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Al lavoro come in guerra

( Opuscolo A4, 92 pagine, Prezzo: 5 €, 8 FS, Dicembre 2019) - pdf

 

 


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Introduzione

 

 

Secondo i dati 2018 dell’Ilo (Organizzazione internazionale del Lavoro), ogni anno nel mondo muoiono 2 milioni e 780 mila lavoratori, per infortuni sul lavoro (400 mila) o per malattie contratte nelle attività lavorative (2 milioni e 400 mila circa). In dieci anni sono circa 30 milioni i lavoratori che perdono la vita a causa delle condizioni di lavoro nelle quali sono costretti a sudare il salario. E sappiamo che i dati ufficiali non corrispondono mai alla realtà; ad esempio, non vengono calcolati i lavoratori morti in itinere, cioè nel tragitto per andare e tornare dal lavoro, e non vengono calcolati i proletari morti durante le manifestazioni e gli scioperi. Se poi si aggiungono gli operai che rimangono storpi o mutilati per il resto della vita a causa degli incidenti occorsi durante il lavoro, il numero totale degli operai ammazzati, ammalati e mutilati dal sistema capitalistico nel mondo, in tempo di pace, salirebbe almeno di dieci volte. Per non parlare delle guerre guerreggiate che a loro volta, soprattutto dopo la seconda guerra imperialistica mondiale, non hanno mai smesso di produrre stragi nelle più diverse parti del mondo. Produrre stragi, ecco la caratteristica ormai conclamata del capitalismo nel suo corso di sviluppo!

Il capitalismo non ha alcuno scrupolo nello sfruttamento della forza lavoro: il suo obiettivo è aumentare il capitale investito, valorizzarlo, ricavarne un profitto attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato; più sfrutta il lavoro salariato, più il capitale si valorizza. Il meccanismo attraverso il quale il capitalista guadagna sul capitale che investe in una qualsiasi attività economica, da quando è stato scoperto da Marx, è tutto sommato semplice: il borghese, “liberando” il servo della gleba dagli obblighi feudali e dai vincoli di appartenenza alla terra, al feudo appunto, lo ha spogliato anche del fazzoletto di terra da cui ricavava un minimo sostentamento, lo ha completamente denudato, lasciandogli l’unica “proprietà” che non gli poteva togliere, la sua forza-lavoro che, anzi, è diventata contemporaneamente sia la fonte della sua ricchezza che la fonte della sopravvivenza del lavoratore. Il capitalismo, con la violenza rivoluzionaria che gli è stata propria, ha distrutto a mano a mano tutti gli ostacoli che la società precedente, feudale, schiavista o dispotica che fosse, gli opponeva, impossessandosi via via di ogni risorsa fisica, naturale, umana esistente al mondo; sull’onda del progresso tecnico e produttivo che le nuove invenzioni hanno sviluppato in ogni ambito economico, ha, in un certo senso, semplificato l’organizzazione sociale: da una parte, la minoranza, la borghesia, che rappresenta il capitale, dall’altra parte, il proletariato, i senza riserve, che rappresentano la forza lavoro. Rendendo merce qualsiasi oggetto prodotto, e organizzando qualsiasi scambio di oggetti attraverso un unico mezzo di scambio, il denaro, il capitalismo ha trasformato qualsiasi prodotto, sia della natura che dell’attività umana, da valore d’uso a valore di scambio. Non solo, ha trasformato anche la forza lavoro in una merce, in forza lavoro salariata perché il suo uso da parte dei capitalisti viene compensato con un valore in denaro, con il salario. La forza lavoro, nel capitalismo, è una merce, e non può essere niente di diverso sebbene il lavoro sia un’attività essenzialmente umana.

Come fa il capitalista ad arricchirsi, a valorizzare il suo capitale, dopo che il suo capitale è servito per pagare le materie prime da trasformare, i macchinari, gli edifici ecc. e per pagare la forza lavoro applicata al ciclo produttivo? Il “mistero” è stato svelato da Marx: considerando il tempo di lavoro necessario per produrre quotidianamente una certa quantitià di oggetti che poi verranno portati al mercato per la vendita, e il tempo di lavoro necessario alla riproduzione quotidiana della forza lavoro operaia, e mettendo a confronto i valori di queste due componenti fondamentali della produzione capitalistica, si trattava di scoprire da quale di queste due componenti il capitalista ricavava un capitale aumentato, un capitale valorizzato, e se il guadagno era insito in entrambe o in una delle due componenti fin dall’inizio del processo produttivo o se proveniva esclusivamente dai prezzi di vendita dei prodotti. Marx scoprì che il capitale investito per la produzione tornava sì aumentato al capitalista dopo la vendita, ma che questo aumento – data la concorrenza esistente tra i capitalisti nel mercato – doveva essere previsto, almeno a livello medio, fin dall’inizio del ciclo produttivo e non alla fine; quindi, anche se la merce non veniva venduta tutta e al prezzo desiderato, il venduto doveva contenere già una quota di profitto che giustificasse l’investimento di capitale. 

Il tempo è misurato in ore, l’ora di lavoro è l’unità di misura della forza lavoro impiegata giornalmente; una macchina, alimentata dall’energia necessaria al suo funzionamento, può funzionare ininterrottamente – se qualche cosa si rompe basta sostituirla, e la macchina si rimette in moto –, ma la macchina-uomo, la macchina-forza-lavoro umana, per essere utilizzata tutti i giorni, ha bisogno non solo di mangiare e vestirsi, ma anche di riposare per riprendere forze fisiche, nervose e mentali ed essere nuovamente applicabile alle diverse lavorazioni per le quali è stata comprata. Delle 24 ore che formano una giornata intera, un certo numero di ore servono come minimo per mangiare e dormire. Il capitalista calcola il costo della forza lavoro in paga oraria, e il suo utilizzo in giornate di lavoro. Solo per comodità di calcolo del capitalista si calcolava il salario come salario giornaliero, o settimanale, o quindicinale o, come ormai da anni, mensile. Come sappiamo, i capitalisti, un tempo, dettavano le regole senza l’intermediazione dello Stato, e avevano fissato la giornata di lavoro in 14-16 ore, alle quali bisognava aggiungere come minimo altre 2 ore, o più, per il tragitto dei lavoratori casa-fabbrica-casa. Il tempo di lavoro occupava perciò tre quarti della giornata, e un quarto rimaneva a disposizione del lavoratore per le sue necessità di vita. Solo le continue e tenaci lotte degli operai riuscirono a diminuire per legge la giornata di lavoro prima, nell’Ottocento, a 10 ore, poi, nel Novecento, e non in tutti i paesi, a 8 ore. In questo modo, il lavoratore, soprattutto nei paesi a capitalismo sviluppato, e con un salario più alto del minimo indispensabile per sopravvivere, aveva più tempo a disposizione non solo per le necessità elementari di vita, ma anche per trasformarsi in consumatore di tutta una serie di prodotti che l’iperfolle produzione capitalistica rovesciava sul mercato.

