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Il terrorismo e il tormentato cammino della ripresa generale della lotta di classe
( Opuscolo A4, 92 pagine, Prezzo: 5 €, 8 FS) - pdf
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Introduzione
I marxisti hanno sempre sostenuto che la violenza rivoluzionaria è necessaria ad ogni classe rivoluzionaria nella sua lotta contro il potere politico e la struttura economica e sociale della vecchia società per lottare con successo contro l’oppressione e lo sfruttamento delle classi dominate da parte delle classi dominanti e per liberare uno sviluppo delle forze produttive che lo sviluppo economico della vecchia società richiede ma è impedito dal persistere al potere delle vecchie classi dominanti. Come lo è stata per la classe borghese che aveva il compito storico di abbattere il feudalesimo e i suoi apparati di potere per dar corso allo sviluppo del nuovo e rivoluzionario modo di produzione capitalistico, così è e sarà necessaria per la classe proletaria che ha il compito storico di abbattere il capitalismo e i suoi apparati di potere per dar corso allo sviluppo del nuovo e rivoluzionario modo di produzione socialista.
Non riprenderemo qui l’ampia e complessa questione della forza e della violenza trattata in uno dei testi fondamentali di partito durante il periodo della sua ricostituzione, finito il secondo macello imperialistico mondiale (1946-1948), intitolato Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe, al quale naturalmente rimandiamo i lettori * , ma ci ricolleghiamo ad alcuni aspetti fondamentali del corso storico delle lotte di classe perché in assenza di questa impostazione scientifica della storia delle società umane non è possibile dare una giusta valutazione delle situazioni di crisi e di scontro che si creano nello sviluppo economico, politico e sociale del capitalismo; impostazione che manca completamente a tutte le formazioni politiche piccoloborghesi, o influenzate dall’ideologia della piccola borghesia, come sono le organizzazioni che basano la loro attività “politica” sul terrorismo individuale. Nella trattazione iniziale contenuta nell’opuscolo vi sono tutti i riferimenti teorici, politici tattici e organizzativi della “questione del terrorismo” dal punto di vista marxista, ricollegandoci ovviamente a Marx ed Engels, a Lenin e a Trotsky (dalla critica alla guerra “partigiana”, all’Ottobre 1917 e alla instaurata dittatura di classe) e al Partito Comunista d’Italia. Vi sono poi altri articoli, sempre degli anni 1977-1978, che si occupano in particolare dell’ideologia delle Brigate Rosse, della critica del velleitarismo e dell’opportunismo. In “Appendice” abbiamo inserito (riprendendo anche dal contenuto del vecchio opuscolo del 1978) una piccola selezione fra i tanti articoli pubblicati, sia ne “il programma comunista”, dal 1974 al 1978, sia ne “il comunista”, dal 1986 al 1988; con essi, riferendoci ad episodi dell’attualità, abbiamo voluto allargare la critica alle diverse motivazioni che i vari gruppi “terroristici” della lotta armata si davano per continuare nella loro attività, sia da parte di coloro che si autodefinirono “irriducibili”, sia da parte di coloro che invece vollero cercare la via della “pacificazione” con lo Stato e il proprio reinserimento nella vita civile.
Come nelle precedenti società divise in classi, anche la società borghese attraversa fasi diverse di sviluppo: dalla rivoluzionaria, alla riformista, alla reazionaria.
In tutte le società divise in classi – dalla schiavistica e dal dispotismo asiatico alla feudale e alla capitalistica – ogni classe che rappresentava un passo avanti della storia nello sviluppo delle forze produttive era la classe rivoluzionaria; è stata la classe che, necessariamente, per dar corso allo sviluppo delle forze produttive di cui era la rappresentante, doveva inevitabilmente ricorrere allo scontro, alla guerra di classe, in una parola: alla rivoluzione. Gli antagonismi di classe che maturano all’interno della vecchia società, raggiunto un certo livello di tensione e sulla base di una pressione economica e sociale reale del nuovo modo di produzione che si sta radicando e sviluppando all’interno delle vecchie forme politiche e sociali, sboccano, dopo aver attraversato diverse fasi di lotta, nello scontro supremo tra le classi. A seconda della maturazione dei fattori di crisi – economici, politici, sociali, militari – della vecchia società e della forza reale, organizzata e cosciente dei propri compiti, della nuova classe rivoluzionaria, la rivoluzione avviene in un paese piuttosto che in un altro, in tempi di versi e con sviluppi diversi. E’ ormai arcinoto che lo sviluppo del capitalismo – e la stessa rivoluzione borghese – non sono avvenuti nello stesso modo e in contemporanea in tutti i paesi del mondo, ma, partiti dall’Inghilterra, si sono poi estesi in Europa, poi in America del Nord e poi, con alterne vicende e con differenze anche molto profonde in tutto il mondo, determinando quello sviluppo ineguale di marxista memoria che ancor oggi è così drammaticamente presente a livello mondiale. Da metà del XVII secolo, quando il capitalismo cominciò ad impiantarsi in Inghilterra, alle rivoluzioni americana e francese di fine XVIII secolo, alla formazione degli Stati nazionali borghesi europei del XIX secolo, alla rivoluzione russa dell’inizio del XX secolo, sono passati tre secoli perché il capitalismo si imponesse definitivamente sui paesi che dominavano indiscutibilmente il mondo, sebbene con potenza differente, e perché la borghesia, come afferma il Manifesto di Marx ed Engels, creasse «un mondo a propria immagine e somiglianza».
In questi tre secoli, proprio in virtù dell’ineguale sviluppo del capitalismo, e della differente tempistica della soluzione rivoluzionaria borghese alla crisi delle vecchie classi dominanti e delle vecchie società ancora presenti, la classe borghese ha attraversato, in successione, tre grandi fasi storiche. La fase insurrezionale e rivoluzionaria, la prima, nella quale, abbattendo il potere politico delle classi feudali e clericali imponeva il proprio, dando in questo modo libero sfogo allo sviluppo del modo di produzione capitalistico e alla conquista del mondo; la classe borghese, dopo la lotta insurrezionale per la conquista del potere politico, attua necessariamente la sua dittatura di classe al fine di impedire la restaurazione delle monarchie, dei feudatari e delle gerarchie ecclesiastiche, e per piegare agli interessi di classe della borghesia tutte le forze produttive esistenti. La fase progressiva e riformista, la seconda, nella quale, nei paesi in cui il sistema capitalistico si è già impiantato e sviluppato, la classe borghese si dedica alla maggiore stabilità economica e sociale interna allo scopo di rafforzare la propria potenza economica, politica e militare per conquistare altri territori economici e, quindi, altri mercati; in questa fase, la borghesia proclama di essere la rappresentante del miglior progresso possibile di tutta la società, sviluppa prepotentemente la grande industria e i commerci, sviluppa il capitale bancario e finanziario e attira nella propria sfera di influenza le masse lavoratrici che contribuiscono, volenti o nolenti, oltre alla sua politica espansionistica e colonialista, anche a difendere il sistema capitalistico e la classe borghese dominante dal pericolo di restaurazione delle forze feudali. In questa fase si sviluppa anche il movimento di classe del proletariato che, sulla base delle contraddizioni economiche e sociali del capitalismo e degli antagonismi di classe fra proletariato e borghesia, si rivolta contro la classe dominante borghese non solo per difendere le proprie condizioni materiali di vita e di lavoro, ma anche per dare l’assalto al potere politico (vedi la Comune di Parigi). La fase reazionaria e controrivoluzionaria, la terza, in cui siamo ancora immersi, è la fase del moderno imperialismo in cui il capitale bancario e finanziario prende il sopravvento sul capitale industriale e commerciale, si sviluppa una concentrazione sempre più forte dei capitali e delle aziende aprendo la strada ai grandi monopoli, e lo Stato, dopo aver svolto il ruolo di comitato degli interessi della borghesia difeso dal suo governo e dalle forze dell’ordine, diventa anche organo centrale di controllo e di gestione dell’economia. Questa è la fase in cui i paesi capitalistici più sviluppati, che avevano già raggiunto il grado di sviluppo capitalistico necessario alla sua trasformazione economica e sociale in socialismo (come dal Manifesto di Marx ed Engels e da tutta l’opera del marxismo classico), portano la società alla guerra imperialistica mondiale per ben due volte, mentre se ne stanno preparando i presupposti economico-finanziari, politici e militari per una terza. E’ la fase in cui la borghesia dominante passa dalle forme della democrazia liberale alle forme totalitarie e fasciste, costituendo in questo modo il tipo politico più moderno della società borghese. Questa vera e propria concentrazione politica, questa moderna dittatura di classe borghese, sulla scia dello sviluppo ineguale del capitalismo, conduce al predominio assoluto di pochi grandi Stati a danno di tutti gli altri Stati borghesi formatisi nelle lotte di formazione e di indipendenza nazionale.
