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Sulla crisi prolungata della classe proletaria e sulle sue possibilità di ripresa

( Opuscolo A4, 40 pagine, Novembre 2004, Prezzo: 5 €, 8 FS) -  pdf

 

 


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INDICE

 

Introduzione 

● Sulla   crisi     prolungata   della   classe   proletaria   e   sulle  sue  possibilità   di  ripresa

(« il comunista » n°73-74, gennaio 2001, e n°75 aprile 2001.)

La   controrivoluzione   borghese   non  si  è  fermata  alla distruzione  della  prima  dittatura   proletaria  in  Russia; doveva   trasformare  i  proletari  in  schiavi  contenti   della  propria  schiavitù

La  democrazia è  il  miglior ambiente  per la  lotta  della classe  borghese  contro  la  classe  proletaria

○ La  lotta  fra  le  classi  non  muore  mai

Uscire  dal  baratro

Sono  le  contraddizioni  profonde  del  capitalismo  a spingere  i  proletari  alla  lotta  di  classe

 


 

Introduzione

 

 

La questione della ripresa della lotta di classe è questione centrale per il partito di classe del proletariato.

E’ una questione che contiene aspetti teorici, politici e tattici allo stesso tempo.

Dal punto di vista della teoria, la ripresa della lotta di classe si inquadra nella più ampia questione della necessità storica della lotta di classe, intesa come lotta che il proletariato sviluppa sul terreno aperto e dichiarato dell’antagonismo fra le classi al fine di imporre nella società attuale, dominata dalla classe borghese, la via rivoluzionaria alla soluzione di tutte le contraddizioni dell’attuale società capitalistica. La teoria marxista della lotta di classe è definita, in generale, nelle prime righe del Manifesto del Partito Comunista, di Marx-Engels, del 1848: «La storia  di ogni società  esistita   fino  a questo momento, è storia di lotte di classi». La storia delle società divise in classi è, dunque, storia di lotta fra le classi: fra le classi dominanti, che opprimono le classi subalterne, e che da questa oppressione traggono privilegi, rafforzano il proprio potere, conquistano altri paesi e altri mercati, e le classi dominate, che lottano contro l’oppressione che subiscono dalle classi dominanti e che, poggiando sulle contraddizioni oggettive, economiche e sociali, delle società divise in classi, tendono a rivoluzionare le società esistenti.

Nello sviluppo storico della ininterrotta lotta fra le classi – ora latente ora aperta, come scrive il Manifesto del 1848 – non sempre questa lotta è terminata con la vittoria delle classi oppresse e con la trasformazione rivoluzionaria di tutta la società; talvolta è terminata con la comune rovina delle classi in lotta. Ma la spinta storica dello sviluppo economico della società, con l’avvento del modo di produzione capitalistico, in tempi molto più stretti rispetto all’arco storico delle società antiche fino al feudalesimo, ha prodotto un potenziale rivoluzionario straordinario, universale: il proletariato, quell’esercito di contadini, schiavi, plebei, garzoni trasformati col violento incedere del modo di produzione capitalistico – attraverso espropriazioni, spoliazioni, e l’imposizione di nuove leggi sulla proprietà, la proprietà privata –  in proletari, in lavoratori salariati, in senza riserve. L’enorme sviluppo economico, universalizzante e universalizzato,  caratteristico del capitalismo, se da un lato ha semplificato l’organizzazione sociale esistente nelle società precedenti, scindendo l’intera società borghese «in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato», dall’altro ha potenziato in maniera mai riscontrata prima i fattori di dominio della nuova classe dominante, la borghesia appunto. Ma tale potenziamento delle classi dominanti borghesi non ha prodotto la scomparsa degli antagonismi fra le classi, semmai li ha ancor più accentuati rendendo ancor più violento il corso storico della lotta di classe.

Alla grande concentrazione economica cui è sospinta la borghesia di ogni paese, in una lotta di concorrenza che si fa sempre più acuta nel mercato mondiale, corrisponde sempre più una conseguente, e necessaria, centralizzazione politica. Lo Stato moderno, borghese,  rappresenta lo strumento principale di dominio della borghesia, lo strumento principale di difesa degli interessi generali e storici della classe borghese sia nella lotta di concorrenza con le classi dominanti degli altri paesi sia nella lotta di classe contro il proprio proletariato, innanzitutto, e il proletariato degli altri paesi in generale. Il capitalismo, passata la fase del liberalismo, della libera conquista del mondo da parte dei paesi più civili e capitalisticamente avanzati, giunge così inevitabilmente alla fase della massima concentrazione e centralizzazione, del monopolio; a livello politico, la democrazia liberale, secondo la quale i due grandi campi nemici di cui parla il Manifesto del 1848 dovrebbero trovare un interesse comune nello sviluppo economico generale del paese, viene scalzata dal fascismo (distruzione del partito proletario di classe e delle organizzazioni sindacali operaie, partito borghese unico, sindacato di stato e obbligatorio, dichiarata difesa e contemporanea imposizione degli interessi del capitalismo nazionale sul mercato mondiale, massima centralizzazione e concentrazione capitalistica, ecc.), ossia da un metodo di governo attraverso il quale la borghesia leva la maschera e svela il proprio antagonismo di classe rispetto al proletariato, lo combatte e lo opprime apertamente in quanto tale.

