DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO : la linea da Marx-Engels a Lenin, alla fondazione dell'Internazionale Comunista e del Partito Comunista d'Italia; alle battaglie di classe della Sinistra Comunista contro la degenerazione dell’Internazionale Comunista e dei Partiti ad essa aderenti; alla lotta contro la teoria del socialismo in un paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; alla lotta contro il principio democratico e la sua prassi, contro l’intermedismo e il collaborazionismo interclassista politico e sindacale, contro ogni forma di opportunismo e di nazionalismo.La dura opera del restauro della dottrina marxista e dell'organo rivoluzionario per eccellenza, il partito di classe, a contatto con la classe operaia e la sua lotta di resistenza quotidiana alla pressione e all’oppressione capitalistiche e borghesi, fuori del politicantismo personale ed elettoralesco, fuori di ogni forma di indifferentismo, di codismo, di movimentismo o di avventurismo lottarmatista. Il sostegno di ogni lotta proletaria che rompa la pace sociale e la disciplina del collaborazionismo interclassista; il sostegno di ogni sforzo di riorganizzazione classista del proletariato sul terreno dell’associazionismo economico nella prospettiva della ripresa su vasta scala della lotta di classe, dell’internazionalismo proletario e della lotta rivoluzionaria anticapitalistica.

 

Distingue il nostro partito

(«il comunista»; N° 96; Luglio 2005 / N° 97-98; Novembre 2005)

 

- 1926-1952. Distinguersi dallo stalinismo, prima di tutto

- Democrazia: base di principio e di prassi dell’opportunismo

- Filotempismo  della Sinistra comunista

- La controrivoluzione staliniana è controrivoluzione borghese

- Fascismo e antifascismo democratico, facce diverse della stessa medaglia borghese imperialista

- Il partito e la classe

- Classe: movimento e combattimento

- Scolpire con più fermezza ciò che ci distingue

- Democrazia borghese: il nostro nemico più insidioso

- Il partito di classe, anche per la sua vita interna, tira una lezione dalla storia: esclude l’uso del meccanismo democratico

 

1926-1952. Distinguersi dallo stalinismo, prima di tutto

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Il testo “distingue il nostro partito”, redatto per la prima volta in seguito alla crisi del “partito comunista internazionalista” nel 1951-52 che sboccò nella scissione tra il troncone che continuò la sua attività con la vecchia testata “battaglia comunista” e il troncone che dette vita ad una nuova organizzazione (denominata sempre “partito comunista internazionalista) e ad una nuova testata, “il programma comunista”, venne posizionato stabilmente sotto il titolo del giornale del partito per caratterizzarne meglio la collocazione politica non solo rispetto all’altro giornale, ma in generale. Il “distingue”, a partire da allora, fece così parte integrante della presentazione ufficiale del partito che, attraverso i suoi organi di stampa – il giornale innanzitutto, e successivamente gli altri periodici e le riviste – dichiarava apertamente la propria collocazione storica, le proprie origini e posizioni caratteristiche.  

Quel testo, originariamente più sintetico, affermava che distingue il nostro partito “la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della Terza Internazionale, a Livorno ’21, alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani; la dura opera di restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori del politicantismo personale ed elettoralesco”. Fu pubblicato per la prima volta nel n.5 del 6-20 marzo1952 di «battaglia comunista», dopo che una riunione dell’allora organo centrale del partito che si chiamava ancora Comitato Centrale aveva disposto di pubblicare nel giornale un Comunicato e il testo delle Basi d’adesione al partito, 1952 (1). 

All’epoca, coloro che si impegnavano sul terreno politico, sapevano, in genere, che rivendicare “Livorno ‘21” significava rivendicare la fondazione del Partito Comunista d’Italia (sezione dell’Internazionale Comunista) e la sua linea intransigente guidata dalla Sinistra comunista (Amadeo Bordiga, Umberto Terracini, Bruno Fortichiari, Ruggero Grieco, per citare compagni noti), e non da Gramsci che, alle tesi fondanti del Pcd’I, non dette alcun apporto sostanziale. Mentre, se ci si riferiva a Gramsci, era chiaro che si intendeva riferirsi al partito comunista italiano al quale Gramsci dette il suo apporto decisivo soprattutto nelle tesi presentate al congresso del Pcd’I tenuto nel 1926 a Lione (tesi del tutto in linea con lo stalinismo e opposte a quelle presentate dalla Sinistra), partito poi guidato da Togliatti, del tutto dipendente da Mosca, dunque dal partito bolscevico ormai stalinizzato; in questo caso ci si riferiva al partito che aveva abbracciato le tesi della democrazia (come se la borghesia avesse ormai abbandonato per sempre il metodo del governo democratico a favore di quello fascista, e il compito del proletariato fosse innanzitutto quello di “risollevare dal fango” la bandiera della democrazia gettata dalla borghesia); ci si riferiva al partito che aveva promosso i fronti popolari, i blocchi nazionali nella lotta di resistenza partigiana contro il nazifascismo perché venisse ristabilita la democrazia (che, per i marxisti autentici non è mai stata “neutrale”, ma solo “borghese”). La storiografia ufficiale, quando faceva riferimento alle origini del partito comunista d’Italia, nei rari casi in cui parlava della Sinistra comunista (Bordiga, ecc.),  si preoccupava di stroncarla come corrente “estremista” e “settaria” che “fortunatamente” era stata battuta dalla corrente di Gramsci e dallo stalinismo, propagandati falsamente come “continuatori del leninismo”.

All’epoca, quando si parlava di “degenerazione di Mosca” era evidente che ci si riferiva alla Terza Internazionale, che a Mosca aveva la sede centrale, e a quella che la Sinistra comunista considerava appunto una degenerazione politica avviata con una serie di cedimenti tattici e politici che passarono attraverso formule credute “più ricettive” dalle grandi masse del  proletariato internazionale e soprattutto europeo, come il “governo operaio” (al posto di “dittatura del proletariato”, formula ritenuta troppo secca e tranchante per operai abituati alla democrazia), il fronte unico “politico” nell’illusione di poter trascinare sul fronte rivoluzionario correnti e partiti riformisti che avevano ampiamente dimostrato con le loro posizioni e le loro azioni di essere congenitamente antirivoluzionari, linee tattiche transigenti per soddisfare le supposte diverse “situazioni” nei diversi paesi, ecc. fino all’antimarxista teoria del “socialismo in un solo paese”.

Le battaglie di classe della Sinistra Comunista, soprattutto in Italia e nei paesi europei nei quali i militanti italiani della Sinistra comunista si erano rifugiati per sottrarsi alla repressione fascista, nonostante la feroce e più che ventennale propaganda stalinista contro di essa, erano ancora vive nella memoria e nelle file del proletariato negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Era noto che i comunisti di sinistra, i “bordighisti” come venivano chiamati già allora i comunisti che difendevano e seguivano le tesi fondanti dell’Internazionale Comunista e del Pcd’I , si erano battuti costantemente e fin dalla prima ora sul fronte dell’intransigenza dottrinaria e politica contro ogni cedimento al principio e alla prassi della democrazia, contro ogni cedimento allo spontaneismo operaio o al settarismo intellettuale, dunque contro ogni degenerazione del partito, e a maggior ragione dell’Internazionale, sia sul piano della tattica (fronti politici, parlamentarismo,ecc.) che su quello politico (governo operaio, antifascismo democratico, ecc.), come su quello organizzativo (partiti “simpatizzanti”, ecc.) e su quello dottrinario (socialismo in un paese solo, teoria dell’offensiva, ecc.).

Nel 1925-26, la Sinistra comunista italiana era praticamente la sola a sostenere che in Russia non si stava “edificando” socialismo, bensì capitalismo, e che la teoria del “socialismo in un solo paese” era frutto esclusivo dell’offensiva controrivoluzionaria borghese che vide nello stalinismo la micidiale terza ondata opportunistica che avrebbe distrutto il partito bolscevico di Lenin, l’Internazionale Comunista ed ogni possibile ripresa rivoluzionaria, per lungo tempo, del movimento operaio internazionale. Cosa che poi avvenne. Eravamo noti per quelli che affermavano che “la Russia non è socialista”; e per affermare che Stalin, con la complicità del cedimento teorico dei maggiori rappresentanti della vecchia guardia bolscevica, ma soprattutto sulla base della sconfitta del movimento di classe e rivoluzionario nell’Europa occidentale, di cui la storia del partito tedesco è emblematica, aveva stravolto la teoria marxista piegandone concetti e terminologia alle esigenze dello sviluppo capitalistico in Russia e alle ragioni del suo Stato mistificando la dittatura del capitale in Russia come dittatura del “proletariato”. Tutto ciò che la propaganda staliniana faceva passare per “marxismo-leninismo” non era altro che lo stravolgimento della teoria marxista, nel tentativo di far passare Stalin come l’unico vero continuatore di Lenin. Nulla di più lontano dalla verità, e il tempo – che è galantuomo – ha dimostrato che la controrivoluzione staliniana altro non fu che la più vasta e profonda controrivoluzione borghese a livello internazionale, e nella sua feroce repressione di tutta la vecchia guardia bolscevica in Russia e fuori di Russia (fino a togliere di mezzo l’indomabile Trotsky per il timore che riuscisse in qualche misura a mettere i bastoni fra le ruote alle alleanze di guerra che Stalin stava disegnando in vista della seconda guerra imperialista mondiale) più cannibalesca di quella di Thiers contro i comunardi parigini del 1871 ormai vinti.

La Sinistra comunista, italiana in particolare, dopo aver lanciato molteplici moniti in sede internazionale contro il pericolo di degenerazione dell’Internazionale stessa, e del partito bolscevico in particolare, sia sul piano tattico – attraverso formule equivoche e fondamentalmente sbagliate come quella del «governo operaio e contadino», del «fronte unico politico», dell’accettazione di vie tendenzialmente “nazionali” alla rivoluzione – sia sul piano organizzativo – attraverso l’accettazione di adesioni in qualità di «partiti simpatizzanti» all’Internazionale comunista, e soprattutto attraverso il terrorismo organizzativo ed ideologico imposto dallo stalinismo a difesa delle “ragioni di Stato” russe – portò la sua battaglia principale contro la teoria del «socialismo in un solo paese» che nel 1926 segnò storicamente la rottura completa dello stalinismo con il marxismo, con la teoria della rivoluzione proletaria e comunista; e la rottura fra la Sinistra comunista e la direzione gramsciana del Partito comunista d’Italia.

Da allora, i comunisti aderenti alla corrente di Sinistra, e riparati all’estero per sfuggire alla repressione fascista, si riorganizzeranno nella nota «Frazione all’estero" (Frazione del Partito comunista italiano) con la quale produrranno lo sforzo di rimanere collegati strettamente al programma di Livorno 1921 e alle testi della Sinistra coerentemente allineate fino al congresso di Lione del 1926, e alle tesi costitutive dell’Internazionale Comunista del 1919 e 1920. Il secondo macello imperialistico stravolgerà ogni supposto equilibrio inter-imperialistico, ripresentando alle poche forze rivoluzionarie rimaste ancora collegate con le esperienze del ciclo rivoluzionario dell’Ottobre russo, e della formazione dell’Internazionale comunista, il dramma e nel contempo la necessità politica di riconquistare il patrimonio teorico del marxismo, falsato e lacerato dalle forze della controrivoluzione.  

Nell’opera di restaurazione teorica del marxismo e nello sforzo di ricostituzione del partito di classe, terminato il ciclo controrivoluzionario più profondo con la partecipazione nei blocchi nazionali e partigiani degli ex partiti comunisti al secondo macello imperialistico mondiale e alla ricostruzione economica postbellica, già dal 1943 e poi soprattutto nel primo periodo del  secondo dopoguerra, la Sinistra comunista italiana, l’unica rimasta ancorata al marxismo rivoluzionario e in grado, di fatto, di fare il bilancio generale delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, si rimise al lavoro organizzandosi in partito (all’epoca, il «partito comunista internazionalista») e, col 1952, si ripresentò sulla scena storica su basi teoriche e programmatiche certe, definite, in perfetta continuità con la linea che va da Marx-Engles a Lenin, alla fondazione dell’Internazionale Comunista e del Partito comunista d’Italia. Lo stalinismo era , e sarà ancora per lungo tempo, il nemico principale che il movimento proletario e comunista abbia mai incrociato nel suo cammino storico, per il suo doppio ruolo: come maggiore forza opportunista proveniente dalla degenerazione dei partiti comunisti rivoluzionari e in continuità con la socialdemocrazia, e come forza borghese, di Stato, poggiante sullo sviluppo capitalistico accelerato della Russia. Distinguersi dallo stalinismo, ossia dall’interpretazione nazionalcomunista del marxismo, e dalla complicità interclassista che ne derivava, e lottare contro di esso era non solo indispensabile per ogni comunista coerentemente marxista, ma vitale.

