La questione del salario è sempre centrale per i proletari

(«il proletario»; N° 14; Supplemento a «il comunista» N. 175 - Dicembre 2022)

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Ogni proletario che lavora vive soltanto del suo salario. La forza lavoro, l'unica vera proprietà personale che ogni proletario possiede, è la merce che vende, o tenta di vendere, sul mercato del lavoro, nella speranza che un capitalista, grande, medio o piccolo ne abbia bisogno e quindi lo assuma. Nella società borghese il lavoro ha una sola vera caratteristica, quella di essere salariato, ossia quella di procurare a chi lo compra – o, meglio, lo affitta, perché non è mai detto che un proletario farà quel lavoro per tutta la vita, come non è detto che il capitalista utilizzerà quella forza lavoro per sempre – un vantaggio in termini di guadagno suppletivo rispetto ai capitali che già possiede, e chi lo vende – o lo presta per un certo periodo – la possibilità di sopravvivere grazie al salario percepito per quel lavoro. Se non lavora, il proletario non percepisce alcun salario, quindi non può comprare quel che serve per vivere; in sostanza, se non lavori non mangi, non vivi. Chi detta le condizioni di lavoro è il capitalista, semplicemente perché fa parte della classe dominante che possiede tutto, i mezzi di produzione, le materie prime, la produzione intera. I proletari sono costretti ad accettare le condizioni di lavoro stabilite dai capitalisti. In generale, essendo la forza lavoro una merce che dipende dalle condizioni del mercato del lavoro, subisce le oscillazioni che normalmente subiscono prima o poi tutte le merci che vengono immesse nel mercato. Perciò le condizioni di lavoro, in partenza, corrispondono alle esigenze della produzione capitalistica, non alle esigenza di vita dei lavoratori. Se i proletari le vogliono migliorare devono lottare, devono unirsi per battersi su rivendicazioni comuni che, in generale, contrastano con gli interessi dei capitalisti. La lotta fra capitalisti e lavoratori salariati nasce da questo contrasto, da un vero e proprio antagonismo tra le due classi principali della società, tra i produttori di ricchezza e gli accaparratori di ricchezza. La storia del movimento operaio è zeppa di episodi di lotta, sia a livello aziendale, locale, nazionale o, più raramente, internazionale. Ciò dimostra che nei duecento e passa anni di società capitalistica, se lo sviluppo del capitalismo è stato il motore dello sviluppo economico e civile della società borghese, lo sviluppo della lotta operaia è stato il motore dello sviluppo sociale e politico della classe lavoratrice. Lo sviluppo storico del capitalismo non è graduale, né lineare, procedendo per balzi in avanti, recessioni, crisi, guerre; in alcuni paesi, per condizioni storiche, territoriali e ambientali, si è sviluppato prima e in forme sempre progressive, tanto da imporre la propria potenza economica e politica in tutti gli altri paesi, forzando anche in essi uno sviluppo economico e sociale in grado di accogliere le esigenze di mercato dei paesi più progrediti. Con l’andare del tempo le ineguaglianze tra paesi più sviluppati e meno sviluppati non sono diminuite, ma aumentate perché il progresso economico e finanziario degli uni diventava sempre più inarrivabile da parte di tutti gli altri, nonostante lo sviluppo di questi ultimi. Ma quel che rimaneva una costante fra tutti i paesi, fossero più o meno sviluppati, sono i rapporti di produzione e di proprietà borghesi, dunque il rapporto tra capitale e lavoro salariato: una volta distrutti i vecchi modi di produzione e, quindi, i vecchi rapporti di produzione e di proprietà, i residui delle vecchie classi dominanti preborghesi dovevano adattarsi – volenti o nolenti – alla nuova economia capitalistica, alle sue leggi, alle sue oscillazioni, alle sue crisi. Il mondo, così, è diventato tutto borghese, tutto sottoposto alle leggi del capitale; tutto è diventato merce, suolo e sottosuolo compresi, e tutto è stato trasformato in una compravendita generalizzata. I proletari dei paesi più sviluppati sono lavoratori salariati quanto i proletari dei paesi più arretrati; la differenza tra di loro sta nel fatto che nei paesi industrializzati più avanzati, nei quali il costo della vita è inevitabilmente più alto che negli altri paesi, i salari sono più alti di quelli dei proletari dei paesi meno sviluppati, ma sempre salari sono, percepiti dai proletari esclusivamente contro la loro forza lavoro impiegata nelle aziende capitalistiche, private o pubbliche che siano.