Il monopolio economico, attraverso i trust e lo Stato che si fa imprenditore, si svolge, a livello politico, prima emarginando e poi eliminando tutti gli istituti parlamentari, centrali e locali, sostituendoli con organi amministrativi direttamente emanati dallo Stato centrale. La dittatura economica del capitale sulla società, di cui la classe borghese dominante è rappresentante sociale e politica, si rispecchia in questo caso direttamente nella dittatura politica, a dimostrazione del fatto che l’antagonismo di classe fra borghesia e proletariato spinge la classe borghese, in determinati svolti storici, a sbarazzarsi di tutti gli orpelli della democrazia e dichiarare apertamente, e ininterrottamente,  guerra al proletariato in quanto classe antagonista. E’ il riconoscimento di fatto, da parte borghese, della teoria marxista della lotta di classe, della sua ineluttabilità, e del pericolo storico per il suo potere.

Resta il fatto che il metodo di governo borghese più efficace per coinvolgere e asservire il proletariato al dominio borghese è il metodo democratico; ma lo sviluppo imperialistico del capitalismo ha gettato nel bidone degli arnesi inservibili la democrazia liberale, spingendo la borghesia a svuotare del contenuto “liberale” il metodo democratico mantenendo però l’involucro e continuando ad ingannare così le masse proletarie attraverso una massificazione delle pratiche democratiche (si chiede il voto per qualsiasi stupidaggine) nell’intento di compensare la mancanza di peso specifico delle stesse votazioni. Data comunque la presa che queste pratiche democratiche hanno ancora sulle masse proletarie, la borghesia insiste nell’alimentare l’ideologia democratica, e la “difesa” della democrazia – come fosse un  “bene di tutti” – rimane il leit motiv più importante della propaganda della conservazione borghese, nelle forme della lotta “antifascista” o della lotta contro “il terrorismo”, o nella forma della lotta contro il “totalitarismo”.

Dal punto di vista generale, la lotta fra le classi scaturisce dagli antagonismi sociali che contrappongono le classi nella società, si attua e si sviluppa attraverso l’unione di gruppi operai in organizzazioni adatte a condurre e a difendere la lotta, attraverso la definizione di obiettivi immediati, e non solo immediati, e di mezzi e metodi di lotta coerenti con quegli obiettivi. I proletari sono accomunati dalla condizione di essere salariati, di sottostare per vivere alla schiavitù moderna del lavoro salariato, ossia dell’obbligo di vendere la propria forza lavoro ad un imprenditore, privato o pubblico che sia. Il lavoro, o meglio la forza lavoro, nel capitalismo è una merce: si compra e si vende, al prezzo di mercato o sottocosto a seconda dei rapporti di forza fra il proletariato e la borghesia. E, alla pari di una merce, quando il mercato della forza lavoro (o mercato del lavoro, come si usa dire) è saturo di braccia rispetto alle necessità della macchina produttiva capitalistica, questa merce è in sovrappiù: si deprezza istantaneamente, e in grandi masse viene gettata fuori dal processo produttivo.

La borghesia, durante il lungo periodo del suo dominio sociale, ha acquisito una certa esperienza e sa che ciò che soprattutto le permette di sfruttare il proletariato con maggiore efficacia è di sviluppare al suo interno il massimo di concorrenza possibile: a livello di età, di sesso, di categoria, di professione, di qualifica, di provenienza, di nazionalità, di religione, di organizzazione sindacale o politica, di razza, di istruzione, ecc. La concorrenza fra proletari non nasce dal fatto di essere uomini, o donne, in grado di mettere a disposizione del processo produttivo la propria forza lavoro, ma dal fatto di essere una merce, e come una qualsiasi merce la forza lavoro proletaria subisce gli alti e bassi del mercato.

