Fiat di Pomigliano passa il micidiale ricatto: o si accettano condizioni di lavoro e di esistenza più bestiali di prima o si precipita nella miseria e nella fame!

Preparare le condizioni per la riorganizzazione classista e per riprendere la lotta riconoscendo che non vi sono interessi conciliabili tra capitalisti e proletari!

(«il proletario»; N° 8; Supplemento a «il comunista» N. 116 - Giugno 2010)

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Il pesantissimo ricatto della Fiat non poteva non passare. Troppo alto il prezzo imposto agli operai perché non subissero il dictat dell’azienda: o questo tozzo di pane alle mie condizioni o la miseria più nera! Il mantenimento del posto di lavoro – in realtà senza garanzie effettive per tutti e senza garanzie di durata nel tempo (lo testimoniano gli stessi operai polacchi della fabbrica Fiat di Tychy) – è offerto dalla Fiat a costi altissimi per i lavoratori che si condensano in una parola: dispotismo di fabbrica!

La Fiat intende azzerare anni e anni di lotte operaie: si torna a sancire progressivamente il rapporto individuale tra azienda e lavoratore singolo, per il quale l’organizzazione sindacale deve funzionare  come Ufficio Personale dell’azienda. Ciò che persegue l’azienda non è una novità: spremere da ogni singolo operaio un tasso di produttività sempre più alto, rincorrendo, attraverso questo supersfruttamento della forza lavoro, la sempre più spietata concorrenza sul mercato.

Come spesso è accaduto nella storia italiana, quel che succede in Fiat è emblematico perché i risultati dello scontro con i propri operai si riversano poi sui rapporti industriali in tutti i settori del capitalismo nazionale. Di più, oggi, attraverso l’inevitabile dipendenza dal mercato mondiale di tutte le aziende capitalistiche nazionali, e in particolare delle multinazionali come la Fiat, il ricatto sulle condizioni di lavoro è ancora più pesante poiché poggia su condizioni di lavoro peggiori già imposte in altre fabbriche del gruppo (come nella fabbrica polacca di Tychy).

I lavoratori della Fiat di Pomigliano sono da molto tempo sottoposti, come la grande maggioranza dei proletari in tutte le aziende, a condizioni di lavoro molto peggiorate rispetto agli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso, anni in cui le lotte operaie, nonostante fossero guidate dagli stessi sindacati collaborazionisti di oggi, avevano ancora la forza di ottenere con la propria pressione dei risultati positivi. Ma decenni di politiche e pratiche collaborazioniste con il padronato e con i governi via via, da quest’ultimo, espressi, hanno logorato profondamente la forza di resistenza dei lavoratori ai continui attacchi dei capitalisti, facendoli precipitare in condizioni di estrema debolezza, facilitando, in questo modo, l’assalto del padronato alle conquiste economiche e sindacali dei lavoratori. Dalla scala mobile alle pensioni, dalle misure di sicurezza alle pause, alla mensa, alla malattia, alla mobilità e ad un diffuso precariato fino all’aumento della disoccupazione, è stato un crescendo ininterrotto dell’erosione delle conquiste operaie dei decenni passati. Gli ammortizzatori sociali, da “paracadute” sono diventati, oggi molto più di ieri, una certezza di condanna alla miseria, alla disoccupazione, alla fame!

Questo è certamente il risultato del potere reale che i capitalisti possiedono in forza del loro dominio economico e sociale, potere che esercitano a 360° in fabbrica e nella vita sociale quotidiana sotto la difesa dello Stato centrale. Ma questo risultato lo si deve anche all’attività sistematica delle forze di conservazione sociale – sindacati e partiti che si fanno passare per difensori dei diritti e degli interessi dei lavoratori – che operano da sempre in sostegno delle esigenze dell’economia aziendale e nazionale, che hanno entrambe un obiettivo fondamentale: essere competitive nel mercato, nazionale e mondiale, e per raggiungere una competitività sempre più alta i padroni devono sfruttare sempre più intensamente la forza lavoro operaia. E lo fanno in due direzioni: alzando la produttività di ogni singolo operaio e abbassando il costo generale della massa di capitale-salari erogata. Aumenta così lo sfruttamento di ogni singolo operaio e, nello stesso tempo, la precarietà e la disoccupazione di un numero sempre crescente di lavoratori.

