Dal Sud, in 10 anni, sono emigrati al Nord in 600.000 e oltre

(«il proletario»; N° 2; Supplemento a «il comunista» N. 109 - Luglio 2008)

 

Secondo i dati della Svimez, l’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno, tra il 1997 e il 2007 più di 600.000 abitanti delle regioni meridionali sono emigrarti al Nord alla ricerca di un salario meno di fame che al Sud. Sembra, sempre secondo le statistiche ufficiali, che i salarti al Nord siano mediamente più alti di 13.000 euro all’anno di quelli del Sud. Si tratta di medie statistiche, ovviamente, il che significa che la distanza può essere anche molto più grande.

Il fenomeno della migrazione dal Sud al Nord ha dunque ricominciato ad imporsi nell’ultimo decennio, rivelando non solo l’«ineguale» sviluppo capitalistico tra le regioni più industrializzate e quelle meno industrializzate dello stesso paese, ma soprattutto la drammatica disuguaglianza di trattamento salariale tra le due parti dello stesso paese.

La disuguaglianza salariale tra proletari è una caratteristica di fondo del capitalismo, in ogni paese del mondo: tra le diverse categorie e settori lavorativi, tra pubblico e privato, tra uomini e donne, tra giovani e anziani, tra proletari di diversa provenienza nazionale, o regionale, o di diversa razza, ecc. Infatti, la concorrenza fra proletari è nello stesso tempo un fattore di rafforzamento del dominio borghese sul lavoro salariato e un reale indebolimento della forza «contrattuale» dei lavoratori salariati. Più i padroni riescono a mettere i proletari in concorrenza fra di loro, e quindi uno contro l’altro, più i salari tendono a diminuire per tutti! E’ un fatto ormai assodato ed è talmente ovvio per i capitalisti che ogni loro attività considera nel  preventivo di spesa il risparmio che riescono ad ottenere dalla più o meno acuta concorrenza che si fanno i proletari tra di loro.

La Svimez, inoltre, mette in evidenza  che la «crescita dei consumi» nelle regioni meridionali è stato solo del +0,8% contro un +1,5% del Centro-Nord. Certo che se non c’è salario, non c’è consumo, quindi le aziende vendono meno merci, e quindi fanno meno profitti. Il gatto si morde la coda... Altro dato negativo: l’occupazione «non aumenta rispetto al 2006», il che significa che aumenta la disoccupazione!

 Quale la prospettiva, secondo gli esperti della Svimez? Per rimediare alla situazione di crisi dei consumi, la ricettina di questi illustri strateghi è: forte investimento nelle infrastrutture (col solito ricorso agli investimenti dello Stato Pantalone sui quali i capitalisti hanno sempre guadagnato fior fior di profitti), e poi «fermare il travaso di capitale umano» (leggi: combattere la migrazione da Sud a Nord) «sviluppando il sistema finanziario» (che vuol dire?, agevolare il «credito al consumo» - dunque indebitando ancor più le famiglie proletarie già sommamente indebitate - e il credito per le piccole imprese e le imprese individuali?, aumentando così i tassi di interesse da strozzini che le banche applicano legalmente?).

«C’è bisogno di un rilancio forte da parte del governo per quanto riguarda le politiche per il Mezzogiorno», afferma uno stesso ministro del governo, il ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto (cfr. la Repubblica, 19.7.08). Il teatrino non finisce mai: il governo dice a se stesso che deve rilanciare le politiche per il Mezzogiorno - il che significa che non lo sta facendo e che non aveva intenzione di farlo almeno fino alle dichiarazioni di un suo Ministro. ma come rilanciare l’economia nelle regioni del Sud? «Con il federalismo fiscale», ecco la panacea di tutti i mali del capitalismo!

Le crisi cui va incontro ciclicamente il capitalismo sono di sovrapproduzione, sia di merci che di capitali. Non sono i valori di scambio che mancano sul mercato: è il mercato che non riesce più a smaltire la quantità di merci esistente al prezzo che salvaguarda il profitto capitalistico. Quindi le merci rimangono invendute, i consumi calano, le aziende vanno in crisi e ridimensionano la loro forza lavoro avviata in mobilità, casasaintegrazione o semplicemente licenziata. Calano i consumi, dunque calano i profitti per i capitalisti e aumenta la disoccupazione. I capitalisti, grazie alle loro riserve, resistono alla crisi molto meglio e per lungo tempo, mentre i proletari per «resistere alla crisi capitalistica» sono costretti a stringere la cinghia, saltare i pasti, vendere le poche cose «di valore» che hanno fortunosamente conservato, ma soprattutto vendere se stessi - la propria forza lavoro - non tanto al «prezzo di mercato», ma al prezzo deciso da ogni singolo capitalista, da ogni singolo intermediario, caporale o capoccia che sia; e per una quantità di ore giornaliere che non hanno alcuna regola se non quella decisa di volta in volta da chi «dà lavoro».

Il mercato del lavoro è, per l’appunto, un mercato ed è sottoposto alla stramaledetta legge della domanda e dell’offerta. Solo che in tempi di crisi, e soprattutto in assenza di vere e decise lotte proletarie in sostegno del salario che serve per vivere, chi domanda lavoro non lo ottiene se non ad un salario enormemente inferiore a quello che serve per vivere. La concorrenza spietata che si fanno i capitalisti si trasferisce nelle file del proletariato con altrettanta spietatezza, schiacciando i proletari in una crisi ancor peggiore. Si diffonde la mancanza di fiducia nella capacità di reagire ai continui peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro; ci si abbandona ad una specie di fatalismo e all’individualismo più primitivo: ognuno per sé. E non c’è dubbio che l’opera disfattista e criminale del sindacalismo tricolore, col suo pluridecennale collaborazionsimo, abbia scardinato nel proletariato le tradizioni di lotta che l’hanno portato a conquistare diversi miglioramenti in termini di salario, difesa della salute, orario di lavoro, ecc. Miglioramenti che via via la borghesia si è rimangiati e si sta rimangiando uno dopo l’altro, senza che il sindacalismo ufficiale faccia un qualche  argine.

La tradizione di lotta classista del proletariato viaggiava anche con i migranti, da Sud a Nord, dello stesso paese o del mondo. Bisogna tornare a quelle tradizioni perché la migrazione non sia solo un tentativo di sfuggire alla miseria ma anche lotta per una vita che valga la pena di vivere.

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

www.pcint.org

 

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