E’ per questa ragione, fondamentalmente, che i proletari, nella misura in cui non riescono a superare lo scoglio della concorrenza fra di loro – che supererebbero solo organizzandosi in quanto lavoratori salariati a difesa di interessi comuni che superino le più diverse suddivisioni in cui la società borghese e il sistema economico capitalistico li costringe – non riescono a individuare come vero e principale nemico, l’antagonista, il nemico di classe, nella borghesia, nella classe degli imprenditori; restano prigionieri, infatti, della concezione tutta borghese che vede nel vicino, nel compagno di lavoro, un pericoloso concorrente, come il borghese, che ha una concezione aziendista della vita, vede qualsiasi altro borghese. E anche quando, nel corso delle lotte, i proletari comprendono che i loro nemici sono i capitalisti e i borghesi che amministrano e gestiscono le aziende per conto dei proprietari, non sono automaticamente in grado di tirarne le immediate conseguenze a livello organizzativo indipendente e a livello di obiettivi per cui lottare. Perciò uno dei fondamenti dell’azione delle avanguardie di classe, e dei comunisti in particolare, è la lotta contro ogni concorrenza fra proletari. Ogni organizzazione immediata a carattere sindacale che non attui ininterrottamente questa specifica lotta è un’organizzazione destinata, prima o poi, a rafforzare il dominio della borghesia sul proletariato, perciò è tendenzialmente antioperaia. La lotta dei proletari contro i borghesi è lotta classista nella misura in cui l’organizzazione proletaria che conduce e difende la lotta si dota di obiettivi, mezzi e metodi coerenti con la difesa degli interessi immediati dei proletari, interessi che accomunano tutti i proletari, non importa da dove provengano.

La lotta fra le classi, risottolineiamo dal Manifesto del 1848, si svolge ininterrottamente, ma ora è latente ora è aperta; ciò significa che gli antagonismi sociali che contrappongono le classi nella società borghese non solo esistono ma agiscono nei rapporti fra le classi, nei loro rapporti economici, sociali, politici. L’interesse borghese di sfruttare al massimo possibile il lavoro salariato per estorcerne quantità di pluslavoro, e quindi plusvalore, sempre più consistenti si contrappone all’interesse proletario di farsi sfruttare meno possibile, ossia a cedere meno possibile quantità di lavoro non pagato (il pluslavoro, appunto). Più la macchina produttiva capitalistica si rivoluziona, si tecnologizza, e più l’imprenditore borghese potenzia la propria possibilità di concorrenza sul mercato; ma per vincere la concorrenza, ad ogni imprenditore borghese non basta ammodernare le proprie attrezzature, i propri macchinari – cosa che prima o poi fanno anche i suoi concorrenti – ma deve ottenere dalla propria manodopera una maggiore produttività, ossia, in parole povere, maggiori quantità di lavoro non pagato.

A questo risultato i borghesi dei paesi capitalisticamente avanzati, in cui esiste un proletariato abituato da più di un secolo alla pratica e alla logica del riformismo, giungono attraverso molte strade, ma ancor oggi soprattutto attraverso la strada del riformismo, della concertazione fra i sindacati e le associazioni degli imprenditori, degli accordi e delle leggi. La strada della pacifica negoziazione non è mai, in ogni caso, l’unica imboccata dal padronato; talvolta, per far passare in tempi non troppo lunghi determinate stangate alle condizioni di vita e di lavoro operaie, la borghesia usa ben altri mezzi che non gli incontri attorno a un tavolo: licenziamenti, serrate, chiusura delle fabbriche, fallimenti, spostamenti di produzione in altri territori o altri paesi; e alla reazione di lotta dei lavoratori salariati essa risponde con sanzioni disciplinari, sanzioni giudiziarie, interventi di polizia, arresti e repressione.

Il tempo della negoziazione dei miglioramenti delle condizioni di vita e di lavoro operaie è passato da un pezzo; ora è il tempo sempre più del ricatto: posto di lavoro uguale diminuzione del salario, soprattutto in periodi di crisi economica; anche se, proprio in virtù della crisi economica, non c’è alcun padrone (e nemmeno lo Stato) che garantisca ai suoi salariati il posto di lavoro fino all’età della pensione!                            

L’interesse borghese che cosa ha in comune con l’interesse proletario? Niente, come il boia e l’impiccato dove la corda non è l’oggetto in comune, ma lo strumento che il boia usa per togliere la vita al condannato. La dannazione della situazione in cui versa il proletariato, soprattutto delle metropoli imperialiste, sta nel fatto che per lunghi decenni esso si è fatto coinvolgere, talvolta in modo estremamente profondo, nella rete riformista della difesa degli interessi cosiddetti “superiori” – dell’azienda, del settore di cui fa parte la fabbrica, dell’economia nazionale – senza distinguere fra obiettivi immediati di interesse esclusivamente proletario e obiettivi immediati di interesse borghese, presentato nella maggioranza dei casi come interesse reciproco: «se l’azienda “tira” sul mercato, il lavoro non mancherà a nessun  proletario, e magari ci scappa un aumento di salario»; se invece l’azienda entra in crisi i primi a pagarne le spese sono i proletari ai quali si impongono i tagli dei costi.