La violenza rivoluzionaria della prima fase del ciclo storico della borghesia, in cui l’interesse di classe proletario coincideva con l’interesse di classe borghese, si trasforma poi in violenza borghese statale per mantenere il dominio capitalistico contro le borghesie degli altri paesi e per piegare i proletari di ogni paese alle esigenze dello sviluppo capitalistico e imperialistico, per poi trasformarsi, nella fase ulteriore, in violenza reazionaria e controrivoluzionaria nei confronti non solo delle giovani borghesie dei paesi arretrati che tentano di costituirsi in classi dominanti indipendenti nel proprio paese, ma anche del proletariato sia del proprio paese imperialistico che degli altri paesi, arretrati o meno che siano.
La lotta che una borghesia conduce contro la borghesia di un altro paese, è, da un certo punto di vista, anch’essa lotta di classe, ma nel senso sociologico: borghesia contro borghesia è lotta borghese che si svolge all’interno di interessi che si fondano sulle stessi basi economiche, finanziarie, sociali, ma che supportano interessi contrastanti tra gruppi borghesi spinti dalla lotta di concorrenza a sopraffarsi a vicenda; sono, d’altra parte, interessi caratterizzati da elementi di tipo nazionale, di tipo colonialistico o imperialistico, che dettano le linee politiche a tutte le borghesie nazionali. «La borghesia – afferma il Manifesto di Marx ed Engels – è sempre in lotta; da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri». A questi «fronti di lotta», nello sviluppo storico della società borghese si è aggiunto un altro «fronte di lotta»: quello contro il proletariato. La lotta di classe per antonomasia, che si basa sull’antagonismo di classe congenito alla società borghese, è diventata la lotta tra la classe dominante borghese e la classe oppressa del proletariato, che è la classe dal cui lavoro salariato la borghesia estorce il plusvalore e, quindi, il profitto capitalistico. Scrive il Manifesto: «La società borghese moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca [vale per il 1848 e vale per il 2019] l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato». Due classi contrapposte non solo nell’immediato, ma anche nell’avvenire; due classi che sono storicamente lanciate una contro l’altra proprio perché gli interessi generali di entrambe confliggono strutturalmente, quindi socialmente e politicamente.
Inutile dire che la classe dominante borghese, in ogni paese, sulla base dell’esperienza di dominio di classe della borghesia dei paesi più avanzati, tra i suoi compiti ha quello non solo di spezzare l’unificazione di classe del proletariato tutte le volte che le condizioni storiche e sociali lo permettono, ma anche di attirare nel proprio campo – a difesa naturalmente del sistema capitalistico in generale e del potere politico borghese in particolare – almeno una parte non insignificante del proletariato; e in vista di questo obiettivo, ha utilizzato e utilizza diversi mezzi e metodi: la corruzione degli strati più qualificati del proletariato (l’aristocrazia operaia che Engels scopre già nell’Inghilterra del 1845), il coinvolgimento diretto e la corruzione dei sindacati operai a difesa dell’economia aziendale e nazionale portandoli ad integrarsi sempre più con il regime borghese, l’attrazione dei partiti operai attraverso la democrazia politica ed economica nel campo degli interessi borghesi e il loro coinvolgimento nei governi che di volta in volta hanno il compito di difendere gli interessi generali della classe borghese contro gli interessi di frazioni particolari della borghesia e contro gli interessi di classe del proletariato. Con la Comune di Parigi del 1871 il marxismo rivelò che le borghesie, anche se si fanno la guerra per interessi nazionalistici, sono sempre pronte ad allearsi – anche durante la stessa guerra borghese – contro il proletariato nella misura in cui esso rappresenti una serio pericolo rivoluzionario per il loro potere.
Nello sviluppo ineguale del capitalismo nei diversi paesi, la borghesia non cambia l’atteggiamento di fondo: usa tutte le armi possibili (economiche, sociali politiche, religiose, culturali, militari) per continuare a mantenere il potere sulla propria classe proletaria e sui proletariati degli altri paesi che riesce a piegare al proprio dominio
I partiti socialisti e socialdemocratici che votarono i crediti di guerra il famoso 4 agosto 1914, disorientando completamente i proletari che nei vari paesi li seguivano fiduciosi dei proclami rivoluzionari che quei partiti avevano sottoscritto fino al giorno prima; l’opera opportunista capillare attuata con sistematicità dai partiti riformisti, e dalle correnti cosiddette massimaliste e centriste formatesi successivamente allo scopo di recuperare un’influenza sugli strati proletari che i riformisti di destra stavano perdendo; l’opera di veri e propri carnefici che in Germania fu svolta dai socialdemocratici che assassinarono Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht; l’opera controrivoluzionaria che condussero i socialisti-rivoluzionari in Russia contro il potere bolscevico appena conquistato e contro le sue prime misure rivoluzionarie adottate contro la guerra come la pace di Brest-Litovsk; l’opera di veri e propri boia che i socialisti ungheresi attuarono contro i comunisti di Bela Kun, facilitando il crollo della Repubblica dei Consigli del 1919: tutti questi esempi, e molti altri ancora, dimostrano che le armi a disposizione delle classi dominanti borghesi non sono soltanto quelle economiche, politiche e sociali dirette, ma anche quelle dell’opportunismo. Ed è proprio l’opportunismo sindacale e politico che aprì la strada alla collaborazione di classe che il fascismo adottò come sua politica sociale per eccellenza ed è la politica sociale che è stata ereditata dalle democrazie di tutti i paesi dopo la fine della seconda guerra imperialista definita antifascista, antinazista, antitotalitaria.
