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Il Partito di classe di fronte all'offensiva fascista (1921-1924)

Rapporti alla riunione generale di Firenze del 30 aprile - 1 maggio 1967

( Opuscolo A4, 60 pagine, Prezzo: 5, 8 FS) -   Pdf


 

Introduzione

 

Il rapporto  tenuto alla riunione generale di Firenza (30/4-1/5/1967) e che costituisce il contenuto di questo opuscolo, come affermato fin dall’inizio nella sua stesura scritta, «non mirava a ripresentare ai compagni l’interpretazione che del fenomeno fascismo la Sinistra dette e dà sul piano teorico», quanto invece a documentare come il Partito comunista d’Italia, sotto la direzione della Sinistra, affrontò politicamente e praticamente l’offensiva fascista che si svolse in Italia dal 1921 al 1924.

All’interpretazione del fenomeno «fascismo»  da parte della Sinistra - che oggi non possiamo più limitarci a definire semplicemente «sinistra» o «sinistra italiana» dato che questa terminologia è stata utilizzata da varie correnti opportuniste nei modi più diversi e contraddittori, ma chiamiamo Sinistra comunista d’Italia per ribadire la stessa visione internazionalista dalla quale discendeva la definizione di Partito Comunista d’Italia - è necessario comunque rifarsi, soprattutto in un periodo in cui, da parte di tutte le correnti opportuniste, si insiste nel far passare il fascismo come espressione di una visione e di una cultura politica pre-democratica, se non addirittura pre-capitalistica.

Per la nostra corrente il fascismo è stato ed è l’espressione più matura della fase imperialista dello sviluppo del capitalismo; è un metodo di governo del potere borghese di cui la classe dominante «si servirà ogni volta che l’altro, quello democratico nonostante le sue apparenti blandizie, le sue promesse egualitarie, la sua opera corruttrice sugli strati superiori del proletariato, non riesca allo scopo, in forma più duttile e larvata, di assicurare il suo dominio di classe».

La fase del moderno imperialismo - terza fase storica dello sviluppo del capitalismo nei principali paesi, dopo la prima fase rivoluzionaria e la seconda fase progressiva e riformista - è caratterizzata «dalla concentrazione monopolistica dell’economia, dal sorgere dei sindacati e dei trust capitalistici, dalle grandi pianificazioni dirette dai centri statali», come ribadiamo nel Tracciato di impostazione del 1946 (1).

Seguendo perfettamente l’impostazione data da Lenin nel suo Imperialismo, fase suprema del capitalismo, nel Tracciato questa fase viene così sintetizzata: «L’economia borghese si trasforma e perde i caratteri del classico liberismo, per cui ciascun padrone d’azienda era autonomo nelle sue scelte economiche e nei suoi rapporti di scambi. Interviene una disciplina sempre più stretta della produzione e della distribuzione; gli indici economici non risultano più dal libero gioco della concorrenza, ma dall’influenza di associazioni fra capitalisti prima, di organi di concentrazione bancaria e finanziaria poi, infine direttamente dello Stato. Lo stato politico, che nella accezione marxista è sempre stato il comitato di interessi della classe borghese e li ha sempre tutelati come organo di governo e di polizia,diviene sempre più un organo di controllo e addirittura di gestione dell’economia.

«Questa concentrazione di attribuzioni economiche nelle mani dello stato può essere scambiata per un avviamento dall’economia privata a quella collettiva solo se si ignori volutamente che lo stato contemporaneo esprime unicamente gli interessi di una minoranza e che ogni statizzazione svolta nei limiti  delle forme mercantili conduce ad una concentrazione capitalistica che rafforza e non indebolisce il carattere capitalistico dell’economia. Lo svolgimento politico dei partiti della classe borghese in questa fase contemporanea, come fu chiaramente stabilito da Lenin nella critica dell’imperialismo moderno, conduce a forme di più stretta oppressione, e le sue manifestazioni si sono avute nell’avvento dei regimi che sono definiti totalitari e fascisti (2). Questi regimi costituiscono il tipo politico più moderno della società borghese e vanno diffondendosi attraverso un processo che diverrà sempre più chiaro in tutto il mondo. Un aspetto concomitante di questa concentrazione politica consiste nell’assoluto predominio di pochi grandissimi stati a danno dell’autonomia degli stati medi e minori».

E’ noto che il fascismo, questa terza fase capitalistica, è stato interpretato dallo stalinismo e dalle sue molteplici varianti, come fosse un tornare indietro della storia, un tentativo di restaurazione precapitalistica contro il quale era più che giustificata la lotta, e la guerra, per ripristinare la modernità e le forme politiche tipiche della democrazia. Ma, prima dello stalinismo, già Gramsci aveva teorizzato il fascismo sia come un movimento di «regressione storica», sia come movimento «indipendente» delle classi medie spinte ad fare la «loro rivoluzione» (3).