Sempre, sul terreno della crisi di mercato (di esempi ce ne sono a migliaia, basti pensare all’auto, alla chimica, al tessile, ecc.) i riformisti, i collaborazionisti, si immedesimano nei panni dei dirigenti d’azienda , degli imprenditori, sostenendo che i proletari “devono fare la loro parte”  - di sacrifici, naturalmente – perché questo avrebbe come conseguenza la salvaguardia del posto di lavoro. E «posto di lavoro = salario», dunque possibilità di sopravvivere.

E così i proletari sono stati abituati a credere che per lavorare e per prendere quindi un salario bisogna rispondere alle esigenze dei padroni, bisogna essere “adatti” alle esigenze del mercato, bisogna sottomettersi alle leggi del mercato; e anche quando si utilizza lo sciopero, come pressione sul padronato o sulle istituzioni, lo si dovrebbe usare il meno possibile e nelle forme meno incisive possibili sugli affari dell’azienda e sul lavoro degli “altri” proletari; in realtà, lo sciopero è stato usato spesso per far gestire “meglio” l’azienda, perché i padroni investissero sull’azienda rendendola più “competitiva”. Il concetto da cui parte il riformista è: i lavoratori salariati fanno la “loro” parte: più produttività, ritmi più intensi di lavoro, cumulo di mansioni, tagli al potere d’acquisto e ai salari; quindi, anche i padroni devono fare  la “loro” parte: si accontentino di profitti più contenuti, investano nell’azienda, organizzino il lavoro in modo più redditizio. Insomma, i lavoratori salariati – attraverso i sindacati tricolore e collaborazionisti – si dovrebbero dichiarare disposti ad ogni sacrificio… purché sia salvo il posto di lavoro, e purché l’azienda in cui lavorano sia effettivamente concorrenziale sul mercato!

In tempi di espansione economica del capitalismo, i proletari attraverso le loro lotte – per quanto imbevute di conciliazione sociale e di complicità con il buon andamento dell’economia aziendale e nazionale – hanno ottenuto comunque aumenti salariali e tutta una serie di benefici sul terreno normativo, economico, della salute, della pensione ecc., ma con l’entrata in un periodo di recessione economica e di crisi quei benefici sono stati via via rimangiati, vanno pian piano scomparendo (vedi la scala mobile, ecc.).

La prospettiva in cui il capitale ragiona ormai, nei rapporti con la forza lavoro salariata, è ben chiara da anni: ad una aumentata concorrenza a livello mondiale esso può rispondere solo con l’aumento della produttività e con la riduzione dei costi. Entrambi questi aspetti riguardano sia il capitale che il lavoro salariato: il capitale tende ad abbattere tutti i costi di produzione (eventuale sostituzione di macchinari obsoleti, risparmi sulla loro manutenzione, sugli ambienti di lavoro, sulle materie da trasformare, ecc.), e costo del lavoro, inteso sia in termini di diminuzione assoluta del salario (meno soldi pro capite, e meno operai a fronte di una produzione aumentata) che in termini di aumento dei ritmi di lavoro, dell’intensità di lavoro, delle mansioni per operaio, del tempo di lavoro ecc. E non c’è arma più efficace per carpire dagli operai maggiori energie lavorative, e per un tempo giornaliero più lungo, che quella di aumentare la concorrenza fra proletari. La massa dei disoccupati., la massa dei lavoratori stranieri, magari sul filo della continua clandestinità, sono armi di pressione potenti sulla manodopera occupata. E questo è talmente vero che in tutti gli Stati la precarietà del lavoro è aumentata in progressione geometrica. Oggi ci sono una quantità inverosimile di “figure lavorative”, attraverso le quali ogni padrone può “scegliere” a quale tipo di precarietà del lavoro rivolgersi per le sue esigenze contingenti. Il castello delle “garanzie”, degli ammortizzatori sociali, innalzato nell’immediato dopoguerra e ingigantitosi nel periodo dell’espansione economica del capitalismo, sta cadendo a pezzi, e chi ci guadagna sono solo i capitalisti.