La storia ha dimostrato che la borghesia dei paesi più industrializzati, attraverso la rapina sistematica delle ricchezze delle colonie (sia in termini di prodotti della natura, sia di materie prime e di forza lavoro locale), ha utilizzato gli enormi sovraprofitti derivanti da questo supersfruttamento per pagare ai proletari della propria nazione salari più alti, legandoli in questo modo più strettamente alle esigenze di profitto delle proprie aziende. Non che i proletari inglesi, francesi, americani, tedeschi ecc. non abbiano lottato perché aumentassero i salari e migliorassero le condizioni di lavoro, ma la politica sociale delle rispettive borghesie contemplava la possibilità di soddisfare meglio le condizioni di esistenza dei propri proletari; ed è su questo binario che si è sviluppata la politica riformista, il tradeunionismo, l’opportunismo sindacale e politico che ha imbrigliato i proletari dei paesi più progrediti al carro delle rispettive borghesie. Come le crisi economiche e finanziarie che hanno punteggiato la storia del capitalismo hanno dimostrano, e dimostrano tuttora, le migliori condizioni di esistenza proletaria in quei paesi non erano destinate a durare per sempre, né tantomeno ad entrare in un circolo virtuoso di miglioramenti continui. Nelle crisi la popolazione destinata a soffrire di più e a subirne le conseguenze peggiori è sempre stata la popolazione proletaria, tanto più se le crisi sfociavano poi in guerre guerreggiate. Nella società borghese il destino del proletariato – finché questa società resta in piedi – è segnato: lo sfruttamento della sua forza lavoro giunge – come nelle miniere in cui tutto il minerale presente è stato estratto – fino al suo totale esaurimento, dopodiché la forza lavoro diventa una merce inutilizzata, destinata ad una marginalizzazione sociale estrema, alla discarica sociale, oppure trasformata in carne da macello nelle guerre borghesi.

 

Tornando ai proletari in quanto uomini-merce, non sono loro a scegliersi il  lavoro; la loro "scelta" è guidata dal mercato del lavoro nel quale le varie aziende cercano la forza lavoro di cui hanno bisogno. Le condizioni di vita di tutti i proletari dipendono perciò dalle esigenze che hanno le aziende nel soddisfare i loro obiettivi di profitto. La regola capitalista di base seguita da ogni imprenditore è quella di investire i capitali (propri o presi in prestito) per valorizzarli, ossia per far sì che il capitale 100 investito, alla fine del ciclo produttivo sia diventato 110, 120, 150, 200 o più, a seconda del settore di produzione o di distribuzione in cui viene investito e a seconda delle condizioni di mercato e di concorrenza esistenti. Per ottenere questo risultato il capitalista, sui mezzi di produzione di sua proprietà, o presi a credito, deve impiegare un certo numero di lavoratori salariati e dal lavoro di questi intende ottenere il massimo guadagno col minimo investimento.

Detto così, il rapporto tra imprenditore e lavoratore salariato appare semplicissimo: l'imprenditore ci mette il capitale fisso (mezzi di produzione, materie prime, edifici, attrezzature ecc.) e il capitale variabile (i salari) mentre il lavoratore salariato ci mette la sua forza lavoro, in sintesi il lavoro. Il rapporto appare semplice e conveniente per entrambe le parti. Nel mercato si vendono e si comprano merci di ogni tipo. Si compra e si vende anche la merce-forza lavoro il cui valore dipende da quello che i borghesi chiamano il gioco della domanda e dell'offerta: se la domanda è abbondante ma l'offerta non può esaudirla completamente, la merce offerta tende a salire di prezzo; viceversa, se la domanda è esigua e l'offerta è molto abbondante, la merce offerta scende di prezzo. Tutto ciò appare come del tutto normale, perché nella società capitalistica tutto è merce, tutto si vende e si compra, tutto dipende dal mercato "di riferimento".