Ma il tempo di lavoro necessario per produrre una determinata quantità di oggetti in una giornata di lavoro non è mai lo stesso tempo di lavoro necessario alla forza lavoro salariata per ricostituire la propria forza lavoro. Il salario che il capitalista dà al lavoratore corrisponde in genere al costo medio di quel che serve per mangiare, vestire, abitare, per sé e per la famiglia. Dato che l’intero costo delle materie prime da trasformare, dei macchinari, degli edifici, del trasporto dei prodotti al mercato ecc. viene ripartito sulla produzione finale – tanto il capitalista ha speso per tutte queste merci (chiamato capitale fisso) e tanto lo ritrova nella produzione finale –, non è quindi questo il capitale che lievita alla fine del ciclo produttivo: 100 era all’inizio, 100 è alla fine. Il costo della forza lavoro, invece, (chiamato capitale variabile) è un costo, appunto, variabile, ossia dipende dal prezzo al quale la forza lavoro riesce a vendersi al capitalista; dipende dal rapporto di forza tra il capitalista che possiede tutto e il proletario, l’operaio, che possiede solo la forza lavoro, una merce che è costretto a vendere ogni giorno solo a chi gliela la può comprare, ossia al capitalista, e che deve venderla sennò non mangia, non vive. Ecco, dunque, che il capitalista riesce a valorizzare il suo capitale alla condizione di applicare al suo capitale fisso una certa quantità di capitale variabile, di forza lavoro operaia, la quale, ogni giorno, per funzionare, ha bisogno di quei beni di prima necessità il cui valore non è mai pari, ma è molto inferiore, al valore dei prodotti del suo lavoro. Perciò il tempo di lavoro necessario all’operaio per la riproduzione di se stesso, giorno per giorno, è inferiore al tempo di lavoro giornaliero dato al capitalista: delle 10 ore, o delle 8 ore lavorate in un giorno, ricorda Marx, la metà servono a pagare la forza lavoro operaia, l’altra metà è tutto guadagno per il capitalista. Dal punto di vista proletario, quel tempo di lavoro non pagato è il plusvalore che il capitalista estorce all’operaio; il salario non corrisponde mai al tempo di lavoro che realmente, giorno per giorno, il lavoratore dà al capitalista, ma corrisponde sempre ad un tempo via via inferiore rispetto alle ore totali lavorate, in virtù delle innovazioni tecniche applicate ad ogni attività produttiva. La ricchezza dei capitalisti nasce dalla base stessa del capitalismo, dallo sfruttamento sistematico della forza lavoro salariata; ed essa aumenta in modo abnorme quanto più si sviluppa la tecnica produttiva, quanto più l’innovazione e i risultati scientifici applicati alla produzione riducono il tempo di lavoro necessario all’operaio per il suo sostentamento, e quanto più la produzione e la distribuzione si avvalgono di tutta una serie di macchinari automatici e robotizzati. Ad esempio, là dove cinquant’anni fa un’industria automobilistica aveva bisogno di vaste aree su cui costruire i propri impianti e, soprattutto, di centinaia di migliaia di operai dislocati nei diversi reparti e nelle diverse lavorazioni, oggi, non solo le aree per ogni singola fabbrica si sono ridotte di molto, ma anche gli operai necessari alla produzione sono stati ridotti a pochissime decine di migliaia. E, mentre la produzione è enormenente aumentata in termini quantitativi, rispetto a cinquant’anni fa, il tempo di produzione per unità di prodotto è molto più ristretto. Le ore di lavoro che costituiscono la giornata di lavoro operaia sono, però, sempre quelle: 8 ore erano nel 1970, all’epoca dello Statuto dei Lavoratori, 8 ore sono nel 2020. Solo che oggi, il tempo di lavoro necessario per la riproduzione della forza lavoro quotidiana non è più di 4 ore su 8, come ipotizzato da Marx nell’Ottocento, ma è sicuramente molto più ridotto; azzardiamo: probabilmente meno di 2 ore!

I capitalisti, avidi di profitto, si possono mai accontentare? Mai!

Pressati dalla concorrenza fra di loro, sono sempre spinti a risparmiare su qualsiasi costo, sia nel campo dei materiali da utilizzare che nel campo della forza lavoro da impiegare. Se c’è un’abitudine che i capitalisti del secolo XXI non hanno perso rispetto ai capitalisti del XIX secolo, è quella di spremere fino allo stremo le energie umane impiegate nelle più diverse attività economiche. Le ore della giornata lavorativa, sotto la pressione delle lotte operaie, si sono dimezzate rispetto al secolo XIX? In compenso i ritmi di lavoro per ciascun lavoratore sono stati accelerati di dieci volte. Le condizioni di lavoro in cui, nei paesi di più vecchio capitalismo, erano stati costretti i lavoratori dell’Ottocento sono, in generale, migliorate; ed anche questo lo si deve soprattutto alle lotte operaie. I borghesi hanno trovato più conveniente, ad un certo punto, apportare qualche miglioramento nelle condizioni di lavoro dei propri operai – sulle misure di sicurezza, sulle pause, sui limiti del lavoro minorile ecc. – per evitare gli scioperi e il blocco della produzione; naturalmente con un occhio sempre al mercato e alla loro lotta di concorrenza, salvo diminuire o sospendere la produzione di fronte alle inevitabili crisi di sovrapproduzione, disinvestendo, licenziando, chiudendo le aziende. Ma lo sviluppo del capitalismo ha sviluppato anche le più diverse forme di concorrenza tra capitalisti, spingendo i borghesi a trovare dei compromessi, delle linee di collaborazione con gli operai. I borghesi non si fanno nessuno scrupolo nell’uso della forza, della violenza, della forza militare per imporre le loro leggi, i loro interessi, il loro dominio; nessuno scrupolo a schiacciare le lotte operaie, soprattutto quando prendono le caratteristiche della lotta classista, indipendente, unificante. Ma è certo che la borghesia, in generale, soprattutto nei paesi capitalisti sviluppati e dominanti sul mercato mondiale, preferisce la pace sociale alla guerra sociale. Perciò, ha utilizzato e utilizza nei confronti delle organizzazioni sindacali operaie le stesse tecniche di negoziato che vengono adottate nei rapporti d’affari tra aziende; naturalmente partendo da una posizione di forza, sia economica che politica: non è solo proprietaria assoluta dei mezzi di produzione, è, soprattutto, proprietaria assoluta della produzione, perciò ha in mano la vita di tutti i proletari, sia di quelli occupati sotto il suo comando sia di quelli espulsi dalla produzione e  disoccupati, giovani o meno, specializzati o meno, maschi o femmine, autoctoni o immigrati.     Top

La posizione di forza da cui parte la borghesia le ha consentito, e le consente, di ottenere sempre, pacificamente o attraverso lo scontro, legalmente o illegalmente, i risultati che si prefigge. Raramente, nella storia dei rapporti sociali tra proletariato e borghesia, il proletariato è riuscito ad imporre alla borghesia le sue rivendicazioni; quando questo è successo lo si deve soltanto ai grandi movimenti di massa, sul terreno dello scontro di classe. Ciò non toglie che in alcune aziende i proletari abbiano raggiunto, con la loro lotta, alcuni risultati positivi in termini di aumenti salariali, di migliori condizioni di lavoro, di maggior rispetto da parte padronale degli accordi contrattuali ecc.; ma, in generale, ad ogni piccolo miglioramento ottenuto, il proletariato in generale ha pagato un prezzo sempre molto alto, in termini di incertezza del posto di lavoro, e quindi del salario, in termini di intensità dei ritmi di lavoro, di disoccupazione, di insicurezza, di infortuni e di morti.