Per contrastare questa politica padronale, la classe operaia, nella sua lunga storia di lotte in difesa delle proprie condizioni di esistenza, è arrivata ad una importantissima conclusione: deve organizzarsi in modo del tutto indipendente dalle politiche e dagli apparati di conservazione sociale, dunque da tutti quegli obiettivi e quegli atteggiamenti pratici che funzionano a vantaggio del padronato. I sindacati di classe degli anni Venti del secolo scorso avevano questa caratteristica di fondo ed è per questo che sono stati, dapprima, sottoposti ad una sistematica azione di influenzamento opportunistico per piegare i loro vertici alle politiche industriali, e poi, col fascismo, sono stati distrutti e sostituiti coi sindacati corporativi fascisti, i quali apertamente funzionavano come collaboratori diretti dei padroni facendo dipendere le rivendicazioni specifiche operaie e la loro eventuale soddisfazione dai migliori risultati economici che ogni azienda otteneva sul mercato.

Ed è esattamente lo stesso obiettivo che perseguono i sindacati tricolore che dalla fine della seconda guerra mondiale in poi hanno riorganizzato la classe operaia dapprima per la ricostruzione economica postbellica e poi per lo sviluppo economico del capitalismo nazionale teso a conquistare fette di mercato nel mondo.

La classe operaia si è così sottoposta a sacrifici di ogni genere, ha lottato per migliorare le proprie condizioni di lavoro e di vita, è stata strappata dai paesi di nascita per essere ammassata nei casermoni popolari delle città industriali a disposizione di un capitale sempre più vorace di profitti e di forza lavoro da sfruttare, è stata repressa e massacrata dalla polizia nelle sue lotte di strada e sempre le è stata fatta baluginare davanti la promessa di un benessere futuro se accettava i più duri sacrifici oggi! Oggi la Fiat non ha nemmeno più bisogno di promettere un illusorio benessere futuro; dice agli operai: o lavorate alle condizioni che vi detto oggi, rinunciando ad ogni dignità di lavoratore e al diritto di protestare, oppure non avrete lavoro né oggi né domani!

I sindacati collaborazionisti non potevano che dire le cose che hanno detto e, soprattutto, fare le cose che hanno fatto: hanno concordato con la Fiat, in separata sede, e molto prima che venisse presentato il famoso “piano per Pomigliano”, una strategia per far ingoiare agli operai di Pomigliano un accordo-capestro che servirà alla Fiat,  e a tutte le altre aziende che la seguiranno, per ristrutturare completamente le relazioni industriali in tutti i suoi stabilimenti italiani.

I sindacati tricolore, si chiamino Cgil, Cisl o Uil, sono collaborazionisti perché la loro pratica dipende dalle decisioni delle aziende e perché la loro politica risponde prima di tutto alle esigenze delle aziende che, soprattutto in tempi di crisi economica come questo che stiamo attraversando, richiedono un giro di vite sempre più stretto alle condizioni salariali e di lavoro degli operai.