La violenza rivoluzionaria della borghesia nella sua prima fase storica di conquista del potere politico e di abbattimento delle monarchie, dei feudatari e delle gerarchie clericali, era destinata a trasformarsi, con tutte le contraddizioni che lo sviluppo del capitalismo e dell’imperialismo in particolare comportavano, in violenza controrivoluzionaria. Questo passaggio non avviene contemporaneamente in tutti i paesi, come, d’altra parte, non avviene contemporaneamente in tutti i paesi lo sviluppo capitalistico. Lo sviluppo del capitalismo, come continuiamo ad affermare, è uno sviluppo ineguale. Nell’Europa occidentale la classe borghese ha distrutto «tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche», mentre nell’America del Nord il capitalismo europeo si è impiantato direttamente, con tutta la violenza di cui era capace e senza passare attraverso la fase storica della lotta contro il feudalesimo che in America non esisteva, distruggendo le condizioni di vita dei nativi americani: in queste parti di mondo si svilupparono al massimo grado tutti gli elementi economici, sociali, politici e militari che caratterizzano il capitalismo moderno. Ma nel resto del mondo, nello stesso tempo in cui si sviluppava l’imperialismo in Europa e in America, andavano risolti, per un periodo non breve, i compiti rivoluzionari di tipo borghese e capitalistico nel senso dello sviluppo del capitalismo nazionale e del mercato nazionale. Lo stesso sviluppo del capitalismo, da un lato, e della lotta di classe del proletariato nelle metropoli capitalistiche e imperialistiche, dall’altro, costituivano la spinta che muoveva le giovani borghesie, il contadiname e il giovane proletariato dei paesi dominati dalle potenze coloniali euroamericane, alla lotta borghese nazional-rivoluzionaria, mentre nei paesi di capitalismo avanzato maturavano le condizioni della lotta rivoluzionaria del proletariato. Queste due tendenze storiche, che si fondavano per l’appunto sull’ineguale sviluppo del capitalismo, avrebbero potuto incontrarsi, grazie alla lotta di classe del proletariato dei paesi sviluppati e arretrati unificata dall’azione del partito comunista rivoluzionario, come nei disegni dell’Internazionale Comunista – e come nella realtà dell’estesa Russia euroasiatica avvenne sotto la direzione del partito bolscevico di Lenin – se l’azione combinata dell’opportunismo socialdemocratico e dello stalinismo incipiente (vedi il soffocamento del movimento rivoluzionario proletario in Cina nel 1926-27) non ne avesse violentemente impedito l’attuazione. Ma il movimento storico andava in quella direzione ed è contro di essa che l’azione dello stalinismo, mentre favoriva la massima accelerazione possibile del capitalismo in Russia, affossava lo sviluppo della lotta rivoluzionaria del proletariato internazionale sia nei paesi arretrati che nei paesi sviluppati: la degenerazione dell’Internazionale Comunista servì a quell’affossamento.
Il corso storico della lotta di classe e dello sviluppo del capitalismo non è mai stato lineare, come d’altra parte non è mai stato lineare rispetto alle società precedenti nel passaggio da un modo di produzione a quello più sviluppato. Per mantenere il controllo sulla maggior parte dei paesi del mondo non ancora pienamente civilizzati dalla borghesia, le borghesie più potenti, europee e americana, non hanno esitato a spartirsi il mondo attraverso una continua serie di guerre di rapina tra di loro; e non hanno avuto alcun problema a unificare le forze, come nel caso della Francia repubblicana e della Germania prussiana, a sospendere la guerra che si stavano facendo, per abbattere la Comune di Parigi, la prima rivoluzione proletaria della storia che sboccò nella dittatura di classe; come non avevano alcun problema morale o di coerenza politica, quando si trattava, e si tratta, di reprimere il movimento proletario che con la sua lotta rivoluzionaria in un determinato paese mette in pericolo il potere esistente, stringere alleanze tra repubbliche capitalistiche ipersviluppate e potenze monarco-assolutiste come nel caso dell’Inghilterra e della Francia verso la Russia zarista. Non solo, ma si rinnoverà sempre più spesso, soprattutto dopo la seconda guerra imperialistica, l’alleanza, sebbene temporanea – come, d’altra parte, è sempre l’alleanza tra borghesi – tra le potenze borghesi democratiche e le monarchie assolutiste ancora esistenti, o gli sceiccati, o le tribù che ancora sono in grado di controllare zone e territori strategicamente importanti per le potenze imperialiste, come in Asia centrale, nel Caucaso, in Medio Oriente o in Africa.
Il nemico di classe principale per la borghesia di ogni paese è indiscutibilmente il proletariato; è un nemico attualmente potenziale, ma la storia delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni ha insegnato alla borghesia di non perdere mai di vista la possibilità che il proletariato del proprio paese, anche se sconfitto, possa un giorno sollevarsi, organizzato e in armi, per abbatterne il potere.
Un’altra delle contraddizioni che caratterizzano la classe borghese e il suo corso storico, sta nel fatto che – pur avendo interesse che in tutti i paesi del mondo si sviluppi l’economia capitalistica, per poter avere più opportunità di allargare la produzione di merci, il loro commercio e i servizi necessari per questo sviluppo – la classe borghese imperialista, quella dei pochi grandi paesi che dominano il mondo perché possiede la maggior concentrazione di capitali a livello internazionale, ha anche un interesse diretto a mantenere i paesi dominati nelle condizioni di sudditanza e di arretratezza che le permette di sfruttare le risorse naturali, minerarie e di forza lavoro presenti in quei paesi, con altissimi tassi di profitto che non riesce più a ricavare dallo stesso sfruttamento in casa propria. Questi due interessi entrano in conflitto tra di loro, ma sul lungo periodo, mentre qualche paese – ricco di risorse naturali sue e di numerosa popolazione da sfruttare, come è stata la Russia, e poi il Brasile, il Sudafrica e la Cina – riesce a scalare la classifica dei paesi più forti del mondo, se non altro nei continenti di cui fanno parte, gli altri paesi pagano un prezzo molto più duro a causa della loro arretratezza capitalistica, della loro ineguaglianza che non vede all’orizzonte nessuna possibilità di essere superata coi i mezzi e i metodi dell’economia capitalistica. Le crisi cicliche che colpiscono periodicamente l’economia capitalistica dei paesi più avanzati, si riflettono inevitabilmente sui paesi più arretrati con effetti molto più devastanti, mandando in rovina non solo il loro proletariato e i loro strati piccoloborghesi, ma anche una parte non infima della stessa borghesia nazionale che, per sopravvivere come classe dominante, oltre a vendersi alle potenze imperialiste a prezzi ancor più bassi, si dispone a schiacciare e a torturare in modi ancor più brutali la propria popolazione. L’urgenza di farla finita col capitalismo e con la classe borghese che ne difende il sistema si fa ancor più drammatica.
Lo sviluppo del capitalismo produce inesorabilmente masse sempre più proletarizzate, nei paesi avanzati come nei paesi arretrati; nello stesso tempo, riduce interi paesi borghesi a rappresentare la parte “proletaria” rispetto alla borghesia dei paesi borghesi “ricchi” la cui ricchezza è dovuta non solo allo sfruttamento intensivo del proprio proletariato nazionale, ma anche alla imposta sudditanza delle borghesie più deboli e allo sfruttamento sempre più bestiale del proletariato dei paesi arretrati.
L’antagonismo tra classi borghesi, in perenne lotta di concorrenza tra di loro per accaparrarsi fette di mercato più grandi e più profittevoli, si interseca con l’antagonismo di classe tra la borghesia e il proletariato. I due “antagonismi” non si alimentano a vicenda, ma corrono in parallelo. Uno, quello tra borghesie dei diversi paesi, è all’interno dello sviluppo del capitalismo, in termini di innovazioni tecniche e scientifiche sul piano della produzione, della distribuzione e delle comunicazioni, e porta all’inevitabilità della guerra tra borghesie che lottano per la supremazia, o per la propria sopravvivenza, nel mondo. L’altro, l’antagonismo di classe nel senso proprio e storico del termine, tra borghesia e proletariato, è il prodotto sociale specifico del capitalismo e porta allo scontro tra la classe dominante borghese che intende rafforzare e difendere, con ogni mezzo possibile, il potere e la possibilità di continuare a sfruttare il lavoro salariato da cui trarre perennemente i suoi veri profitti, e la classe del proletariato che è mossa dalla ribellione naturale alle condizioni della moderna schiavitù salariale e da una spinta storica (di classe) a lottare per rivoluzionare completamente la società, per eliminare le cause delle sue condizioni di schiavitù salariale e delle contraddizioni sempre più acute della società capitalistica. Ma i rapporti di forza tra le due principali classi della società capitalistica di ogni paese non vanno mai di pari passo, non sono mai in equilibrio, salvo nei rari momenti storici in cui il movimento proletario rivoluzionario, nella sua lotta per la conquista del potere politico e sotto la guida ferma del partito comunista rivoluzionario, è in procinto di abbattere il potere borghese per instaurare la sua dittatura di classe. Conquistato il potere politico, abbattuto lo Stato borghese e messa fuori causa la classe borghese, il nuovo potere proletario, la sua dittatura di classe, non avrà alternative se non quella di persistere nell’impedire alla borghesia sconfitta, con la forza e con il terrore, di riorganizzarsi e di tentare di riconquistare il potere perduto. Sostanzialmente i mezzi utilizzati dal proletariato per la lotta rivoluzionaria, come la forza armata e il terrorismo, non sono diversi da quelli che ha usato la borghesia per sconfiggere le vecchie classi dominanti feudali, nobiliari e clericali, mentre sono del tutto opposti gli obiettivi storici verso i quali è indirizzato il corso rivoluzionario.