La posizione di forza della borghesia le consente, fin dall’inizio del suo dominio sociale, di dividere la massa operaia mettendo in concorrenza i proletari fra di loro: specializzati contro manovali, giovani contro anziani, donne contro uomini, immigrati contro autoctoni; non solo, frammentando la massa operaia in molteplici categorie, livelli, settori, e adottando, per legge, una serie infinita di “contratti di lavoro” o, come detto negli anni recenti, di “somministrazione del lavoro”, la borghesia ha fatto della flessibilità della forza lavoro la caratteristica su cui ogni singolo lavoratore viene valutato. Raggiunto un livello di sovrapproduzione costante, come succede nell’epoca imperialistica che stiamo attraversando, il mercato ha preso completamente il sopravvento e non solo nel campo dell’economia reale, della produzione materiale, ma soprattutto nel campo dell’economia fittizia, dell’economia finanziaria. La velocità di circolazione dei capitali è tale da surclassare la velocità di circolazione delle merci; e le borse di tutte le maggiori capitali del mondo lo dimostrano. La velocità con cui i capitali si spostano, si accumulano o si distruggono, fa emergere una loro caratteristica che è simile a quella di un gas che non si trattiene facilmente nelle condutture in cui lo si fa scorrere, e un accidente qualsiasi e imprevisto le fa deflagrare. Ma, tra un imprevisto e l’altro, i capitali non si fermano mai, dettano di fatto le condizioni per la loro valorizzazione, richiedono dispoticamente la massima flessibilità alla loro componente principale, di base, alla forza lavoro operaia dal cui sfruttamento essi dipendono.

Aumentando la concorrenza sul mercato mondiale, i capitalisti sono spinti non solo ad aggiornare i mezzi di produzione dal punto di vista tecnico e tecnologico, in modo da produrre di più nella stessa unità di tempo – velocizzando quindi tutte le diverse operazioni necessarie a questo fine – ma anche ad adeguare a questi nuovi e più veloci ritmi di produzione l’intero organico di forza lavoro impiegato. Nello stesso tempo, la concorrenza tende a far abbassare i prezzi di vendita dei prodotti, quindi i capitalisti, per non perdere i profitti previsti o, comunque, per mantenere il profitto medio che giustifichi l’investimento di capitali effettuato, tendono ad abbassare tutti i costi di produzione, dalle materie prime al costo della forza lavoro. E’ così che prodotti che un tempo duravano venti, trenta, quarant’anni, oggi durano dieci, cinque, due anni, il che obbliga ad un rinnovato acquisto; ed è così che la costruzione di una nave, un treno, un aereo, una strada, un edificio, una macchina, che dovrebbe prevedere l’uso di materiali resistenti a tutte le sollecitazioni a cui saranno sottoposti nel loro uso quotidiano, viene invece realizzata con materiali scadenti, meno resistenti e sicuramente più fragili di quel che dovrebbero essere. Se a questi risparmi nei costi di produzione, si aggiungono i risparmi nei costi del lavoro e nelle misure di sicurezza sul lavoro, abbiamo la visione perfetta di una società organizzata esclusivamente per il profitto capitalistico, a qualsiasi costo! Al capitalismo interessa che la forza lavoro salariata produca e riproduca capitale, non importa a che prezzo. Ai borghesi interessa che la forza lavoro salariata si pieghi alle esigenze del capitale, tutti i giorni, ogni minuto di ogni giorno, e se si ribella a queste esigenze sono pronti ad utilizzare ogni mezzo, dal più “pacifico” al più violento, da quello legale a quello illegale, negoziando con i sindacati collaborazionisti e con i partiti “operai” borghesi alcune concessioni per tacitare una parte, sempre molto piccola, delle esigenze di vita dei proletari, e scatenando le forze di polizia contro gli operai che osano manifestare in difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro con forza e determinazione senza piegarsi alla prima minaccia che arriva dallo Stato o dal padronato.

I proletari formano ormai in quasi tutti i paesi la grande maggioranza della popolazione, anche là dove il capitalismo non ha sviluppato l’economia in tutti i suoi comparti e l’agricoltura vede ancora una consistente presenza di contadini poveri. Ma, a fronte del progresso tecnico e tecnologico che i grandi borghesi vantano come frutto della loro organizzazione economica e sociale, della loro civiltà, della loro cultura e della loro scienza, ancora oggi, 2020, gli stessi istituti di statistica borghesi sono costretti a rilevare che nel mondo, a causa delle pessime condizioni di lavoro, vi sono ogni anno quasi 3 milioni di morti! Sono numeri impressionanti: è una strage continua! Ma è una strage la cui causa non è né la fatalità, né la sfortuna; la causa è nella struttura economica capitalistica.

Come fermare questa strage? La stessa domanda si può fare di fronte alle guerre borghesi di rapina, alle guerre imperialiste. Come fermare queste guerre?

Il capitalismo, superata la sua epoca rivoluzionaria in cui gli Stati feudali e le strutture economiche precapitalistiche dovevano essere abbattuti per “liberare” le forze produttive al progresso economico e le sovrastrutture politiche alla “libera circolazione delle merci e delle persone”, si poteva sviluppare soltanto in una direzione: verso la grande industria, verso la sempre più forte concentrazione di capitali e, inevitabilmente, verso i trust, i cartelli, le multinazionali. Più i processi produtivi aumentavano le quantità, e le varietà, di merci da immettere nel mercato, e si internazionalizzava il modo di produzione capitalistico, più la tendenza alla concentrazione economica e finanziaria e alla centralizzazione politica si rafforzava. Insieme ai grandi trust si formavano i grandi Stati imperialisti. Il mercato nazionale non bastava più, per i capitali e le stesse merci diventava troppo piccolo, ci voleva il mercato mondiale; la concorrenza tra capitalisti nazionali si spostava a livello internazionale; ma lo stesso mercato mondiale tendeva a diventare troppo piccolo rispetto all’enorme quantità di merci che vi affluivano. Lo sviluppo della produzione capitalistica comportava inevitabilmente l’intasamento delle merci in un mercato che non riusciva più ad assorbirle garantendo un tasso medio di profitto. Con il capitalismo si sviluppa la concorrenza capitalistica, e si sviluppano i contrasti non solo economici ma anche politici, e militari, degli Stati borghesi che hanno il compito di difendere gli interessi della borghesia nazionale sia nei confronti delle borghesie concorrenti, sia nei confronti delle classi proletarie da sfruttare in patria, nelle colonie e in tutti i paesi nei quali riescono ad impiantare le proprie attività economiche. La guerra commerciale si trasforma ben presto in guerra finanziaria e in guerra guerreggiata con l’obiettivo, da parte di ogni borghesia, di assicurarsi dei mercati per le proprie merci e i propri capitali da cui ricavare i profitti previsti. Ovvio che dove una borghesia vince c’è una borghesia che perde; si costruiscono e si modificano alleanze, a seconda dei rapporti di forza tra le borghesie e i diversi interessi che si formano nello sviluppo delle relazioni internazionali. Ma qualsiasi tipo di sviluppo, economico o finanziario o politico, comporta una lotta perenne tra le borghesie e in questa lotta ogni borghesia ha interesse ad avere dalla sua parte la classe proletaria dal cui sfruttamento trae la sua vera ricchezza, la valorizzazione del capitale investito.