Gli operai di Pomigliano, però, non si sono piegati supinamente alle volontà della Fiat. Hanno lottato per mantenere il posto di lavoro, e quindi per un salario da lavoro, e l’hanno fatto in cento modi diversi con l’aiuto e senza l’aiuto della struttura sindacale, con gli scioperi, le proteste di piazza, con la solidarietà agli operai delle altre fabbriche Fiat di Termini Imerese e di Melfi, contraccambiata poi dai lavoratori di quelle fabbriche, e pure con il tanto incriminato assenteismo che per molti operai è stato un modo per sottrarsi temporaneamente al logorio fisico e nervoso dovuto alla fatica continua e accumulata nel tempo che il lavoro di fabbrica impone. E’ per la loro continua pressione che la Fiom non se l’è sentita di seguire le altre sigle sindacali – come ha fatto in cento altre occasioni – nel cedere alle richieste della Fiat; se l’avesse fatto avrebbe perso gran parte del suo seguito in fabbrica e non solo a Pomigliano. Il risultato del referendum voluto dalla Fiat, sostenuto dal governo (a dimostrazione che il governo borghese sta sempre dalla parte dei padroni) e accettato supinamente dai sindacati, col suo 36% di no al piano Fiat, è la dimostrazione che a Pomigliano gli operai non sono poi così disposti ad abbassare la testa anche di fronte ad un ricatto micidiale che mette a rischio la loro unica possibilità di lavoro.

Ciò che è mancata ai proletari di Pomigliano, e che manca purtroppo da decenni a tutti i proletari di tutte le aziende in Italia e negli altri paesi,  non è la combattività, la voglia di lottare e il coraggio di sfidare i ricatti padronali, ma l’organizzazione classista che coordini, sostenga, stimoli, guidi la lotta e lo scontro con i capitalisti e le forze che li sostengono e li difendono. I sindacati tricolore operano da più di sessant’anni per impedire che le generazioni di proletari che si susseguono indirizzino la loro spinta di lotta a difesa delle condizioni di lavoro e di esistenza sul terreno dell’aperto antagonismo di classe coi capitalisti. L’atteggiamento e la politica della Fiat sono la dimostrazione lampante che i capitalisti hanno interessi completamente opposti a quelli degli operai, nell’immediato e nel futuro, e che a difesa di quegli interessi sono disposti ad usare tutti i mezzi legali che la democrazia borghese offre e ad usare, se lo scontro di classe accenna ad ampliarsi e ad acutizzarsi, anche i mezzi cosiddetti anticostituzionali. I capitalisti fanno le leggi ma non si fanno intimidire o fermare dalle loro stesse leggi; pretendono però che i proletari si sottomettano ai loro interessi di profitto anche al di là delle leggi quando queste, almeno formalmente, sanciscono diritti anche per i proletari. E i sindacati collaborazionisti, che giustificano la loro politica borghese riparandosi dietro leggi che nemmeno i borghesi rispettano, dimostrano una volta di più di ingannare i proletari sul terreno della difesa anche elementare delle loro condizioni di lavoro e di vita!

Riorganizzarsi sul terreno di classe, quindi riconoscendo apertamente l’antagonismo di interessi fra capitalisti e operai, è il primo passo che i proletari devono fare se vogliono finalmente poter contare su organizzazioni di difesa immediata: la loro indipendenza dagli obiettivi e dalle esigenze che hanno le aziende è l’unico modo per poter riunire e convogliare la forza del movimento operaio verso la soddisfazione dei propri obiettivi di classe, verso le proprie esigenze di classe.

La vicenda Pomigliano deve istruire i proletari per la rinascita delle organizzazioni economiche classiste. E’ una sconfitta, perché gli operai sono costretti ad accettare il ricatto padronale nelle condizioni di estrema debolezza, senza poter contare su organizzazioni in grado di riprendere la lotta domani quando le forze operaie si sono riprese dopo lo scontro andato male. E’ una sconfitta proficua per la lotta di domani se si tirano tutte le lezioni e se queste lezioni servono per riconquistare il terreno di classe dello scontro col padrone.

La forza lavoro operaia, finché rimane prigioniera delle politiche e delle pratiche del collaborazionismo, della “condivisione” dei piani industriali dei capitalisti, della rinuncia a difendere esclusivamente i propri interessi immediati, sarà sempre alla mercé degli interessi borghesi, degli alti e bassi del mercato, degli investimenti o meno che i capitalisti hanno interesse a fare o a non fare: la vita degli operai sarà sempre attaccata ad un filo legato al profitto capitalistico che si può spezzare facendo precipitare gli operai nella miseria e nella disperazione della fame, oppure si può stringere sempre di più incatenandoli alle sorti del mercato come gli schiavi delle galee che finivano per morire annegati quando le navi colavano a picco.