Proletariato e borghesia: due classi antagoniste, inconciliabili, con compiti storici del tutto opposti
Queste due classi principali della società sono, infatti, portatrici di due compiti storici in collisione tra di loro: il compito della borghesia, una volta stabilizzato il suo potere contro la possibile restaurazione monarchico-feudale, è di mantenere, al di là di ogni crisi distruttiva delle forze produttive provocata ineluttabilmente dalle crisi economiche che accompagnano lo sviluppo economico capitalistico, il suo potere di classe e il capitalismo come modo di produzione; il compito del proletariato è di abbattere definitivamente il potere politico della classe borghese per mezzo della sua rivoluzione di classe al fine di avviare la trasformazione completa dell’economia, base di ogni sviluppo sociale, in modo da eliminare tutte le forme economiche, sociali e politiche che la classe borghese ha dovuto necessariamente costruire in difesa del suo potere, liberando così un sano e prolungato sviluppato delle forze produttive che il capitalismo ha certamente creato, ma che non ha alcuna possibilità di sviluppare oltre un certo limite, limite che è costituito dal capitalismo stesso, modo di produzione che si basa sulla proprietà privata e sull’appropriazione privata della ricchezza sociale prodotta dal lavoro salariato. Il capitalismo non può esistere senza produrre e vendere merci, il socialismo non può realizzarsi senza distruggere il mercantilismo e sostituirlo con la produzione razionale, pianificata e sociale volta a soddisfare le esigenze della comunità umana e non del mercato. Il capitalismo non può esistere senza denaro, ossia senza l’equivalente di definiti valori delle merci prodotte, e senza l’accumulazione e la valorizzazione crescente del capitale, mentre il socialismo ha il compito di riportare la produzione e la distribuzione dei prodotti necessari alla vita sociale degli uomini alla loro qualità naturale indirizzando la forza lavoro dell’intera comunità umana – e non del solo lavoro salariato – a produrre e a distribuire tutto ciò che lo sviluppo della vita sociale in generale, di generazione in generazione, richiede. Il capitalismo non può esistere senza lo sfruttamento del lavoro salariato, poiché è da questo sfruttamento che trae il suo potere economico su cui basa il suo potere sociale, politico, militare, mentre il socialismo ha il compito di trasformare l’economia capitalistica, che si fonda sulla forza lavoro trasformata in merce, in economia socialista che si fonda sulla forza lavoro umana liberata dalla costrizione mercantilistica e resa disponibile, grazie al periodo di trasformazione generale dell’economia sociale in cui è impegnata la dittatura proletaria, ad un modo di produzione che si baserà sul rapporto da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni, che è la formula sintetica del comunismo. Il capitalismo non può esistere se non in un mondo di continua e spietata concorrenza tra i centri di potere più forti che lottano per assicurarsi territori economici sempre più vasti, mercati nuovi e nuovi bacini di forza lavoro da sfruttare. Il socialismo, superando il mercantilismo, supera anche la concorrenza capitalistica e tutto ciò che deriva dalla lotta di concorrenza, quindi le diseguaglianze sociali, le arretratezze economiche, l’oppressione di popoli e nazioni, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro e delle risorse naturali, le guerre. La classe borghese, per mantenersi come classe dominante e perpetuare il modo di produzione capitalistico da cui trae il suo potere di classe e i suoi privilegi, deve tenere il proletariato schiacciato nelle condizioni di lavoratori salariati e più il capitalismo si sviluppa, più le masse umane del mondo vengono violentemente proletarizzate, e rese disponibili, ad ogni latitudine, ad essere sfruttate dal capitale, diffondendo nel mondo, e sviluppandole all’ennesima potenza, tutte le contraddizioni che lo caratterizzano: miseria, fame, disoccupazione, emarginazione e naturalmente guerre, locali, nazionali, continentali, mondiali.
Il proletariato, che rappresenta la stragrande maggioranza della popolazione che abita il pianeta, è spinto storicamente ad opporsi, con ogni mezzo, alle condizioni di schiavitù salariale imposte dalla borghesia, ma la sua forza non poggia su un potere economico esistente e che richiede di svilupparsi (come avvenne per il capitalismo e la classe sociale che lo rappresentava, la borghesia); può contare, nell’immediato, soltanto sul fatto di essere numeroso, ma il numero perché diventi una forza deve essere organizzato, dotarsi di una guida, porsi degli obiettivi strategici e tattici, tutte cose che possono diventare una realtà solo attraverso una lotta che tenda a superare la sua condizione di classe “per il capitale”, per diventare classe “per sé”, classe che persegue obiettivi storici e immediati esclusivamente suoi. E’ inevitabile lo scontro sociale tra proletariato e borghesia, uno scontro che ha una prospettiva rivoluzionaria alla condizione di essere indirizzato da un’altra forza che, nel corso storico dello sviluppo del capitalismo, delle sue contraddizioni sociali e della lotta di classe tra proletariato e borghesia, abbia potuto trarre da tutto il portato ideologico, scientifico, teorico e pratico dello sviluppo sociale generale, la teoria della rivoluzione anticapitalistica e, quindi, antiborghese. Questa forza è il partito comunista che, giustamente, il Manifesto del 1848 non definisce nazionalmente: è il partito di classe del proletariato internazionale, perché le condizioni del proletariato come lavoratori salariati sono condizioni internazionali fin da allora e i suoi obiettivi storici non possono essere che mondiali.
