivoluzione africana (il programma comunista, n. 13 del 1958) – dovevano gettare l’Africa precoloniale in una paurosa involuzione»; ma il colpo di grazia ai sopravvissuti Stati indigeni lo diede l’imperialismo europeo il quale, per poter sfruttare al meglio le popolazioni indigene e le ricchezze del suolo e del sottosuolo africano non poteva che introdurre in modo sempre più stabile e vasto il lavoro salariato, dunque creando un proletariato che prima non esisteva. Nell’articolo citato, si mette in evidenza che, all’epoca, «l’Africa nera è oggi un miscuglio di forme economiche disparato dove si confondono i residui del comunismo primitivo agrario (proprietà collettiva della terra), della proprietà patriarcale, della piccola proprietà, dell’azienda agraria capitalistica, dell’industria moderna legata soprattutto all’estrazione di minerali. Questo ibrido economico e sociale (nel campo dell’ordinamento familiare denunziato dal curioso intrecciarsi di tradizioni matriarcali e patriarcali), proprio delle società pre-borghesi, ammette per ora un solo scioglimento: la rivolzione nazional-democratica».

E’ evidente che gli studi approfonditi che il partito fece sull’Asia e sull’Africa non avrebbero mai portato a concludere che, nel giro di qualche anno, la questione nazionale e coloniale non si sarebbe più posta per l’Africa. Il ciclo delle rivoluzioni nazional-democratiche in Africa si concluderà, in generale, nel 1975 con la caduta del colonialismo storico portoghese in Angola e Mozambico; ma, l’assenza della ripresa della lotta di classe proletaria nei pasi di capitalismo maturo, che prevedevamo in contemporanea alla crisi mondiale del capitalismo scoppiata nel 1975, insieme ad alcune situazioni in Asia e in Africa rimaste comunque irrisolte dal punto di vista della formazione di Stati indipendenti e omogenei (vedi ad es. il Tibet, il Bangladesh, il Botswana, il Sudafrica, la Namibia, l’Eritrea ecc.) riproponevano il problema del collegamento – come nella prospettiva dell’Internazionale Comunista del 1920 – tra  i movimenti anticoloniali e i movimenti rivoluzionari del proletariato soprattutto europeo. La tenuta delle potenze imperialiste, nonostante i forti scossoni delle guerre rivoluzionarie delle colonie e delle semicolonie, la si deve non solo alla corruzione diretta di molti capi e gruppi politici che dirigevano i moti indipendentisti, ma anche all’influenza decisiva che lo stalinismo e il post-stalinismo ebbero sulla formazione dei partiti rivoluzionari che capeggiavano le lotte dei contadini e dei giovani proletariati di quei paesi.

Un esempio. All’epoca della rivolta dei monaci del Tibet del 1959 contro la Cina, in difesa del vecchio regime e della vecchia struttura economica e sociale aristocratico-feudal-teocratico-lamaista, la nostra posizione di partito era contemporaneamente contro la difesa del regime lamaista e la sopravvivenza della struttura feudale del lamaismo tibetano, contro la politica coloniale di «rispetto» del lamaismo tibetano adottata dal regime cinese falsamente «comunista», ma per la rivoluzione nazional-democratica nel Tibet anche se fosse stata importata dalle truppe di Mao Tse-tung nell’aggressione cinese del Tibet nel 1950: cioè, se tale aggressione avesse provocato la distruzione del regime feudal-lamaista e la costituzione al suo posto di uno Stato nazionale anche se condotto dalla borghesia locale, attraverso il quale si fosse passati alla liquidazione delle forme produttive precapitalistiche. Perché i marxisti dovevano appoggiare un processo rivoluzionario di questo tipo? Perché «la formazione dello Stato nazionale, in ambiente storico precapitalista, rappresenta lo strumento insostituibile, nell’assenza della rivoluzione proletaria, per abbattere rapporti sociali e politici antiquati. Quel che conta, in sostanza, è appunto la messa in moto dei profondi fattori economici che il colonialismo e il paracolonialismo tenevano immobilizzati» (il programma comunista, La rivolta del Tibet e il comunismo rivoluzionario, II,  n. 8, maggio 1959). Di più: «Per tal ragione, come avremmo salutato con soddisfazione una rivolta antifeudale delle classi inferiori tibetane, così avremmo appoggiato, per quel che possiamo, una guerra rivoluzionaria della Cina contro l’aristocrazia feudale del Tibet, una guerra di tipo napoleonico che unisse la conquista militare del territorio allo spodestamento delle vecchie strutture politiche. Nè l’una né l’altra eventualità si è verificata, e il Tibet appare avviato sulla strada delle riforme burocratiche destinate a ritardare, se non addirittura a bloccare, l’evoluzione sociale del paese». La nostra critica e opposizione al regime nazionalcomunista di Pechino (copia conforme del nazionalcomunismo di Mosca) aveva all’epoca, e continua ad averla, una ragione più che valida. Naturalmente, la posizione che esprimevamo e che esprimiamo in perfetta coerenza con il marxismo non può essere condivisa da gruppi politici che, pur definendosi «marxisti», «rivoluzionari», «comunisti», in realtà esprimono una delle posizioni tipiche dell’opportunismo: l’indifferentismo in tema di questione nazionale e coloniale, come in tema di questione sindacale.  