La forza lavoro operaia rappresenta però l’unica vera forza motrice del profitto capitalistico: se non viene sfruttata non produce merci che vendute producono capitale. Il capitale ha bisogno del lavoro salariato per vivere come capitale; il lavoro salariato ha bisogno del capitale per vivere come lavoro salariato, ma per vivere semplicemente come lavoro, come attività umana non mercificata, non ha bisogno del capitale. La contraddizione tra capitale e lavoro non si risolve attraverso la “condivisione” degli interessi, perché in questa società dominata dal capitale e dalle sue leggi la disparità tra capitale e lavoro è incolmabile. Per rovesciare i rapporti di forza a favore della forza lavoro, a favore del proletariato c’è solo la via della lotta di classe che può essere organizzata e condotta soltanto da organizzazioni votate alla difesa esclusiva degli interessi di classe del proletariato.

A Pomigliano come a Mirafiori o a Cassino, a Termini Imerese come a Melfi, a Tichy in Polonia o a Kragujevac in Serbia, i proletari si trovano di fronte sostanzialmente lo stesso problema: contrastare la politica della competitività capitalistica e tutti i suoi derivati, per difendere le condizioni di esistenza proletarie, in fabbrica e nella vita sociale quotidiana. Ma questa lotta non avrebbe possibilità di successo se non mettesse al centro dei suoi obiettivi la lotta contro la concorrenza tra proletari. La forza della classe operaia sta solo nel suo movimento di lotta, quindi nelle sue organizzazioni classiste. Se le organizzazioni che la inquadrano, la dirigono, la influenzano sono votate alla collaborazione coi padroni e il loro Stato, come è il caos della quasi totalità delle organizzazioni sindacali operaie e delle organizzazioni politiche di cosiddetta “sinistra”, se queste organizzazioni fanno dipendere il contrasto tra forza lavoro operaia e capitale dalla conciliazione di classe, dalla pace sociale, dal buon andamento economico delle aziende, dal rispetto delle leggi dello Stato, in una parola dalla collaborazione interclassista, la classe operaia perde del tutto la sua forza e quindi la possibilità di imporre ai capitalisti, e al loro Stato, soluzioni che vadano effettivamente incontro alla soddisfazione dei bisogni immediati degli operai.

Devono tornare al centro della lotta operaia non solo la salvaguardia del posto di lavoro, la lotta contro i licenziamenti, contro la precarietà e l’abbattimento dei salari, contro l’intensificazione della fatica da lavoro e la mancanza di sicurezza sul lavoro, ma anche la lotta contro la concorrenza fra proletari in modo da contrastare la tendenza, che praticano i capitalisti, ad equiparare salari e condizioni di lavoro di tutti i proletari alle situazioni più arretrate, come appunto sta passando a Pomigliano, presenti nella fabbrica polacca di Tychy, in vista di passare anche a Mirafiori!

In assenza di questa lotta, il ricatto che sta passando a Pomigliano  verrà poi esteso a tutte le altre fabbriche italiane, questo è sicuro. Starà agli operai delle altre fabbriche insorgere contro questo tentativo, ma già oggi possiamo prevedere che i sindacati che ora, col pretesto di mantenere lo stabilimento in funzione e del forte investimento Fiat per convertire lo stabilimento alla produzione di un’auto diversa come la Panda, fanno ingurgitare questo boccone acido agli operai di Pomigliano, con pretesti simili si daranno da fare per ottenere lo stesso risultato anche nelle altre fabbriche. D’altra parte era già successo a Pomigliano anni fa all’epoca della prima riconversione, e a Melfi, e succederà a Termini Imerese se resterà uno stabilimento Fiat; la storia si ripete, non c’è da sperare che organizzazioni da decenni votate a fottere gli operai facendosi passare per i loro più affidabili rappresentanti cambino da domani. Il loro motto è sempre lo stesso: oggi gli operai sono costretti a sacrifici più grandi e non c’è nulla da fare se si vuole mantenere il posto di lavoro, per domani ci penseremo, avremo tempo di radunare nuovamente le forze e rimediare ai danni di oggi! Rimane il fatto che è sempre andata peggio, che non si è mai rimediato a nessun danno, non si è mai recuperato quel che si perdeva. Ciò avviene non per cattiva volontà di bonzi sindacali o degli amministratori delle aziende: avviene per la ferrea logica capitalistica che antepone a qualsiasi esigenza di vita e di lavoro degli uomini l’esigenza del profitto, a qualunque costo!