Nel caso specifico delle loro condizioni di esistenza, i proletari nascono in una società divisa in classi, già organizzata in una classe dominante e in una classe dominata. Non esiste una "scelta a priori". Se nasci in una famiglia capitalista sarai un capitalista, se nasci in una famiglia proletaria, sarai un proletario; ossia, le tue condizioni di vita dipendono da una società che è già organizzata sulla base dello sfruttamento del lavoro salariato: se nasci nella parte degli sfruttatori godi dei privilegi che la società capitalistica destina loro, se nella parte degli sfruttati sei condannato ad essere sfruttato e oppresso tutta la vita, a meno che non diventi a tua volta uno sfruttatore di lavoro altrui come sono i borgehsi.

La società borghese sviluppata dal punto di vista tecnico-economico e sociale, aumentando le specializzazioni lavorative, i bisogni della popolazione e gli obiettivi di mercato, ha dovuto generalizzare l'istruzione della popolazione lavoratrice perché fosse in grado di applicarsi a macchinari complicati e di seguire disciplinatamente le istruzioni di lavoro e di utilizzo dei macchinari e delle fasi di automazione nei cicli produttivi. Perciò oltre ai manovali, ai proletari destinati ai lavori di fatica, la borghesia capitalistica ha bisogno di lavoratori sempre più specializzati, sempre più tecnicamente preparati in modo da utilizzarli su macchinari sempre più complessi e capaci di automatizzare tutta una serie di passaggi lavorativi che un tempo richiedevano di molte braccia e molte teste.

Ma le innovazioni tecniche, mentre da un lato comportano teoricamente meno fatica lavorativa rispetto ai tempi precedenti, dall'altro comportano l'utilizzo di meno manodopera. E questo processo di semplificazione è destinato a svilupparsi sempre più, perciò le aziende (private o pubbliche che siano) avranno sempre meno bisogno di lavoratori salariati. Naturalmente, con l'ampliarsi del mercato nei paesi industrializzati più sviluppati, anche le aziende aumentano di numero e perciò anche la domanda di forza lavor tende ad aumentare. Ma il rapporto tra aziende, pur aumentate di numero, e masse di lavoratori non giunge mai a pareggiarsi: una parte consistente di lavoratori è esclusa fin dall'inizio o in seguito a crisi o a innovazioni tecniche applicate alla produzione e alla distribuzione; perciò la disoccupazione non solo è una costante nell'economia capitalistica, ma tende ad aumentare come tende ad aumentare la povertà nelle fasce più deboli del proletariato.

Ogni azienda che si trova in tali condizioni, difendendo i suoi obiettivi di profitto su cui pesano i costi di produzione, e perciò anche il numero dei salariati occupati, non può che eliminare una parte dei suoi dipendenti o, in alternativa, trasformarne una parte - sempre più consistentenel tempo - in forza lavoro precaria, stagionale, o a chiamata, a seconda del settore merceologico a cui le aziende appartengono.

Che fine fanno i lavoratori che vengono considerati esuberi o che non sono più stabilmente indispensabili ai cicli produttivi aziendali? Vengono inevitabilmente ricacciati nel "mercato del lavoro" nel quale il loro lavoro quotidiano sarà quello di trovare un lavoro retribuito. Ma nel mercato del lavoro troveranno molti altri proletari che il lavoro non l'hanno mai trovato o che l'hanno anch'essi perso e che, per lavorare - ossia per tirare a casa un salario, unica fonte di sussistenza in questa società - sono disposti ad abbassare le pretese, a ricevere un salario inferiore per la propria sopravvivenza e quella della propria famiglia.

Si chiama mercato del lavoro non per niente; come in ogni mercato vale la legge della concorrenza e se la concorrenza della merce-forza lavoro è alta inesorabilmente il suo prezzo cala. La guerra che i capitalisti si fanno sui mercati dove portano le proprie merci si sposta in questo modo sul mercato del lavoro e la guerra non è più tra capitalisti, ma tra lavoratori salariati.