Fra i vari sforzi di riorganizzazione politica, subito dopo la fine della guerra, va inserito anche l’«Appello per la riorganizzazione internazionale del movimento rivoluzionario marxista» (2), scritto in lingua francese nel 1949 come progetto di manifesto programmatico a diffusione internazionale e rivolto a tutte quelle forze che si richiamavano al marxismo rivoluzionario e disposte «ad accogliere e a far proprie le dure lezioni di lunghi decenni di degenerazione del movimento comunista mondiale prima, di precipizio nella controrivoluzione “staliniana” poi». Non bastava, infatti, alla Sinistra comunista la critica allo stalinismo che da diversi gruppi a quell’epoca proveniva, e spesso sollecitata e orientata ad arte da forze borghesi democratiche legate alle potenze imperialistiche occidentali. Si trattava di tirare tutte le lezioni delle controrivoluzioni, fino in fondo, riguadagnando le basi teoriche e programmatiche corrette del marxismo rivoluzionario non adulterato. A questo scopo, nell’Appello, dopo aver chiarito la situazione di paurosa crisi in cui si trovava il movimento proletario internazionale, ed aver preso in considerazione i primi sintomi di una reazione allo stalinismo, si preoccupa di stabilire con fermezza alcuni punti nodali: rivendicazione delle armi della rivoluzione: violenza, dittatura, terrore; rottura piena colla tradizione di alleanze di guerra, fronti partigiani e nazionali liberatori; negazione storica del difesismo, del pacifismo e del federalismo tra gli Stati; condanna di programmi sociali comuni e di fronti politici con le classi non salariate; proclamazione del carattere capitalista nella struttura sociale russa; sconfessione di ogni appoggio al militarismo imperiale russo, aperto disfattismo contro quello americano. Siamo nel 1949, a 5 anni dalla fine del secondo macello imperialistico, in pieno rigoglio dello stalinismo e dell’antifascismo resistenziale, all’epoca in cui tutti i partiti “comunisti” legati a Mosca, e sovvenzionati da Mosca, avevano giurato eterna fedeltà all’impianto ideologico, politico e sociale della controrivoluzione staliniana ritagliando, ognuno per sé, la propria «via nazionale al socialismo» in ottemperanza alla degenerata tesi teorica del socialismo in un solo paese. Le lezioni delle controrivoluzioni sono state tratte soltanto dalle forze genuine della Sinistra comunista, in particolare nella sua componente italiana; né il trotskismo, sicuramente antistalinista, né le mille varietà di gruppi spontaneisti e immediatisti seppero trarre lezioni decisive, né d’altra parte avrebbero potuto dato il bagaglio teorico e ideologico che si portavano appresso. Tutti, in un modo o nell’altro, legati all’ideologia dell’antifascismo democratico, e resistenziale, sebbene utilizzassero terminologia e concetti che potevano richiamare il marxismo, erano prigionieri del mito della democrazia: chi la voleva “diretta” e non “parlamentare”, chi la voleva “proletaria” e non “borghese”, chi la voleva “progressista” e non “conservatrice”, chi la voleva “popolare” e non “di classe”, chi la voleva “nuova” e non “vecchia”, chi la voleva “economica” oltre che “politica”, chi la voleva “nazionale” e non “imperialista”; ma sempre, irrimediabilmente democrazia.

 

Democrazia: base di principio e di prassi dell’opportunismo

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Altro punto importante per distinguere la linea del partito da quella di tutti gli altri partiti “di sinistra” e di “estrema sinistra” è sempre stato, per la Sinistra comunista, quello relativo alla democrazia in generale, alle elezioni, al parlamentarismo.

Nel 1919 la questione del parlamentarismo in sede internazionale era stata posta da  Zinoviev, e poi da Lenin (che con Bucharin redasse le tesi sulla questione, presentate, argomentate e difese  al 2° Congresso dell’Internazionale Comunista, 1920) nella forma della tattica del parlamentarismo rivoluzionario. L’obiettivo di quella tattica era comune a tutti i comunisti di allora: distruggere il parlamento borghese, e quindi il parlamentarismo con tutto il corollario dei partiti che rappresentavano i diversi gruppi di interesse del paese, da quelli borghesi ai monarchici, ai socialdemocratici. La democrazia parlamentare non è un metodo di governo che faciliti l’affermazione degli interessi della maggioranza della popolazione (che è proletaria, contadina e sottoproletaria), bensì è metodo di governo borghese che illude la maggioranza della popolazione nel campo dei diritti e degli interessi mentre, nella realtà, non fa che coprire la strenua difesa degli interessi dei gruppi industriali, commerciali e finanziari borghesi che di volta in volta – nel loro irrefrenabile moto di concorrenza – si assicurano la guida dei governi e dello Stato. Come dice senza mezzi termini Lenin in “Stato e rivoluzione”, la democrazia borghese dà alla maggioranza della popolazione di un paese l’occasione, di tanto in tanto, di eleggere coloro che la opprimeranno fino alle elezioni successive.

La contrapposizione fra l’astensionismo della Sinistra comunista italiana e il parlamentarismo rivoluzionario di Lenin e Bucharin non fu mai una contrapposizione di principio, ma di tattica. In principio Bordiga e Lenin erano perfettamente coerenti quanto a distruzione dello Stato borghese e di tutte le sue istituzioni (dunque anche il parlamento) sostituendolo con lo Stato proletario, dunque contrapponendo la dittatura del proletariato esercitata dal solo partito comunista alla dittatura della borghesia esercitata dai suoi vari partiti (e lo spettro di partiti al servizio della difesa del capitalismo e della classe borghese dominante è sempre stato ampio, dai partiti liberali ai partiti monarchico-costituzionali, ai partiti opportunisti – operai borghesi, li definisce Lenin – ai partiti fascisti).

La differente valutazione tattica sull’utilizzo delle elezioni e del parlamentarismo, soprattutto in Europa occidentale, consisteva in questo. Secondo la Sinistra comunista italiana, nell’Europa occidentale la democrazia borghese aveva già ampiamente dimostrato il suo altissimo grado di intossicazione dei partiti operai e la sua forza deviante dalla sicura rotta rivoluzionaria. L’astensionismo della Sinistra comunista italiana non era tattica passiva, in attesa che il movimento proletario nel suo immaginato sviluppo progressivo imponesse alla società nuove forme di rappresentanza e di governo, e non era neanche determinato dalla fobia nei confronti del “potere”, dell’uso dello Stato come forza coercitiva, fobia caratteristica dell’anarchismo. Era tattica attiva, ossia: invece di continuare ad alimentare nelle file proletarie l’illusione che attraverso i mezzi dell’elezionismo e del parlamentarismo si potessero effettivamente ottenere non solo dei miglioramenti in campo sociale ma addirittura il cambiamento completo della società, e invece di dedicare il grosso delle forze del partito rivoluzionario, sprecandole, nel campo del parlamentarismo, si doveva combattere non solo ideologicamente ma anche praticamente, contro le illusioni della democrazia borghese, quindi fuori dalle istituzioni democratiche di cui il parlamento è massima espressione. Bisognava alimentare nelle file proletarie l’idea che i mezzi e i metodi della rivoluzione, per essere coerenti con gli obiettivi della rivoluzione (abbattimento violento dello Stato borghese, conquista del potere politico centrale, instaurazione della dittatura proletaria, divieto di organizzazione delle forze borghesi vinte sia in campo politico che in campo economico, ecc.), erano del tutto contrastanti coi mezzi e coi metodi della democrazia borghese; che i mezzi e i metodi della rivoluzione proletaria si basavano sull’organizzazione delle forze proletarie del tutto indipendenti da ogni altra forza sociale, e in specie borghese; e che, invece di sprecare nel parlamento borghese energie e forze preziose per la preparazione rivoluzionaria, tutte le forze del partito comunista dovessero essere dedicate, appunto, alla preparazione rivoluzionaria sia del partito che del proletariato, intervenendo in tutte le occasioni di lotta proletaria ad esclusiva difesa non solo delle condizioni di vita e di lavoro ma anche delle stesse organizzazioni di lotta proletarie (sindacati, camere del lavoro, leghe contadine, cooperative, ecc.), dei suoi giornali, delle sedi di partito; energie e forze che il partito doveva anche dedicare all’inquadramento militare (come appunto fece il partito bolscevico, e come fece il partito comunista d’Italia) per difendersi con le armi in pugno dagli attacchi delle diverse forze, legali e illegali, della borghesia e per poter, domani, organizzare in modo adeguato l’insurrezione e la conquista del potere politico (3).

La stessa esperienza della corrente di sinistra del PSI, prima, e poi del Partito comunista d’Italia nei suoi primi anni di vita, contro l’offensiva antiproletaria prima democratica e poi fascista, sta a dimostrare che era questo il campo decisivo della lotta fra proletariato e borghesia, e non certo il parlamento. La storia ha poi dimostrato che il monito lanciato da Bordiga al congresso dell’Internazionale comunista sulla questione del “parlamentarismo rivoluzionario” era più che fondato: la tattica del parlamentarismo non facilitò il progresso della lotta rivoluzionaria del proletariato in Europa occidentale, bensì fu un intralcio sempre più pesante, contribuendo alla degenerazione politica del movimento internazionale stesso.

L’opportunismo, battuto da Lenin anche sul terreno della democrazia borghese in Russia – dove, visti i compiti da rivoluzione doppia, l’utilizzo dei mezzi e dei metodi democratici era storicamente più giustificato, almeno per una prima fase della rivoluzione – non ebbe nell’Occidente borghese e democratico una vita così difficile come in Russia negli anni della rivoluzione d’Ottobre; poté continuare a contare sulla presa della propaganda borghese e della sua ideologia democratica, continuando ad illudere le masse proletarie che la “conquista” dei comuni e dei seggi nel parlamento nazionale avrebbero facilitato il compito rivoluzionario della conquista del potere. La democrazia borghese, secondo gli opportunisti alla Turati e alla Kautsky, poteva essere utilizzata per raggiungere il socialismo gradualmente, poco a poco, un pezzetto per volta, senza scontro armato; si alimentava l’idea che fosse il miglior ambito sociale e politico nel quale il proletariato potesse soddisfare i suoi obiettivi; si alimentava l’idea che fosse un metodo di governo e una prassi generale talmente utili ad ogni classe sociale, e quindi anche al proletariato, da doverli difendere contro ogni violento attacco interno o esterno al proprio paese.

L’opportunismo delle tradizionali correnti riformiste (alla Turati per intenderci) metteva già a suo tempo radici per la nuova ondata opportunista di marca staliniana: per ogni paese il “suo” socialismo nazionale, per ogni proletariato la sua lotta “contro la dittatura” – come se dittatura fosse sinonimo di passo indietro nella storia –, per ogni popolo la sua “democrazia popolare”.

Il riferimento nel “ci distingue” al rifiuto dei blocchi partigiani e nazionali, al rifiuto dei fronti popolari, e al lavoro di partito fuori del politicantismo personale ed elettoralesco, è riferimento fondamentale, indispensabile. La storia della degenerazione del movimento comunista internazionale passa attraverso una serie maledetta di scivoloni nel campo della democrazia borghese, dell’interclassismo; più si sfumano i confini tra la netta e intransigente rotta rivoluzionaria e la democrazia borghese, e più la democrazia borghese inghiotte nel suo pantano tattiche, metodi, mezzi, prassi, organizzazioni del proletariato trasformando tutto in armi di conservazione sociale, in armi di difesa dell’ordine borghese. L’antifascismo democratico è l’esempio più evidente. Con la vittoria della democrazia sul fascismo non è stato fatto nessun passo vanti verso il socialismo, tutt’altro: si è invece rafforzato il potere politico e sociale delle classi dominanti borghesi, aprendo loro la strada – senza ostacoli – per una reale fascistizzazione della società.

        

Filotempismo  della Sinistra comunista

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Alle generazioni degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, persistendo la continua opera di mistificazione del marxismo e della storia del movimento comunista internazionale sotto la dominazione della borghesia democratica (e naturalmente “antifascista”), e quindi in pieno dominio ideologico e politico sul proletariato dell’opportunismo di marca staliniana (e sue varianti, come ad es. il maoismo) e delle mille diverse forme di spontaneismo, i riferimenti tracciati nella nostra manchette potevano non essere più così chiari e netti. Bisognava renderli più chiari in modo che, nella sarabanda incontenibile di gruppi e gruppetti extraparlamentari e “di sinistra” che nascevano e morivano nell’arco di qualche anno se non di qualche mese, i più giovani potessero avere una traccia meno ermetica nella collocazione storica e politica della nostra corrente. Ci fu quindi un primo intervento sul testo del “ci distingue”, annunciato in sede di riunione generale di partito, che sostituì il precedente a partire dal numero 16 del 28 agosto 1975 de “il programma comunista”, ma non ancora definitivo. Dal n.1 del 9 gennaio 1976 si iniziò la pubblicazione del testo che fino ad oggi abbiamo continuato ad utilizzare nella nostra stampa. Nel successivo n. 8 del 23 aprile 1976, venne pubblicato un articolo che chiariva il motivo della nuova formulazione (ma dalla identica sostanza) della nostra manchette, sottolineando la costante riaffermazione delle tesi e delle posizioni politiche che sottostavano a quelle formulazioni (4).

La Sinistra comunista, italiana in particolare, analizzò e diede della controrivoluzione staliniana l’unica valutazione storica e politica puntuale e coerentemente marxista; e questo risultato fu possibile soltanto per la combinazione di alcuni fattori indispensabili:

- nessun cedimento teorico rispetto al marxismo, e nessun preteso “aggiornamento”;

- coerenza e intransigenza sulle tesi programmatiche e politiche della fondazione dell’Internazionale comunista e della fondazione del Partito comunista d’Italia;

- continuità filotempista (5) con le battaglie di classe della Sinistra comunista internazionale, e quindi non solo “italiana”;

- strenua e intransigente difesa della teoria marxista per tutto il periodo storico in cui la controrivoluzione staliniana fece il suo corso (fino alla partecipazione da posizione imperialista alla seconda guerra imperialista e alla nuova spartizione imperialista del mondo che ne seguì);

- ripresa di un lavoro politico a carattere di partito sulle basi del programma fondativo del Partito comunista d’Italia (l’unico partito comunista in Europa occidentale fondato “alla bolscevica”) , e in stretto collegamento con le battaglie di classe della Sinistra comunista sui più diversi fronti, dalle questioni teoriche sullo Stato e sulla dittatura proletaria, sull’economia, sul partito e i suoi rapporti con la classe, alle questioni politiche più scottanti come quella della democrazia, dell’antifascismo, delle rivoluzioni multiple, dell’associazionismo economico e sindacale operaio, ecc.

Tutto ciò permise la “dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario” che, appunto, le forze che si riorganizzarono dal 1943  nel partito comunista internazionalista ebbero di fronte come compito prioritario e che dal 1952, in seguito alla grande scissione da “battaglia comunista” (6), quelle organizzatesi intorno a “programma comunista” si assunsero come compito vitale, facendo fare loro un passo decisivo senza il quale non avremmo oggi, e non si avrebbero domani, le basi indispensabili per portare questo obiettivo a compimento. Se Lenin fu il grande restauratore del marxismo negli anni dal 1895 al 1924, combattendo in particolare contro la seconda ondata opportunista rappresentata dalla Seconda Internazionale e, in particolare, dal kautskismo, Bordiga lo fu negli anni fra il 1926 e il 1970, anno in cui morì, combattendo in particolare contro la terza ondata storica dell’opportunismo rappresentata dallo stalinismo e dalle sue varianti.