In realtà il movimento fascista, prima di trasformarsi in partito di governo e di attuare un metodo di governo che rispondesse nell’immediato al pericolo per il potere borghese rappresentato dal movimento proletario rivoluzionario, si organizzò e si sviluppò grazie all’appoggio politico e materiale della Confederazione Generale dell’Industria. Il fascismo nacque urbano, a Milano e cominciò a radicarsi nelle regioni più industrializzate d’Italia, il famoso «triangolo industriale» Milano-Torino-Genova; per estendersi come movimento e per svolgere il suo vero ruolo di movimento piccoloborghese antiproletario, trovò più facile attaccare in un primo tempo i proletari nelle campagne approfittando del loro isolamento ed è per la funzione antiproletaria contro i braccianti e gli operai agricoli che i fascisti furono sostenuti anche dagli agrari e dai latifondisti.

In un secondo tempo le squadre fasciste portarono l’attacco ai proletari delle città industriali, alle loro sedi e alle sedi dei loro giornali, ossia laddove i proletari, più organizzati, potevano opporre una forte resistenza come in effetti avvenne; e tutto ciò sotto la protezione dello Stato centrale e delle forze dell’ordine.

Fin dal sorgere del movimento fascista nel 1919,  la Sinistra comunista seguì con molta attenzione questo movimento, come fece d’altra parte col movimento dannunziano che in seguito si fuse con il fascismo, ed ebbe molto chiaro che il fascismo si conquistò una posizione dominante nella politica italiana grazie «a tre fattori principali: lo Stato, la grande borghesia e le classi medie», come affermò Amadeo Bordiga nel Rapporto del PCd’I sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale Comunista nel novembre del 1922 (4).

Il primo di questi fattori è quindi lo Stato.

Nel Rapporto, or ora citato, si può leggere: «In Italia l’apparato statale ha avuto un ruolo importante nella fondazione del fascismo. Le notizie sulle crisi successive del governo borghese hanno fatto sorgere l’idea che la borghesia avesse un apparato statale così instabile che, per abbatterlo, bastasse un semplice colpo di mano. Le cose non  stanno affatto così. La borghesia ha potuto costruire la sua organizzazione fascista proprio nella misura in cui il suo apparato statale si rafforzava.

«Durante l’immediato periodo postbellico, l’apparato statale attraversa bensì una crisi, la cui causa manifesta è la smobilitazione; tutti gli elementi che fino allora partecipavano alla guerra vengono bruscamente gettati sul mercato del lavoro, e in questo momento critico la macchina statale che, fino allora, si era occupata di procurare ogni sorta di mezzi ausiliari contro il nemico esterno, deve trasformarso in un apparato di difesa del potere contro la rivoluzione interna. Si trattava per la borghesia di un problema gigantesco. Essa non poteva risolverlo né dal punto di vista tecnico, né da quello militare mediante una lotta aperta contro il proletariato; doveva risolverlo dal punto di vista politico. In questo periodo nascono i primi governi postbellici di sinistra; in questo periodo sale al potere la corrente politica di Nitti e di Giolitti.

«Proprio questa politica ha permesso al fascismo di assicurarsi la successiva vittoria. Bisognava, a tutta prima, fare delle concessioni al proletariato; nel momento in cui l’apparato statale aveva bisogno di consolidarsi, comparve in scena il fascismo; è pura demagogia quando questo critica i governi di sinistra postbellici e li accusa di viltà verso i rivoluzionari. In realtà i fascisti sono debitori della possibilità della loro vittoria alle concessioni della politica democratica dei primi ministeri del dopoguerra» (5).

 Con le concessioni alla classe operaia, come la smobilitazione, il regime politico, l’amnistia per i disertori - che erano rivendicazioni del Partito Socialista! - lo Stato mirava a guadagnare tempo per ricostruire il suo apparato su basi più solide; nel frattempo veniva creata la Guardia Regia per la pubblica sicurezza, dipendente dal ministero dell’Interno, praticamente un secondo esercito, nella quale confluirono moltissimi elementi dell’esercito in smobilitazione, e con autorità superiore a quella dei Carabinieri. E i riformisti del Partito Socialista non compresero che la borghesia, con queste mosse, stava mettendo a punto l’organizzazione delle forze controrivoluzionarie, legali e illegali, finalizzata a schiacciare il movimento operaio. Anche di fronte all’occupazione delle fabbriche da parte di gruppi operai armati, il governo borghese seppe applicare una politica “attendista”, promettendo al proletariato una legge sul controllo operaio della produzione (mai applicata, naturalmente) e attirando in questo modo nella propria trappola i capi traditori della Confederazione Generale del Lavoro. Ma per comprendere meglio in che cosa consisteva l’appoggio dello Stato alle squadre fasciste che attaccavano i proletari, leggiamo un altro brano dal Rapporto Bordiga sul fascismo:

