Viva lo sciopero ad oltranza dei portuali triestini

(«il proletario»; N° 1; Supplemento a «il comunista» N. 108 - Aprile 2008)

 

Tra i morti di Molfetta alcune forze politiche borghesi – soprattutto piccolo-borghesi – hanno sottolineato che c’era anche il padrone dell’impresa, quasi a smentire la tesi che siano solo gli operai a morire sul posto di lavoro: il rischio ricadrebbe quindi su tutti, perciò dovrebbe essere accettato come tale indistintamente da operai e padroni.

Certo, anche un padrone può morire a causa del modo di produzione capitalistico che gli consente di essere padrone e di poter sfruttare il lavoro salariato dei propri operai - tanti o pochi che siano - a proprio vantaggio, soprattutto nelle piccole imprese, dove il piccolo imprenditore svolge la sua attività fianco a fianco gli gli operai che sfrutta. Nelle imprese di dimensioni più grandi di solito il padrone è molto lontano dalla produzione, perciò, fisicamente, non corre i rischi che corrono i suoi operai. Vanno però distinti i ruoli e gli interessi che regolano il rapporto di lavoro tra gli operai e il padrone: il padrone che lavora nella propria impresa– e «rischia» anche direttamente –  è padrone di tutto il prodotto e quindi di tutto il pluslavoro ricavato dai suoi dipendenti; gli operai sono «padroni» soltanto del loro misero salario e ci lasciano la pelle solo in cambio di quello.

Comunque sia, si muore e si continua a morire sempre a causa delle condizioni di lavoro in cui il modo di produzione capitalistico costringe la forza lavoro salariata. Un modo di produzione mosso in continuazione dalla concorrenza tra capitalisti che hanno tutto l’interesse a risparmiare sempre di più sui propri costi di produzione – salari, tempi di produzione, sistemi di prevenzione degli infortuni – per poter vendere nel mercato a un prezzo più concorrenziale senza perdere quote del proprio profitto a discapito del concorrente. E’ per questo che si aumentano i ritmi di lavoro in modo crescente, che si accelera in modo crescente  l’esecuzione di tutta una serie di operazioni anche pericolose. E’ per questo che non si adoperano più precauzioni anche elementari perché costano in denaro e in tempo d’esecuzione considerato troppo lungo.

 Alla fine, non può esserci come conseguenza logica che l’aumento del rischio di infortunarsi, di ammalarsi, di morire. In mezzo a questi rischi ci si può trovare anche il padrone? Ci può lasciare la pelle pure lui? Non ci sono lacrime da versare, c’è invece una lotta da fare perchè i padroni applichino sistematicamente tutta quella serie di precauzioni necessarie a salvaguardare la vita dei propri operai; salveranno in questo modo anche la propria.

La spasmodica ricerca di profitto acceca i padroni; gli operai non possono caricarsi di questo problema perché questo è un problema squisitamente capitalistico. Gli operai possono, e devono, difendersi dalle conseguenze della spasmodica ricerca di profitto da parte dei padroni: e le conseguenze sono i bassi salari, il continuo peggioramento delle condizioni di lavoro, l’aumento insostenibile dei ritmi e dell’intensità di lavoro, la sempre più ampia assenza delle misure di sicurezza sul lavoro.

Solo gli operai, i lavoratori salariati, proprio coloro che non hanno nulla da perdere in questa società se non le proprie catene che li obbligano a sottostare al regime di sfruttamento capitalistico, solo i proletari, i senza-riserve, sono in grado di dare alla vita di ogni essere umano il massimo valore concepibile. Per i padroni, per ogni capitalista e per ogni leccapiedi dei capitalisti, la vita degli operai - dunque, della maggioranza degli esseri umani che abitano la terra - ha un prezzo, e il prezzo è un salario, un salario sempre più scarso e misero, un salario da fame! La vita degli operai, per questi signori, non vale una maschera o una tuta protettiva, un paio di stivali antinfortunistici o un estintore funzionante, una imbragatura o una rete anticaduta: insomma, nom vale praticamente niente! Morto un operaio, lo si sotituisce con un altro!!!