La concorrenza tra proletari non comporta un vantaggio per i proletari, ma solo per il capitalismo in generale e per ogni capitalista in particolare, perché incide direttamente sulla loro esistenza quotidiana e sull'organizzazione di difesa immediata che i proletari hanno costruito per difendere i propri interessi economici immediati. La classe borghese e la classe proletaria non sono in concorrenza tra di loro, sono in guerra perché gli interessi dell'una contrastano frontalmente con gli interessi dell'altra: alla classe borghese interessa pagare il meno possibile la forza lavoro che impiega, alla classe proletaria interessa che la propria giornata di lavoro venga pagata di più e che la fatica del lavoro diminuisca. Capitale contro salario e salario contro capitale: è questa la sintesi della società capitalistica.

 Come scrivevano Marx ed Engels, nel Manifesto del 1848: «La crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono semrpe più oscillante il salario degli operai; l'incessante e sempre più rapido sviluppo del perfezionamento delle macchine rende sempre più incerto il complesso della loro esistenza; le collisioni fra il singolo operaio e il singolo borghese assumono sempre più il carattere di collisioni di due classi. Gli operai cominciano col formare coalizioni contro i borghesi, e si riuniscono per difendere il loro salario. Fondano perfino associazioni permanenti per approvvigionarsi in vista di quegli eventuali sollevamenti. Qua e là la lotta prorompe in sommosse».

Marx ed Engels non parlano di oscillazione dei "posti di lavoro", ma di oscillazione dei salari e incertezza dell'esitenza dei proletari. E questo preciso riferimento al salario e all'esistenza dei proletari è fondamentale perché conferisce alla visione di classe che il proletario deve avere il fulcro del rapporto di produzione borghese in vigore nella società capitalistica.

L'economia mercantile si basa sugli scambi di merci regolati da mezzi di pagamento, ossia dal denaro; perciò se i proletari, per vivere, sono costretti ad andare al mercato per procurarsi cibo, vestiario, medicine ecc. - insomma i prodotti di prima necessità - devono avere i soldi per poterli comprare e i soldi possono provenire solo dal salario che ricevono contro il lavoro che hanno dato al capitalista (privato o pubblico che sia). Il salario è non solo il prezzo della forza lavoro impiegata nelle aziende, è la certezza della propria esistenza. Se il salario diminuisce o sparisce, diminuisce o sparisce la certezza del'esistenza dei proletari.

Il posto di lavoro è il luogo in cui il capitalista decide di posizionare il lavoratore nella catena lavorativa in cui deve svolgere quella particolare funzione. Ciò che interessa al capitalista non è il posto di lavoro del proletario, ma il modo per sfruttare al meglio la sua forza lavoro. Date le mille forme di sfruttamento del lavoro salariato, il posto di lavoro può rimanere fisso o variare di posizione continuamente, a seconda del tipo di lavorazioni da eseguire e se si eseguono in fabbrica o all'esterno, in strada, nei campi, in montagna, sui mezzi di trasporto, in miniera o addirittura a casa del lavoratore.

 

Il vero conflitto tra borghesi e proletari è sul salario

 

Nella giornata di lavoro, ad esempio di 12 ore, seguendo la dimostrazione ineccepibile di Marx sull'estorsione del plusvalore dal lavoro salariato, si ipotizzava che il salario giornaliero a copertura dei beni di sussistenza corrispondesse a 6 ore di lavoro, mentre le altre 6 ore venivano praticamente "regalate" al padrone. In realtà non si tratta di un regalo, perché nella contrattazione tra padrone e salariato, risulta che il padrone paga col salario un'intera giornata di lavoro, non una sua parte; e questo sistema è valido comunque, che le ore di lavoro giornaliero siano 12, 18, 8 o 6. Dunque il valore che ha la merce prodotta nel ciclo produttivo che prevede le giornate di lavoro di 12 ore, è un valore aumentato rispetto alla somma dei due valori che concorrono alla produzione della data merce: il valore del capitale fisso (macchinari, materie prime ecc.) e il valore del capitale variabile (i salari). Se le 12 ore quotidiane lavorate le moltiplichiamo per 26 giorni in un mese di 30 giorni, risultano in totale 312 ore. Ma il salario ne copre soltanto metà, cioè 156 ore. Perciò, per ogni proletario impiegato a 12 ore al giorno, il padrone sborsa un capitale-salari corrispondente a 6 ore giornaliere, mentre il valore delle altre 6 ore se lo intasca automaticamente: è il plusvalore di Marx, ossia il tempo di lavoro non pagato. E' l'estorsione istituzionalizzata, difesa da ogni padrone e dallo Stato centrale con le sue leggi e le sue forze di polizia. L'estorsione di plusvalore è il mistero svelato della valorizzazione del capitale; il capitalista ci mette il capitale, non il lavoro; il lavoro ce lo mette il proletariato salariato ed è il suo lavoro che produce l'intera ricchezza della società, ricchezza di cui si appropriano privatamente i borghesi capitalisti.