Più sono le aziende che insistono sul mercato, più la concorrenza si acuisce, più i capitalisti sono spinti a produrre a costi più bassi dei concorrenti: perciò, se è vero, come è vero, che il plusvalore estorto dallo sfruttamento del lavoro salariato è la fonte di ogni utile, di ogni profitto, è da questa fonte che ogni capitalista cerca di ricavare il massimo guadagno. Alla riduzione dei costi di produzione partecipano certamente l’introduzione di innovazioni tecniche, l’organizzazione del lavoro più razionale, l’introduzione di automatismi al posto di lavorazioni manuali, e materie prime a costi inferiori, oltre a mezzi e metodi di distribuzione delle merci più rapidi e convenienti. Ma la fonte principale di tutto il processo produttivo è il lavoro vivo, il lavoro salariato a cui è costretta la forza lavoro proletaria. Perciò le condizioni di lavoro dei proletari assumono un peso decisivo sia per il capitalista che li sfrutta, sia per i lavoratori che sono costretti a vendersi al capitalista per sopravvivere. Il capitalista ha interesse a pagare il meno possibile la forza lavoro, a sfruttare al meglio tutte le sue energie e a risparmiare il più possibile sui costi fissi della sua azienda; il proletario ha interesse a farsi pagare di più di quanto non voglia il capitalista, a risparmiare le proprie energie il più possibile e a decicare più tempo possibile a se stesso, alla famiglia, ai suoi interessi. La lotta tra borghesi e proletari è lotta tra interessi del tutto contrastanti, è una lotta tra antagonisti. I borghesi, in questa lotta, si difendono con tutti i mezzi a disposizione (partono già avvantaggiati visto che sono proprietari di tutti i mezzi di produzione e della produzione stessa, e sono difesi dal loro Stato e dalle sue leggi), con la pressione economica sul posto di lavoro, con la pressione fisica e psicologica attraverso i capi e i sorveglianti, con il ricatto del posto di lavoro e alimentando la concorrenza tra proletari, con l’intensificazione dei ritmi di lavoro e l’accumulo di mansioni, con orari di lavoro rigorosi, con le multe e con ogni altra misura che la ricercata produttività del lavoro e competitività dell’azienda richieda. I proletari, in questa lotta, sono nudi; se non lavorano non vengono pagati e non possono sostenersi in vita, dunque devono sottostare agli ordini del padrone. Hanno da mettere in campo soltanto la loro forza lavoro che può trasformarsi, se usata con intelligenza e collettivamente, da condizione di sudditanza al padrone ad arma con cui difendere i propri interessi immediati con l’obiettivo di aumentare il salario, diminuire la giornata di lavoro, ridurre i ritmi di lavoro, aumentare le pause, difendersi dalla nocività, dal continuo stress di operazioni ripetitive ecc. ecc. E’ così che lo sciopero è diventato l’arma più diretta e immediata che gli operai hanno avuto e hanno per rivendicare migliori condizioni di lavoro e di vita.     Top

La storia del movimento operaio è stracolma di episodi di lotte nelle quali gli operai si sono opposti non solo al padrone singolo, ma anche alle associazioni dei padroni e allo Stato che è sempre pronto a inviare le forze di polizia, se non l’esercito, a difesa della proprietà privata, dell’economia aziendale, come dell’economia nazionale e, non ultimo, dei crumiri.

E la storia della borghesia dominante è piena di episodi di violenza contro gli operai, e le loro organizzazioni sindacali, che si ribellano alle pessime condizioni di lavoro e di vita in cui sono costretti. Ma, da quando esiste la borghesia capitalista, e quindi il proletariato, veri schiavi moderni al servizio dei capitalisti e della loro società, l’arma più subdola e potente che utilizza per piegare i proletari alle sue esigenze è il ricatto del posto di lavoro: senza posto di lavoro non c’è salario, senza salario si muore di fame e di freddo; un ricatto che si basa su due perni, uno è appunto il salario, l’altro è la concorrenza tra proletari grazie alla quale un proletario può essere sostituito con un altro che si piega senza ribellarsi ai voleri del padrone. Se i proletari scioperano, perdono salario, perciò la loro lotta costa nell’immediato; più giorni di sciopero, più giorni senza salario. In questo senso lo sciopero può essere un’arma a doppio taglio perchè se da un lato la sospensione della produzione comporta un danno all’azienda (che però può contare su capitali di riserva), comporta nello stesso tempo un danno al lavoratore salariato, che non può contare su nessuna riserva (si chiama proletario proprio perché è un senza riserve). Scioperare, quindi, per i proletari, significa mettere a rischio una parte del loro salario e, spesso, prima o poi lo stesso posto di lavoro. Ma gli operai scioperano quando almeno una buona parte di loro sono d’accordo; il numero rappresenta una forza, certo, ma solo se riferito ad un’organizzazione che usa lo sciopero non per dare sfogo ad una rabbia accumulata nel tempo a causa di condizioni di lavoro insostenibili, ma per obbligare il padrone, il padronato o lo Stato, a soddisfare le richieste operaie. Sono cose, queste, che ogni operaio sa molto bene, come sa che lo sciopero utilizzato non come arma contro gli interessi dell’azienda, e quindi del padrone, ma come un richiesta di conciliazione a fronte della quale si chiede al padrone di concedere qualcosa, è in realtà un boomerang, un’azione rivolta contro gli interessi di classe operai, che demoralizza e indebolisce la “forza” operaia messa in campo, contribuendo ad approfondire la concorrenza tra proletari, la frammentazione delle lotte e il loro isolamento, decretando così la sconfitta nello stesso momento di proclamazione dello sciopero.

E’ esattamente questa la pratica applicata dal collaborazionismo sindacale nei 75 anni passati dalla fine della seconda guerra imperialista ad oggi. Le forme in cui il collaborazionismo ha espletato il suo compito di piegare sistematicamente il proletariato alle esigenze del capitalismo e dello Stato borghese, sono state anche diverse, a seconda del periodo attraversato dal capitalismo, se di espansione o di recessione, ma rispondevano sempre e comunque all’obiettivo che l’integrazione dei sindacati nelle istituzioni statali aveva definito fin dalla loro riorganizzazione dopo la caduta del fascismo: conciliare le richieste operaie con le esigenze delle aziende, dando priorità alle esigenze capitalistiche, e contenere le lotte operaie (frammentandole, isolandole, articolandole, sfiancandole, deviandole, interrompendole, riducendole) non solo nel quadro delle leggi esistenti, ma soprattutto togliendo loro la capacità di trovare il padrone impreparato. Infatti, dare il preavviso secondo le leggi borghesi, significa dare modo al padrone di organizzarsi preventivamente per ridurre a zero, o quasi, il danno che uno sciopero improvviso, senza preavviso e senza limiti può provocare. Infatti, lo sciopero classista prevede di danneggiare gli interessi padronali, e conta sul fatto che il padrone non voglia subire ulteriori danni ai suoi affari e si convinca a cedere alla richieste degli scioperanti. Dato che ai sindacati collaborazionisti stanno a cuore gli affari dei capitalisti, dal cui buon andamento fanno dipendere se avanzare o meno le richieste operaie, e quali richieste, è logico che fanno di tutto, come hanno sempre fatto, perché i padroni siano nelle migliori condizioni per affrontare uno sciopero, soprattutto se la spinta della base operaia è talmente forte da far durare lo sciopero per parecchio tempo.