Per combattere contro i capitalisti, la storia delle lotte di classe ha insegnato che i proletari devono accettare lo scontro sul terreno di classe, dell’antagonismo di classe, altrimenti sono sistematicamente fottuti. E dato che le crisi capitalistiche, come quella che stiamo passando in questi anni, sono destinate a ripresentarsi ciclicamente e a distanza di pochi anni, oltretutto in forme sempre più critiche e acute, ci si troverà sempre più immersi in una gigantesca sovrapproduzione mondiale che non riuscirà più ad essere gestita da nessuna economia, da nessun paese, e che dovrà subire inevitabilmente un’altrettanto gigantesca distruzione di massa per poter liberare il mercato a nuova e iperfolle produzione capitalistica. La Fiat, da parte sua, contribuirà a questa sovrapproduzione, almeno nei suoi nuovi progetti collegati alla nuova società Fiat-Chrysler, con 6 milioni di auto che, alla pari delle auto prodotte dagli altri colossi mondiali, andranno per l’ennesima volta ad intasare un mercato che non riuscirà più a smaltirle ed entrerà in crisi nuovamente. Allora si ripresenterà agli operai con ulteriori piani di riconversione e di ristrutturazione che prevederanno un ulteriore aumento della produttività del singolo operaio, un abbattimento del salario, un aumento della disoccupazione e via così. Il quadro che abbiamo di fronte oggi si ripresenterà peggiorato cento volte. La soluzione borghese a questa spirale inesorabile è già data storicamente: la gigantesca distruzione di massa di merci e capitali sovraprodotti può essere garantita soltanto con la guerra mondiale con la quale il capitalismo eliminerà anche una parte consistente di sovrapproduzione di forza lavoro: centinaia di milioni di proletari morti nella guerra mondiale accompagneranno le enormi e devastanti distruzioni di beni e di mezzi di produzione facendo la felicità solo ed esclusivamente del capitalismo che potrà in questo modo ricominciare un successivo periodo di accumulazione e di iperfolle produzione di merci, in una spirale senza fine. La distruzione di guerra è la cura di ringiovanimento del capitalismo, ma il costo per il proletario è sempre più alto sia in termini di sfruttamento, di miseria e di sacrifici sempre più pesanti in tempo di “pace” sia in termini di morti in tempo di “guerra”: il capitalismo ci guadagna sempre, nell’un caso e nell’altro!