Ogni capitalista ha l'obiettivo di difendere i profitti delle sue aziende, oltre che ad aumentarli. Per ottenere un aumento di profitti o costringe i propri proletari a lavorare più ore al giorno, o impone una diminuzione dei salari, o diminuisce l'organico aumentando i ritmi di lavoro e le mansioni dei proletari rimasti al lavoro, oppure combina tutte queste misure. Tutto ciò dipende dai rapporti di forza stabiliti tra borghesi e proletari. E' ormai risaputo che le organizzazioni proletarie di difesa economica di cui parla il Manifesto del 1848, sono da molti decenni organizzazioni collaborazioniste: invece di difendere esclusivamente gli interessi immediati dei proletari, difendono l'economia aziendale (e, ovviamente, l'economia nazionale), perciò si ingegnano a trovare mille scappatoie legali e burocratiche perché i proletari, invece di lottare con i metodi e i mezzi della lotta di classe (sciopero ad oltranza senza limiti di tempo, picchetti contro i crumiri, manifestazioni di solidarietà da parte degli operai di altre aziende ecc.), accettino le trattative negoziali coi padroni sulla base delle esigenze primarie dell'economia aziendale da cui  fanno dipendere la possibilità o meno di ottenere qualcosa anche per gli operai. Perciò i proletari, nel conflitto con i capitalisti si trovano a dover combattere anche contro i propri “rappresentanti” sindacali, e politici, perché operano a vantaggio dei capitalisti e non dei proletari.

Oltre alla concorrenza tra proletari, che aumenta con lo sfruttamento di masse immigrate legalmente (e ancor più se giunte clandestinamente), la collaborazione fra le classi è la politica che taglia completamente le gambe ad ogni movimento di lotta del proletariato. Raramente la lotta operaia ottiene soddisfazione su una determinata rivendicazione, e se la ottiene è perché la sua lotta è stata sufficientemente dura e determinata da indurre i padroni a soddisfare qualche rivendicazione, ma in genere ha dovuto cedere su molte altre rivendicazioni. D’altra parte, l’esperienza insegna che la “vittoria” ottenuta oggi, soprattutto coi metodi del negoziato basato sulla collaborazione di classe, è una vittoria di Pirro e si trasforma nel giro di poco tempo in sconfitta, ripresentando ai proletari il problema di lottare nuovamente contro il peggioramento delle loro condizioni di lavoro e di esistenza. Questo solo fatto dimostra che il sistema economico e sociale borghese è, nel suo complesso, antagonista alle esigenze di vita della maggioranza della popolazione che è costituita da lavoratori salariati, occupati o disoccupati, autoctoni o immigrati, maschi o femmine, anziani o giovani.