Molto lavoro di partito svolto in questa prospettiva, questi “semilavorati” – come li chiamava Amadeo Bordiga – hanno poi trovato collocazione in testi e volumi che li raccolgono per tema e argomenti. Fra di loro, quello che può essere considerato come il bilancio della controrivoluzione staliniana: “Struttura economica e sociale della Russia d’oggi”, e quelli che consideriamo testi basilari, come: “Tracciato d’impostazione – Tesi caratteristiche del Partito – I fondamenti del comunismo rivoluzionario”, “Partito e classe”, “La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin (Lenin nel cammino della rivoluzione)”, “L’Estremismo, condanna dei futuri rinnegati”, “Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe”, “Dialogato con Stalin (sul preteso socialismo in Russia)”, “Dialogato coi Morti (sul XX congresso del Pcus)”, “In difesa della continuità del programma comunista (le tesi della sinistra comunista, dalle tesi della frazione comunista astensionista del 1920 alle tesi del 1965-66 del partito comunista internazionale-programma comunista)”.

Moltissimo altro lavoro – come ad esempio la lunghissima serie intitolata “sul filo del tempo” e pubblicata regolarmente nei giornali di partito, dal 1949 fino alla scissione del 1952 su “battaglia comunista” e poi, fino al 1954, su “programma comunista”, i materiali pubblicati nella rivista “Prometeo” dal 1946 al 1950, i rapporti scritti delle relazioni tenute alle numerosissime riunioni generali di partito – attraverso il quale lavoro il partito rimetteva in piedi tutte le diverse questioni teoriche (economia marxista, questione agraria, questione dell’imperialismo, questione nazionale e coloniale, questione sindacale, questione militare, questione del partito, questione della rivoluzione e della dittatura, questione dello Stato, ecc.) col metodo del riallacciare le questioni storiche, di dottrina e di programma, con le curve dei cicli storici del movimento proletario di classe e dell’opportunismo; questo enorme lavoro non sempre è stato trasferito in raccolte e volumi di utile orientamento e di facile reperimento (cosa che resta ancora un compito di partito), ma è ancora tutto disponibile, o come testi di partito o come testi pubblicati a suo tempo nelle Edizioni Iskra o nelle Edizioni Sociali, o come articoli nei giornali e nelle riviste di partito. 

Quanto alla struttura russa, dal punto di vista economico, stabilito che in Russia non si trattava di socialismo ma di capitalismo – e più precisamente, data la dittatoriale centralizzazione politica e la necessità di coprire il ritardo di un secolo nella rivoluzione borghese, di industrialismo di stato  (7) – se ne affermarono gli enormi passi avanti rispetto al dispotismo asiatico, al feudalesimo e addirittura all’economia naturale che caratterizzavano buona parte dell’economia russa ancora negli anni Venti del secolo scorso. Dal punto di vista sociale, non si poteva che salutare positivamente la necessaria trasformazione di una grande parte del contadiname russo in proletariato di fabbrica, futura forza sociale della ripresa della lotta di classe e rivoluzionaria alla scala mondiale. Dal punto di vista teorico, come già detto, la lotta contro la mistificazione del socialismo in un solo paese e la degenerazione borghese del movimento comunista internazionale, fu sempre dichiarata, aperta, inflessibile, totale. Dal punto di vista politico, di conseguenza, la lotta contro la degenerazione dell’Internazionale Comunista e dei Partiti che ne facevano parte non ebbe mai alcuna esitazione anche quando i colpi della repressione assassina dello stalinismo andavano ad accompagnare i colpi della repressione borghese sia in veste fascista e poi nazista in Europa sia in veste democratica come negli Stati Uniti d’America e, dopo la fine della guerra, in Europa.

Pur ridotta ai minimi termini, perseguitata politicamente e materialmente, calunniata e accusata del peggiore tradimento (alla pari di Trotsky e di tanti altri militanti comunisti fedeli all’Internazionale di Lenin) come quello di essersi venduta al fascismo, la corrente comunista di sinistra continuò la battaglia politica e teorica anche nell’emigrazione, sebbene nel difficilissimo sforzo di riorientamento marxista. La “Frazione di sinistra del Pci all’estero”, costituitasi a Parigi nel 1928, (8) tentò la straordinaria difesa del marxismo e dei presupposti teorici e programmatici indispensabili per la ricostituzione del partito di classe, battendosi in una resistenza anche fisica perché continuasse a vivere un nucleo organizzato di militanti aggrappati strettamente alla tradizione rivoluzionaria dell’Ottobre ’17 e dei primissimi anni dell’Internazionale e del Partito comunista d’Italia, in attesa della ripresa della lotta di classe e della possibilità storica di ricostituire il partito di classe su quelle fondamenta teoriche, programmatiche, politiche, tattiche e organizzative che già avevano permesso la formazione del partito bolscevico di Lenin e del partito comunista d’Italia.

Il partito, che col 1952 prese forma omogenea, coerente e fortemente legata al bilancio della controrivoluzione, pur riconoscendo una tenace opposizione allo stalinismo ai compagni del 1921 che ripararono all’estero e dettero forma organizzata in “Frazione del Pci” al proprio lavoro e alla propria lotta di resistenza contro la degenerazione staliniana dell’Internazionale e dei partiti che ne facevano parte, non si riconobbe mai come “continuatore” della Frazione all’estero la quale d’altra parte ebbe non poche incertezze teoriche; come non si riconobbe mai come “continuatore” della sola corrente “italiana” di sinistra del movimento comunista internazionale. Come la teoria marxista è un tutt’uno universale e non nazionalizzabile, così la Sinistra comunista a cui noi ci riferiamo, e il partito di ieri sempre si è riferito, è internazionale per principio e di fatto. La continuità teorica, programmatica, politica della Sinistra comunista va, appunto, da Marx-Engels a Lenin a Bordiga – per usare i nomi dei grandi rivoluzionari che il movimento internazionale di classe del proletariato ha prodotto nella storia e che hanno condensato meglio di altri il portato storico della lotta fra le classi – e su questa linea di continuità si trovano i contributi dati alla lotta per il comunismo di tutti coloro che anche solo per una parte della loro vita individuale sono stati catturati dal marxiano “demonio della rivoluzione”, dal Kautsky non “kautskista” della “Questione agraria” al Trotsky non “trotskista” di “Terrorismo e comunismo”.

 

La controrivoluzione staliniana è controrivoluzione borghese

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Come già in precedenti svolti storici caratterizzati da grandi sconfitte del movimento proletario di classe, la ripresa del movimento di classe, e in particolare la ricostituzione di forze in grado di formare il partito di classe su basi coerentemente marxiste, non potevano essere così rapide e lineari. Il ciclo controrivoluzionario che chiamammo staliniano perché Stalin – vittorioso capo del partito bolscevico e capo dell’Internazionale  nella lotta per il potere in Russia e nell’Internazionale – capeggiò il movimento controrivoluzionario borghese in Russia e nel mondo, doveva storicamente svolgere il suo corso; doveva cioè giungere alle ultime conseguenze materiali necessarie dato lo stravolgimento della politica, e quindi della teoria, rivoluzionaria che permise la vittoria in Russia nell’Ottobre 1917, l’instaurazione della prima compiuta dittatura del proletariato al mondo, la costituzione dell’Internazionale comunista e la vittoria rivoluzionaria nella lunga guerra civile in Russia contro le armate bianche russe organizzate, foraggiate, sostenute da tutti i paesi imperialisti del mondo. Le conseguenze materiali che, in ragione della forza della rivoluzione proletaria, si profilarono non come una sconfitta della rivoluzione sul campo di guerra ma come una lenta ma inesorabile degenerazione delle forze rivoluzionarie a cominciare dai partiti che le guidavano, portarono il partito di classe più saldo teoricamente e politicamente (quello bolscevico) sempre più alla deriva, fino a rinnegare le proprie originarie posizioni e tradizioni marxiste rivoluzionarie. Stessa sorte toccò al Partito comunista d’Italia, e a tutti i partiti aderenti all’Internazionale Comunista.

La mancata vittoria rivoluzionaria in Europa occidentale, e in particolare nei paesi dove il proletariato era più avanzato dal punto di vista del movimento di classe (Germania, Italia; basti ricordare la famosa immagine di Lenin sulle “due metà spaiate del socialismo”: la Russia con la dittatura proletaria in piedi ma con un’economia arretratissima, la Germania con l’economia molto avanzata e con un proletariato che aveva dimostrato durante la prima guerra mondiale, e dopo, una combattività incontenibile; e il movimento di classe in Italia che aveva prodotto la formazione nell’Europa occidentale dell’unico partito comunista alla “bolscevica”, ossia fondato sulle basi dell’intransigenza teorica e politica e della coerenza marxista, e si era misurato per primo con il fascismo che, successivamente, fu il metodo di governo borghese per eccellenza), mise la giovane dittatura proletaria bolscevica nella situazione più critica quanto a mantenimento del potere in Russia e salda e forte direzione dell’Internazionale comunista.

Le condizioni materiali dell’arretratezza economica e sociale russa, e della parallela difficoltà – dal punto di vista politico, e teorico – del movimento proletario di classe nei paesi dell’Europa occidentale, costrinsero il partito bolscevico a sopportare su di sé l’intero peso del potere in  Russia e dei compiti rivoluzionari dell’Internazionale. E facilitarono purtroppo, nello stesso tempo, la presa delle posizioni indecise, incerte, zigzaganti e in ultima analisi opportuniste dei partiti comunisti occidentali, e in particolare di quello tedesco, che influenzarono in modo determinante la politica dell’Internazionale e, attraverso di essa, la politica del partito bolscevico fino a distruggerne completamente le radici marxiste. I cedimenti in campo tattico e organizzativo che conobbe l’Internazionale comunista soprattutto negli anni dal 1922 al 1926 aprirono inesorabilmente falle disastrose nel campo programmatico e teorico, fino alla teorizzazione del socialismo in un paese solo, vera e definitiva abiura della teoria marxista (9).

La lotta politica contro ogni deviazione dal programma rivoluzionario di fondazione dell’Internazionale che le correnti di sinistra dei diversi partiti membri (bolscevichi compresi) lanciarono negli anni cruciali 1923-1926, alla fine non vinse; le correnti di sinistra furono sopraffatte dalle destre e soprattutto dai centristi che, con Stalin, riuscirono a spezzare la continuità politica, tattica, teorica, e quindi organizzativa, dei gruppi dirigenti originari. La “degenerazione di Mosca” riguardò nello stesso tempo la Russia sovietica e tutti i paesi del mondo, caratterizzandosi attraverso un generale ripiegamento nei confini nazionali russi (grande spinta allo sviluppo del capitalismo nazionale, passata come “costruzione del socialismo in un solo paese”) e un abbandono generale dei compiti rivoluzionari e internazionalisti dell’Internazionale Comunista. Emblematico il caso del grande movimento rivoluzionario in Cina nel 1927, che, contemporaneamente al più grande sciopero dei portuali inglesi, riconsegnava al movimento di classe e rivoluzionario mondiale un’altra occasione storica per la ripresa rivoluzionaria, e che invece fu indirizzato dalla direzione staliniana dell’Internazionale nelle fauci del nazionalismo cinese del Kuomintang di Ciang-kai Scek, permettendo a quest’ultimo di massacrare i proletari di Shangai e di Canton, dopo aver inglobato il partito comunista cinese facendolo scomparire, mentre in Inghilterra, nel più vigliacco isolamento, il movimento di sciopero veniva sconfitto e represso facendo praticamente scomparire il giovane e fragile  partito comunista inglese.

Nella lotta politica scoppiata tra le diverse correnti in cui il bolscevismo russo si era diviso, per l’ennesima volta le correnti di destra e quelle di centro si alimentarono a vicenda fino a soffocare la corrente di sinistra che per un breve periodo vide Trotsky, Zinoviev, Kamenev e molti altri sollevati insieme contro quello che già nel 1923-24 (vedi ad esempio la “questione georgiana”) poteva essere identificato come “stalinismo” ossia come corrente politica che impersonava più di altre gli interessi storici, oltre che immediati, del nascente capitalismo grande russo, dunque corrente politica sì rivoluzionaria rispetto alla Russia precapitalistica, ma borghese e perciò antiproletaria e anticomunista.

Con la sconfitta del movimento di classe in Germania  e in Italia (1918-1924), le correnti controrivoluzionarie in Russia presero ancor più vigore, ma la loro mistificata veste “proletaria e rivoluzionaria” trovò maggior presa grazie alla comparsa sulla scena storica del fascismo, ossia di quel  nuovo metodo di governo che la borghesia ideò per distruggere un movimento di classe proletario che non si dava per vinto e che avrebbe potuto – nonostante le sconfitte subite durante e dopo la prima guerra imperialista – riprendere successivamente forza rimettendo in discussione il dominio borghese sulla società. Il fascismo è la dittatura aperta del capitale, la controrivoluzione dichiarata da parte della borghesia dominante; ma per avere il massimo di efficacia sia all’immediato che nel tempo, aveva bisogno di trovarsi di fronte un proletariato già piegato, semibattuto, disorganizzato, e politicamente disorientato. Questo specifico compito di piegare, disorientare e disorganizzare il proletariato è stato svolto dalle forze della democrazia, sia sotto la veste di partiti operai riformisti (all’epoca noti come socialdemocratici) sia sotto la veste di partiti borghesi popolari.