Data questa natura antioperaia delle organizzazioni sindacali collaborazioniste, è logico che di fronte alla strage continua di lavoratori nei posti di lavoro, esse si limitino ad alzare la voce contro i padroni coinvolti per le misure di sicurezza inesistenti o del tutto insufficienti. Ma il problema delle “morti bianche”, come amano definirle i pennivendoli di ogni risma, che dovrebbe essere preso in carico dalle organizzazioni operaie con una durissima lotta contro i padroni – perché queste morti non sono accidentali, ma sono veri e propri assassinii – viene invece ribaltato sullo Stato, sulle istituzioni inadeguate nel controllo delle aziende, sulla burocrazia pubblica che passa le carte ai tribunali e alle inchieste giudiziarie. Non si è mai visto uno sciopero duro, immediato non appena avvenuto l’infortunio, o la morte nei posti di lavoro, se non  rarissimamente.

Gli operai, a causa delle condizioni di lavoro in cui sono costretti, vengono mutilati, storpiati, si intossicano e si ammalano, muoiono in una frazione di secondi o dopo anni, e che fanno i sindacati tricolore? Chiedono più ispettori del lavoro... ad uno Stato che negli anni non ha fatto altro che risparmiare anche sul loro numero già in partenza esiguo; denunciano la mancanza di misure di sicurezza adeguate... e le denunce si accumulano negli uffici dei tribunali; raccomandano gli operai... di stare più attenti, di portare le mascherine..., e intanto gli operai continuano ad ammalarsi, ad infortunarsi e a morire!     Top

In Italia, tra il 2008 e il 2019, secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna, sono morti oltre 17.000 lavoratori, sui luoghi di lavoro e nel tragitto casa-lavoro. Nel solo 2019, e fino al 25 dicembre, sono morti 1.394 lavoratori, compresi i morti in itinere; sono in aumento rispetto al 2018,  che già erano aumentati rispetto al 2017 (secondo i dati Inail, “le denunce di infortunio con esito mortale” nel 2018 sono state 1.218, contro le 1.148 del 2017 e le 1.154 del 2016). Ma, a questi numeri ufficiali, oltre ai morti non denunciati all’Inail perché lavoratori in nero o immigrati, vanno aggiunti i morti per le malattie contratte durante la vita lavorativa; in particolare, i morti di tumore, come il mesotelioma (da esposizione all’amianto), e non solo i lavoratori esposti direttamente all’amianto nel lavoro in fabbrica, ma anche i famigliari e gli abitanti nei siti vicino alle fabbriche come l’Eternit, la Fibronit, l’Ilva ecc. In Puglia, dove sono presenti l’Ilva a Taranto e la Fibronit a Taranto e a Bari, l’Osservatorio nazionale amianto (Ona) stima che tra il 1993 e il 2015 i morti causati o concausati dall’esposizione all’amianto sono stati circa 5 mila; dunque circa 220 l’anno per le sole patologie asbesto correlate; mentre i tumori polmonari sono circa il doppio dei mesoteliomi, a cui vanno aggiunte le altre patologie causate dalla diossina e da altri inquinanti (www.ona.it) . Nella sola città di Taranto, i morti per mesotelioma rappresentano la metà di tutta la regione; e nel 2018 i morti di tumori tra i lavoratori dell’ex Ilva la percentuale è salita del 500% rispetto all’anno precedente! La cosa non deve purtroppo stupire, perché  le malattie asbesto correlate, come il mesotelioma, hanno un periodo di latenza lunghissimo, anche 30-40 anni; e questo, tra l’altro, è uno dei motivi per cui è molto difficile ricostruire il luogo esatto dell’esposizione all’amianto. Fino al 1992, quando l’amianto è stato riconosciuto come causa dei tumori asbesto correlati e lo Stato italiano ha emanato la legge n. 257 che ne vietava l’estrazione, l’uso e l’importazione, l’amianto, data la sua caratteristica di essere un minerale molto resistente al calore, è stato utilizzato massicciamente non solo nell’edilizia – perciò nelle scuole, nelle caserme, nelle palestre, negli ospediali, negli edifici civili e industriali, nelle condutture ecc., ma anche nelle navi, negli aerei, nell’abbigliamento di tutti coloro che avevano a che fare con il fuoco e in mille altre situazioni. Si continua quindi a morire, anche dopo 30 o 40 anni, a causa delle fibre d’amianto respirate, ma dal 1992 l’amianto non è sparito: le bonifiche avviate sono una goccia nel mare e, nonostante il divieto di importazione, si è scoperto, nel 2015, che l’Italia è il primo acquirente di asbesto indiano al mondo e che ha importato l’asbesto anche dagli Stati Uniti (ilfattoquotidiano.it, 16/2/2016).

Fatta la legge, trovato l’inganno? Per i capitalisti è normale, tanto poi sono gli operai che muoiono, non i padroni! Ma, se la causa specifica dei tumori come il mesotelioma è sicuramente l’amianto, il vero assassino non è l’amianto, è il sistema capitalistico di produzione che, mentre ha un grande riguardo per il profitto, ha un profondo disprezzo per la vita umana! Proprio per le sue micidiali caratteristiche, l’eventuale utilizzo delle fibre d’amianto dovrebbe essere sempre sottoposto a tutta una serie di procedimenti e di misure di sicurezza molto costosi, e nessun capitalista è interessato ad investire tanto capitale per non ricavarne l’agognato profitto. Perciò, se da un lato lo Stato centrale, di fronte ai tanti omicidi commessi in nome del profitto capitalistico, è tenuto a varare delle leggi che prevedono la condanna dei responsabili di quegli omicidi, dall’altro lato i capitalisti le aggirano sistematicamente, spesso con l’aiuto delle organizzazioni criminali (che nell’edilizia sono sempre molto presenti, come il caso delle scuole ricostruite a Finale Emilia dopo il sisma del 2012), per proteggere i propri affari ed incrementare i propri profitti. Ma i grandi capitalisti, anche rispetto alle leggi che lo stesso Stato borghese non può non emanare, hanno sempre una via di fuga, come dimostra in modo eclatante il caso Eternit: è superdimostrato che a Casale Monferrato, dove aveva sede la principale fabbrica Eternit, gli assassinati da amianto sono stati finora circa 2 mila, e per questi omicidi i vertici aziendali erano stati condannati sia in primo che in secondo grado di giudizio, MA è intervenuta la prescrizione che ha annullato le condanne. E’ così che lo Stato borghese protegge i capitalisti, i loro affari come la loro vita quotidiana, mentre i lavoratori continuano a morire e ai loro famigliari si riconosce con grandi difficoltà e tormentate azioni burocratiche una misera pensione.