La sistemazione nazionale dal punto di vista politico nella grandissima parte dei paesi del mondo non è più all’ordine del giorno secondo i parametri delle rivoluzioni nazional-democratiche ancora validi nel trentennio del secondo dopoguerra; in molti paesi, soprattutto dell’Africa e del Medio Oriente, ma anche dell’America Latina, l’economia capitalistica, nonostante riguardasse soprattutto l’estrazione mineraria, i porti e le grandi vie di comunicazione, aveva completamente mandato all’aria i rapporti sociali precapitalistici, lasciando però ampio spazio sociale e politico a conflitti etnici e tribali che hanno continuato a causare instabilità, colpi di Stato militari e scontri armati tra milizie organizzate e mobilitate appositamente per favorire gli interessi imperialistici di una potenza piuttosto che della potenza concorrente, ma che spesso sfuggivano e sfuggono al controllo di coloro che le hanno foraggiate e armate, creando e moltiplicando situazioni di conflitti continui. Questa nuova situazione mondiale non presenta un’attenuazione, e meno ancora una soluzione definitiva della «questione nazionale»; pur non essendoci più se non residui di arretratezze economiche e sociali per niente incisivi sui rapporti di forza mondiali, resta il fatto che l’avanzata storica della forma imperialistcia del capitalismo non ha superato e nemmeno attenuato l’oppressione nazionale da parte delle potenze dominatrici del mercato mondiale; semmai l’ha rafforzata ed estesa. In realtà, proprio perché fa parte dell’ideologia borghese, la nazione – dunque la sua rappresentazione formale nello Stato nazionale – è parte integrante del movimento storico che ha portato la classe borghese ad imporsi violentemente sulle vecchie classi aristocratiche e feudali, ed è nello stesso tempo la barriera ideologica entro la quale ogni borghesia nazionale giustifica e difende la sua «missione storica», la sua esistenza come classe dominante, come classe che sfrutta  il proletariato per estorcere il plusvalore dal suo lavoro salariato, e come classe nazionale che combatte contro ogni altra classe nazionale straniera al fine di far prevalere sul mercato mondiale i propri interessi nazionali.