La controrivoluzione staliniana, nei paesi europei occidentali, ha assunto storicamente un doppio compito: deviare il movimento comunista internazionale dalla rotta rivoluzionaria e marxista, e quindi metterlo nelle condizioni di essere certamente sconfitto, e incanalare il movimento proletario non solo russo ma internazionale nell’alveo della difesa dell’ordine borghese nazionale, in Russia come compito storicamente  rivoluzionario rispetto all’arretratezza asiatica e feudale del grande paese (ma controrivoluzionario rispetto al movimento rivoluzionario dell’Ottobre 1917), e negli altri paesi europei,  dove la rivoluzione proletaria non aveva più compiti borghesi da risolvere storicamente, come precipuo compito controrivoluzionario. In questo modo lo stalinismo ereditava la funzione sociale e politica della socialdemocrazia la quale, nella precedente ondata opportunista aveva già prodotto una vasta devastazione ideologica e politica nelle file proletarie in occasione della prima grande guerra  imperialista, costringendo il proletariato dei rispettivi paesi alle esigenze belliche e imperialiste di ogni borghesia nazionale.

Lo stalinismo, in realtà, non si limitò ad ereditare la funzione sociale e politica della vecchia socialdemocrazia, ma ne amplificò gli effetti di deviazione e di paralisi dei proletariati di tutto il mondo, facendo indietreggiare la lotta di classe proletaria di molti ventenni.

 

Fascismo e antifascismo democratico, facce diverse della stessa medaglia borghese imperialista

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La lotta per la democrazia contro il fascismo, come se tornare ai metodi di governi democratici fosse la strada più proficua per “facilitare” lo sviluppo del movimento proletario di classe e rivoluzionario, dunque la lotta “antifascista democratica” fu – come affermò continuamente Bordiga (10) – il prodotto peggiore e più insidioso del fascismo stesso. Il movimento proletario, battuto, a metà degli anni Venti del secolo scorso, sul fronte di classe nel periodo rivoluzionario che si era aperto con lo scoppio della prima guerra imperialista mondiale e con la straordinaria vittoria rivoluzionaria in Russia, fu piegato dalla socialdemocrazia e dallo stalinismo alle esigenze di difesa nazionale dei diversi Stati capitalisti, “sotto la bandiera altrui”, cioè sotto la bandiera della democrazia, e consegnato alla repressione borghese nelle condizioni di maggior debolezza.

Dal punto di vista ideologico, questa violenta sottomissione alle esigenze del capitale passò in Russia attraverso la più gigantesca mistificazione che l’opportunismo sia riuscito storicamente a costruire (sviluppo del capitalismo passato per “costruzione del socialismo”); in Germania e in Giappone attraverso la partecipazione allo sviluppo imperialistico del capitalismo tedesco e del capitalismo giapponese sulle basi dei rispettivi orgogli nazionali feriti e della loro insopprimibile spinta industriale e finanziaria ad uscire dai limiti dei propri confini nazionali; in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti e negli altri paesi europei attraverso la complicità democratica interclassista dei fronti popolari (che in Spagna nella guerra civile 1936-1939 decretarono la più micidiale sconfitta proletaria e la dimostrazione ulteriore del definitivo passaggio dei partiti stalinisti nel campo delle democrazie imperialiste; e che in Italia e in Francia, in particolare, aprirono la strada al passaggio dei partiti stalinizzati sul fronte imperialista di guerra degli Alleati – alla faccia del disfattismo rivoluzionario di leniniana memoria! – giustificando il secondo macello imperialista con la teoria dell’antifascismo democratico e della “resistenza partigiana”).

Dal punto di vista economico, e della necessità per i poteri borghesi di ottenere un consenso duraturo da parte del proletariato (dopo averlo macellato a dovere nella guerra imperialista e nella repressione dei suoi tentativi rivoluzionari), le borghesie dominanti fasciste insegnarono a tutte le borghesie dominanti democratiche che il pugno di ferro dell’aperta dittatura del capitale aveva comunque un asso nella manica: la realizzazione di una parte delle riforme sociali che i sindacati e i partiti riformisti operai chiedevano da tempo. Nacquero così gli ammortizzatori sociali (la mutua, la liquidazione, la pensione, ecc.), che le democrazie post-fasciste dei paesi più industrializzati del mondo adottarono dopo la caduta del fascismo come ottimo strumento di controllo sociale, per continuare, anche attraverso l’opera  dei partiti operai borghesi e dei sindacati tricolore nati alla fine della seconda guerra mondiale (il fascismo aveva già fatto il favore di distruggere i sindacati di classe esistenti), a tener legati alle sorti dei capitalismi nazionali i rispettivi proletariati.

Dal punto di vista politico, i partiti staliniani, indispensabili per portare il proletariato a farsi massacrare in guerra senza tentare di rivoltarsi contro l’ordine borghese costituito, e i sindacati tricolore, furono gli strumenti fondamentali per mantenere il proletariato dei paesi capitalistici avanzati legato strettamente al carro delle borghesie dominanti; risultarono ancor più vitali per la conservazione borghese durante e soprattutto dopo la fine della guerra, indispensabili per tenere il proletariato avvinto alle rispettive borghesie nazionali, “qualsiasi cosa succedesse loro durante la guerra”, e disposto a massacrarsi di fatica nel periodo della ricostruzione postbellica.

Combattere contro la “degenerazione di Mosca”, contro la teoria e la pratica dello stalinismo e quindi contro ogni teorizzazione di partecipazione interclassista del proletariato alla difesa degli interessi immediati e futuri della borghesia dominante – dunque contro ogni illusione democratica, elettorale e parlamentare – non era un vezzo ideologico dei “puristi” della Sinistra comunista, non era un atteggiamento “settario” degli intransigenti della Sinistra comunista, e tanto meno una “incapacità di fare politica” da parte della Sinistra comunista (che alcuni movimentisti dell’ultima ora vollero decretare come “vizio d’origine” della Sinistra italiana). Era una ragione di vita del movimento di classe proletario e rivoluzionario, era – ed è tuttora – una indispensabile base teorica e politica per orientare il partito di classe, e quindi lo stesso movimento operaio verso gli obiettivi e i fini rivoluzionari.

Ogni deviazione dal solco marxista è sempre stata giustificata dagli opportunisti come una via “più facile” per giungere alla conquista del potere e al socialismo. S’è visto! “Una fondamentale caratteristica del fenomeno che Lenin con termine ammesso da Marx ed Engels chiamò, trattandolo a ferro rovente, opportunismo, sta nel preferire una via più breve più comoda e meno ardua a quella più lunga più disagiata ed irta di asprezze sulla quale sola si può attuare il pieno incontro tra l’affermazione dei nostri principi e programmi, ossia dei nostri massimi scopi, e lo svolgersi dell’azione pratica immediata e diretta nella reale situazione del momento”, così nelle Tesi di partito del 1966 (11). La storia delle varie ondate storiche dell’opportunismo, e delle sue innumerevoli varianti, sta a dimostrare esattamente ciò che Marx, Engels, Lenin, Bordiga, insomma ciò che il marxismo non adulterato ha sempre sostenuto: nella misura in cui il partito proletario, il partito comunista, adotta nel proprio programma, nei propri obiettivi, nei propri mezzi e metodi di attività, nella propria prassi, principi e prassi caratteristici delle classi dominanti borghesi e della difesa dei loro interessi di classe, quel partito è destinato a degenerare, a distruggere le proprie basi di classe e passare all’avversario.

La democrazia, come principio e come prassi, ha rappresentato, e rappresenta ancora, la più efficace intossicazione del proletariato da parte delle classi dominanti borghesi. Basandosi sulla falsa “uguaglianza” formale (del tipo ”la legge è uguale per tutti”, ogni individuo rispetto alle istituzioni democratiche è “uguale” agli altri; ammessa la difformità di opinioni individuali è stabilito che “la maggioranza vince”, ecc.), che nei fatti copre la reale disuguaglianza e l’antagonismo sociali, la democrazia fonda il suo successo ideologico e pratico su basi materiali che il marxismo ha ben individuato fin dalle origini. La violenza economica con la quale il modo di produzione capitalistico si è imposto su ogni altro modo di produzione precedente (feudale, asiatico, a economia naturale, ecc.), distruggendo le basi stesse della sopravvivenza dei gruppi umani che su quei modi di produzione fondavano la loro organizzazione sociale, ha “liberato” gli uomini dai vincoli medioevali e arretrati del servaggio e dell’isolamento feudale ma, nello stesso tempo, ha reso, soprattutto la maggioranza del contadiname spogliandola delle proprie risorse di sopravvivenza, del tutto dipendente dal nuovo modo di produzione e dal mercato. A questo punto, la maggioranza della popolazione, vessata e repressa dalle classi aristocratiche, e padrona della sua sola “forza di lavoro”, non poteva che accogliere la democrazia come l’unico mezzo politico che avesse scardinato in profondità il potere “dei pochi” per sostituirlo col potere “dei molti”. Fabbricanti, artigiani, mercanti, intellettuali, poggianti sulla sollevazione della massa contadina nelle campagne e della massa proletaria delle città hanno violentemente abbattuto il potere dei re, del clero e delle aristocrazie nobiliari, riorganizzando l’intera società sulle esigenze del nuovo modo di produzione capitalistico e del suo sviluppo.

Libertà, uguaglianza, fraternità, parole magiche della grande Rivoluzione borghese francese, al grido delle quali fu abbattuta la monarchia fino alla decapitazione del re. Ma esse contenevano già allora la contraddizione caratteristica del capitalismo: libertà per quale classe?, uguaglianza rispetto a che cosa?, fraternità tra quali classi? Sì, perché la rivoluzione borghese ha scardinato definitivamente i modi di produzione precedenti e le organizzazioni sociali precapitalistiche, ma non ha risolto la divisione della società umana in classi contrapposte. La classe borghese, certamente più numerosa delle classi aristocratiche e del clero, e certamente laboriosa rispetto a loro, si sostituì al potere, semplificò i rapporti sociali grazie al modo di produzione che rendeva tutti gli uomini egualmente dipendenti dal mercato, ha fatto le leggi che difendono prima di tutto il nuovo potere borghese dai precedenti, mettendo alla base di tutto la proprietà privata. La democrazia permette ad ogni uomo, nessuno escluso per principio, di essere “proprietario” di qualche cosa, anche solo della propria forza lavoro e della propria miseria in cui la stessa società borghese lo precipita. La democrazia, dal punto di vista politico, permette alle classi subordinate, alle classi che non hanno risorse per vivere se non le proprie braccia, di eleggere di tanto in tanto coloro che le sfruttano sistematicamente (Lenin). C’è stato un periodo in cui la democrazia ha svolto, nonostante le intenzioni e gli interessi delle classi borghesi dominanti, un ruolo positivo nei confronti delle classi contadine e proletarie: le ha aperte alla lotta sociale, alla lotta armata, all’istruzione, alla conoscenza anche se elementare, alla politica. Il ciclo rivoluzionario borghese non poteva svolgersi senza coinvolgere tutte le classi della società, e doveva mettere le classi contadine e proletarie nelle condizioni di combattere e vincere gli eserciti dell’aristocrazia nobiliare. La partecipazione democratica di tutte le classi subordinate della vecchia società feudale, sotto il vessillo della borghesia rivoluzionaria, fu atto altamente rivoluzionario; la borghesia, da sola, non ce l’avrebbe mai fatta.

Ma, passata la fase rivoluzionaria e la ferrea dittatura rivoluzionaria della classe borghese, e sviluppatosi a sufficienza nei paesi d’Europa e d’America il modo di produzione borghese liberato dai vincoli della società chiusa feudale e precapitalistica, il corso storico del capitalismo passò alla fase riformista, alla “stabilizzazione” del mercato nazionale e alla conquista del mercato internazionale all’insegna della più ampia e “libera” concorrenza. Ma è proprio in forza dello sviluppo economico del capitalismo a livello mondiale che la democrazia borghese dei grandi paesi capitalisti iniziò ad impedire, per ragioni di mercato e di concorrenza, lo sviluppo democratico e capitalistico in tutti gli altri paesi del mondo che diventavano invece “territori economici” di conquista (materie prime e mercati di vendita). Lo sviluppo ineguale del capitalismo determina lo sviluppo ineguale della democrazia (dunque delle libertà e dei diritti civili e sociali che la lettera della democrazia prevede); la democrazia della “libera concorrenza” diventa sempre più la democrazia dei monopoli, dell’imperialismo. Aumentando la concorrenza fra i grandi paesi capitalistici, e in parallelo fra i grandi gruppi industriali e finanziari (i trust), la forbice che separa lo sviluppo economico e sociale – e quindi politico – dei paesi arretrati capitalisticamente e i paesi industrializzati si apre sempre di più ed è destinata tendenzialmente ad allargarsi sempre più, costringendo la gran parte dei paesi del mondo a dipendere dalle sorti economiche e dalle lotte di concorrenza del piccolo gruppo di grandi Stati imperialisti.

La democrazia borghese, dalla fase riformista alla fase imperialista dello sviluppo del capitalismo, dimostra così di non essere in grado di sollecitare e aiutare il progresso economico e sociale della stragrande maggioranza dei paesi del mondo. D’altra parte, l’imperialismo, ossia lo stadio più sviluppato possibile del capitalismo, è la rappresentazione della forza di un piccolo numero di trust (di multinazionali, come si usa dire oggi), e degli Stati dei rispettivi paesi d’origine, che impongono al resto del mondo, quindi alla stragrande maggioranza dei popoli e dei paesi, i loro interessi, e che per difendere quegli interessi gettano senza tanti scrupoli intere popolazioni e vasti territori nella carestia, nella miseria, nella devastazione, nell’inquinamento, nella morte ambientale, nelle guerre.

La fase storica del moderno imperialismo si caratterizza per la concentrazione monopolistica dell’economia, per la nascita dei truts capitalistici, per il predominio del capitale finanziario sul capitale industriale e commerciale, per le grandi pianificazioni economiche dirette dai centri statali (anche nel caso in cui alla pianificazione si sia dato il nome di “piano quinquennale” come nella tradizione staliniana). «L’economia borghese si trasforma e perde i caratteri del classico liberismo per cui ciascun padrone d’azienda era autonomo nelle sue scelte economiche e nei suoi rapporti di scambi – si legge nel nostro testo di base del 1946  intitolato «Tracciato d’impostazione» (12) – Interviene una disciplina sempre più stretta della produzione e della distribuzione; gli indici economici non risultano più dal libero gioco della concorrenza, ma dall’influenza di associazioni fra capitalisti prima, di organi di concentrazione bancaria e finanziaria poi, infine direttamente dello Stato. Lo stato politico, che nell’accezione marxista era il comitato di interessi della classe borghese e li tutelava come organo di governo, e di polizia, diviene sempre più un organo di controllo e addirittura di gestione dell’economia. Questa concentrazione di attribuzioni economiche nelle mani dello Stato può essere scambiata per un avviamento dall’economia privata a quella collettiva solo se si ignori volutamente che lo stato contemporaneo esprime unicamente gli interessi di una minoranza e che ogni statizzazione svolta nei limiti delle forme mercantili conduce ad una concentrazione capitalistica che rafforza e non indebolisce il carattere capitalistico dell’economia».