Ma alla borghesia dominante interessa molto di più la pace sociale che il conflitto sociale, perché con la pace sociale i capitalisti possono dedicarsi interamente ai propri affari; si è data, infatti, un gran daffare cercando di attenuare i conflitti con i lavoratori, cercando in qualche misura di venire incontro alle loro rivendicazioni e cercando di tamponare le situazioni più disagiate ed estreme con interventi  economici e sociali di carattere pubblico o attraverso le mille organizzazioni di volontariato costituitesi, in generale, per iniziativa degli stessi borghesi e della chiesa. Inoltre, come i proletari sanno per esperienza diretta, la borghesia ha usato tutti gli strumenti a sua disposizione, ideologici e materiali, per influenzare e orientare le organizzazioni sindacali e politiche del proletariato ai fini della conservazione sociale. Opera, questa, che, in determinati periodi storici, e dopo aver tollerato la costituzione delle organizzazioni proletarie, ha richiesto contro di esse anche la violenza più brutale, democratico o fascista che fosse il potere borghese. La storia delle lotte di classe ha dimostrato che le organizzazioni proletarie indipendenti di difesa immediata sono vitali non solo per la lotta classista sul terreno immediato, ma anche per la lotta proletaria sul terreno politico e rivoluzionario poiché, se influenzate e dirette dal partito di classe (come furono i soviet in Russia e i sindacati rossi membri dell’Internazionale sindacale legata all’Internazionale Comunista) costituiscono la più ampia rete organizzativa delle masse proletarie dello stesso movimento rivoluzionario. Il pericolo per la borghesia dominante non è rappresentato soltanto dal partito comunista rivoluzionario, in quanto guida futura della rivoluzione proletaria, ma anche dai sindacati di classe perché essi, a differenza del partito politico proletario, organizzano effettivamente le grandi masse del proletariato che, influenzate e dirette dal partito di classe, costituiscono la forza sociale capace di seppellire una volta per tutte la borghesia e la sua società per avviare la formazione di una società che metterà al centro i bisogni della vita umana e non del mercato capitalistico.

Col fascismo la borghesia, non riuscendo a completare l’opera di ingabbiamento dei sindacati operai attraverso il riformismo e i metodi socialdemocratici, è passata direttamente alla distruzione delle organizzazioni immediate operaie, nelle città e nelle campagne, e, una volta colpito a morte il partito di classe (uccidendo e imprigionando i dirigenti, incendiando le sue tipografie e i suoi giornali, distruggendo le sue sedi), per sostituirle con il sindacato fascista, unico e obbligatorio, al fine di controllare il proletariato direttamente da parte dello Stato. La sconfitta militare del fascismo da parte delle potenze imperialistiche ineggianti la democrazia non ha segnato automaticamente la rinascita delle organizzazioni proletarie classiste, la rinascita del sindacati rossi; ha invece segnato la rinascita delle organizzazioni sindacali proletarie sulla base della collaborazione di classe – che già è stata la caratteristica specifica del fascismo – utilizzando la forma organizzativa democratica (perciò non a sindacato unico e obbligatorio), falsamente indipendente perché di fatto incastonata nelle istituzioni borghesi; perciò li abbiamo chiamati sindacati tricolore, come tricolore erano i sindacati fascisti Il processo di integrazione nello Stato delle organizzazioni sindacali operaie è un processo irreversibile. Contro il sindacalismo tricolore ci può soltanto essere un sindacalismo proletario indipendente, classsita, rosso per riprendere una denominazione degli anni Venti del secolo scorso che distingueva queste organizzazioni sindacali operaie non solo dai sindacati gialli (socialdemocratici) e bianchi (cristiano-cattolici), ma anche dai sindacati neri (fascisti).

La borghesia dominante è interessata soprattutto ad un sempre più stretto controllo sociale delle masse proletarie, sapendo che le diseguaglianze e la povertà sempre più diffuse negli strati inferiori del proletariato provocano ribellioni, sommosse, insurrezioni che, se basate su organizzazioni proletarie indipendenti, possono costituire un grave pericolo per il potere politico borghese. Questo controllo sociale non è indirizzato a risolvere i gravi disagi in cui precipitano strati sempre più ampi non solo di proletari ma anche di piccola borghesia; è invece indirizzato a evitare che da questi disagi sociali emergano lacerazioni in cui i proletari trovino i motivi immediati della rottura della pace sociale, della rottura della collaborazione di classe e si aprano all’influenza dei comunisti rivoluzionari che, consci della necessaria esplosione delle contraddizioni economiche e sociali della società borghese, si preparano ad orientare le ribellioni, la rabbia sociale, le sommosse verso la rivoluzione proletaria e comunista, l’unica via per risolvere storicamente le contraddizioni e le ingiustizie della società capitalistica.