La classe proletaria, creata dalla borghesia in ogni paese, in ogni nazione, per la sua stessa condizione di classe salariata sottoposta a sfruttamento da parte di qualsiasi borghesia, non importa di quale nazionalità, è storicamente la classe oggettivamente meno legata alla nazione in cui è nata poiché la sua specifica condizione di classe salariata non le assegna alcun privilegio particolare se non quello di poter essere sfruttata prima di tutta dalla borghesia del paese in cui è nata, e poi da qualsiasi borghesia e in qualsiasi parte del mondo. La borghesia è legata alla nazione soprattutto per via dei rapporti di proprietà privata; il suo nazionalismo deriva direttamente dalla proprietà privata che le leggi dello Stato nazionale riconosce e difende. La borghesia è proprietaria dei mezzi di produzione, terra compresa, dei mezzi di trasporto e di distribuzione, ed è proprietaria soprattutto dei prodotti finiti che immette nel mercato; il proletariato è proprietario esclusivamente della sua forza lavoro individuale, e se per un tratto della sua vita diventa «proprietario» di un immobile, di un pezzo di terra, di un pozzo, di uno stagno o di un’automobile, sa che questa «proprietà» può svanire in un baleno se perde il lavoro o se non raggiunge una pensione, e tornare nelle mani della banca o dello strozzino che ha prestato il denaro per comprarla o mantenerla, o nelle mani dello Stato. La prima forma di colonizzazione la borghesia l’ha attuata nei confronti del proletariato, nei confronti di una classe che ha sostituito l’antica classe degli schiavi e dei servi della gleba, liberati dalla proprietà personale e dai vincoli personali e di territorio per poterli sottomettere al lavoro salariato, trasformandoli in schiavi salariati perché la loro vita dipenda al cento per cento dal salario, cioè dal denaro con cui ogni proletario viene pagato dal padrone se impiegato in un lavoro.

Il colonialismo storico è stato sostituito, nell’arco di un trentennio dopo la fine della seconda guerra imperialistica mondiale, dal colonialismo capitalista nel senso vero del termine: il franco, la sterlina, il rublo, il dollaro, l’euro, lo yen, il renminbi o yuan cinese ecc., hanno svolto e svolgono la funzione di dominio capitalistico molto più capillare e strangolatore di quanto non facessero le truppe delle metropoli di stanza nelle colonie e nelle semicolonie. «L’occupazione di un territorio “sottosviluppato” da parte di una potenza conquistatrice – si legge nel citato articolo sul Tibet – che lascia intatte le strutture politiche e sociali esistenti e riconosce la legittimità del governo locale, non è che l’essenza del colonialismo». Ma il vecchio colonialismo non ha fatto altro che passare questa politica al nuovo colonialismo, quello appunto capitalistico fatto di investimenti di capitali, di fondi, di prestiti, coi quali, in un mercato mondiale da cui ormai tutti gli Stati del mondo dipendono, le maggiori potenze imperialistiche controllano e difendono i propri interessi in ogni angolo del mondo. E’ così che anche paesi capitalistici avanzati, come ad esempio quelli europei, per lungo tempo, dopo la fine della seconda guerra imperialistica, colonizzati dal dollaro americano, sono costretti a fare i conti con altre potenze imperialistiche, soprattutto con gli Stati Uniti d’America, in ragione proprio della forza che il dollaro ha conquistato nel tempo e dalla quale ogni altra superpotenza, sia l’attuale Cina, o la Russia o, un domani, la nuova Germania, non può prescindere.

 

Per tornare alla frase contenuta nelle Tesi, di cui parliamo, va detto che sarebbe stato molto utile se quel riferimento all’area afro-asiatica fosse stato precisato meglio. Ma, come succede spesso, soprattutto quando ci si cimenta con le frasi di tesi che devono necessariamente essere affermative, brevi e tendenzialmente generali, si può prestare il fianco ad interpretazione non volute e sbagliate; naturalmente, da marxisti, non si deve mai fermarsi alla lettera formale, ma va compreso lo spirito e il senso più profondo e storico delle affermazioni contenute nelle tesi. In quanti modi può essere interopretata la famosa frase di Marx: l’emancipazione del proletariato è opera del proletariato stesso? Togliete a questa affermazione tutto ciò che riguarda la lotta di classe e rivoluzionaria, la conquista violenta del potere politico, l’instaurazione della dittatura proletaria dopo aver abbattuto, spezzato lo Stato borghese, la guida del partito comunista rivoluzioanrio dell’intero processo rivoluzionario, e vi sarà servito su un piatto d’argento il riformismo, il nazionalismo, l’anarchismo, la socialdemocrazia, il pacifismo, il socialsciovinismo, in poche parole: l’asservimento ideologico e politico alla classe dominante borghese.

 

 

Partito Comunista Internazionale

Il comunista - le prolétaire - el proletario - proletarian - programme communiste - el programa comunista - Communist Program

www.pcint.org

 

Top - Ritorne indice