«Dopo i ministeri Nitti, Giolitti e Bonomi venne il governo Facta. Questo servì a mascherare la completà libertà d’azione del fascismo nella sua avanzata territoriale (6). Al tempo dello sciopero dell’agosto 1922, scoppiarono tra fascisti e operai (i primi apertamente appoggiati dal governo) serie lotte. Possiamo citare l’esempio di Bari, dove un’intera settimana di scontri non bastò a vincere gli operai che si erano asserragliati nelle loro case della città vecchia e si difendevano con le armi in pugno malgrado il completo spiegamento delle forze fasciste. I fascisti dovettero ritirarsi, laciando sul terreno molti dei loro. E che cosa fece il governo Facta? Di notte fece circondare da migliaia di soldati, da centinaia di carabinieri e di Guardie regie la città vecchia ordinando l’assedio. Dal porto una torpediniera bombardò le case; mitragliatrici, carri armati e fucili entraro in azione. Gli operai sorpresi nel sonno, venenro sconfitti, la Camera del Lavoro occupata. Esattamente così lo Stato agì dappertutto. Dovunque si notava che il fascismo doveva ritirarsi di fronte agli operai, il potere statale intervenne sparando sugli operai che si difendevano, arrestando e condannando gli operai il cui unico delitto era quello di difendersi, mentre i fascisti, che avevano compiuto indubbiamente delitti comuni, erano sistematicamente assolti» (7).

Il secondo fattore è stata la grande borghesia. «I capitalisti delle industrie, delle banche, del commercio e i grandi proprietari terrieri, hanno interesse naturale a che sia fondata un’organizzazione di combattimento che appoggi la loro offensiva contro i lavoratori»; non c’è molto di più da dire. E’ ovvio che la grande borghesia faccia di tutto, utilizzi qualsiasi mezzo per stroncare un movimento operaio che sta dimostrando di avere la volontà e la capacità di spazzarla via dal potere.

Nell’industria l’offensiva capitalistica sfrutta direttamente la situazione economica. Con la crisi aumenta la disoccupazione; una parte della classe operaia viene licenziata e, ovviamente, i capitalisti cacciano dalle fabbriche gli operai più impegnati nell’attività sindacale e gli estremisti; ma la crisi economica serve ai capitalisti anche come pretesto per ridurre i salari e per indurire la disciplina di fabbrica. E per avere più forza nell’affrontare la forza operaia organizzata, gli industriali si associano in una loro organizzazione di classe che di fatto dirige l’offensiva capitalistica contro l’intera classe operaia, guidando l’azione di ogni singolo ramo d’industria. Non conveniva però alla borghesia industriale delle grandi città, nella sua lotta contro la classe operaia, usare subito il massimo della violenza; era facile prevedere da parte operaia, dati tutti i fattori oggettivi e soggettivi presenti nella situazione, una dura e organizzata resistenza e il passaggio dalla lotta di difesa immediata alla lotta politica più generale, perciò gli industriali preferivano che lo spirito di lotta e la forza di classe del proletariato fossero indirizzati e racchiusi nelle lotte a carattere essenzialmente sindacale, ambito questo dove i capitalisti avevano facile gioco perché la crisi economica era molto profonda e la disoccupazione aumentava continuamente. Le lotte economiche del proletariato avrebbero potuto avere possibilità di vittoria, ma avrebbero dovuto rompere i limiti della lotta sindacale per trascrescere in lotta politica e rivoluzionaria. Questo salto di qualità poteva avvenire, però, soltanto in presenza di un partito di classe rivoluzionario solidamente diretto e influente in ampi strati del proletariato, cosa che il Partito Socialista Italiano non era per nulla. E così, «Il periodo dei grandi successi dell’organizzazione sindacale italiana nella lotta per il miglioramento delle condizioni di lavoro cedette il posto ad un nuovo periodo in cui gli scioperi divennero scioperi difensivi e i sindacati subirono una sconfitta dopo l’altra» (8)  

Il terzo fattore, le classi medie, non è meno importante nella genesi del potere fascista. Lo Stato, dovendosi consolidare al potere dopo il caos lasciato dalla guerra, e dovendo affrontare un movimento proletario sceso sul terreno della lotta rivoluzionaria, il terreno in cui si organizzava per rispondere anche armi alla mano ai colpi che gli venicano inferti, aveva biosgno di creare accanto a sé un’organizzazione reazionaria illegale. Ma dove pescare gli elementi per questa organizzazione?