A questa fase storica del corso economico corrisponde una fase storica del corso politico dei partiti della classe borghese. Riprendendo dal «Tracciato», or ora citato, ribadiamo che: «Lo svolgimento politico dei partiti della classe borghese in questa fase contemporanea, come fu chiaramente stabilito da Lenin nella critica dell’imperialismo moderno, conduce a forme di più stretta oppressione, e le sue manifestazioni si sono avute nell’avvento di regimi che sono definiti totalitari e fascisti. Questi regimi costituiscono il tipo politico più moderno della società borghese e vanno diffondendosi attraverso un processo che diverrà sempre più chiaro in tutto il mondo. Un aspetto concomitante di questa concentrazione politica consiste nell’assoluto predominio di pochi grandissimi stati a danno dell’autonomia degli stati medi e minori».

Da parte opportunista, il fascismo è sempre stato presentato come fosse un “passo indietro” nella storia, e perciò come un regime contro il quale combattere per “riconquistare” la democrazia a sua volta presentata come l’ambiente sociale e politico progressista e più favorevole ad accogliere le rivendicazioni proletarie e alla lotta di classe. La fase borghese del totalitarismo (di cui il fascismo e il nazismo sono stati certamente espressione) è sempre stata presentata dalle forze opportuniste – e dalle stesse forze democratiche borghesi – come la fase in  cui maggiore è l’oppressione e la repressione di classe, in cui maggiormente e più estesamente si attua la violenza della classe dominante.

Le tesi della Sinistra comunista, fondate ineccepibilmente sul marxismo, sostengono che la fase totalitaria dello sviluppo capitalistico (quindi la fase in cui si è espresso il fascismo mussoliniano e il nazismo hitleriano) non è “un passo indietro” della storia ma un passo avanti, la conseguenza logica dello sviluppo imperialistico del capitalismo sul piano del potere politico della classe dominante borghese che, in questo modo, svela pere intero l’effettiva natura di classe e totalitaria del potere politico. «Il fascismo scatena indubbiamente una maggiore massa di violenza di polizia e di repressioni consumante anche sanguinosamente – si legge in un altro nostro testo base di partito – ma tale aspetto di energia attuale disturba soprattutto gravemente, insieme ai pochissimi autentici capi e quadri rivoluzionari del movimento operaio, uno strato di mezzi borghesi professionisti della politica che si atteggiano a progressivi e amici della classe operaia, ma in realtà non sono che la milizia dei padroni specializzata per il servizio in tempi di commedia parlamentare. Quelli che non fanno in tempo a mutare stile e livrea sono sgombrati a pedate: di qui la maggior parte delle strida» (13). Per il marxismo, la fase totalitaria del regime borghese non è una sorpresa, tutt’altro: è fase prevista ed attesa. Il capitalismo non morirà senza averla esperita in tutte le sue possibili varianti: «Lottare per il rinvio di questo palesarsi delle opposte energie sociali di classe – si ribadisce nel testo ora citato – svolgere una propaganda vana e retorica ispirata a uno stupido orrore di principio per la dittatura, è tutto lavoro svolto soltanto a favore del sopravvivere del regime capitalistico, del prolungarsi dell’asservimento e della oppressione sulla classe lavoratrice» (14).

Un aspetto dell’efficacia del metodo totalitario del governo borghese sta nella concentrazione massima delle energie economiche della società, grazie alla quale il regime borghese è in grado di intervenire in tutti i campi della vita sociale, e in particolare in quello economico, adottando metodi pianificatori più adatti a contenere gli urti fra le classi e, nello stesso tempo, ad alimentare fortemente la collaborazione fra le classi. Riprendiamo un altro passo dal testo citato: «Il nuovo metodo pianificatore di condurre l’economia capitalistica, costituendo, rispetto all’illimitato liberismo classico del passato ormai tramontato, una forma di autolimitazione del capitalismo, conduce a livellare intorno ad una media l’estorsione di plusvalore. Vengono adottati i temperamenti riformistici propugnati dai socialisti di destra per tanti decenni, e vengono così ridotte le punte massime e acute dello sfruttamento padronale, mentre le forme di materiale assistenza sociale vanno sviluppandosi. Tutto ciò tende al fine di ritardare le crisi di urto tra le classi e le contraddizioni del metodo capitalistico di produzione, ma indubbiamente sarebbe impossibile pervenirvi senza riuscire a conciliare, in una certa misura, l’aperta repressione delle avanguardie rivoluzionarie, e un tacitamento dei bisogni economici più impellenti delle grandi masse. (…) Se in fase totalitaria l’oppressione borghese di classe aumenta la proporzione di impiego cinetico della violenza rispetto a quella potenziale, l’insieme della pressione sul proletariato non ne risulta aumentato ma diminuito».Da qui la deduzione materialistica: «Appunto per questo la crisi finale della lotta di classe subisce storicamente un rinvio» (15).

Non si può concludere che così: La democrazia è una collaborazione di classe a chiacchiere, il fascismo è collaborazione di classe in fatto; in ogni caso, la morte delle energie rivoluzionarie è nella collaborazione tra le classi (16).

La democrazia borghese, in epoca imperialista, e se si vuole “post-fascista”, non evita al genere umano disuguaglianze sempre più acute, lotte fratricide, guerre e desolazione; aldilà delle chiacchiere sugli interessi “comuni” fra proletariato e borghesia – su cui si erge il castello propagandistico della collaborazione di classe – la democrazia lavora a favore di chi? Di un pugno di mastodontici trust e di mostri statali che succhiano sangue e sudore ai nove decimi della popolazione mondiale per l’esclusivo bene del profitto capitalistico. Credere, ancor oggi, che il principio e il metodo della democrazia siano la “sola” soluzione politica alle micidiali contraddizioni che dilacerano il mondo borghese, significa essere prigionieri di un cretinismo elettorale e parlamentare utile soltanto alla becera sottomissione agli interessi economici e ai privilegi dei 500 trust che governano il mondo.

In questo senso la democrazia post-fascista si è in realtà fascistizzata, è diventata sempre più blindata, sempre meno liberale anche per molti strati piccolo borghesi e borghesi. «Un altro mondo è possibile», recitano i nuovi cantori della conciliazione fra le classi che credono di poter smussare gli aspetti più cruenti e brutali del capitalismo dando più spazio alle merci dei paesi industrialmente arretrati, dando più spazio nel mercato a produzioni suppostamente ecologiche, biodinamiche, non-ogm. E’ il mercato stesso, in realtà, che scopre l’inganno: le merci sono merci, siano un concentrato di veleni o l’espressione di una coltura tradizionale, siano il prodotto di uno sfruttamento brutalmente schiavistico “alla cinese” o il prodotto di uno sfruttamento più blando come in certe zone del Kirghizistan o del Nepal. Le leggi del mercato non lasciano scampo: le risorse minerarie kirgize o alcuni passi montani nepalesi sono destinati a diventare materia di interesse dei paesi confinanti, di trusts e di potenze imperialistiche, e allora lo sfruttamento del lavoro salariato oggi ancora di intensità blanda rispetto a quello cinese subirà l’inevitabile “cinesizzazione”.

 

Il partito e la classe

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Il partito di classe è l’organo rivoluzionario per eccellenza; esso rappresenta nell’oggi il futuro del movimento rivoluzionario del proletariato, rappresenta la coscienza di classe del proletariato come classe storica, dunque possiede esso solo la teoria della rivoluzione proletaria, la teoria del comunismo, quindi la prospettiva generale della rivoluzione di classe fino alla sbocco storico finale che è la società comunista. Il partito comunista è, quindi, la guida del movimento rivoluzionario del proletariato, a livello internazionale e, dato che esso conosce il percorso storico che le classi in lotta sono materialisticamente costrette a fare, conosce anticipatamente lo sviluppo della lotta fra le classi. In forza di questa conoscenza, il partito sa che la lotta di classe, per sviluppare al massimo la sua potenzialità rivoluzionaria, deve trascrescere dal terreno delle rivendicazioni economiche, sociali e politiche compatibili con la società borghese e capitalistica, al terreno degli obiettivi più generali e politici che superano i limiti delle compatibilità con il capitalismo e che pongono soluzioni politiche, economiche e sociali a tutte le contraddizioni del capitalismo.

Il partito comunista è organo squisitamente politico, volto alla lotta conseguente e intransigente contro gli interessi generali delle classi borghesi per l’affermazione degli interessi generali della classe del proletariato, sia sul terreno immediato delle lotte a carattere economico che sul terreno più vasto e generale delle lotte a carattere politico. Il partito comunista si distingue da qualsiasi altra organizzazione proletaria (associazione economica, sindacato, cooperativa, società di mutuo soccorso, soviet, partito o altro) in quanto i suoi compiti prioritari e storici discendono direttamente dai fini legati alla società comunista, per il raggiungimento della quale è necessaria la lotta rivoluzionaria anticapitalistica portata fino in fondo (rivoluzione proletaria, insurrezione e abbattimento del potere politico borghese e del suo Stato, instaurazione dello Stato proletario e della dittatura di classe, rivoluzione mondiale, trasformazione dell’economia capitalistica in economia socialista). Tali compiti definiscono il partito comunista come organo indispensabile della rivoluzione proletaria e dettano attitudini, comportamenti, prassi, tattiche e azioni ad essi coerenti. E si precisa in uno dei testi base della nostra corrente: «Il compito indispensabile del partito si esplica dunque in due modi, come fatto di coscienza prima, e poi come fatto di volontà; traducendosi la prima in una concezione teorica del processo rivoluzionario, che deve essere comune a tutti gli aderenti; la seconda nell’accettazione di una precisa disciplina che assicuri il coordinamento e quindi il successo dell’azione» (17).

Ogni altra organizzazione proletaria, indipendente dagli apparati e dalle politiche del collaborazionismo interclassista, ha compiti inerenti la difesa delle condizioni proletarie di vita, di lavoro e di lotta ai quali sono chiamati tutti i proletari quali che siano le loro appartenenze ideologiche, politiche o religiose; al partito comunista, invece, vi aderisce soltanto una minoranza della classe proletaria, quella più avanzata, più cosciente, più sensibile alla causa generale del proletariato, e non può che essere un minoranza della classe poiché il partito – possedendo una visione generale della via che il proletariato deve percorrere per emanciparsi effettivamente dalla schiavitù salariale – difende in ogni momento e all’interno di ogni lotta operaia parziale gli interessi di tutta la classe proletaria. Al partito comunista vi aderiscono individualmente elementi non solo della classe proletaria ma anche delle altre classi sociali, i famosi transfughi come li chiamò Lenin, che abbracciano la causa del comunismo partendo da un’adesione a carattere intellettuale per poi trasformarla nel tempo – ma non ci riescono in tanti – in una adesione materialmente proletaria in quanto poggiante su condizioni di vita e di lavoro proletarie.

Il partito comunista non è un organizzatore di sindacati, di organismi proletari di lotta immediata  indipendenti e classisti, ma sostiene la rinascita delle associazioni economiche e immediate classiste, e con i suoi militanti coopera alla loro formazione e al loro orientamento classista, difendendone sempre la caratteristica di organismi proletari immediati, indipendenti dagli apparati borghesia e opportunisti, atti ad organizzare la più vasta massa di lavoratori. Esso si pone il compito di influenzarli e di dirigerne l’azione nel modo più coerente con lo sviluppo della lotta di classe, nella prospettiva di influenzare la maggioranza del proletariato nella sua lotta di emancipazione; ma non si impedisce di lavorare, attraverso i suoi militanti, anche nei sindacati o simili organizzazioni immediate del proletariato che abbiano caratteristiche perfino reazionarie – finché il loro intervento sia possibile in completa indipendenza – poiché lo scopo è di influenzare i proletari alla corretta e coerente lotta di classe e non di fare “carriera” all’interno degli apparati sindacali.

Il punto 4. del programma del partito (che pubblichiamo regolarmente in ogni numero del nostro giornale e delle nostre riviste) afferma in modo inequivocabile che: «L’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato è il partito di classe. Il partito comunista. riunendo in sé la parte più avanzata e decisa del proletariato, unifica gli sforzi delle masse lavoratrici volgendoli dalle lotte per interessi di gruppi e per risultati contingenti alla lotta generale per l’emancipazione rivoluzionaria del proletariato. Il partito ha il compito di diffondere nelle masse la teoria rivoluzionaria, di organizzare i mezzi materiali d’azione, di dirigere nello svolgimento della lotta la classe lavoratrice assicurando la continuità storica e l’unità internazionale del movimento» (18).

Sulla scorta delle lezioni tirate dalla storia del movimento comunista internazionale, sappiamo che senza una decisa influenza sul proletariato e sulle sue organizzazioni immediate di lotta, il partito comunista non avrà alcuna possibilità di guidare effettivamente e vittoriosamente il movimento operaio verso lo sbocco rivoluzionario; e sappiamo anche che per ottenere questo risultato non valgono scorciatoie ed espedienti (come il costituire appositi sindacati “comunisti” o “rivoluzionari”), ma la costante, paziente, tenace opera di intervento nelle lotte operaie a stretto contatto con le esigenze, i problemi e le contraddizioni di quelle lotte, senza mai perdere la bussola classista e rivoluzionaria.