La differenza sostanziale tra operai e padroni non è solo data da uno che sfrutta e dall’altro che è sfruttato; sta nella prospettiva storica nella quale è incanalata la classe operaia, oggi ancora tremendamente incosciente, nella prospettiva di una lotta titanica per abbattere il modo di produzione capitalistico e quindi il suo modo specifico di produrre contro le esigenze e le reali necessità degli esseri umani. E’ una lotta che può essere fatta sino in fondo solo da chi non ha nulla da perdere in questa società (come Marx ci ricorda sempre) cioè i proletari perennemente schiacciati da questo sistema. I padroni, anche se talvolta rischiano e subiscono individualmente le contraddizioni del loro stesso sistema, non hanno altro interesse che difendere questo sistema sociale dal quale essi ricavano la loro sopravvivenza come classe dominante e  tutti i privilegi di cui godono alle spalle della stragrande maggioranza della popolazione che è proletaria, occupata e disoccupati, comunque senza riserve.

Lottare contro i padroni per non essere calpestati e assassinati sul lavoro è una strada obbligata. Sabato 29 marzo, Alessandro Paoluzzi 30 anni, dipendente della compagnia portuale di Trieste subisce un infortunio grave nel piazzale ferroviario, riportando la parziale amputazione di una gamba e la triturazione di un braccio. I compagni di lavoro hanno immediatamente bloccato il lavoro con la solidarietà dei ferrovieri che, in virtù delle privatizzazioni, operano nella stessa area, ma sotto diversi gestori (il manifesto, 30.3.08). In una breve assemblea convocata subito dopo dai sindacati tricolore, sembra che i lavoratori non abbiano aspettato che finissero di parlare i bonzi, cioè che spiegassero l’iter degli accordi che stanno approntando per «migliorare la sicurezza» nei porti…, hanno preso e sono andati davanti alla Prefettura chiedendo – sempre dal manifesto del 30.3 – «non abbiamo niente da dire, solo una carta da firmare. Anche subito».

Sono riusciti ad ottenere solo un anticipo di un incontro il lunedì successivo, però determinati a tenere in piedi lo sciopero fino alla firma di un «Protocollo» (un’intesa già siglata a Genova, Napoli, Ravenna e Venezia) che dovrebbe prevedere dei referenti alla sicurezza sempre presenti nel porto.

Lo sciopero si è concluso dopo 96 ore di blocco delle attività, con le solite rassicurazioni dei sindacati tricolore e dell’Autorità Portuale e la firma dell’ennesima carta (naturalmente sarà tutto da verificare sul campo cosa cambierà effettivamente); resta il fatto che la determinazione, la rabbia dei lavoratori, la loro lotta ha comunque determinato almeno un prezzo in profitti mancati ai padroni, quindi fatto pagare un prezzo per l’infortunio subito dal loro compagno di lavoro, e che quella è l’unica azione che ha messo  realmente al centro dell’attenzione le loro reali esigenze di più sicurezza sul posto di lavoro (è sintomatico il commento riportato dal giornale di un giovane portuale «mi immagino di risvegliarmi al mattino con una gamba di meno e cinquant’anni di vita davanti. E penso che allora è meglio morire. Ma non voglio morire per il lavoro»).

È infatti dai più giovani che è partita la spinta alla lotta; sembra che abbiano inveito contro i sindacalisti (questo traspare dall’articolo del manifesto di mercoledì 2 aprile) e la loro immobilità; hanno accettato la revoca dello sciopero ma con la possibilità di riprenderlo in qualsiasi momento, d’altronde tra tutti i lavoratori sono quelli che hanno le condizioni peggiori dal punto di vista salariale e di «garanzie» del posto di lavoro.

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

www.pcint.org

 

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