«Occorreva arruolare elementi diversi da quelli che l’alta classe dominante poteva fornire dai suoi ranghi. Li si ottenne rivolgendosi a quegli strati delle classi medie che già abbiamo citato, e allettandoli con la difesa dei loro interessi. E’ questo che il fascismo cercò di fare e che, bisogna riconoscere, gli è riuscito. Esso ha attinto partigiani negli strati più vicini al proletariato, come fra gli insoddisfatti della guerra, fra tutti i piccoloborghesi, semi-borghesi, bottegai e mercanti e, soprattutto tra gli elementi intellettuali della gioventù borghese che, aderendo al fascismo, ritrovano l’energia per riscattarsi moralmente e vestirsi della toga della lotta congtro il movimento proletario e finiscono nel patriottismo e nell’imperialismo più esaltato. Questi elementi apportarono al fascismo un numero notevole di aderenti e gli permisero di organizzarsi militarmente» (9).

Di fatto, il Partito socialista italiano non riuscì mai a comprendere il significato e l’importanza del movimento fascista; sbagliò completamente valutazione sia del fenomeno «fascismo», ritenendolo tutto sommato marginale rispetto alle forze borghesi determinanti, e le cui rozzezza e brutalità potevano essere vinte attraverso l’uso della legalità democratica e delle forze dell’ordine costituito. La lunga tradizione democratica e riformista - aldilà delle parole classiste e rivoluzionarie usate nei giornali e nel parlamento - aveva trasformato l’attitudine antagonista caratteristica del socialismo marxista in attitudine conciliazionista che intossicava non soltanto la destra turatiana ma l’intero gruppo parlamentare e l’intera dirigenza confederale, deviando il movimento proletario dalla sua storica prospettiva classista e rivoluzionaria nei meandriinconcludenti dell’attività democratica e parlamentare.

Il Partito socialista italiano non fu in grado di cogliere l’occasione che il primo dopoguerra presentò al movimento proletario e alla sua lotta di classe perché aveva deviato da tempo dalla giusta rotta marxista; e il tentativo che le correnti massimaliste fecero per ridare al partito proletario onore e prestigio anche a livello internazionale (basandosi sull’attitudine di opposizione alla guerra, coronata con l’adesione formale all’Internazionale Comunista), non ebbe altro risultato se non quello di impedire che il proletariato si preparasse organizzativamente e militarmente ad affrontare gli attacchi che la borghesia dominante, pur nella crisi e nello sconquasso provocati dalla guerra, attuava contro gli scioperi e le manifestazioni operaie. L’intelligenza del potere borghese si dimostrò all’altezza del compito di conservazione sociale, facendosi percepire come indebolita dalla crisi postbellica rimanendo “in attesa degli eventi”, mentre i socialisti raccoglievano, una dopo l’altra, vittorie elettorali conquistando l’amministrazione di moltissimi comuni.

A proposito dell’adesione del Partito socialista italiano alla Terza Internazionale, è particolarmente significativo quanto scrisse a questo proposito Trotsky nel suo Terrorismo e comunismo (giugno 1920, al tempo del II Congresso dell’Internazionale Comunista). Ecco che cosa si legge sul PSI in relazione al suo opportunismo e al suo atteggiamento di fronte alla guerra imperialista:

«Il partito italiano, che aderisce alla III Internazionale, non è per nulla esente dal kautskismo. Per quanto riguarda i suoi capi, gran parte di loro inalberano la bandiera dell’Internazionale solo in ragione delle loro funzioni e perché costretti dalla base. Nel 1914-15, fu incomparabilmente più facile per il partito socialista italiano che per gli altri partiti europei conservare un atteggiamento di opposizione sulla questione della guerra, poiché l’Italia entrò in guerra solo nove mesi dopo gli altri paesi, ed anche e soprattutto perché la situazione internazionale aveva creato in questo paese un potente raggruppamento borghese (i giolittiani, nel senso più esteso del termine) che restò fino all’ultimo minuto ostile all’entrata in guerra dell’Italia. Queste circostanze permisero al partito socialista italiano di rifiutare al governo senza una profonda crisi interna i crediti di guerra e, in generale, di restare al di fuori del blocco interventista. Ma per questo, incontestabilmente, si ritrovò ritardata l’epurazione interna del partito. Entrando nella Terza Internazionale, il partito socialista italiano tollera a tutt’oggi nel suo seno Turati e i suoi seguaci. Questo raggruppamento estremamente largo (...) rappresenta un opportunismo senza dubbio meno pedante, meno dogmatico, più declamatorio e lirico, ma che è nondimeno un opportunismo tra i più nefasti, un kautskismo romanticizzato. Per celare l’attitudine conciliatrice adottata verso i gruppi kautskisti, longuettisti, turatiani, si dichiara in generale che nei paesi in questioone non è ancora suonata l’ora dell’azione rivoluzionaria. Ma un simile modo di porre la questione è totalmente falso. Nessuno, in effetti, esige dai socialisti che aspirano al comunismo che fissino la presa rivoluzionaria del potere per i mesi o le settimane a venire. Ma quel che la Terza Internazionale esige dai suoi sostenitori è che riconoscano non a parole, ma nei fatti, che l’umanità civilizzata è entrata in un’epoca rivoluzionaria, che tutti i paesi capitalistici marciano verso immensi sconvolgimenti e verso l’aperta guerra di classe, e che il compito dei rappresentanti rivoluzionari del proletariato consiste nel preparare per questa guerra inevitabile che si approssima l’armamento ideologico indispensabile ed i punti d’appoggio organizzativi.» (10). Le parole di Trotsky sono  chiarissime e non potevano che sottolineare le stesse considerazioni della corrente di sinistra del Partito socialista italiano. I compiti del partito di classe, riafferma Trotsky, consistono nel preparare per l’aperta e inevitabile guerra di classe “l’armamento ideologico indispensabile ed i punti d’appoggio organizzativi”. E’ per poter pienamente svolgere questi compiti che la corrente di sinistra del PSI preparerà la scissione e la contemporanea fondazione del «Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale Comunista» a Livorno nel gennaio del 1921.

Ciò che i riformisti, ed anche i massimalisti, non capirono è che la dinamica della lotta di classe che la borghesia conduce contro la classe proletaria rivela un fatto dimostrato dalla storia e che soltanto i marxisti autentici potevano e possono comprendere, tenendone conto nella propria attività rivoluzionaria: il regime democratico, se funziona come formidabile sfogo della pressione sociale esercitata dal proletariato durante i periodi di crisi, non impedisce però alla stessa classe borghese dominante di utilizzare i mezzi della repressione e della violenza (anche «illegale») per difendere gli interessi del capitalismo. E’ così messa in luce la vera finalità dello Stato borghese: «difendere gli interessi del capitalismo con tutti i mezzi: col diversivo delle mascherature democratiche, e col supplemento delle repressioni armate quando il primo non basti a frenare ogni movimento che voglia attentare alla compagine dello Stato stesso» (11).

Da quanto precede, è evidente che il partito di classe, per essere tale e rispondere appieno ai suoi compiti nelle situazioni date, non doveva avere soltanto un potente armamento ideologico - come il partito bolscevico aveva ampiamente dimostrato prima, durante e dopo la rivoluzione - ma anche un’organizzazione omogenea, disciplinata e capace di attuare le diverse direttive in ogni suo punto, in campo politico come in quello sindacale, in campo sociale come in quello più strettamente organizzativo e, tanto più, militare. E che, nel periodo rivoluzionario, apertosi con la guerra imperialista e con la rivoluzione dell’Ottobre 1917 in Russia, in ogni paese il partito comunista  dovesse attrezzarsi anche con una sua struttura illegale e procedesse ad un inquadramento militare, era fuori di dubbio. D’altronde, i proletari, ed il partito proletario, dovevano affrontare non solo la repressione delle molteplici forze dello Stato, ma anche gli attacchi delle forze reazionarie armate, come le Guardie Bianche in Russia, le squadre fasciste in Italia, le camicie brune in Germania, attacchi sempre ben protetti dalle forze armate dello Stato.

Contro le false accuse, lanciate dallo stalinismo alla direzione di Sinistra del Partito comunista d’Italia, di non aver saputo affrontare e contrattaccare il fascismo nella fase della sua iniziale attività politica e militare, nel Rapporto che segue è ampiamente dimostrato come invece fu proprio la Sinistra, che diresse il PCd’I nei suoi primi due anni di vita, ad assicurare al partito non soltanto basi teoriche, programmatiche, di principio e politiche perfettamente in linea con i dettami del marxismo e con l’impostazione data dalla stessa Internazionale Comunista nel suo congresso del 1920, ma anche basi organizzative adeguate ai gravi compiti ai quali il partito era chiamato, caratterizzate da una condivisione e da una disciplina politica che non ebbero, se non in casi del tutto eccezionali, bisogno di essere soccorse da formalismi estremi e da quel che fu, poi, un vero e proprio terrorismo ideologico messo in atto dallo stalinismo. L’inquadramento militare di partito, di cui era evidente la necessità e l’urgenza, non poteva che essere preceduto dall’inquadramento politico senza il quale le forze del partito non sarebbero mai state omogenee nell’attuazione delle linee tattiche definite centralmente e nelle loro azioni generali e locali . D’altronde, come il marxismo insegna, i criteri di organizzazione non sono mai neutri: se non rispondono ad una organica e omogenea organizzazione grazie alla quale si ottiene una disciplina politica, e quindi organizzativa, essi rispondono ad impostazioni   formalistiche ed artificiose attraverso le quali si fa discendere la disciplina politica da una prioritaria disciplina organizzativa.