I media, che riprendono i dati Inail (si sa che all’Inail non sono iscritte tutte le aziende, ad esempio quelle piccole e individuali) continuano a parlare di meno morti sul lavoro come fosse una tendenza generale, e come se le aziende avessero adeguato le misure di sicurezza previste dalla legge. In realtà la crisi che dal 2008 è durata una decina d’anni, e che ancor oggi fa sentire le sue conseguenze, ha provocato la chiusura di molte aziende e la riduzione dell’organico in molte altre;  perciò la diminuzione dei morti sul lavoro è dipesa più dal fatto che c’erano meno lavoratori impiegati piuttosto che un aumento generalizzato delle misure di sicurezza. E la dimostrazione sta negli stessi dati dal 2017 al 2019: il numero dei lavoratori assassinati dal capitalismo risale di anno in anno. Questa strage sistematica del lavoro vivo non è che un’ulteriore dimostrazione che il modo di produzione capitalistico rappresenta l’economia della sciagura, l’economia dell’assassinio sociale anche in pieno tempo di pace; sì, la pace dei morti!

Non sarà mai troppo tardi farla finita con la società del capitale e con la classe borghese che ne trae tutti i vantaggi a discapito della stragrande maggioranza della popolazione.

I proletari, finché sono prigionieri della collaborazione tra le classi, della conciliazione sociale, di una “coesione nazionale” idealmente propagandata di fronte ad ogni conflitto sociale, non avranno mai la forza di interrompere questo stillicidio; il fatto di rappresentare la stragrande maggioranza della popolazione non ha alcuna incidenza sulla gestione sociale, sull’organizzazione del lavoro, sulla reale difesa della vita umana. I borghesi si beffano allegramente delle grida lanciate dai leader sindacali o politici contro le condizioni disumane in cui i proletari sono costretti a lavorare e a morire; hanno risorse, avvocati e istituzioni compiacenti con cui difendere i loro privilegi di fronte a qualsiasi tribunale. La legge del profitto capitalistico soprattutto!

I proletari, sotto il regime borghese, sono condannati a sopravvivere e a morire secondo le esigenze del capitalismo, in tempo di pace come in tempo di guerra. Ma la borghesia conduce contro il proletariato una guerra asimmetrica: se nella guerra tra Stati borghesi, normalmente, si attua uno scontro tendenzialmente proporzionato alle forze in campo di ciascuno Stato, nella guerra sociale tra borghesia e proletariato la caratteristica principale è la gigantesca sproporzione tra le forze messe in campo dalla borghesia e le forze messe in campo dal proletariato. Nel caso della borghesia, che è la classe dominante, la forza non solo virtuale, ma cinetica, è data dalla proprietà assoluta sia dei mezzi di produzione che della produzione sociale, a cui si accompagnano la forza militare, la forza politica e i mezzi di propaganda e di cultura, religione compresa. Nel caso del proletariato, ossia di tutti coloro che vivono esclusivamente del lavoro salariato, la forza virtuale è data dal numero, dal fatto di essere la classe più numerosa della società, che, per trasformarsi in forza cinetica, in forza reale capace di incidere sui rapporti politici e sociali, deve sbarazzarsi completamente della tutela borghese, dell’influenza borghese che le impedisce di rendersi indipendente e di lottare esclusivamente per i propri interessi di classe.

I proletari, perciò, per difendersi nella guerra sociale che sistematicamente la borghesia conduce contro di essi in ogni campo, economico, sociale, politico, culturale, organizzativo, devono rompere drasticamente con i legami che la borghesia, attraverso il suo potere diretto e attraverso le forze opportuniste e collaborazioniste mascherate da tutori degli interessi proletari, ha costruito nel tempo formando un’enorme rete nella quale tenere imprigionate le masse proletarie. Una rete fatta di piccole concessioni e di ricatti di ogni genere, di ammortizzatori sociali e di sfruttamento sempre più intenso della forza lavoro, di qualche privilegio per alcuni strati superiori del proletariato e di vita tormentata e al limite della sopravvivenza per la sua grande maggioranza, di concorrenza spietata a tutti i livelli tra proletari e strage quotidiana sul lavoro, sulle strade, nelle caserme di polizia e nelle guerre borghesi. Questa rete è gestita dalla borghesia a vantaggio del proprio potere e dei propri privilegi, ma non risolve le contraddizioni sociali che la sua società, il modo di produzione capitalistico genera costantemente: più sviluppa capitalismo e più sviluppa contraddizioni avviluppando in una spirale senza fine l’intero genere umano. La borghesia ha dimostrato di poter superare le crisi della sua società, anche le più acute e devastanti, ma con l’enorme distruzione ciclica di forze produttive, come le due guerre mondiali passate hanno dimostrato e  come le continue guerre nelle varie regioni del mondo continuano a dimostrare. Ma, come ogni società divisa in classi che la storia ha conosciuto, anche la società borghese ha una sua fine, e, come la fine della società feudale si è chiamata rivoluzione borghese, la sua fine si chiama rivoluzione proletaria e comunista. Il terrore che ha colpito la borghesia internazionale di fronte alla rivoluzione d’Ottobre del 1917 e della sua possibile estensione a tutt’Europa, e al mondo, è stato superato grazie alla controrivoluzione che ha potuto poggiare sulla cancrena opportunista che ha debilitato le forze proletarie d’Europa e di Russia, decretando la sconfitta di quel glorioso tentativo. Ma la dinamica storica è fatta di tentativi, di esplosioni sociali, di rivoluzioni e di controrivoluzioni, di successi e di sconfitte: quel che non si ferma è la fisica lotta di classe, il conflitto tra vecchie forme di produzione e nuove forze produttive. E il proletariato, la classe degli schiavi moderni, la classe dei senza riserve, è il portatore storico delle nuove forze produttive, unica classe rivoluzionaria dell’epoca borghese che ha il compito storico di superare i limiti e le contraddizioni del capitalismo ponendo i risultati dello straordinario progresso tecnico nella produzione non più al servizio del mercato e del capitale, ma al servizio degli esseri umani, trasformando l’economia mercantile e capitalistica, in economia sociale, comunistica.     Top

Il proletariato, rispetto alla borghesia, ha una prospettiva storica, un futuro, che la borghesia non ha, non avrà e non potrà mai avere, perché i suoi interessi di classe vanno contro gli interessi della grande maggioranza degli uomini, perché i suoi interessi di classe dominante tendono ad acutizzare la lotta fra le classi e, in particolare, la lotta di classe del proletariato che, per difendersi, sopravvivere e imporre finalmente i suoi interessi di classe – che sono gli interessi della stragrande maggioranza delle popolazioni – all’intera società, deve e dovrà colpire a morte gli interessi borghesi. La classe borghese, come le classi feudali e le classi schiaviste che l’hanno preceduta, ha un corso storico determinato, sottoposto allo sviluppo inarrestabile delle forze produttive. La classe proletaria, come la classe borghese in precedenza, proprio perché rappresenta le nuove forze produttive della società, è e sarà spinta inesorabilmente a scontrarsi con la classe dominante che impedisce il loro sviluppo, le mortifica, le limita, le distrugge pur di mantenere il privilegio di classe dominante. Il proletariato perciò, per quante sconfitte ha subito e subirà ancora nella lotta contro la borghesia e le sue forze di conservazione, ha un destino storico segnato dalle sue stesse condizioni sociali di esistenza, e la sua rivoluzione sociale non potrà che essere il risultato della sua vittoriosa rivoluzione politica, abbattendo il potere politico borghese e instaurando la sua dittatura di classe perché la rivoluzione vinca a livello internazionale e sia in grado di avviare la trasformazione socialista della società. A differenza della rivoluzione borghese, la rivoluzione proletaria non ha il compito storico di instaurare una nuova società di classe con l’obiettivo di mantenere il potere sottomettendo le classi inferiori ai propri interessi particolari. Ha invece l’obiettivo di superare ogni divisione di classe, grazie alla base economica e produttiva raggiunta dalla società capitalistica, e di avviare l’organizzazione sociale verso una effettiva razionalizzazione economica che permetterà a ciascuno di dare secondo le proprie capacità  e di avere secondo le proprie esigenze.