L’antagonismo di classe tra proletariato e borghesia, segna indiscutibilmente il rapporto fra le classi, ma sfocia inevitabilmente, ad un certo livello delle tensioni sociali, nella repressione violenta e spesso cieca da parte della borghesia nei confronti dei gruppi proletari che si ribellano all’oppressione sociale con le stesse armi che ha usato la borghesia rivoluzionaria (organizzazione illegale, oltre che legale, manifestazioni di massa, atti di intimidazione e atti di terrorismo, fino alla guerra di classe aperta e dichiarata). L’antagonismo di classe tra proletariato e borghesia è, in realtà, un dato oggettivo della società capitalistica. Il proletariato ne prende coscienza soltanto quando scende in lotta in difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro e si scontra con la forza poliziesca e militare della borghesia dominante, spesso accompagnata dalle forze illegali della borghesia, e quando in questa lotta entra in campo anche l’avanguardia politica proletaria e, in particolare, il partito di classe. La borghesia, invece, che lotta contro il proletariato da sempre e su tutti i piani (economico, politico, sociale, tecnico, scientifico, morale, culturale, religioso, filosofico, scolastico, propagandistico), perché lo deve mantenere nelle condizioni di sudditanza e di schiavitù salariale per tutta la vita e per tutte le generazioni successive, è pienamente cosciente di questo antagonismo, tanto che la sua lotta contro la classe proletaria non smette mai, anche nel pieno dei periodi di cosiddetta pace sociale. Sulla base dell’esperienza delle lotte di classe avvenute, delle rivoluzioni tentate o portate a termine e delle controrivoluzioni con cui finora la borghesia è riuscita a evitare la sua fine non solo come classe dominante, ma come classe sociale, essa è passata dalla tolleranza riformistica verso l’iniziativa e l’attività di classe del proletariato sul piano sociale, politico ed economico, alle misure repressive di prevenzione rispetto al deciso orientamento di classe e rivoluzionario del proletariato. Tali misure di prevenzione non sono soltanto di ordine legislativo e amministrativo, e nemmeno soltanto di ordine repressivo; sono anche di ordine sociale e riguardano in particolare una particolare forma di coinvolgimento del proletariato agli interessi borghesi sia a livello aziendale che a livello economico più generale: si tratta della collaborazione di classe che – da temporanea ed eccezionale, come ai tempi del riformismo classico che, in attesa di raggiungere una forza elettorale preponderante rispetto alla borghesia, voleva imporle il programma di un socialismo gradualista e pacifista – è diventata drammaticamente, grazie all’esperienza fascista del potere borghese, la linea politica guida di ogni lotta operaia. Una linea politica guida di cui si sono fatti carico i sindacati tricolore e i partiti falsamente operai, votati ormai per loro costituzione alla difesa non solo della nazione in tempo di guerra, ma dell’economia nazionale e dell’economia aziendale in tempo di pace, da praticare tutti i giorni e a costo di tutti i sacrifici che per il capitale si rendono necessari.
Anche l’opportunismo modifica la sua azione verso il proletariato, trasformandosi, sotto il comando della classe dominante borghese, da forza “rifomista” a forza “reazionaria”
Da questo punto di vista, l’opportunismo dell’Ottocento e del primo Novecento, che fondava la sua influenza sulle masse proletarie sulle concessioni che la lotta proletaria strappava ai capitalisti e ai governi borghesi, con lo sviluppo del capitalismo nelle forme della massima concentrazione economica e politica che caratterizza la sua fase imperialista, ha modificato la sua politica e il suo atteggiamento. Infatti ha sposato apertamente gli interessi nazionali della classe dominante borghese alla condizione di partecipare – in tempo di pace come in tempo di guerra – alla gestione economica e sociale delle condizioni di vita e di lavoro delle masse proletarie e del paese, giustificando questo suo completo cedimento alla pressione borghese col fatto di poter ottenere condizioni migliori di vita e di lavoro proletarie entrando come protagonista nella gestione diretta dell’economia e della politica governativa. La collaborazione di classe imposta al proletariato con la forza dal fascismo, diventa così la politica sociale “naturale” e pacifica di tutte le forze opportuniste che traggono la propria linfa dal sostegno e dalla protezione da parte della borghesia dominante: la borghesia dominante, così, vince due volte. Prima col fascismo, contrastando vittoriosamente i tentativi rivoluzionari del proletariato, dopo che l’opportunismo socialista e socialdemocratico aveva lavorato dall’interno delle file proletarie illudendole di ottenere risultati positivi nella lotta utilizzando solo i mezzi della democrazia liberale ma, nello stesso tempo, demoralizzandole perché quei risultati, prima ancora di essere raggiunti, venivano cancellati dalla repressione legale dello Stato e dai continui attacchi alle organizzazioni proletarie da parte delle squadre fasciste protette dallo stesso Stato. Poi con la democrazia antifascista e post-fascista, che eredita di fatto la politica sociale del fascismo, con tutto il suo castello di ammortizzatori sociali attuati per tacitare le esigenze immediate del proletariato e attirarlo nella partecipazione alla difesa degli interessi aziendali e nazionali dell’economia capitalistica; una politica sociale che viene vestita, dopo i disastri della seconda guerra imperialista mondiale e l’inevitabile immiserimento delle masse contadine e proletarie, come una rinascita della “forza di classe” del proletariato che ricostruisce la struttura economica del paese rovinata dalla guerra e per la quale ricostruzione attende come ricompensa un miglioramento generale delle sue condizioni di vita e di lavoro. Condizioni di vita e di lavoro in buona parte migliorate, nei decenni successivi alla fine della guerra, va riconosciuto, ma a prezzo di un’aumentata incertezza generale del posto di lavoro (e quindi del salario) e della vita stessa.
La democrazia post-fascista non ha nulla in comune con la democrazia liberale tanto amata dai socialisti riformisti nell’epoca dello sviluppo “pacifico” del capitalismo e, naturalmente, da tutti gli “antifascisti”. Entrando nella fase imperialista del suo sviluppo, la borghesia capitalista diventa necessariamente sempre più accentratrice, eliminando di fatto – sebbene non completamente – le forme della democrazia liberale di un tempo. In uno dei nostri testi fondamentali, il Tracciato d’impostazione, del 1946, si può leggere: «Il capitalismo, premessa dialettica del socialismo, non ha più bisogno di essere aiutato a nascere (affermando la sua dittatura rivoluzionaria) né a crescere (nella sua sistemazione liberale e democratica). Esso inevitabilmente concentra nella fase moderna il suo patrimonio economico e la sua forza politica in unità mostruose. Il suo trasformismo e il suo riformismo assicurano il suo sviluppo e difendono la sua conservazione al tempo stesso» (1).
Attraverso la seconda guerra imperialista si è passati dal regime fascista al regime democratico post-fascista, ma nulla cambia, fondamentalmente, nei rapporti di produzione e sociali tra borghesia e proletariato: il proletariato continua ad essere sfruttato nel lavoro salariato come durante il fascismo e prima del fascismo, e la borghesia capitalista continua nel suo dominio politico, economico e sociale come durante il fascismo e prima del fascismo. E’ il pericolo di perdere il potere, corso seriamente dalla classe dominante borghese nel primo trentennio del Novecento, e soprattutto dopo la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre in Russia, e il montare del movimento rivoluzionario del proletariato in Europa, che hanno spinto la borghesia verso una soluzione politica e sociale che prese il nome di fascismo, dopo che l’opera delle forze politiche del riformismo socialdemocratico e socialista non era riuscita a far indietreggiare il movimento proletario dall’avanzare sul terreno rivoluzionario, nonostante fossero riuscite a condurlo nel primo macello imperialistico mondiale. All’opera opportunista, demoralizzatrice, deviante, disorganizzatrice e ingannatrice del riformismo e del centrismo socialista, seguì l’attacco furibondo delle squadre fasciste protette dalle forze di polizia e dall’esercito dello Stato borghese democratico con cui fu sconfitto il movimento proletario nell’Europa occidentale, e quindi nel mondo. Il fascismo non avrebbe mai vinto sul movimento proletario in modo così totale se la sua azione non fosse stata preparata di lunga mano e agevolata dall’opera dell’opportunismo alla Turati e alla Kautsky; un’opera che continuò, drammaticamente, da parte dello stalinismo che imprigionò il proletariato russo e mondiale nelle spire della controrivoluzione che volle etichettare come “costruzione del socialismo in Russia”.