In una riunione di partito del 1951 (19) venivano ribaditi in punti di tesi i concetti fondamentali del rapporto fra Partito ed azione economica; non vi sono state, dal 1951 ad oggi, modificazioni così profonde nella situazione generale da dover “riscrivere” i fattori che concorrono a stabilire i punti che ora ricordiamo; al punto 8 si legge:

«Al di sopra del problema contingente in questo o quel paese di partecipare al lavoro in dati tipi di sindacato ovvero tenersene fuori da parte del partito comunista rivoluzionario, gli elementi della questione fin qui riassunta conducono alla conclusione che in ogni prospettiva di ogni movimento rivoluzionario generale non possono non essere presenti questi fondamentali fattori: 1) un ampio e numeroso proletariato di puri salariati; 2) un grande movimento di associazioni a contenuto economico che comprenda una imponente parte del proletariato; 3) un forte partito di classe, rivoluzionario, nel quale militi una minoranza di lavoratori ma al quale lo svolgimento della lotta abbia consentito di contrapporre validamente ed estesamente la propria influenza nel movimento sindacale a quella della classe e del potere borghese.

I fattori che hanno condotto a stabilire la necessità di ciascuna e di tutte queste tre condizioni, dalla utile combinazione delle quali dipenderà l’esito della lotta, sono stati dati: dalla giusta impostazione della teoria del materialismo storico che collega il primitivo bisogno economico del singolo alla dinamica delle grandi rivoluzioni sociali; dalla giusta prospettiva della rivoluzione proletaria in rapporto ai problemi dell’economia e della politica e dello Stato; dagli insegnamenti della storia di tutti i movimenti associativi della classe operaia, così nel loro grandeggiare e nelle loro vittorie che nei corrompimenti e nelle disfatte. Le linee generali della svolta prospettiva non escludono che si possano avere le congiunture più svariate nel modificarsi, dissolversi, ricostituirsi di associazioni a tipo sindacale; di tutte quelle associazioni che si presentano nei vari paesi sia collegate alle organizzazioni tradizionali che dichiaravano fondarsi sul metodo della lotta di classe, sia più o meno collegate ai più diversi metodi e indirizzi sociali anche conservatori».

I compiti del partito di classe non possono, d’altra parte, essere “delegati” alle associazioni economiche e immediate del proletariato nemmeno in situazione rivoluzionaria favorevole, poiché i campi d’azione di queste associazioni operaie sono storicamente limitati all’esistenza del modo di produzione capitalistico, quindi all’esistenza della classe operaia come classe per il capitale, classe appartenente alla società capitalistica. Queste associazioni classiste del proletariato poggiano la loro azione e la loro ragione di esistere sul fatto che i proletari – in quanto lavoratori salariati – organizzati in genere per gruppi professionali omogenei, devono difendere i loro interessi di lavoratori salariati, di singoli e di gruppi, contro padroni e organizzazioni padronali e contro gli apparati e le istituzioni di amministrazione pubblica in quanto questi ultimi difendono gli interessi padronali e capitalistici sia parziali che generali.

Il partito comunista, al contrario, proprio perché rappresenta nell’oggi il futuro del movimento di classe ( gli interessi generali della classe lavoratrice, gli interessi generali della rivoluzione proletaria e del movimento storico che abbattendo il potere capitalistico apre la via alla trasformazione della società in società non più divisa in classi, e quindi alla scomparsa di ogni classe compreso il proletariato) definisce i suoi compiti storici nella dialettica storica di una lotta che è di classe nella misura in cui la classe proletaria combatte come classe contro le altre classi in questa società, ma che tende storicamente a superare i limiti degli antagonismi fra le classi nella misura in cui la lotta rivoluzionaria del proletariato vince internazionalmente e quindi è in grado – sotto la guida del partito comunista – di intervenire nell’economia per trasformarla da economia mercantile e capitalistica in economia socialista e, infine, comunista. In tutto il percorso storico che passa dalla lotta di classe per l’abbattimento del potere borghese e per l’instaurazione del potere proletario alla lotta per la trasformazione dell’economia capitalistica in economia socialista, il partito comunista svolge il compito di guida internazionale della rivoluzione anticapitalistica e antiborghese, dunque un compito di affermazione degli interessi generali delle classi lavoratrici salariate contro gli interessi generali, e particolari, di tutte le altre classi sociali esistenti, moderne o residui di società precedenti che siano. E già in questa dimensione il partito comunista si distingue nettamente dai sindacati e da ogni altra  organizzazione immediata proletaria, conosciuta nelle passate esperienze storiche o da conoscere nelle esperienze storiche future.

Ma vi è di più. Il partito comunista, in quanto la teoria marxista di cui è depositario rappresenta il salto storico fra la società divisa in classi e la società senza classi, fra il capitalismo e il comunismo, è destinato non solo a svolgere il ruolo di guida della rivoluzione proletaria internazionale e di esercizio della dittatura proletaria, ma anche a trasformarsi successivamente in organo amministrativo della società comunista nella quale – scomparsa ogni traccia di divisione in classi e di apparati di potere coercitivi – ci sarà bisogno di amministrare in forme centralmente adeguate la produzione e la distribuzione per l’intera società umana finalmente dedita alla vita gioiosa, alla conoscenza e alle arti, non più condizionata da esigenze “di mercato”, di “valorizzazione del capitale”, di “concorrenza”, ma dai bisogni reali della vita umana delle generazioni presenti e di quelle future. Di più, in un testo di partito del 1953 (20) si afferma che il partito, in un certo senso «non sparisce mai, anche dopo la sparizione delle classi, poiché diviene l’organo di studio e organizzazione della lotta tra la specie umana e le condizioni naturali». Ovvio che il partito, in quanto organizzazione formale di militanti rivoluzionari, nelle diverse fasi storiche affronta e svolge compiti diversi: una cosa è guidare l’insurrezione proletaria per la presa del potere, esercitare la dittatura di classe e condurre la guerra rivoluzionaria contro gli eserciti borghesi alleati nella controrivoluzione, altra cosa è amministrare la produzione e la distribuzione nella società in cui non esisteranno più classi sociali.

 

Classe: movimento e combattimento

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La classe proletaria, la classe dei lavoratori salariati, comprende tutti gli individui che nella società capitalistica sono dei senza riserve, e quindi costretti per vivere a vendere la propria forza lavoro ad altri individui che nella società capitalistica sono dei proprietari, che possiedono una certa quantità di ricchezza in beni, mezzi di produzione, capitali, ricchezza che permette loro di sfruttare a proprio e privato beneficio la forza lavoro erogata dai senza riserve. La massa di proletari, che lo stesso sviluppo del capitalismo crea, nella misura in cui sopravvive sotto il tallone dello sfruttamento capitalistico del lavoro salariato costituisce quella che noi abbiamo chiamato classe per il capitale, ossia quella parte della società capitalistica che non è solo subordinata al dominio del capitale e della classe che lo rappresenta – la borghesia – ma che contribuisce in modo determinante con il suo lavoro alla produzione della ricchezza sociale che i capitalisti si appropriano nella forma della proprietà privata.

Col marxismo, che è scienza sociale e teoria della rivoluzione, la parola classe acquista un significato molto diverso da quello appioppato in genere dalla sociologia. «Come entità sociale-storica è il marxismo che la ha originalmente introdotta, sebbene fosse adoperata anche prima. La parola è latina in  origine, ma è da rilevare che classis era per i Romani la flotta, la squadra navale da guerra: il concetto è dunque di un insieme di unità che agiscono insieme, vanno nella stessa direzione, affrontano lo stesso nemico. Essenza del concetto è dunque il movimento e il combattimento, non …la classificazione, che ha nel seguito assunto un senso statico» (21).

Per i comunisti, quindi, parlare di classe proletaria, di partito di classe, di dittatura di classe, significa applicare alle proprie posizioni politiche il concetto essenziale del movimento e del combattimento: movimento unificante i proletari di ogni paese o nazionalità, che agiscono nella stessa direzione affrontando lo stesso nemico e per uno scopo comune; combattimento dell’insieme di unità proletarie che agiscono sia sul piano della difesa dagli attacchi dei nemici di classe, sia sul piano dell’attacco alle posizioni e alle postazioni dei nemici di classe. La classe non è la somma di tutti i proletari esistenti al mondo, e non rappresenta la somma degli interessi di ogni singolo proletario; la classe proletaria è nella realtà storica un movimento che va nella stessa direzione e che è mossa da interessi unificanti, generali nei quali si riconosce al di là delle differenze contingenti e immediate tra proletariato e proletariato, e tra proletari e proletari. Ma il proletariato, per lottare in difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro, si organizza, organizza le proprie forze, le unisce; e lottando emerge il fatto che il vero risultato delle lotte operaie è l’unione degli operai e la sua estensione, perché gli alti e bassi dei rapporti di forza fra le classi fanno sé che le vittorie nella lotta in difesa delle condizioni di vita e di lavoro siano del tutto transitorie. L’organizzazione del proletariato in classe e quindi in partito politico (il Manifesto del 1848) è un fatto storico, determinato dal movimento del proletariato in lotta contro le altre classi sociali; è un risultato storico, impersonale, internazionale, che supera i limiti di spazio e di tempo. Il partito politico di cui parla il Manifesto del 1848 è il partito comunista – senza aggettivi nazionali – in cui si condensa l’esperienza storica delle lotte fra le classi, delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni. La classe è tale in quanto ha il partito, si enuncia nei nostri testi (22), con il che si afferma che il proletariato è rappresentato nei suoi interessi generali e storici da un organo ben definito che è appunto il partito di classe, il partito comunista internazionale, e da nessun altro.

La lotta di classe è dunque la lotta che il proletariato svolge sul terreno dello scontro con le classi borghesi attraverso la quale esso pone oggettivamente la questione del potere politico. A questo livello di lotta il proletariato ci arriva non per propria volontà, né tantomeno per propria “coscienza”, ma attraverso la spinta oggettiva dei suoi interessi economici e immediati per i quali esso si associa in organizzazioni atte alla difesa di quegli interessi. Il livello “politico” della lotta è determinato dall’emergere dell’antagonismo che oppone il proletariato a tutte le altre classi nella società, e dalle conseguenze che lo scontro fra le classi provoca su entrambi i fronti. Nella misura in cui il partito di classe influenza e dirige la lotta del proletariato sul terreno apertamente anticapitalistico, il livello “politico” della lotta diventa sempre più determinante fino a prendere il sopravvento sul livello “immediato” della lotta per il salario; in questo processo di sviluppo, per niente lineare e graduale ma irto di avanzate e di rinculi, la lotta di difesa delle condizioni proletarie di vita e di lavoro viene superata e si trasforma in lotta generale della classe proletaria contro la classe borghese, in lotta rivoluzionaria. Ogni lotta di classe è lotta politica, afferma ancora il Manifesto del 1848; per l’appunto, se è di classe, dunque se ha per obiettivo gli interessi generali del proletariato, non può essere che politica, in quanto gli interessi generali del proletariato non possono essere rappresentati che dal partito politico di classe, il partito comunista. In assenza dell’intervento e dell’influenza del partito comunista sul proletariato  nella sua lotta anticapitalistica, la classe proletaria perde oggettivamente la prospettiva unificante della sua lotta contro le classi borghesi e cede inevitabilmente all’influenza della borghesia ripiegando nei recinti delle compatibilità, dell’interclassismo.

L’intervento del partito nelle file del proletariato, e sul terreno della difesa immediata delle sue condizioni di vita e di lavoro, ha per scopo l’influenzamento, l’orientamento e la direzione di classe del movimento del proletariato. Ciò non toglie che, sul terreno immediato, il partito debba contribuire attraverso i suoi militanti anche all’organizzazione classista del proletariato senza mai rinunciare, però, all’importazione nelle file proletarie della teoria marxista, dei fini per i quali la lotta del proletariato deve svilupparsi, della difesa degli interessi generali della classe, della critica rivoluzionaria di ogni tendenza opportunista, di ogni pratica e politica collaborazioniste. Sviluppare e radicare in seno al proletariato le attitudini classiste anche in forme elementari che nelle lotte parziali si producono, è compito delle avanguardie, e quindi anche dei comunisti, perché attraverso queste attitudini, queste esperienze, queste pratiche classiste – che mettono cioè davanti ad ogni altra cosa la difesa esclusiva degli interessi immediati dei lavoratori salariati, occupati o disoccupati che siano – gli elementi più combattivi e “coscienti” del proletariato sono spinti con maggior forza e convinzione a rompere non solo “ideologicamente” ma anche praticamente con il sindacalismo tricolore, con il collaborazionismo interclassista, e a dar vita ad associazioni operaie finalmente di classe, adatte a difendere esclusivamente gli interessi proletari.

L’intervento costante del partito sul terreno della lotta proletaria serve anche a farsi conoscere dal proletariato – in specie dai suoi elementi e strati più avanzati – farsi apprezzare e quindi farsi seguire. Il partito si rivolge in generale a tutti i proletari, ma sa bene che soltanto i proletari più avanzati possono percepire e fare proprie le sue indicazioni, le sue parole d’ordine, perché in una certa misura queste indicazioni, queste parole d’ordine richiedono un livello qualitativo di sensibilità di classe più alto di quello che normalmente alberga nel proletariato – condizionato come è dalla quotidiana fatica di sopravvivere e dalla pressione sia padronale che dell’opportunismo –; perciò, il partito non può aspettarsi che tutti i proletari, in determinati momenti di alta tensione sociale, reagiscano allo stesso modo, nella stessa direzione di classe, con la stessa energia; non può aspettarsi che le masse proletarie vengano verso il partito spontaneamente. Ciò significa che il lavoro del partito non consiste semplicemente nel dare al proletariato le giuste indicazioni di classe, ma deve attuarsi facendo vivere quelle indicazioni di classe nella lotta, a fianco dei proletari che lottano, lottando insieme sul terreno immediato. Senza mai cedere, è chiaro, alla tentazione di tralasciare il terreno squisitamente politico e teorico – perché più “difficile” da digerire e da far passare nelle file proletarie – per il terreno economico immediato. Il compito principale del partito, come ricorda Lenin, è di importare la teoria rivoluzionaria nella classe del proletariato, non di “rappresentare”, meglio di altri, le istanze immediate del proletariato, o della sua “maggioranza”.