Oltre che al fenomeno classico della disoccupazione (proletari cacciati dal processo produttivo, o mai entrati), la politica borghese nei confronti della forza lavoro deve affrontare un altro fenomeno che diventa sempre più esteso e consistente, quello dell’occupazione precaria. E come l’affronta? Col metodo di sempre: aumentando la concorrenza fra proletari, attraverso la quale i borghesi intendono ottenere tre risultati significativi: 1) usare un numero più o meno grande di lavoratori, a seconda delle condizioni della concorrenza sul mercato sia nazionale che internazionale, e con “contratti” sempre più “individuali”, 2) abbattere il monte salari messo a disposizione per la forza lavoro impiegata nei diversi cicli produttivi, 3) disgregare l’organizzazione e l’unione dei lavoratori salariati. Questo significa portare avanti la lotta contro “le rigidità” di cui lo stesso Lama, segretario generale della Cgil, fu campione negli anni Settanta. Ogni aspetto degli accordi sindacali e dei contratti di categoria siglati a livello nazionale è ormai oggetto di discussione: nulla è più “garantito”  nel tempo, quel che oggi è ancora valido, domani può non esserlo più.

Il peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei proletari non passa soltanto attraverso lo scoppio di crisi economiche che il capitale deve affrontare, e che 99 su 100 scarica sulle condizioni di vita e di lavoro dei proletari; i capitalisti non attendono più che la crisi scoppi effettivamente, ma “si portano avanti”, anticipano mosse che sarebbero costretti a fare bruscamente a crisi scoppiata. Il fatto di anticipare l’attacco alle conquiste salariali e sindacali dei decenni trascorsi, in un periodo in cui la crisi economica profonda non si è ancora sviluppata, permette ai capitalisti e al loro Stato di prepararsi meglio nel dover fronteggiare domani, in situazione economica di acuta crisi, una crisi sociale di grandi dimensioni, in cui sono prevedibili innumerevoli reazioni proletarie nei diversi comparti industriali e su tutto il territorio nazionale. Perciò, anche se in questo periodo non ci sarebbe bisogno di affondare così in profondità il coltello dei tagli al castello delle “garanzie” e degli ammortizzatori sociali, i borghesi lo fanno lo stesso, approfittando, oltretutto, del fatto che il proletariato è ancora nelle condizioni di soggezione rispetto alle grandi centrali sindacali tricolore, e non è stato ancora in grado di riorganizzarsi sul terreno indipendente e classista.

Non solo, ma pensionate le generazioni di operai che hanno lottato negli anni Cinquanta – Settanta del secolo appena passato, i borghesi non corrono il pericolo che le giovani leve operaie vengano in qualche modo influenzate dai vecchi operai che hanno ancora vivo il ricordo delle lotte, degli scontri con la polizia, dei lunghi scioperi, della solidarietà operaia, nonostante tutto ciò avvenisse comunque sotto la cappa del collaborazionismo sindacale e politico.

Le nuove generazioni operaie nate negli anni Settanta e Ottanta si trovano così completamente alla mercé del dispotismo di fabbrica, della precarietà del lavoro, della disorganizzazione operaia sul terreno della difesa delle condizioni elementari di vita e di lavoro. I sindacati tricolore, giganteschi apparati del collaborazionismo e della disorganizzazione operaia, dopo aver prestato la loro opera demolitrice delle tradizioni classiste del proletariato e la loro opera devastante di influenza opportunista sulle generazioni operaie uscite dal secondo macello imperialista mondiale e dalla grande crisi capitalistica mondiale della metà degli anni Settanta, si sono trasformati in vere e proprie Agenzie del lavoro per conto del padronato e delle istituzioni  borghesi, e si stanno trasformando in Banca andando a catturare i soldi delle liquidazioni degli operai riciclandoli in “fondi pensione” , pensione che gli operai rischiano di non vedere mai.

Gli operai oggi su che cosa possono contare?

Sui sindacati tricolore? No, nel modo più assoluto, dato che il loro ruolo è quello di far passare nelle file del proletariato le esigenze del capitale.

Sui sindacati cosidetti alternativi, tipo Cobas? Magari fossero “alternativi”  nel senso di classe, ma i fatti dimostrano che questi sindacatini non fanno che percorrere la stessa strada dei grandi apparati tricolore.

Sull’esperienza diretta nelle lotte di ieri? No, purtroppo, perché le lotte di ieri, ingabbiate nella rete collaborazionista dei sindacati tricolore e nell’alveo riformista, non hanno potuto produrre organismi proletari indipendenti votati alla difesa esclusiva degli interessi immediati proletari e duraturi nel tempo.