Ogni società divisa in classi finora esistita si è basata, sottolinea il Manifesto del 1848, «sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi: ma per poter opprimere una classe, le debbono essere assicurate condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. Il servo della gleba, lavorando nel suo stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a membro del comune, come il cittadino minuto, lavorando sotto il giogo dell’assolutismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma l’operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l’industria progredisce, scende sempre più al disotto delle condizioni della sua propria classe, L’operaio diventa povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza». Questa situazione era già ben presente nel 1848, quando il capitalismo mostrava già i suoi tratti fondamentali che non sarebbero più cambiati. Oggi, ogni dichiarazione proveniente dai rappresentanti dei governi, dalla chiesa, dai vertici dei sindacati, dalle dirigenze dei partiti, in ogni parlamento e in ogni trasmissione televisiva, non può non mettere in primo piano che i temi principali sono la povertà assoluta in aumento, la precarietà e l’incertezza della vita sempre più drammatiche, la mancanza di lavoro, l’incapacità dei salari di far fronte al costo della vita aumentato. Sono passati 174 anni dalle parole del Manifesto di Marx ed Engels, e la società borghese non ha risolto nessuna delle contraddizioni che la caratterizzano. E’ ancor più evidente oggi, che non a metà dell’Ottocento, che il borghese non è capace di garantire l’esistenza al proprio schiavo salariato, «perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di essere da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire l'esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società».

Come uscire da questo sprofondamento sociale, come superare la spirale infinita di crisi e di guerre che caratterizzano la società borghese?

Non ci sono molte alternative; senza dubbio l’alternativa non è in una presunta “nuova” democrazia, o in una democrazia sedicentemente “diretta”, come non è nella soluzione riformista e socialdemocratica che storicamente, quanto agli interessi esclusivi del proletariato, ha più volte fallito. Non è nemmeno nella soluzione anarchicheggiante che vorrebbe distruggere ogni forma organizzata di potere per dare libero corso alla presunta libertà personale di ogni individuo, ricadendo in questo modo nel più logoro mito dell’individuo così caro proprio all’ideologia borghese. Ma non è nemmeno in quell’estremismo parolaio che nega al proletariato l’organizzazione di massa sul piano della difesa immediata – in una parola, il sindacato operaio – col pretesto che tale organizzazione è preda della completa integrazione nello Stato, indicando invece come unica via la lotta politica immediata per la conquista del potere politico, attraverso la quale lotta il proletariato stesso prenderebbe coscienza della sua forza e dei suoi compiti storici rivoluzionari. Questo misto di velleitarismo e di immediatismo, travestito da rivoluzionarismo, nuoce al proletariato tanto quanto il sindacalismo sedicentemente rivoluzionario.

L’alternativa che il proletariato ha di fronte a sé non è fondamentalmente cambiata da cent’anni a questa parte: la sua riorganizzazione indipendente sul terreno immediato della difesa economica è la base della sua futura lotta politica, non perché la lotta economica, ad un certo punto dello scontro di classe, evolva automaticamente nella lotta politica per la conquista del potere, ma perché – come sosteneva Lenin – è sul terreno della difesa economica che il proletariato si allena alla guerra di classe, facendo esperienza diretta nello scontro col padronato e con lo Stato che ne difende gli interessi immediati e futuri, e aprendosi all’influenza del partito comunista rivoluzionario che, in quanto rappresentante nell’oggi degli obiettivi proletari di classe di domani, importa nella lotta proletaria immediata gli indirizzi generali e internazionali della lotta rivoluzionaria a cui inconsciamente il proletariato moderno è storicamente votato.

Il processo di maturazione dei fattori sociali oggettivi che generano la ripresa della lotta classista, è un processo storico che non può essere avviato dalla volontà politica né del partito di classe né, tanto meno, delle masse proletarie. Ma di quei fattori oggettivi fa parte anche la riorganizzazione indipendente del proletariato che, come agente della lotta di difesa immediata, va ad incidere sui rapporti di forza sociali contribuendo alla polarizzazione sociale necessaria per il processo rivoluzionario su cui interverrà in modo determinante l’azione del partito di classe come guida effettiva e riconosciuta del movimento rivoluzionario del proletariato.         