In che cosa si distinguono i comunisti conseguenti nell’attività di intervento sul terreno delle lotte immediate? Nel fatto che l’accettazione delle indicazioni di classe che il partito propone ai proletari «non implica l’adesione alle particolari tesi politiche del Partito Comunista, ma corrisponde solo alle esigenze dell’azione comune di tutto il proletariato, tracciate in modo tale che né comunisti, né socialisti, né anarchici, né in genere i lavoratori di qualunque fede politica, possano avere pregiudiziali contro di esse», come è ben espresso nel comunicato del C.E. e del Comitato sindacale centrale del Partito comunista d’Italia del marzo 1922, all’epoca della costituzione dell’Alleanza del Lavoro per iniziativa del Sindacato ferrovieri (23). Il partito di classe agisce effettivamente per l’unificazione del proletariato sul terreno della lotta di classe, agisce perché il proletariato prenda effettivamente in mano, in modo diretto, da protagonista, la propria lotta e il suo sviluppo, e affinché le famose scintille di coscienza di classe – di cui parla Lenin nel suo “Che fare?” – che si sprigionano dalla lotta di resistenza del proletariato contro la pressione e l’oppressione padronale e borghese, incontrino il partito nella sua molteplice attività e permettano quindi la saldatura fra le esigenze proletarie di difesa immediata e gli interessi generali della lotta di classe, e questi interessi generali con le finalità ultime rivoluzionarie.

 

 

*  *  *

 

Per quanto la Sinistra comunista sia stata dimenticata, falsata, calunniata, le sue tesi, il suo programma, le sue battaglie di classe, documentano l’intransigente continuità e coerenza teorica che l’ha storicamente caratterizzata, e dimostrano lo sforzo materiale nelle diverse situazioni di mantenere viva la continuità organizzativa – anche se in dati periodi si trattava, o si tratta, come oggi, di pochissimi elementi – al fine di consegnare alla ripresa della lotta di classe del proletariato “l’organo rivoluzionario” poggiante su solide basi teoriche e programmatiche.

In questo spirito, e nel seguitare a lavorare a questo fine, la nostra organizzazione ritiene di dover tornare su questi argomenti perché dal bilancio delle crisi e delle sconfitte del movimento rivoluzionario e dello stesso partito rivoluzionario si traggano tutte le indispensabili lezioni affinché successivamente sia possibile sempre riallacciarsi alla continuità teorica e programmatica del marxismo attraverso “un lavoro a carattere di partito”, perché se mai la sconfitta del proletariato fosse così drammatica da far scomparire anche un piccolo nucleo fisico di comunisti rivoluzionari coerentemente e intransigentemente legati all’ortodossia marxista, la rinascita del movimento di classe e rivoluzionario sarebbe ancor più allontanata nel tempo.

 

Scolpire con più fermezza ciò che ci distingue

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Nel 1976, il partito tornò sul testo della manchette («Distingue il nostro partito»), cercando di formularlo in modo più comprensivo per coloro che si avvicinavano al partito, in particolare in paesi in cui la Sinistra comunista italiana non era così conosciuta (riferirsi a «Livorno ‘21», per esempio, all’epoca, in Italia, in Francia, in Belgio, in Germania, in Svizzera, era noto che ci si riferiva alla fondazione del Partito comunista d’Italia ad opera della Sinistra comunista) e per i quali alcuni sintetici riferimenti potevano non dire molto o essere equivocati; ci si limitò a rendere quei riferimenti più chiari, pur mantenendoli molto concisi (24). La manchette infatti affermava che ci distingue: la linea da Marx a Lenin, alla fondazione dell’Internazionale Comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della Sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale, contro la teoria del socialismo in un paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori del politicantismo personale ed elettoralesco.

Di questo testo non c’è nulla che non vada bene anche oggi. Solo che, nel periodo successivo alla grande crisi capitalistica del 1974-75 e nel corso di sviluppo dello stesso partito, le diverse crisi parziali che portarono poi alla crisi generale del 1982-84 si sono incentrate su questioni di grande rilevanza sia di tattica che di organizzazione (chiusura del ciclo delle rivoluzioni multiple, attacco sistematico alle conquiste sindacali e sociali delle precedenti lotte operaie, formazione e continua trasformazione di gruppi politici di estrema sinistra ed extra-parlamentari, formazione di gruppi lottarmatisti come le BR, stragi per mano fascista, repressione statale nella forma della democrazia blindata, ecc.). E per l’ennesima volta, primeggiava su tutte quel grande accidente storico che si chiama democrazia. La questione delle “rivendicazioni transitorie” si incrociava con la mobilitazione “antifascista”, la valutazione dei gruppi extraparlamentari si incrociava con la questione della sfiducia operaia verso le confederazioni sindacali tricolore, la questione della violenza e del terrorismo si incrociava con la difesa sul terreno proletario dagli attacchi repressivi dello Stato, e sul terreno dell’organizzazione di partito con la necessità di preservare la continuità organizzativa rispetto alla possibile repressione poliziesca.

Se è sempre stato necessario fare un bilancio a fronte di ogni crisi del partito (crisi di “crescita” che fosse, o crisi degenerativa) – gli apporti della Sinistra comunista stanno a dimostrarlo fin dalle sue tesi per la costituzione del Partito comunista d’Italia, le tesi sulla tattica internazionale, gli apporti sulla valutazione del fascismo e le tesi del 1926, su, su fino al bilancio della controrivoluzione staliniana e della degenerazione dell’Internazionale comunista – lo era ancor di più rispetto alle crisi interne del ricostituito partito di classe  nel secondo dopoguerra fino alla crisi esplosiva del 1982-84 che mandò in frantumi il nostro partito di ieri.

Fare il bilancio delle crisi di partito: su questo problema ci siamo scontrati non solo con i liquidazionisti  della prima e della seconda tornata (i movimentisti del 1982 e i combatisti del 1983), ma anche con il gruppo di compagni che precipitarono nell’opposto liquidazionismo del partito (di tipo attendista) caratterizzato dal concorso di atteggiamenti egualmente disfattisti perché legati ad un formalismo organizzativo e personalistico che si traduceva inevitabilmente nella ricerca di espedienti formali e burocratici (come ad es. la rivendicazione della presenza dei compagni che in precedenza formavano il centro del partito nel nuovo organo direttivo chiamato “comitato centrale”, il “diritto” da parte della “proprietà” di esprimere per iscritto e pubblicamente di non essere d’accordo con la nuova linea presa dal comitato centrale, il “diritto” alla pubblicazione di articoli in contrasto con la nuova linea del comitato centrale, ecc.). E non poteva mancare l’espediente più odioso, l’azione legale da parte della “proprietà” del giornale di partito («il programma comunista») per riprendere il controllo del giornale, azione per la quale il tribunale non poteva che “dare ragione” alla “proprietà” riconsegnandole l’esclusivo utilizzo della testata. Espediente “tattico” ed organizzativo contro battaglia politica, questo era per gli attendisti l’unica cosa da fare. Nel frattempo, la rivendicata “continuità” ideologica e organizzativa del partito veniva messa nelle mani della giustizia borghese. Questo stesso gruppo di liquidazionisti teorizzò, inoltre, due fatti di estrema gravità per chi si dichiara “continuatore della Sinistra comunista”: 1) nessun bisogno di fare un bilancio delle crisi di partito, tantomeno dell’ultima, considerando questa come una crisi provocata dall’incursione di una “cricca” che voleva affondare il partito, per cui sarebbe stato sufficiente riavere in mano il giornale del partito, sbarazzarsi di quella “cricca” e …”riprendere il cammino”; 2) riorganizzarsi come partito prima di tutto in  Italia, dove questo gruppo poteva contare su un certo numero di seguaci, abbandonando i compagni degli altri paesi al loro destino, rimandando i contatti con l’estero solo dopo aver rafforzato il nucleo in Italia. Quindi, oltre a valutare la crisi del partito come uno spiacente incidente di percorso (prima o poi, si trova sempre una “cricca” che lavora “contro”), questo gruppo si chiudeva nei “sacri confini” italiani, alla faccia dell’internazionalismo e della storia della corrente della Sinistra comunista della quale pretendevano – e pretendono ancora – di essere i “veri continuatori“.

La necessità di fare un bilancio approfondito delle questioni che furono al centro di quella crisi caratterizzò già durante la crisi il nostro atteggiamento e il nostro lavoro. Di fondo, il partito non deve affrontare – se non in situazioni storiche di grandi rivolgimenti sociali e politici – questioni “nuove”, “sconosciute”. Cambia la situazione sociale e politica, cambiano i rapporti di forza fra le classi, ma fondamentalmente le questioni centrali del programma del comunismo rivoluzionario non cambiano, ed è per questo che il programma del partito comunista non  ha bisogno di essere continuamente ridiscusso e “aggiornato”. Le questioni su cui agiscono i fattori di possibili crisi nel partito, in genere, sono sempre legate a due grandi campi della sua attività: il campo della tattica e il campo dell’organizzazione. Valutazioni delle situazioni, considerazione delle forze in gioco, prospettive di minor o maggior successo nel tempo breve o immediato: sono aspetti dell’impostazione generale della tattica da seguire e dell’organizzazione delle forze di partito ad essa corrispondente da adeguare. Ebbene, se quelle valutazioni, quelle considerazioni, quelle prospettive sono sbagliate, inevitabilmente la tattica perseguita e i modelli organizzativi applicati sono anch’essi del tutto errati. Il problema dell’attività e dell’azione in campo sindacale e, in generale, sul terreno immediato, è sempre stato un osso duro da masticare, e ha dato sempre, ad un certo punto dello sviluppo dell’attività del partito, molti grattacapi. Il problema delle lotte anticoloniali ed antimperialistiche, è stato anch’esso un problema arduo e indigesto a molti pur bravi compagni. Il problema dell’utilizzo dei meccanismi democratici, all’interno e/o all’esterno del partito, a periodi si ripresenta come fosse il problema di tutti i problemi, risolto il quale tutto filerebbe poi via più liscio.

Nel periodo che va dal 1979 al 1982, nel partito si sono svolte, in verità, una serie di crisi ravvicinate, culminate poi nell’éclatement dell’ottobre 1982, con strascichi fino al 1984 quando i compagni riunitisi intorno a «il comunista» e a «le prolétaire» riunirono le forze ricostituendo il nucleo di partito che ancora rappresentiamo. Era evidente la necessità, e l’urgenza, di lavorare per il bilancio delle crisi del partito, affrontando a viso aperto i problemi tattici e organizzativi che fecero da detonatore delle crisi; ben sapendo, d’altra parte, che ogni problema tattico, ed ogni problema organizzativo, portano inevitabilmente a punti teorici e di programma. Il bilancio si rendeva necessario e doveroso proprio per il fatto che lo scoppio di una crisi interna, oltretutto di grande virulenza come quella del 1982, poneva sul tavolo non questioni “marginali” e circoscrivibili – da non intaccare punti di teoria e di programma, sui quali tutti potevano dimostrare di essere d’accordo e allineati – ma questioni centrali, come la concezione del partito, il rapporto fra partito e classe, la questione dell’indipendenza politica e organizzativa del partito rispetto a tutte le altre formazioni politiche, ecc.

I vent’anni che ci separano da quella crisi non hanno diminuito il valore e il peso di quel bilancio, tutt’altro. La situazione in cui versa il proletariato, in particolare dei paesi capitalisti avanzati, per cui la sua dipendenza dal riformismo e dal collaborazionismo interclassista è ancora molto forte sì da paralizzarlo perfino sul terreno elementare della difesa delle condizioni di vita e di lavoro, non ci dà la possibilità di dimostrare alla massa proletaria con l’ausilio di fatti attuali  importanti di essere sulla strada giusta, di aver portato la giusta lotta politica contro i diversi cedimenti che hanno caratterizzato e caratterizzano i gruppi politici che si rifanno, come noi, alla Sinistra comunista. Non possiamo riferirci ad importanti fatti della lotta di classe per dimostrare al proletariato, e in particolare ai suoi reparti più combattivi e sensibili alle ragioni della lotta di classe, di rappresentare il partito di classe nella sua continuità teorica, programmatica, politica, tattica e organizzativa. Questi fatti  non ci sono se non in forme talmente episodiche da non essere percepite dalla gran massa dei proletari se non come fatti che riguardano altri, altre categorie, altri proletari lontani da un comune sentire. Siamo forzatamente costretti a riferirci ad esempi portati dalla lotta di classe di ieri e dell’altro ieri, dato che la ripresa duratura e vasta della lotta di classe in questi oltre settant’anni di controrivoluzione borghese non sorge ancora all’orizzonte.

Ma il partito sa che può attraversare un periodo anche molto lungo in cui i proletari non percepiscono la giustezza delle sue valutazioni, delle sue indicazioni, la necessità della sua attività. Non per questo si chiude nella “torre d’avorio”, non per questo si estromette dallo sforzo di fare la sua attività a contatto con la classe operaia e con i problemi della sua lotta classista. Tempo verrà che questo lavoro risulterà importante e vitale, quando il proletariato, rialzata la testa, riprenderà nelle proprie mani le sorti della propria lotta.

Sappiamo, dunque, che il lavoro “grigio” e ai più “sconosciuto” che stiamo portando avanti nello sforzo di rimanere fortemente collegati al “filo del tempo” marxista e rivoluzionario, è lavoro indispensabile per il domani. La storia dei movimenti di classe ha insegnato che le situazioni “oggettivamente rivoluzionarie” si possono presentare con andamento di colpo anche molto accelerato, come se avvenisse “all’improvviso” – nel senso che il proletariato, in brevissimo tempo, in un precipitare delle tensioni sociali, può essere spinto sul terreno dello scontro di classe con le classi dominanti accettando lo scontro per la vita o per la morte – ma ha anche insegnato che la vittoria della rivoluzione proletaria non sarà mai possibile senza la presenza di un saldo, forte, preparato, influente partito di classe a capo del movimento proletario rivoluzionario. E questo partito non si improvvisa, lo si deve preparare di lunga mano, soprattutto sul piano della teoria e della sua corretta applicazione, anche, inevitabilmente, nel periodo di profonda controrivoluzione come l’attuale.