Ebbene, nella situazione attuale, con un proletariato così schiacciato in un asservimento generale alle esigenze del capitalismo, appare difficile credere che il proletariato sia in grado, un domani, di organizzarsi per una lotta così vasta e con obiettivi storici così alti. La borghesia appare invincibile. Ma la storia insegna che sotto la superficie il magma vulcanico è vivo, agisce e una volta raggiunto il punto di ebollizione non più trattenibile dalla crosta terrestre, esplode e invade con la propria forza eruttiva tutto il territorio circostante. Allo stesso modo, la forza eruttiva del proletariato, raggiunto il punti di tensione sociale non più contenibile dalle forze della conservazione borghese, esploderà nell’aperta lotta di classe antiborghese; ma perché diventi lotta di classe anticapitalistica, e quindi punti alle radici del capitalismo, il proletariato non ha bisogno soltanto di riorganizzarsi sul piano immediato ed economico, ma anche sul piano politico: ed è qui che il partito di classe deve svolgere in pieno il suo compito storico, quello di indirizzare e guidare la lotta proletaria verso gli obiettivi storici che la rivoluzione proletaria porta oggettivamente con sé; soltanto il partito comunista rivoluzionario, il partito di classe per l’appunto, rappresenta la volontà e la coscienza della lotta di classe proletaria, raccogliendo gli stimoli e le reazioni che sorgono dalle stesse condizioni economiche delle masse proletarie. Il partito di classe possiede la teoria della rivoluzione proletaria e dell’obiettivo storico finale, il comunismo; grazie a questa teoria conosce lo sviluppo degli eventi, dei conflitti sociali e di classe, prevedendone il seguito, la modificazione nei rapporti di forza e le decisioni da prendere affinché la lotta di classe rimanga sempre orientata verso gli obiettivi finali.

Ma il proletariato deve, prima di tutto, rompere i legami che lo costringono al servizio della borghesia, e rompere i legami costruiti dalle forze opportuniste e collaborazioniste per mantenerlo nella condizione di asservimento al capitale. Morire per il capitale, o lottare per vivere!, è la base da cui partire, il bivio tremendo nel quale il proletariato decide la propria sorte. Si muore per il capitale ogni giorno, non soltanto durante la guerra; perciò la lotta per vivere deve iniziare in tempo di pace. Per vivere non come schiavi del capitale, ma come uomini che combattono contro ogni aspetto economico e sociale in cui li costringe il sistema capitalistico. Allora la lotta per l’aumento del salario, per la riduzione drastica della giornata lavorativa, contro la nocività sul posto di lavoro come nei luoghi dove si abita, per misure di sicurezza e di prevenzione effettive, prende l’aspetto della lotta di classe, che pone in cima ai suoi obiettivi gli interessi reali e immediati dei proletari. La lotta operaia non si riduce soltanto allo sciopero, all’astensione dal lavoro per costringere il padrone ad ascoltare le richieste operaie, ma è certo che lo sciopero – se usato come effettivo mezzo che porta danno al padrone, e non agli operai – è la forma di lotta che unisce i lavoratori, li abitua ad organizzarsi, a prevedere le mosse del padrone, a costruire solidarietà fra gli scioperanti ed intorno ad essi. E la solidarietà di classe è la migliore arma contro la concorrenza tra lavoratori.

Se di fronte ad un infortunio sul lavoro, soprattutto se mortale, tutti i lavoratori dell’azienda si fermassero immediatamente per una giornata intera, non solo per portare soccorso, ma proprio per lottare contro gli infortuni di cui l’azienda è responsabile nel 99,99% dei casi, chiamando anche i lavoratori delle altre aziende a solidarizzare con questa forma di lotta, è evidente che l’azione porterebbe un danno reale ai padroni e li solleciterebbe probabilmente a prendersi in carico il problema delle misure di sicurezza sul lavoro, cosa che se non lo facessero dovrebbe comportare altre giornate di sciopero. Se questo metodo diventasse la regolare risposta che i proletari danno, almeno ogni volta che succede un infortunio grave sul posto di lavoro, il problema degli infortuni e delle morti sul lavoro non sarebbe più trattato dai padroni, e dai loro servi, come un problema di secondaria importanza, da isolare rispetto a tutti gli altri aspetti dei processi produttivi. Certo, ogni giornata di sciopero comporta una giornata di mancato salario, ma nella lotta contro gli attacchi continui dei padroni alle condizioni di vita e di lavoro operaie ci sono sempre dei prezzi da pagare. Una vita deve valere meno di una giornata di salario?

La cinica e persistente azione deviante del collaborazionismo sindacale e politico, consistente in particolare nel mettere sempre in primissimo piano le esigenze di competitività delle aziende e la necessità di aumentare la produttività del lavoro, a discapito della salute e della vita dei lavoratori, che per tanti decenni ha lavorato sulle menti e sugli stomaci dei lavoratori, li ha abituati a mettere quotidianamente in secondo, se non ultimo, piano, la propria salute e la propria vita. Il capitalismo ha imposto ai proletari un ricatto di base, come dicevamo: la tua forza lavoro contro un salario, che è l’unica tua fonte di sopravvivenza. Se non lavori, alle condizioni del padrone, non ricevi salario, e senza salario non vivi. Perciò i lavoratori hanno lottato e lottano, per il salario e per condizioni di lavoro meno intollerabili, e si sono organizzati nei sindacati. Ma i sindacati, ad un certo punto del loro sviluppo, si sono venduti ai padroni, rafforzando il ricatto nei confronti di ogni singolo lavoratore.

Questa è la situazione che vige da 75 anni, e non è certo facile per i lavoratori affrontare la sicumera dei padroni, ben protetti dallo Stato, senza un sindacato di classe, un’organizzazione in grado di unire i proletari al di sopra delle categorie e dei settori economici per utilizzare questa forza sociale a difesa effettiva ed esclusiva degli interessi proletari tra i quali la vita, la salute e il salario sono prioritari.

La via per lottare realmente contro gli infortuni e le morti sul lavoro passa necessariamente attraverso l’uso di mezzi e di metodi di lotta che incidano all’immediato sugli interessi padronali, e questi mezzi e metodi non possono dipendere dalla conciliazione degli interessi proletari con quelli aziendali, dalla collaborazione coi padroni, dalla competitivtà e dalla produttività capitalistiche. Organizzarsi sul terreno di classe significa rompere con la collaborazione tra le classi e mettere sempre in primo piano la difesa esclusiva degli interessi proletari.