E’ lo sviluppo del capitalismo in un paese che fa parte dei paesi più industrializzati del mondo che ha permesso alla borghesia italiana di alzare il tenore di vita delle proprie masse proletarie; le risorse per questi miglioramenti economici delle masse operaie li ricava non solo dal loro stesso sfruttamento, ma anche dallo sfruttamento delle masse proletarie e contadine dei paesi arretrati, come, d’altra parte, avviene da parte di tutti i paesi capitalisti industrializzati, sebbene sempre con sviluppi ineguali tra uno e l’altro. Ma, sulla scorta dell’esperienza delle lotte di classe e rivoluzionarie del proletariato durante e dopo la prima guerra imperialista mondiale, la classe borghese dominante, come politica preventiva rispetto al pericolo di trovarsi a dover fronteggiare nuovamente la forza di un movimento proletario rivoluzionario e internazionale, dopo la seconda guerra mondiale adotta una politica fino ad allora mai attuata: quella di una forma di autolimitazione del capitalismo. Si legge, infatti, in un altro testo fondamentale del nostro partito, intitolato Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe, quanto segue: «Il nuovo metodo pianificatore di condurre l’economia capitalistica, costituendo, rispetto all’illimitato liberismo classico del passato ormai tramontato, una forma di autolimitazione del capitalismo, conduce a livellare attorno ad una media la estorsione di plusvalore. Vengono adottati i temperamenti riformistici propugnati dai riformisti di destra per tanti decenni, e vengono così ridotte le punte massime e acute dello sfruttamento padronale, mentre le forme di materiale assistenza sociale vanno sviluppandosi. Tutto ciò tende al fine di ritardare le crisi di urto tra le classi e le contraddizioni del metodo capitalistico di produzione, ma indubbiamente sarebbe impossibile pervenirvi senza riuscire a conciliare, in una certa misura, l’aperta repressione delle avanguardie rivoluzionarie, ed un tacitamento dei bisogni economici più impellenti delle grandi masse. Questi due aspetti del dramma storico che viviamo sono condizione uno dell’altro» (2).
E’ la piccola borghesia, nel suo oscillare perenne tra la grande borghesia e il proletariato, che si agita per prima al primo sentore di crisi economica e sociale
Perché abbiamo voluto riprendere, trattando del terrorismo “di sinistra”, il tema dello sviluppo ineguale del capitalismo, e il tema delle diverse fasi storiche di sviluppo del potere borghese? Perché è esattamente questa inquadratura, tipica del marxismo, che è stata completamente assente dalla visione che ebbero le organizzazioni terroristiche di sinistra. Per quanto si dichiarassero comunisti e rivoluzionari, i brigatisti e i membri delle più diverse organizzazioni del terrorismo “di sinistra”, erano in realtà lontani mille miglia da una visione che avesse anche solo una parvenza marxista. All’epoca, molti di loro venivano indicati dalle organizzazioni politiche a sinistra del Pci, come “compagni che sbagliano”, che sbagliavano i tempi o che sbagliavano obiettivi, ma la loro difesa – sebbene implicita – della democrazia antifascista, e il coraggio di mettere a rischio la propria vita in azioni che ricordavano i gap della resistenza degli anni ’43-45, raccoglievano simpatie da parte di molti proletari. E così, il mito della “Resistenza antifascista”, tornava a vivere per mezzo degli attentati non solo dei brigatisti, ma anche dei neofascisti.
Ebbene, nel periodo in cui stava finendo il trentennio di espansione capitalistica dopo le grandi distruzioni della seconda guerra imperialista e si stava avvicinando una crisi mondiale di portata mondiale – quella del 1973-1975 – la piccola borghesia, avvertendo, prima del proletariato, una pericolosa caduta dei suoi privilegi e del suo benessere a causa della crisi incipiente e il suo precipitare nella proletarizzazione, iniziava ad agitarsi. E’ col 1968 che gli strati piccoloborghesi, a cominciare dagli studenti universitari, manifestano le loro preoccupazioni inneggiando ad una società in cui ogni individuo possa ottenere il meglio per sé senza dover passare per le forche caudine del lavoro salariato. Ma la crisi economica che stava maturando coinvolgeva inevitabilmente le masse proletarie; in Francia queste masse si sono mosse in parallelo alle masse studentesche, in Italia si muoveranno in modo vigoroso a partire dall’autunno del 1969; e poi sarà la volta della Germania. Nel frattempo, le organizzazioni di estrema destra non sono rimaste con le mani in mano. Il rinnovato agitarsi delle masse proletarie e la tolleranza che i poteri governativi mostravano nei confronti di queste agitazioni, spingono queste organizzazioni ad intervenire violentemente aprendo una stagione di stragi, a partire dalla strage di Piazza Fontana a Milano (dicembre 1969, 17 morti e 88 feriti), per poi proseguire con la strage di Piazza della Loggia a Brescia (maggio 1974) e, (agosto 1974), del treno Italicus (3). E’ del 1970 un ridicolo tentativo di “golpe” in Italia, organizzato dal Fronte Nazionale il cui fondatore, Valerio Borghese, era stato comandante della X c Mas e partecipe della Repubblica Sociale Italiana, golpe col quale si voleva che il governo del paese invertisse la rotta che avevano preso gli ultimi governi democristiani (promuovendo anche accordi con il Psi per dar vita a governi di centro-sinistra), e riportasse il paese ad una versione rinnovata della ex Repubblica Sociale Italiana. Insomma, le iniziative delle organizzazioni armate di estrema destra (Fronte Nazionale, Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine Nero ecc.) erano il leit motiv della rinascita di organizzazioni armate di estrema sinistra (Brigate Rosse ecc.) che, contrarie alla tolleranza dei governi democristiani verso le organizzazioni neofasciste e alla complicità di pezzi di Stato con queste ultime, si erano poste l’obiettivo di rispondere alle stragi con gli attentati a personaggi dell’establishment e dell’ordine statale; obiettivo che, con il successo elettorale del Pci nel 1975 e la politica delle “convergenze parallele” di Moro e il sostegno di Berlinguer al suo governo, si incentrò poi nell’impedire al Pci di “andare al governo” con i democristiani e di spingerlo, invece, ad usare il proprio successo elettorale per andare al governo contro i democristiani e contro le coperture delle organizzazioni neofasciste. Il velleitarismo piccoloborghese oggettivamente si sdoppiava: da una parte le formazioni neofasciste tentavano di dare un colpo di barra verso la classica destra antioperaia, dall’altra, le formazioni lottarmatiste tentavano a loro volta di dare un colpo di barra verso una sinistra identificata nel classico stalinismo “pro-russo” inneggiando ad una “nuova Resistenza”. La situazione sociale e politica di allora, però, rivelava che anche gli stessi “poteri forti” italiani, economici e finanziari, non vedevano di buon occhio l’apertura “a sinistra” della DC, apertura che allora veniva sotto sotto osteggiata in tutti i modi; questa ostilità a dar credito al Pci di essere, prima o poi, un utile partner di governo e di non essere la lunga mano della Russia sull’Italia, si dimostrò in modo evidente nella vicenda del sequestro di Aldo Moro, all’epoca presidente della DC, da parte delle BR, quando il governo democristiano Cossiga non si fece scrupolo ad abbandonare Moro nelle mani delle BR che minacciavano di ucciderlo se non si fosse scambiata la sua liberazione con la liberazione di brigatisti incarcerati; e infatti, il cadavere di Moro fu trovato, dopo 55 giorni di sequestro, nel maggio 1978, a Roma in via Caetani, a due passi dalla sede centrale della DC.