Perché i proletari delle diverse aziende, delle diverse età, delle diverse nazionalità riconoscano i propri interessi come interessi comuni, la lotta sul terreno immediato deve essere condotta con metodi e mezzi della lotta classista, ossia a difesa esclusiva degli interessi proletari contro tutti gli altri interessi di conservazione sociale.

E la lotta per il salario è quella che meglio di altri obiettivi tende a unire le forze proletarie al di sopra delle divisioni organizzate e alimentate appositamente dal padronato, dagli opportunisti, dallo Stato. Una lotta non solo  per aumentare il salario, ma perché il salario venga percepito sia dai proletari occupati che dai proletari disoccupati, e venga dato lo stesso salario sia agli uomini che alle donne, sia agli operai autoctoni che agli immigrati. Il posto di lavoro lo dà soltanto il capitalista, il padrone, privato o pubblico; perciò i proletari occupati hanno “diritto” ad un salario.

Ma i proletari disoccupati perché sono stati licenziati e non trovano un’occupazione, di che cosa vivono? Di elemosina chiamata sussidio? E per quanto tempo? Oggi il nuovo governo si è inventata una nuova categoria di proletari: gli occupabili! Cambiando il nome ai disoccupati, chiamandoli occupabili, non risolveranno alcun problema; non faranno che rigettare sulle spalle dei disoccupati la colpa di non trovare lavoro, quel lavoro che solo i capitalisti possono dare e che non danno a tutti dai tempi dei tempi.

La disoccupazione è parte integrante del mercato del lavoro, parte integrante della divisione in classi della società. Il capitalismo come non può fare a meno del proletariato da sfruttare nei cicli di produzione e di distribuzione, così non può fare a meno di quell’esercito di riserva costituito dai disoccupati perché «il lavoro salariato – come sottolinea ancora il Manifesto del 1848 – poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro»; e non c’è dubbio che la massa dei disoccupati prema inevitabilmente sulla massa degli occupati per un salario non solo a fronte di un lavoro, ma anche inferiore al salario percepito da chi è già occupato. La concorrenza tra proletari tende ad abbattere i salari sia dei già occupati sia dei nuovi occupati; se in più, come succede da qualche decennio, la somministrazione di lavoro da parte delle aziende avviene secondo i criteri di maggiore flessibilità, maggiore produttività, stagionalità, insomma secondo la precarietà diffusa, la concorrenza tra proletari aumenta a dismisura ed è tutta a detrimento dell’intera classe proletaria.

 Ecco perché la lotta per il salario diventa la lotta centrale di tutti i proletari, non importa a quale settore merceologico, a quale categoria appartengano, o quale livello di istruzione e di specializzazione abbiano. E’ molto più facile che l’occupato di oggi diventi il disoccupato di domani, che viceversa, perché lo sviluppo del capitalismo non produce internazionalmente solo masse sempre più grandi di proletari, ma produce masse sempre più grandi di disoccupati, di disperati, di poveri, di forza lavoro sprecata e gettata alle ortiche.

 

Il proletariato oggi è ancora succube delle illusioni che la società borghese sforna continuamente, sulla democrazia, sul benessere, sulla pace, sulla convivenza pacifica dei popoli e via cantando. Ma la realtà di oggi mostra che il futuro per il proletariato non è per niente migliore, perché giungeranno altre crisi epocali e altre guerre molto più ampie delle attuali, fino alla guerra imperialistica mondiale nella quale il destino che la borghesia di ogni paese sta preparando per il proprio proletariato è quello di trasformarlo in carne da macello. Il proletariato, anche se oggi può non sembrare, ha il proprio destino storico nelle proprie mani; saranno le condizioni oggettive di questa società putrefatta a spingerlo sulla scena mondiale e starà a lui organizzarsi per l’unica deviazione del corso storico che abbia un senso per sé stesso e per l’umanità intera: quella della lotta rivoluzionaria.

 

 

Partito Comunista Internazionale

Il comunista - le prolétaire - el proletario - proletarian - programme communiste - el programa comunista - Communist Program

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