 Nel capitoletto intitolato: «Verso un inquadramento militare di partito», (più avanti, a p. 37) si legge: 

«Sbarazzare il terreno dalle ideologie pacifiste, piagnucolanti e capitolarde, non solo del riformismo classico, ma della sua più recente copertura, il massimalismo; infondere nelle masse proletarie e nei militanti comunisti il senso non solo della necessità urgente della difesa sul terreno stesso dell’avversario, ma della controffensiva in situazioni più favorevoli e nel corso della stessa azione ‘puramente’ difensiva ogni qual volta i rapporti di forze lo permettessero; martellare nei giovani combattenti della classe operaia la convinzione che solo intorno alla bandiera del Partito, fuori da equivoche combinazioni para-elettorali e dall’eterno mito di una ‘unità’ bugiarda, si offriva la possibilità di dare il necessario inquadramento alle azioni spontanee di difesa e di attacco; tutto questo era la premessa indispensabile ad una preparazione seria, generale e disciplinata, delle forze operaie allo scontro con le forze regolari e irregolari della controrivoluzione borghese». Detti in sintesi, questi erano gli obiettivi più urgenti che il PCd’I si poneva nell’indispensabile preparazione alla guerra di classe che la classe dominante borghese già conduceva contro il proletariato da tempo, ma contro la quale il proletariato si trovava ancora molto impreparato, diviso, isolato, spesso illuso che bastasse una “spallata elettorale” o un grande sciopero per poter vincere la reazione fascista.

E poco più avanti: «Non si può separare il problema militare della difesa e dell’attacco dal problema politico: il primo dipende dal secondo, è quest’ultimo che traccia all’altro la sua via e gli indica il suo obiettivo. Non ci si difende, e meno che mai si attacca, allo stesso modo se si ha come fine la difesa della democrazia violata o invece il suo annientamento; non si oppone allo schieramento avversario un efficacie e unitario schieramento proprio, se non si sa  pregiudizialmente a quale dei due obiettivi si mira, e se, nello stesso schieramento di battaglia, esistono incertezze e dubbi, preconcetti e limitazioni circa lo svolgimento ulteriore della lotta. La chiarezza d’impostazione politica o, se vogliamo usare un termine più adatto al problema specifico, strategica, è condizione della potenza, della continuità, dell’omogeneità dell’azione pratica, o se si preferisce, della tattica, e questa è la premessa dell’efficienza e della saldezza dell’organizzazione.

«Anche qui, si doveva andare contro corrente e costruire ex novo, liquidando il peso delle tradizioni più negative – agli effetti della centralizzazione, della disciplina e dell’organicità di movimento – del vecchio partito socialista. Non si potevano né si dovevano, sopratutto all’inizio, scoraggiare le azioni individuali e persino le iniziative periferiche: esse erano una sana manifestazione dello spirito di lotta dei militanti come dei proletari comuni: ma bisognava preparare il terreno al loro assorbimento nel quadro di una disciplina unitaria, quindi centrale».

Il grande obiettivo era di «creare la propria rete militare indipendente per farne l’anima, il cervello e la spina dorsale, la guida politica e materiale, della riscossa del proletariato», e per raggiungerlo si sapeva che bisognava sbarazzarsi delle pesanti abitudini del vivere democratico e civile cll’interno come all’esterno dell’organizzazione dei militanti, liberando le energie combattive che il proletariato aveva accumulato nel tempo, per lungo tempo deviate sul terreno della democrazia, della pace sociale e del mito di una unità che in realtà le paralizzava; «bisognava costruire metodicamente un apparato, un “inquadramento” (come si disse) che ubbidisse a una precisa disciplina di partito e fosse ispirato in tutti i suoi movimenti da una direttiva unica».