Le BR e, al loro fianco, le altre organizzazioni lottarmatiste “di sinistra”, in un periodo in cui le lotte operaie contro il continuo peggioramento delle condizioni operaie di esistenza e di lavoro avevano ripreso vigore, avevano l’ambizione di rappresentare lo stimolo e l’esempio perché quelle lotte andassero più decise e con coraggio nel riprendere le armi in mano per combattere il rinascente fascismo e nell’imporre al paese la democrazia liberale per la quale il movimento partigiano aveva combattuto durante la seconda guerra imperialista; una democrazia che la storia stessa aveva già gettato alle ortiche e che aveva sostituito con una democrazia formalmente liberaleggiante e parlamentare ma sostanzialmente fascistizzata. Lo stalinismo, che aveva svolto il suo infame ruolo controrivoluzionario soffocando il movimento proletario rivoluzionario in Russia e nel mondo dalla metà degli anni Venti in avanti, irreggimentando i proletari negli eserciti borghesi di ogni paese e portandoli così al più vasto massacro della storia conosciuta, attraversata la cosiddetta “destalinizzazione” dei partiti comunisti di krusceviana memoria, tornava in auge con l’azione delle BR e dei vari gruppi della lotta armata, in un rigurgito di resistenzialismo che affosserà ancor di più il proletariato nel pantano dell’interclassismo.
E’ proprio perché i proletari europei tornavano a manifestare nelle strade e nelle piazze, anche con forme dure che li portavano frequentemente a scontrarsi con la polizia, mentre nelle fabbriche le direzioni instauravano un clima sempre più dispotico, che si era ricreata, in particolare in Italia – dove agiva il togliattiano/berlingueriano Partito Comunista, il più forte partito parlamentare di sinistra d’Europa – ma anche in Francia e in Germania – una tendenza “antifascista” estremista che sarà il brodo di coltura di frange violente che si porranno sul terreno dell’intimidazione terroristica, inizialmente contro i personaggi più invisi in determinate grandi fabbriche, poi verso rappresentanti dichiaratamente borghesi dei media e della politica, in un crescendo che si autoalimenterà fino a porsi l’obiettivo di scontrarsi direttamente con lo Stato nella classica visione cospirativa del terrorismo individualista di inizio secolo XX. Si passerà dalle gambizzazioni di dirigenti di fabbrica all’uccisione di Aldo Moro nel 1978, e poi ancora fino all’omicidio del consulente del lavoro Marco Biagi nel 2002. Il terrorismo individualistico che inneggiava alla “lotta armata” diventerà, per queste organizzazioni, alfa e omega della lotta proletaria, e della lotta in generale, poiché – secondo le Brigate Rosse e i diversi gruppi armati di varia derivazione, in Italia, come Action Directe, in Francia, e il gruppo Baader-Meinof, in Germania – l’unico mezzo per imporre allo Stato borghese una “politica” favorevole alle masse operaie e popolari era l’azione armata, cioè quel che noi abbiamo chiamato riformismo con la pistola. Riformismo, perché nel loro inesistente “programma politico” c’era semplicemente la democrazia parlamentare contro il fascismo che, secondo la loro interpretazione del tutto distorta dei rapporti di forza politici e sociali esistenti, si stava “reinstaurando”; con la pistola, quindi armato, perché la sola pressione parlamentare e i metodi tolleranti utilizzati fino ad allora dai partiti “operai” non avevano né impedito l’aumento del dispotismo borghese nelle fabbriche e nella vita sociale, né la crisi economica dalla quale chi ne traeva sempre e comunque un profitto erano soltanto i capitalisti.
Di fatto, i brigatisti e i membri di tutte le diverse organizzazioni lottarmatiste degli “anni di piombo” che lasciarono il segno per oltre un decennio, non erano che dei contestatori – tipo Sessantotto – che usarono la violenza terroristica per dare allo spontaneismo ribellistico, naturale da parte degli operai arretrati politicamente sul piano di classe, una forza che mai avrebbe avuto e che mai avrà. Per questo motivo, noi abbiamo accusato le BR, e il lottarmatismo in genere, di avventurismo politico e di disfattismo riformista.
Il proletariato non può attendersi dalle forze riformiste, con o senza pistola, alcun passo avanti nella sua lotta di emancipazione
Il proletariato, in quanto classe storicamente rivoluzionaria, non è rivoluzionario perché è sottoposto al lavoro salariato; in quanto tale, il proletariato è classe per il capitale, ma non classe per sé, ossia classe rivoluzionaria. Perché si elevi a classe rivoluzionaria il proletariato deve entrare in una fase storica in cui siano presenti una serie di fattori: certamente una profonda crisi del capitalismo e della classe dominante borghese, ma devono essere presenti e attive anche organizzazioni sindacali di classe capaci di organizzare la grande massa dei proletari, deve essere presente e influente il partito di classe, cioè la “coscienza di classe del proletariato” e perciò la sua guida rivoluzionaria, e tutto ciò in un quadro internazionale in cui il movimento proletario abbia potuto svilupparsi sul terreno di classe, dunque su un terreno in cui sia avvenuta una profonda rottura con la collaborazione di classe, dunque con le organizzazioni collaborazioniste sia a tipo sindacale che politico. Tutto questo non era presente né nel 1968, né nel 1978, né a cavallo tra il 1900 e il 2000, e nemmeno oggi.
La situazione di allora non era matura per la rivoluzione proletaria, non tanto dal punto di vista strettamente economico – il capitalismo è stramaturo nei paesi capitalisti che dominano il mondo, non ha bisogno di “maturare”, caso mai sta andando in putrefazione, e la crisi mondiale del 1975, prevista dal nostro partito, lo dimostrava –, ma dal punto di vista sociale e soggettivo: il proletariato era ed è ancora prigioniero della collaborazione di classe e dei miti della democrazia, e sebbene in questi ultimi decenni molti strati proletari si siano resi conto che dal capitalismo e dalla società borghese non riusciranno mai ad avere una sicurezza di vita, non hanno ancora la forza di rompere le catene che li tengono avvinti alle sorti di questa società. Dai punto di vista sia sindacale che politico, il proletariato era, ed è ancora, prigioniero delle organizzazioni che si presentano difensori degli interessi operai, ma immergendoli nell’interesse generale dell’economia nazionale e nella difesa patriottica della nazione, esse non fanno altro che schiacciare il proletariato nelle condizioni di non avere alcuna prospettiva se non quella che decidono i capitali, i mercati, in una parola il capitalismo; non fanno altro che farsi promotrici della frammentazione del proletariato in mille categorie e stratificazioni differenziate, diffondendo però l’illusione che – integrandosi sempre più nello Stato borghese – esse saranno sempre nella situazione migliore, anche nei tempi duri delle crisi economiche e sociali, per salvare “almeno una parte” delle “conquiste” di un tempo. In realtà, la loro funzione storica di “luogotenenti della borghesia nelle file del proletariato”, l’hanno sviluppata nella funzione di potenziali aguzzini del proletariato, pronti infatti a colpire senza scrupoli i proletari che intendono lottare con i mezzi e i metodi della lotta di classe e non con quelli, impotenti e devianti, della collaborazione fra le classi. Le frange lottarmatiste hanno tentato di dare un esempio ai proletari secondo il quale i mezzi della forza e della violenza che lo Stato e le sue forze di repressione usano normalmente contro i proletari possono e devono essere usati dai proletari per difendersi e per offendere. Volevano, attraverso l’applicazione del terrorismo individuale, anticipare quel che non può essere anticipato: il processo di sviluppo della ripresa di classe e della lotta rivoluzionaria è uno dei processi più complicati della storia perché coinvolge le masse che costituiscono le classi e i rapporti economici, sociali e politici che ne caratterizzano i periodi storici, ed è perciò un processo che non può essere saltato grazie ad atti terroristici o a cospirazioni, e tanto meno possono essere eliminati dal corso storico delle lotte fra le classi che, in un futuro, per quanto lontano nel tempo, porterà l’antagonismo di classe all’incontenibile scontro storico internazionale tra la classe rivoluzionaria – il proletariato moderno – e la classe borghese capitalista.