 

Dicembre 2019

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INDICE DEI MATERIALI

 

  Introduzione (Dicembre2019)

 

Parte generale

 

  La pace capitalistica non ferma la strage di proletari! Solo la lotta di classe indipendente può difendere gli interessi di vita e di lavoro proletari - (il proletario, supplemento il comunista n° 159, Maggio 2019)

  Il capitalismo si nutre di sudore e sangue proletari! La sete di profitto e la guerra di concorrenza capitalistica continua ad  uccidere i lavroatori in ogni paese del mondo! Solo organizzandosi sul terreno della lotta di classe e per la rivoluzione anticapitalistica i proletari possono fermare questa inesorabile carneficina - (il comunista, n° 130-131, Aprile-Luglio 2013)

  Ennesima legge sulla sicurezza nel lavoro: ma l'unico mezzo per i lavoratori di difendersi è: Lotta ad oltranza - Lo sciopero immediato - L'estensione della lotta a tutti i posti di lavoro e manifestare in piazza  contro lo sfruttamemnto e la morte sul lavoro! - (Volantino 24/09/2007)

  Infortuni sul lavoro. Una guerra non dichiarata che finirà solo con l'eliminazione del capitalismo - (il comunista, n° 66, Giugno1999)

  Sulla sicurezza  sul lavoro: una nuova legge. I rischi sul lavoro aumentano, e la legge borghese pensa a «proteggere» prima di tutto i padroni - (il comunista, n° 48, Dicembre 1995)

 

Porto Marghera

 

  Porto Marghera. Fabbrica di suicidi - (il comunista, n°6, Nov.1987- Gennaio 1986)

  Al lavoro come in guerra - (il comunista, n° 7, Maggio 1987)

  Dal Petrolchimico di Marghera - fabbrica di suicidi - una lettera di denuncia - (il comunista, n° 8, Agosto1987)

  Al disprezzo della vita degli operai, opporre la forza del  numero e l'organizzazione classista - (il comunista, n° 8, Agosto1987)

  Petrolchimico di Porto Marghera. il modo di produzione capitalistico è il mandante, i borghesi sono i suoi sicari - (il comunista, n° 62, Ottobre 1998)

  Schiavitù proletaria alla Fincantieri di Porto Marghera - (il comunista, n° 56, Settembre 1997)

  Cantieri navali di Porto Marghera: muore un operaio schiacciato da una gru. I padroni lo chiamano incidente. I  sindacati lo chiamano: incidente mortale. Noi lo chiamiamo col suo vero nome: assassinio - (il comunista, n° 67, Ottobre1999)

  A Marghera, i morti del Petrolchimico continuano a morire. I capitalisti? Assolveteli senza pietà! - (il comunista, n° 78, Febbraio 2002)

  Ennesimo infortunio mortale alla Fincantieri, questa volta nel cantiere di Marghera - (il comunista, n° 120, Aprile 2011)

  Ennesimmo infortunio mortale a Marghera - (il comunista, n°122, Ottobre 2011)

 

Amianto ed altre sostanze cancerogene

 

  Amianto: ennesimo esempio di produzione di morte nella società capitalista - (il comunista, n°68-69, Febbraio 2000)

  Sul grave incidente al Petrolchimico di Porto Marghera. Salute e salario: è un'unica lotta - (il comunista, n° 83, Febbraio 2003)

  Di lavoro si muore! - (il comunista, n° 84, Maggio 2003)

  Breda di Sesto San Giovanni: gli operai morti per l'amianto, i responsabili della fabbrica possono vivere allegramente - (il comunista, n° 93-94, Febbraio 2005)

  Giustizia borghese all'opera per la strage del Petrolchimico di Marghera - (il comunista, n° 93-94, Febbraio 2005)

  Implacabile amianto e cinico uso capitalistico - (il comunista, n° 93-94, Febbraio 2006)

  Centinaia di morti all'anno in Italia: una strage continua - (il comunista, n° 130-131, Aprile-Luglio 2013)

  Amianto e «giustizia» borghese - (La Stampa, 29/11/2016)

  Operai morti per amianto? Come se non esistessero... - (il comunista, n° 156, Novembre 2018)

 

In treno

 

  Ennesimo incidente ferroviario. I morti di Crevalcore, come quelli che li hanno preceduti, vanno messi in conto alla vampiresca sete di profitto delle aziende capitalistiche - (il comunista, n°93-94, Febbraio 2005)

  Solidarietà incondizionata ai ferrovieri autoconvocati che  decidono lo sciopero immediato di 24 ore, in risposta ai compagni morti nel l'incidente di Crevalcore (Bologna), per la sicurezza sul lavoro, e in solidarietà di tutti i proletari che usano il treno per recarsi al lavoro - (il comunista, n°93-94, Febbraio 2005)

  Disastro ferroviario di Crevalcore: unico colpevole «il macchinista morto»! - (il comunista, n° 113, Luglio 2009)

  Treno sempre più veloce: strage ferroviaria in Spagna - (il comunista, n° 85-86, Luglio 2003)

  Esplode un treno merci a Viareggio. Ennesimo disastro  annunciato: il profitto continua a mietere vittime - (il comunista, n° 113, Febbraio 2009)

  Deraglia il treno dei pendolari Merano-Malles: 9 morti e 28 feriti. La fatalità non c'entra nulla! - (il comunista, n° 116, Aprile 2010)

  In Canada come a Viareggio. Catastrofe ferroviaria a Lac-Mégantic: criminale è la legge del profitto - (il comunista, n° 130-131, Aprile-Luglio 2013)

 

Altre situazioni

 

  Polo Petrolchimico di Siracusa. Gli operai continuano a morire sul lavoro. La risposta di classe è la lotta, non il lutto cittadino - (il comunista, n° 71-72, Settembre 2000)

  Operai assassinati alla ThyssenKrupp di Torino. Basta con le morti sul lavoro! Basta con gli assassinii legalizzati! - (il comunista, n° 107, Dicembre 2007 - Gennaio 2008)

  Sentenza di condanne alla ThyssenKrupp per i 7 morti del 6 dicembre  2007. Ai padroni il calcolo dei profitti capuitalistici! Agli operai la conta dei morti sul lavoro! - (il comunista, n° 121, Luglio 2011)

  Cina: al lavoro, ossia alla guerra! - (il comunista, n° 76, Luglio 2001)

  Capitalisti e minatori: spietata ricerca del profitto capitalistico contro vite umane - (il comunista, n° 135, Luglio 2014)

  La forza lavoro è una merce - (Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865)

  Morire per il capitale o lottare per vivere! Taranto, città ad alta concentrazione industriale: Ilva, Eni, Cementir. Taranto, città ad alta concentrazione di veleni, di infortuni, di intossicati, di morti da lavoro, per il lavoro, sul lavoro - (il comunista, n° 126-127, Ottobre 2012)

 

Schegge

 

  Gioia Tauro: muore un marinaio polacco, sciopero - (il comunista, n° 83, Febbraio 2003)

  Augusta-Priolo - (il comunista, n° 83, Febbraio 2003)

  Gli operai dello smaltimento rifiuti trattati come rifiuti da smaltire - (il comunista, n° 83, Febbraio 2003)

  I morti sul lavoro? Il governo non è interessato - (il comunista, n° 154, Luglio 2018)

 


 

Partito comunista internazionale

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