Sull’apporto di esperienze di lotta classista di proletari di altri paesi, capitalisticamente avanzati o capitalisticamente arretrati? Nemmeno, purtroppo, perché queste esperienze, episodiche anche se talvolta di grande vigore e insegnamento (lo sciopero dei minatori inglesi nel 1974 e ancora nell’84 ,e quello dei minatori americani del 1981, lo sciopero dei siderurgici lorenesi del 1984, o quello dei cantieri navali polacchi nel 1970 e poi nel 1980, lo sciopero dei 35 giorni alla Fiat nel 1980 e gli scioperi in Italia nell’autunno caldo del 1969, per citarne solo alcune), non hanno lasciato traccia organizzata di classe e duratura.

Su che cosa potranno allora contare le giovani generazioni di proletari? Soprattutto su se stesse, sul fatto di costituire – sebbene oggi non ne abbiano coscienza – una forza sociale che verrà spinta, sulla scena della lotta diretta contro i capitalisti e i loro apparati di difesa, in modo violento, brusco, “improvviso” a causa di fattori oggettivi di crisi insieme economica e sociale.

E’ la società capitalistica che, nonostante gli sforzi di controllo economico e sociale che le classi dominanti sviluppano, provoca terremoti economici che mettono in crisi tutti gli edifici di pianificazione, gestione e controllo della società. Alla stessa maniera del magma vulcanico – leggi: accumulo incessante di contraddizioni materiali e sociali dello sviluppo capitalistico a livello mondiale – la forza dirompente degli antagonismi sociali proietterà il proletariato verso l’alto, e non ci saranno manovre politiche, negoziati sindacali, accordi “fra le parti”, intimidazioni, repressione “preventiva” e arresti, in grado di impedire l’esplosione sociale. Lo scontro fra le classi avverrà nei fatti, nella brutalità materiale di forze che si contrappongono inesorabilmente, prima ancora che nelle teste dei protagonisti. Sarà la stessa lotta di classe che produrrà  gli operai più combattivi, gli elementi più sensibili alla lotta di classe e alla sua organizzazione, i quali troveranno la forza per fare in pochi mesi quel che non si è stati in grado di fare in tanti decenni: riorganizzarsi in modo efficace ed efficiente sul terreno di classe, in modo indipendente, in difesa esclusivamente delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari.           

                                                

*       *       *

 

Sono tre le cause fondamentali, nei paesi a capitalismo sviluppato, che caratterizzano l’arretratezza del proletariato, dal punto di vista della lotta di classe, in questi ultimi decenni:

1.    la sconfitta del movimento rivoluzionario e comunista degli anni Venti del secolo scorso per mano della controrivoluzione borghese e staliniana

2.    la distruzione dei partiti comunisti e dell’Internazionale Comunista, conseguente a quella sconfitta

3.    la distruzione dei sindacati operai di classe.

Il proletariato in Europa, alla cui testa si era messo il proletariato russo guidato dal suo formidabile partito bolscevico che in Lenin aveva trovato la massima espressione della coerenza marxista, negli anni del primo macello imperialista mondiale e del primo dopoguerra, poteva contare sulla vittoria rivoluzionaria dell’Ottobre 1917, sulla conquista del potere politico in Russia da parte del partito bolscevico, sulla costituzione dell’Internazionale Comunista come primo concreto embrione di partito comunista mondiale. In Germania, in particolare, per ben 8 anni consecutivi – dal 1915 in piena guerra mondiale al 1923 – il proletariato aveva espresso un altissimo grado di combattività e di lotta anticapitalistica; in Polonia, in Ungheria, in Italia il proletariato delle campagne e dell’industria si mobilitava in quegli stessi anni attraverso scioperi, moti di piazza e insurrezionali, con grande vigore spingendosi verso lo scontro decisivo con le borghesie dominanti e i residui poteri aristocratici. In Ungheria il movimento proletario rivoluzionario raggiunse anche il potere politico, mantenendolo per qualche mese, ma cedendo poi a causa della degenerazione socialdemocratica del partito comunista.

Ma l’ondata crescente del movimento proletario in Europa cozzò contro l’oggettivo ritardo storico della formazione del partito di classe, indispensabile strumento e guida della rivoluzione proletaria e della dittatura di classe ad insurrezione vittoriosa conclusa.