Il terrorismo brigatista non ha portato al proletariato nessun insegnamento politico, né tantomeno è stato la leva perché il proletariato risvegliasse in modo deciso nelle proprie file le tendenze classiste sospinte sul proscenio della storia dall’antagonismo di classe, per quanto la borghesia, affiancata dalle forze dell’opportunismo, lo tenga controllato. Ha però confermato che, per cambiare qualcosa di decisivo nella società, il proletariato non può fare a meno di usare la violenza contro le parti nemiche che quella violenza usano sistematicamente per mantenere nelle loro mani le leve della società. Da questo punto di vista, i veri insegnamenti il proletariato non li poteva e non li può ricevere da avvenimenti vicini nel tempo. Bisogna andare indietro nella storia e tornare al primo quarto di secolo del Novecento; tornare alle esperienze delle grandi battaglie di classe delle correnti marxiste che diedero vita al partito di Lenin e al partito comunista d’Italia, ai primissimi anni dell’Internazionale Comunista e alle battaglie teoriche e pratiche, mai sospese, della corrente di sinistra marxista che si oppose allo stalinismo, fin dai suoi primi vagiti, sulle basi di un’intransigenza dottrinaria mai abbandonata, e da cui nacque il nostro partito di ieri e di oggi.
Ebbene, negli articoli che ripubblichiamo in questa nuova edizione dell’opuscolo dedicato al Terrorismo e al tormentato cammino della ripresa generale della lotta di classe, vi sono svolti tutti gli aspetti fondamentali della questione, oltre ad una critica serena e senza pregiudizi delle organizzazioni cosiddette “combattenti” o lottarmatiste. Abbiamo aggiunto altri articoli, pubblicati negli anni successivi al 1978 – l’anno del delitto Moro – sia su “programma comunista” che su “il comunista” non solo per completare il tipo di critica che abbiamo sempre fatto di queste organizzazioni, ma anche per documentare la coerente continuità nella valutazione di quei fatti storici, del fenomeno “brigatista”, ribadendo la validità delle analisi e delle spiegazioni in merito all’uso della forza e della violenza nella lotta di classe. Alla dittatura di classe della borghesia – perché di questo si tratta, in un modo in cui la fase imperialista del capitalismo ha evidenziato sempre più il suo carattere monopolistico e concentrazionistico del capitale sia sul terreno economico-finanziario che su quello politico – non si potrà mai porre fine se non attraverso la lotta rivoluzionaria che il proletariato dovrà portare fino in fondo, fino alla conquista del potere politico, fino alla dittatura di classe proletaria, fino alla distruzione dello Stato borghese e di tutte le istituzioni economiche, sociali, politiche, culturali della borghesia: una lotta che, non solo porterà l’antagonismo di classe tra gli interessi proletari e gli interessi borghesi al suo culmine massimo – per la vita o per la morte – ma che dovrà inserirsi in un quadro internazionale, sotto la guida ferrea del partito comunista rivoluzionario, con la consapevolezza che la guerra di classe scatenata contro la borghesia di ogni paese non potrà mai essere sospesa ma dovrà andare sempre più a fondo fino alla definitiva sconfitta di tutte le forze di conservazione borghesi e capitalistiche.
La borghesia non ha nessuna possibilità di manovrare lo sviluppo capitalistico al fine di risolvere tutte le sue contraddizioni economiche e sociali, non ha nessuna soluzione alle proprie crisi economiche e sociali se non quella di accumulare ulteriori e più devastanti fattori di crisi, come le guerre mondiali dimostrano e come la trasformazione della stragrande maggioranza della popolazione mondiale in proletari, in senza riserve, in senza patria, da sfruttare bestialmente fino allo sfinimento nelle fabbriche e da trasformare in carne da cannone nelle sue guerre di rapina. La soluzione a questo terribile futuro non può essere che lo sconvolgimento rivoluzionario del mondo con protagonisti la classe del proletariato di ogni paese e il partito di classe internazionale.
Settembre 2019
* Vedi Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe, pubblicato a puntate nell’allora rivista teorica del partito “Prometeo”, nei nn. 2 e 4 del 1946, nn. 5 e 8 del 1947, nn. 9 e 10 del 1948. Ripreso poi nel n. 4 dei “Testi del partito comunista internazionale”, Partito e classe, editato nel 1972, ormai esaurito da tempo, e di prossima pubblicazione nelle edizioni “il comunista”.
(1) Cfr. Tracciato di impostazione, Prometeo, n. 1, luglio 1946, p. 16. Riprodotto poi nel n. 1 dei testi del partito comunista internazionale, Milano, dicembre 1969, intitolato Tracciato d’impostazione / I fondamenti del comunismo rivoluzionario.
(2) Cfr. Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe, III parte, Prometeo, n. 5, gennaio-febbraio 1947, p. 212; riprodotto poi nel testo n. 4, Partito e classe, Milano, aprile 1972, cit., p. 97.
(3) Su questi fatti vedi i seguenti articoli pubblicati ne “il programma comunista”: Nella giungla (su Piazza Fontana), n. 22 del 1969; Una sola possibile difesa per i proletari (su Piazza della Loggia), n. 11 del 1974; Per la difesa proletaria contro fascismo e crisi (sull’Italicus), n. 16 del 1974.
Partito comunista internazionale (il comunista) - settembre 2019 - www.pcint.org
INDICE DEI MATERIALI
Introduzione (settembre 2019)
Premessa (agosto 1978)
● Il terrorismo e il tormentato cammino della ripresa generale della lotta di classe ("il programma comunista", nn. 7, 8, 9, 10 e 11 del 1978)
L'IDEOLOGIA DELLE BR
● Dallo spontaneismo al terrorismo ("il programma comunista" n. 7 del 1978)
● Le due tendenze velleitarie dello spontaneismo ("il programma comunista" n.8 del 1978)
● Lo Stato come «bieca congrega» ("il programma comunista" n. 13 del 1978)
ALTRI ARTICOLI SULL'ARGOMENTO
● All’insegna dell’ipocrisia ("il programma comunista" n. 23 del 1977)
● Non c’è dunque soluzione all’alternativa opportunismo-velleitarismo? ("il programma comunista" n. 6 del 1978)
● Contro L’edizione «operaia» della tesi degli opposti estremi ("il programma comunista" n. 7 del 1978)
● La nostra voce ben distinta dal coro delle recriminazioni democratiche ("il programma comunista" n. 7 del 1978)
● Contro la rassegnazione riformistica, fuori dalla disperazione terroristica ("il programma comunista" n. 10 del 1978)
APPENDICE
● Velleitarismo spontaneista e superlegalitarismo staliniano ("il programma comunista" n. 12 del 1974)
● Azioni dimostrative, lotte di difesa e lotta di classe ("il programma comunista" n. 22 del 1974)
● Origini sociali e basi ideologiche del gruppo Baader-Meinhof ("il programma comunista" n. 15 del 1976)
● Violenza individuale e preparazione rivoluzionaria ("il programma comunista" n. 1 del 1977)
● «Union sacrée» contro il terrorismo ("il programma comunista" n. 18 del 1977)
● Terrorismo e comunismo ("il programma comunista" n. 21 del 1977)
● Il vero obiettivo dell'isterica campagna contro il terrorismo ("Spartaco" n. 2 del 1978)
● A proposito del partito combattente ("il programma comunista" nn. 18 e 19 del 1978)
● Riprendendo la questione del terrorismo ("il comunista" n. 1 del 1986)
● Dove vanno le BR? ("il comunista" n. 13 del 1988)
● Altri testi e articoli sul terrorismo "rosso"
● Altri testi e articoli sul terrorismo "nero"
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