Sono tali e tanti gli esempi, sotto i nostri occhi attualmente, di che cosa vuol dire sottostare alle esigenze del capitalismo - crisi, miseria, fame, disoccupazione, guerre - che sarebbe davvero stupido credere che gli operai non si accorgano di essere al centro dell’attacco dei capitalisti per il solo fatto che è dal loro sfruttamento sempre più pesante che essi estorcono quel pluslavoro (tempo di lavoro non pagato!) che si traduce in plusvalore e quindi in profitto. Ciò che manca ai proletari è la fiducia nelle proprie forze, la fiducia nei mezzi di lotta a loro disposizione. Questa fiducia è stata minata da decenni di illusioni opportuniste nei mezzi democratici della conciliazione di classe e della condizione degli interessi, attraverso i quali i capitalisti sono riusciti ad ottenere, per un tempo molto ma molto più lungo che non in regime fascista, gli stessi risultati di piena sudditanza alle esigenze del capitale. La fiducia nelle proprie forze il proletariato riuscirà nuovamente ad averla quando oserà rompere in modo non saltuario e occasionale, ma sistematico e duraturo, con la collaborazione di classe, con la conciliazione di interessi che gli stessi capitalisti dimostrano essere del tutto opposti e inconciliabili, quando oserà rompere la pace sociale accettando di scontrarsi con le forze a difesa dell’ordine capitalista costituito e con le forme di democratismo e di legalitarismo che i capitalisti stessi sono i primi a calpestare. Allora, sulla spinta di contraddizioni sociali più profonde e di contraddizioni di classe più evidenti, i proletari riconquisteranno il terreno della lotta di classe che farà da base per la loro riorganizzazione di classe a livello economico e sociale.

Ma fino ad allora che possono fare i proletari? Che possono fare gli operai della Fiat a Pomigliano e nelle altre fabbriche?

Essi devono reindirizzare la propria combattività e la propria disponibilità di lotta alla formulazione di piattaforme di lotta che non siano imprigionate nella sola difesa del posto di lavoro, perché la crisi capitalistica ha dimostrato, con ancor più evidenza, che i capitalisti non sono in grado di mantenere intatti gli organici precedenti la crisi. Perciò la difesa del posto di lavoro è uno degli obiettivi per cui lottare ma non è l’unico. Le lotte del passato indicano che le rivendicazioni a difesa esclusiva degli interessi operai riguardano l’orario di lavoro, il salario, il tasso di sfruttamento giornaliero, intorno alle quali girano tutte le altre rivendicazioni sui ritmi, le mansioni, la nocività, le pause, la mensa, le misure di sicurezza ecc. Le lotte del passato indicano che il perno principale intorno al quale la lotta operaia può avere successo va individuato nella lotta contro la concorrenza fra proletari, quindi nella solidarietà di classe fra proletari; concorrenza che i capitalisti declinano in mille forme diverse – anziani contro giovani, e giovani contro anziani, uomini contro donne, specializzati contro meno specializzati, immigrati contro autoctoni, sindacalizzati contro i senza sindacato, combattivi contro mansueti, disoccupati contro occupati ecc. – e che perciò non può essere contrastata efficacemente se non attraverso l’unione di classe degli operai superando ogni barriera che i capitalisti alzano tra gli uni e gli altri proprio per frammentare e isolare un proletario dagli altri, soprattutto tra disoccupati e occupati. La condivisione da parte dei proletari delle esigenze di competitività capitalistiche con le quali i capitalisti combattono la concorrenza fra di loro, in realtà alimenta e rafforza la divisione e la concorrenza fra proletari. Abbracciare perciò gli interessi dei capitalisti, del buon andamento dell’azienda e della competitività sul mercato significa autoschiavizzarsi mettendo la propria vita completamente nelle mani dei capitalisti che per la vita degli operai hanno solo disprezzo!

Perché le lezioni tratte dalla sconfitta operaia alla Fiat di Pomigliano vadano nella direzione della ripresa della lotta di classe devono essere fatte proprie dai proletari d’avanguardia che non si rassegnano alla rinuncia della propria dignità di lavoratori salariati produttori di ricchezza, che non si rassegnano alla rinuncia della propria spinta a non piegare la testa all’arroganza di padroni che si fanno forti oggi del ricatto di vita o di morte per migliaia di proletari, ma che domani, di fronte al montare della lotta proletaria finalmente di classe, scapperanno impauriti a proteggersi sotto le ali dei reparti di polizia e carabinieri chiamati a difendere le loro maledette proprietà, dimostrando così per l’ennesima volta che lo Stato borghese non difende la vita dei proletari ma la vita dei capitalisti.

 

          

Partito comunista internazionale (il comunista)

www.pcint.org

 

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