Nell’Europa industrializzata, e nell’America del Nord, in cui il capitalismo progrediva nel suo sviluppo a passi da gigante sottomettendo l’intero pianeta al proprio modo di produzione, colonizzando anche i territori più sperduti, il riformismo era riuscito ad impregnare fino al midollo tutti i partiti socialisti trasformandone le caratteristiche originali anticapitaliste in attitudini e pratiche opportuniste, ponendo gli obiettivi immediati come la priorità assoluta della lotta proletaria e adottando i mezzi legali della democrazia parlamentare come unici mezzi della lotta proletaria. Gli obiettivi storici della rivoluzione proletaria venivano prima messi in sordina, poi nascosti e infine cancellati e combattuti. La lotta a fondo fino alle estreme conseguenze contro il potere borghese e il capitalismo, per la distruzione del potere borghese e la trasformazione della società dall’economia capitalistica (merce, denaro, profitto, legge della concorrenza, guerre per il predominio nel mercato mondiale, mantenimento della schiavitù salariale, Stato come organizzatore dell’oppressione sociale) in economia socialista e comunista (superamento dell’economia mercantile e del profitto capitalistico, armoniosa organizzazione sociale dell’umanità con al centro i bisogni dell’uomo e non quelli del mercato), questa lotta storica fra le classi veniva abbandonata e sostituita con l’intermedismo e la collaborazione interclassista.

Da allora, il capitalismo si è ancor più sviluppato trasformando milioni di contadini e di piccoli proprietari in puri proletari, soggiogando la maggioranza degli abitanti del pianeta alla schiavitù salariale. La massa di proletariato ormai nel mondo rappresenta la stragrande maggioranza, ma ciò non toglie che il potere politico sia saldamente ancora nelle mani delle classi borghesi nazionali.

Il falso campo del cosiddetto “socialismo reale” – denunciato dalla nostra corrente di Sinistra comunista fin dal 1926 come capitalismo che approfittava del formidabile volano storico rappresentato dalla Rivoluzione bolscevica del 1917 per accelerare l’impianto capitalistico nelle grandi estensioni euroasiatiche di Russia e poi di Cina e India – ha ormai largamente dimostrato di essere sempre stato parte integrante del mercato mondiale, nel quale forze imperialistiche di grande peso (come la Russia, e poi la stessa Cina) hanno contribuito a schiacciare il proletariato – non solo il “proprio” ma anche quello internazionale – sulle posizioni del nazionalismo borghese, del collaborazionismo e quindi sulle posizioni controrivoluzionarie. Il movimento proletario russo, che nei primi vent’anni del secolo XX tanti insegnamenti diede ai proletari degli altri paesi, anche a quelli dei paesi molto più sviluppati dell’arretrata Russia, fu la prima vittima della controrivoluzione staliniana e borghese; la vittoria della controrivoluzione passò sulle migliaia di proletari russi eliminati perché non testimoniassero e trasmettessero con il loro esempio gli insegnamenti della lotta di classe e rivoluzionaria ai proletari di ogni altro paese; e passò sulle migliaia di proletari di ogni paese, dall’Europa alle Americhe alla Cina, che versarono, e versano ancora, il proprio sangue per cause borghesi e soltanto borghesi.

E’ da questo abisso che il proletariato dovrà risorgere, in Europa come in Cina, in America, in Australia come in Africa o in Medio Oriente. I proletari per riscattarsi dovranno fare i conti non solo col nemico di classe n.1 - la borghesia - ma anche con nemici molto più insidiosi, perché provengono anche dalle sue fila, come sono gli strati sociali venduti alla borghesia (il bonzume sindacale tricolore, il politicantume di tutti i partiti falsamente "operai"); strati che in realtà influenzano direttamente le masse proletarie a favore della conservazione sociale e del ribadimento della schiavitù salariale. La classe operaia dovrà poggiare soltanto sulle proprie forze e riconquistare il terreno dell'aperto antagonismo di classe: solo in questa prospettiva troverà la strada, l'energia e la volontà di cambiare il mondo.

Ci sono intellettuali che, dopo aver abbracciato lo stalinismo, e poi magari il maoismo, quando questi “ismi” davano notorietà e facevano fare soldi, discettano da un po’ di anni sulla scomparsa del proletariato come classe sociale. Essi “vedevano” il comunismo dove non c’è mai stato e non poteva esserci, e non “vedono” la classe operaia dove c’è; salvo farsi prendere dal panico, e dal livore antioperaio, quando gli operai si ripresentano sul terreno della lotta classista per difendere le proprie condizioni di vita e di lavoratori salariati. Che cosa faranno quando gli operai lotteranno per obiettivi ben più decisivi come quelli della rivoluzione anticapitalistica? Dall’alto delle loro capacità cerebrali, vendute ai borghesi, li tratteranno da ignoranti e incivili, da gente che non sa amministrare la produzione, il municipio, lo Stato; e non si accorgeranno che la forza sociale proletaria, nel movimento della sua lotta di classe e rivoluzionaria,  genera invece  capacità su ogni piano, su ogni terreno di intervento, da quello politico a quello amministrativo e organizzativo, da quello giudiziario a quello scientifico e culturale a quello militare. Il proletariato rivoluzionario, nel ripulire la società da tutta la spazzatura borghese, con un colpo di scopa si libererà anche di questi parassiti.