L’insistenza su tale obiettivo e sull’impostazione politica generale dell’inquadramento militare non era dovuta soltanto alla questione centrale per il Partito comunista, la questione della preparazione rivoluzionaria del Partito e del proletariato di cui l’inquadramento militare era parte integrante, ma anche alla necessità di distinguersi nettamente sia dai destri e dai riformisti del PSI, dal quale i comunisti si erano verticalmente scissi nel gennaio del 1921, sia dalle iniziative extra-partiti di formazioni militari che avevano l’ambizione di essere le uniche a contrapporsi militarmente alle violenze delle squadre fasciste. E’ il caso in particolare degli Arditi del popolo, organizzazione fondata da ex combattenti della prima guerra mondiale che come fine aveva il ritorno alla «normalità», ossia alla legalità, dunque alla pace sociale, attraverso l’attività e l’azione di questa organizzazione formata da patrioti ex soldati che mettevano al servizio della legalità la propria esperienza militare, il proprio eroismo, la propria dedizione alla patria, ieri difesa sugli altipiani della guerra mondiale e oggi difesa dalla violenza delle squadre fasciste, ma anche dei «sovversivi rossi». Gli Arditi del popolo intendevano monopolizzare le azioni militari -ritenute necessarie dato il caos seguito alla fine della guerra - con le quali contrastare le aggressioni violente dei fascisti contro il “popolo lavoratore”, contro le sedi delle sue organizzazioni (leghe, camere del lavoro, sedi di giornali e partiti), e perciò catturavano simpatie e proseliti anche nelle file proletarie. Il Partito comunista che, come finalità, non ha certo il “ritorno alla legalità borghese”, ma la rivoluzione proletaria, la conquista del potere politico attarverso l’insurrezione, l’instaurazione della dittatura del proletariato esercitata dal Partito stesso, nel quadro della rivoluzione mondiale come d’altra parte scritto con caratteri indelebili nelle Tesi dell’Internazionale Comunista, non intendeva assolutamente mettere in discussione la propria indipendenza non solo teorica e politica ma nemmeno organizzativa: i propri militanti e i propri simpatizzanti in qualsiasi attività e in qualsiasi situazione non dovevano seguire che la disciplina di partito, le sue direttive e il suo inquadramento: in campo politico, come in campo sindacale, e tanto più in campo militare (cosa che .

Infatti, l’attività a carattere militare che riguardava l’organizzazione della risposta alla violenza, sullo stesso terreno dell’attacco fascista, aveva necessariamente un inquadramento tecnico-organizzativo ma che rispondeva ad un vitale inquadramento politico generale: quello per l’appunto di passare dalla difesa dal potere borghese, sia illegale che legale, all’attacco al potere borghese. Faceva parte, infatti, della complessa preparazione rivoluzionaria da parte sia del partito e dei suoi militanti che da parte del proletariato in genere.

L’esperimento degli Arditi del popolo, proprio per il fatto di basarsi su valori politici e sentimentali del tutto contraddittori ma in ogni caso tutti egualmente riconducibili alla conservazione borghese, fu un’esperienza che si atomizzò rapidamente togliendo però energie e chiarezza alle masse proletarie al fine di deviarle dagli obiettivi, dai metodi e dai mezzi di classe , i soli che avevano, hanno e avranno la possibilità di svolgere fino in fondo lo sviluppo della lotta di classe e rivoluzionaria.

L’azione pluridecennale e intossicante del riformismo, del pacifismo, del legalitarismo, riuscì a intralciare e in parte a paralizzare il movimento di classe del proletariato; le correnti marxiste autentiche, all’epoca dette “di sinistra”, non riuscirono a costituire nei tempi necessari i partiti di classe secondo le indicazioni dell’Internazionale Comunista, tempi necessari ad una preparazione rivoluzionaria “alla bolscevica”, capace di cogliere le occasioni favorevoli che la storia delle lotte di classe porgeva al proletariato europeo subito dopo la fine della guerra. In Italia, prima, in Germania poi, il riformismo tagliò la strada alla rivoluzione proletaria, preparando il terreno sociale alle classi borghesi  perché trovassero la soluzione alle loro fallimentari economia e gestione governativa del dopoguerra: il fascismo, e poi il nazismo, furono la “soluzione borghese” per eccellenza, che portò la borghesia ad ottenere il miglior risultato dal punto di vista della difesa degli interessi capitalistici di classe generali: massima centralizzazione del potere politico e massimo disciplinamento sociale fondato sulla collaborazione fra le classi integrando nello Stato anche “organizzazioni proletarie” - naturalmente dopo aver distrutto tutte le organizzazioni proletarie di classe e represso sistematicamente gli strati proletari più organizzati e combattivi. Senza l’opera “preventiva” del riformismo, della socialdemocrazia, nell’indebolire “da dentro” il proletariato, lo scontro di classe, anche sul piano militare, non avrebbe dato facilmente la vittoria alle forze della conservazione borghese. La sconfitta del proletariato - e del partito di classe - leggibile nei cedimenti sempre più vistosi dell’Internazionale Comunista nei confronti dell’opportunismo, dalla nuova teoria del socialismo in un solo paese, alla partecipazione alla seconda guerra imperialista negli eserciti regolari come nelle formazioni partigiane - è una sconfitta storica che potrà essere superata e trasformata in vittoria solo tirando tutte le lezioni programmatiche, politiche, tattiche e organizzative che la storia di ieri ci obbliga a tirare su ogni fronte di lotta, su ogni questione centrale come quella svolta in questo opuscolo.