Il cammino della storia è attraversato dalle lotte fra le classi, anche se i loro singoli componenti non lo sanno, non lo percepiscono o non lo capiscono. La storia si apre la strada non solo per mezzo delle forze sociali che lottano fra di loro in uno scontro fra la conservazione e la rivoluzione, ma anche per mezzo di strumenti specifici, come il partito di classe, che ha avuto e avrà il compito di guidare la forza proletaria rivoluzionaria a compiere tutto il percorso necessario per superare gli ostacoli che la vecchia società frappone alla nascita della nuova. Il proletariato, come dimostrò più volte nel suo corso storico di sviluppo, può raggiungere livelli importanti di scontro con le classi avverse (come nella Comune di Parigi nel 1871, nelle lotte contro la guerra in Germania, in Polonia, in Ungheria negli anni dal 1915 al 1920, nei moti rivoluzionari come in Cina nel 1927), ma non riuscirà mai a vincere in modo decisivo i nemici di classe senza la guida del suo partito (come riuscì in Russia nel 1917 e nella lunga guerra civile dal 1918 al 1921), unico organo che rappresenta la coscienza di classe, ossia che conosce l’intero percorso storico necessario per passare dalla società capitalistica alla società socialista e comunista; un percorso che prevede la riorganizzazione del proletariato in associazioni economiche indipendenti in grado di comprendere una parte decisiva del proletariato, l’influenza del partito di classe su queste organizzazioni, la preparazione rivoluzionaria e l’insurrezione, la presa del potere politico e l’abbattimento violento dello Stato borghese, l’instaurazione della dittatura proletaria esercitata dall’unico partito di classe proletario e comunista, la difesa della vittoria rivoluzionaria nei territori in cui si è realizzata e l’organizzazione internazionale del movimento rivoluzionario allo scopo di irradiare nel mondo la lotta rivoluzionaria. Soltanto un organo specifico può rappresentare questa coscienza storica, ed è il partito comunista, rivoluzionario e internazionale, per il quale la corrente della Sinistra comunista, e noi che ne seguiamo il solco, ha sempre lavorato e lavora.

Dall’abisso in cui è precipitato, il proletariato non riuscirà a risollevarsi se non attraverso una serie cospicua di scontri anche nelle sue stesse fila, perché uno degli ostacoli più duri da eliminare è costituito dall’abitudine ad affidare alla democrazia, e alle sue istituzioni, la soluzione di ogni problema, la soluzione di ogni contraddizione. Anni e anni di collaborazionismo sindacale e politico, anni e anni di pratiche democratiche, pacifiste, legalitarie, anni e anni di sottomissione “spontanea” e “volontaria” alle esigenze dell’economia capitalistica e del potere politico borghese, hanno abituato i proletari dei paesi capitalisti avanzati a “delegare” la difesa delle proprie esigenze di vita quotidiana ad istituti di carattere sindacale, sociale, politico, religioso che in realtà svolgono la funzione di controllo sociale, di propaganda del consenso, di intimidazione morale e spirituale, di irreggimentazione sul fronte della conservazione sociale.

Queste abitudini, questi pregiudizi sulla democrazia, sulla “libertà personale”, sulle “scelte” che ogni singolo sarebbe in grado – e in “diritto” – di fare, costituiscono dei macigni materiali che nessuna propaganda, di per sé, nessuno sforzo di convincimento ad personam, riuscirebbero a spostare e a frantumare.

Questi macigni potranno andare in frantumi solo in presenza di una lotta che un movimento di classe proletario sviluppi sul terreno dell’aperto e deciso scontro di classe. Rompere la pace sociale, i legami del collaborazionismo interclassista, le pratiche di sottomissione alle “compatibilità” economiche del capitale, è un passaggio obbligatorio per il proletariato: lo farà prima con i pugni e lo stomaco, e poi se ne renderà conto, ma dovrà farlo se non vuole trasformarsi per l’ennesima volta in carne da cannone dopo aver offerto al capitale ogni goccia di sudore, ogni anche più piccola energia fisica e nervosa, nelle galere del lavoro salariato, o nella disperazione della mancanza di lavoro salariato.       

 

 

Partito Comunista Internazionale

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