 


 

(1) Cfr. Tracciato di impostazione, pubblicato nelle rivista mensile del partito comunista internazionalista Prometeo, anno I, n. 1, luglio 1946. Ripubblicato in seguito dal partito stesso nella serie «i testi del partito comunista internazionale»,  nr. 1, Milano,  novembre 1974

(2) Per questi regimi, questi metodi di governo - come scrivevamo all’inizio del rapporto esteso «Il Partito di classe di fronte all’offensiva fascista (1921-1924)» ne «il programma comunista» n. 16 del 1967 -, si chiamino fascismo o nazismo, assumano le forme più provinciali e arretrate del falangismo o paternalistiche del corporativismo salazariano, o addirittura quelle primitive e rozze del colpo di stato militare, come in Grecia, in Argentina, in Cile ecc., la sostanza non cambia.

(3) Vedi più avanti, il capitoletto «L’inizio dell’offensiva e due tesi fasulle»,  p. 17.

(4) Cfr. Rapporto del PCd’I sul fascismo al V Congresso dell’I.C., dodicesima seduta, 16 novembre 1922, in La Correspondance Internationale, n. 36 del 22 dicembre 1922, ripresa in Communisme et fascisme, ed. programme, textes du parti communiste international, 2001.

(5) Sempre dal Rapporto del PCd’I sul fascismo..., cit.

(6) Il vero e proprio piano di avanzata territoriale ebbe il suo punto di partenza a Bologna dove, nell’autunno 1920 si era instaurata un’amministrazione socialista, occasione colta dalle forze di combattimento rosse per una granda mobilitazione. Vi sono degli incidenti durante il consiglio comunale, vi sono provocazioni dall’esterno; sui banchi della minoranza borghese, probabilmente con aiuti dall’esterno, si spara, ed è questa l’occasione per il primo grande colpo di mano fascista. Si scatena la reazione fascista con distruzioni e incendi e vengono colpiti i dirigenti proletari; con l’aiuto del potere statale, i fascisti si impadroniscono della città ed ha inizio il terrore su tutto il territorio italiano. L’assalto fascista, protetto dall’esercito, dalla polizia, dai carabinieri e dalla Guardia Regia, al municipio di Bologna, mise in evidenza la paura e l’inettitudine dei dirigenti socialisti che non ebbero né la volontà né la forza di prepararsi militarmente, e preparare il partito, allo scontro armato con i fascisti. Dai fatti di Palazzo Accursio di Bologna, scrive R. del Carria nel suo «Proletari senza rivoluzione» (Savelli editore, vol. III, p. 175), si diffonderà in tutta Italia la percezione che «il socialismo è un grande colosso dai piedi di argilla e che un pugno di persone armate e decise possono far crollare». In realtà, i fascisti, e le forze armate dello Stato, troveranno una effettiva resistenza proletaria armata soltanto da parte dei proletari spontaneamente organizzatisi e da parte dei comunisti del giovanissimo Parrtito comunista d’Italia, resistenza che non fu sufficiente per rimontare la situazione generale già molto compromessa dalla lunga e capillare opera di concliazione tra le classi attuata dalle forze riformiste; a riprova che il riformismo e lo stesso massimalismo - rivoluzionarismo a parole, riformismo nei fatti - non solo non portano il movimento proletario all’emancipazione dallo sfruttamento capitalistico, ma ne imbrigliano la forza mettendola alla mercé della repressione legale e illegale delle forze borghesi.

(7) Sempre dal Rapporto del PCd’I sul fascismo..., cit.

(8) Sempre dal Rapporto del PCd’I sul fascismo..., cit.

(9) Ibidem.

(10) Cfr. L. Trotsky, Terrorisme et communisme, Editions Prométhée, Paris, février 1980,  Appendice: En guise de Postface, p. 196-7. Vedi anche la traduzione italiana in L. Trotsky, Terrorismo e comunismo,  apparsa a puntate ne «il comunista»dal  n. 46 al n. 83, poi raccolte in volume nel dicembre 2009 a nostra cura come n. 1 dei «Testi del marxsimo rivoluzionario» del partito comunista internazionale (www.pcint.org).

(11) Vedi l’articolo di A. Bordiga  intitolato Il Fascismo,  pubblicato ne «Il Comunista» del 17 novembre 1921, contenuto nella Storia della Sinistra comunista, vol. IV, edizioni il programma comunista, Milano 1997, Cap. terzo, Documenti,  p. 172.

 

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