Lavorare alla formazione del partito come organo guida della rivoluzione proletaria e comunista di domani, alla luce di tutte le vicende storiche che hanno segnato la vita, e la morte, delle organizzazioni formali di partito in più di 150 anni di storia del movimento proletario internazionale e del movimento comunista, sarebbe inefficace – e, di fatto, impossibile – se ci si slegasse dalla continuità teorica, programmatica e politica del movimento comunista internazionale. Per la Sinistra comunista, e quindi per noi, la continuità teorica, programmatica e politica rappresenta il nucleo fondamentale della vita del partito di classe. Neghiamo che vi siano aggiornamenti da portare alla teoria marxista, e che si debbano imboccare vie diverse e nuove su cui incamminarci rispetto alla rotta rivoluzionaria già storicamente segnata dal movimento comunista internazionale che toccò il suo apice con la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917 e con la fondazione dell’Internazionale Comunista. Ma neghiamo anche che si debbano separare i piani della teoria e del programma politico del partito dal piano della sua attività pratica col pretesto che la situazione oggettiva ponga il partito nella condizioni di cercare nuove soluzioni tattiche e organizzative. Affermiamo che soltanto la continuità teorica, programmatica e politica del partito di classe può permettere al partito stesso di cambiar tattica, se necessario, anche in 24 ore (come ricorda Trotsky a proposito del partito bolscevico durante la guerra civile in Russia tra il 1918 e il 1921), poiché solo quella continuità dà la possibilità al partito di intervenire nelle situazioni che si modificano per modificarle a proprio vantaggio e non farsi guidare, e quindi modificare, dalle situazioni.

Questa continuità la si rintraccia nei testi classici del marxismo, nelle tesi fondanti l’Internazionale Comunista e nelle tesi della Sinistra comunista ante e post seconda guerra mondiale. Ma affinché questa continuità sia un’arma della critica marxista – in attesa di fare da reale base alla critica delle armi nel periodo rivoluzionario – è necessario un lavoro a carattere di partito, ed in particolare un lavoro di riconquista del patrimonio teorico e programmatico, politico e tattico del marxismo rivoluzionario. Senza un approfondito bilancio storico e politico delle crisi e delle sconfitte del movimento rivoluzionario, senza che siano tirate le lezioni delle controrivoluzioni, e le lezioni dalla stessa storia del partito rivoluzionario, l’organizzazione di partito non riuscirà mai ad impossessarsi effettivamente della critica marxista, non riuscirà a maneggiare con sicurezza e freddezza la teoria marxista; dunque, non riuscirà mai a guidare con successo il movimento proletario nel cammino della rivoluzione anticapitalistica. Il grande bilancio storico delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni è stato fatto dal nostro partito di ieri, e i testi e le tesi della Sinistra comunista che abbiamo richiamato nei punti precedenti stanno a dimostrarlo. Ma non è automatico che le forze militanti che compongono il partito siano sempre in grado di attuare coerentemente tutte le indicazioni e i compiti che derivano dal programma e dal bilancio delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni. Nel partito, proprio perché non è un’entità slegata dalla realtà sociale in cui agisce, si sviluppa costantemente lo sforzo per agire in perfetta coerenza con il suo programma, e tale sforzo, nelle diverse situazioni, si trasforma in una lotta di coerenza, in una lotta contro posizioni, attitudini e tesi opportuniste, in una lotta contro deviazioni o  degenerazioni.

Ecco perché, di fronte alla crisi esplosiva del partito del 1982-84 noi insistemmo caparbiamente nel lavoro di bilancio delle crisi di partito. Si trattava di seguire esattamente lo stesso metodo che il partito aveva già seguito in precedenza di fronte alle crisi interne che avevano segnato il suo corso di sviluppo, lo stesso metodo seguito dal Partito comunista d’Italia rispetto al PSI e alle correnti dell’opportunismo gradualista e massimalista che hanno intralciato il cammino della lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato negli anni Venti del secolo scorso, lo stesso metodo seguito da Lenin e dal Partito bolscevico rispetto alle crisi del movimento politico rivoluzionario russo ed internazionale. Non stavamo inventando nuove “vie” per ricostituire il partito di classe; non stavamo adottando un metodo e un metro di valutazione delle crisi interne diversi da quelli trasmessici dalla storia stessa della Sinistra comunista. Il bilancio delle sconfitte proletarie e comuniste – perché la crisi esplosiva del partito di ieri è una sconfitta non solo dei comunisti, ma anche del movimento proletario internazionale – si fa tornando alle basi teoriche e programmatiche del comunismo rivoluzionario che la storia ha confermato, e per questo noi le definiamo immutabili, invarianti; basi sintetizzate nei testi classici del marxismo e nelle tesi che abbiamo ricordato sopra.

La crisi esplosiva del partito nell’82-84 ha preso caratteristiche diverse e contraddittorie. La forte spinta attivistica e movimentista provocò una reazione di tipo accademico, attendista, tendenzialmente indifferrentista; la barriera che si era alzata fra teoria e prassi spingeva all’estremo tendenze esistenti da sempre nella storia del movimento proletario e comunista, contro le quali la Sinistra comunista ha dovuto sempre combattere, e ancora dovrà combattere, individuandole di volta in volta sotto le diverse sembianze prese nei diversi periodi della storia delle lotte fra le classi. La tendenza attivistica piuttosto che la tendenza indifferentistica hanno sempre intralciato il cammino del movimento proletario; per affermarsi all’interno dei partiti proletari di classe, le tendenze opportuniste utilizzavano – e utilizzano – un vettore di sicura efficacia anticomunista: il vettore della democrazia. Democrazia coniugata in mille e mille versioni differenti, ma sempre inesorabilmente e drammaticamente letale per il partito comunista. La democrazia, vinta dal marxismo sul piano teorico e di principio può rientrare dalla finestra della tattica e dell’organizzazione, rialzando per l’ennesima volta una barriera fra teoria e prassi e portare così il partito alla disgregazione.

 

Democrazia borghese: il nostro nemico più insidioso

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Al principio democratico risale una serie interminabile di formule tattiche e organizzative che il partito, nel corso della sua storia, ha valutato se adottare o meno, con quali limiti, in che campo e in che tempi, e in modo che non contrastino con i principi ed il programma politico dati. C’è stato un tempo in cui la democrazia borghese rappresentava, anche per il proletariato, un vantaggio politico importante poiché lo allenava a partecipare alla vita politica del paese. Era il tempo in cui la democrazia borghese corrispondeva alla fase rivoluzionaria della nuova società che andava a rivoluzionare la vecchia società feudale. Ma, in quanto rappresentazione delle libertà economiche, sociali, politiche della borghesia, e di tutti i suoi strati e sue fazioni, oltre un certo limite la democrazia borghese non poteva rispondere alle esigenze economiche, sociali e politiche delle classi lavoratrici, visto l’antagonismo sociale esistente nella società borghese e il suo acutizzarsi crescente con lo sviluppo stesso del capitalismo. La Comune di Parigi del 1871 prima, e la prima guerra mondiale del 1914-18 poi, dimostrano storicamente come nei paesi a capitalismo avanzato la democrazia – sia in principio che dal punto di vista  politico e tattico – sia diventata un intralcio per il proletariato nella sua lotta di classe e rivoluzionaria; di più, un’arma borghese per deviare il proletariato dal corso che la lotta di classe storicamente prende se portata fino in fondo, fino alla conquista violenta del potere politico e la instaurazione della dittatura proletaria e comunista. Altra cosa, invece, per i paesi a capitalismo arretrato, in cui all’ordine del giorno non c’era la rivoluzione “semplice”, anticapitalistica, ma la rivoluzione “doppia”, la rivoluzione che contiene due compiti storici: abbattere i poteri precapitalistici e, nello stesso tempo, svolgere compiti di tipo capitalistico ma sotto il ferreo e dittatoriale potere proletario in collegamento con il movimento proletario rivoluzionario internazionale e in attesa del contributo economico da parte di dittature proletarie instaurate in uno o più paesi a capitalismo avanzato. E’ stato, quest’ultimo, il programma rivoluzionario dei bolscevichi in Russia, e dell’Internazionale comunista per tutti i paesi coloniali e semicoloniali sottoposti al tallone di ferro degli Stati imperialisti. Nell’Occidente sviluppato la storia aveva posto all’ordine del giorno la rivoluzione proletaria anticapitalistica “semplice”, che doveva distruggere il potere politico borghese, il suo Stato e tutte le sue istituzioni anche nelle repubbliche più democratiche. Nell’Oriente arretrato, e in tutti i paesi del mondo in cui il capitalismo non si era ancora economicamente e politicamente radicato, la consegna era: rivoluzione “doppia” (o, per riprendere un termine caro a Trotsky e utilizzato da Marx, “permanente”), ossia rivoluzione con compiti economici borghesi ma diretta e guidata politicamente, e militarmente, dal proletariato rivoluzionario e dal suo partito di classe nel quadro della rivoluzione proletaria internazionale.

Il proletariato europeo occidentale si dimostrò, però, ancora molto influenzato dall’ideologia e dalla pratica della democrazia borghese, rappresentativa e parlamentare. E questa vera e propria malattia sociale si dimostrò durissima da combattere e da vincere; e lo è ancor oggi.  

Uno dei concetti fondamentali della democrazia borghese è quello di maggioranza e minoranza numeriche; è concetto democratico, nella misura in cui l’ideologia borghese assegna ad ogni singolo componente del totale numerico considerato, ed esistente in quel determinato momento, un valore “x”, uguale ad ogni altro singolo componente di quel totale numerico. L’espressione dinamica di quel valore è sintetizzata – secondo il principio democratico – nel voto dei singoli individui ai quali l’ideologia borghese assegna una “coscienza” loro specifica, separata e differenziata dalla “coscienza” di ogni altro individuo, grazie alla quale ogni individuo fa una “scelta”. Al termine di un ciclo di voto si procede a contare numericamente le “scelte” fatte da ogni singolo componente del totale numerico considerato ed esistente in quel determinato momento, e ne esce così un risultato numerico: vi sarà una maggioranza, una minoranza, le cui distanze numeriche fra l’una e l’altra possono essere infinitesime o molto accentuate, oppure del tutto assenti per cui si giunge ad un pareggio. Ma il principio democratico poggia sulla “vittoria” di una parte sull’altra, della maggioranza sulla minoranza., e stabilisce arbitrariamente che la maggioranza vada considerata tale a partire dal risultato di voto del 50% dei votanti + 1 voto singolo. In questo modo la quantità, secondo il principio borghese di democrazia, si converte in qualità: la maggioranza vince e la minoranza subisce le decisioni della maggioranza e vi si adegua.

La contraddizione evidente non sta soltanto nel fatto che al “voto” dovrebbero partecipare tutti i componenti sociali interessati, quindi anche i morti e i nascituri, e non solo i vivi di una certa età e presenti in quel momento specifico – questo problema la democrazia borghese non lo risolve né quantitativamente né qualitativamente – ma soprattutto nel fatto che si erge a teoria generale che l’ago della bilancia dipenda da quel +1 che decide, in ultima analisi, quale delle due parti vince sull’altra. La “maggioranza” della democrazia borghese è quindi in balìa di 1+ o 1-. Ed essendo la società borghese basata sul mercantilismo più sfrenato, è naturale che quel +1 valga molto di più dei componenti singoli del 50%; da qui la menzogna dell’eguaglianza di ciascun voto, menzogna che si accompagna al mercanteggio di ciascun voto con la caratteristica che quel +1 verrà “pagato ” più caro di ciascun voto che fa parte del 50%. Esattamente come al mercato, la merce più richiesta costa più delle altre; non si sa chi la comprerà, e quando, e a quale prezzo finale, ma si sa che costa di più. La democrazia borghese non può applicare alle sue strutture decisionali altro sistema di quello che conosce e dal quale in realtà dipende: il sistema dello scambio, del valore di scambio, insomma del mercato. Quante volte abbiamo sentito proclamare da perfetti democratici che il risultato delle elezioni dipendeva dal favore o meno, per una o per la parte avversa, degli indecisi? Gli indecisi diventano, così, nel mercato elettorale, la parte di probabili votanti per la quale si spende di più per influenzarla: insomma costano molto di più dei voti dati per “sicuri”!

Che durata e che valore possono avere le “decisioni” prese “a maggioranza” nei luoghi che la società borghese ha deputato per questo particolare mercato dei voti? Sia nel parlamento, nel consiglio comunale, provinciale o regionale, nel consiglio d’amministrazione di un’azienda, nel comitato di quartiere o in qualsiasi altra istituzione preposta ad “applicare” le regole democratiche borghesi, il metodo democratico non sfugge alle sue contraddizioni congenite. Non solo non è metodo perfetto, e non solo non è metodo in grado di prendere in considerazione le esigenze di ciascun “votante”, ma copre sistematicamente una realtà che è tutt’altro che egualitaria. La società è divisa in classi, in classe dominante e classi subalterne; in una classe che si appropria l’intera ricchezza prodotta dalla società – la classe borghese dei capitalisti – e in classi dal lavoro delle quali i borghesi estraggono la ricchezza sociale, appropriandosene. La maggioranza numerica, intesa come somma di individui non è della classe borghese capitalistica, è delle classi lavoratrici: se il concetto di maggioranza avesse effettivamente un’applicazione tout court, a comandare dovrebbero essere non i dominanti ma i dominati. Ma così non è. Ciò che fa la differenza non è il metodo, non è il numero, è la posizione e la funzione sociale: chi ha in mano il potere politico, economico, e quindi militare, detta le regole. Chi ha la forza vince. La democrazia borghese copre, più o meno bene, la realtà dei rapporti sociali fra le classi e dei rapporti di forza fra le classi. E finché questo metodo di governo assicura alla borghesia dominante il mantenimento del potere politico (con il seguito di coinvolgimento e consenso sociale utile per attenuare le tensioni più acute), essa non ha alcuna necessità di cambiarlo. Ciò che succede  con il tempo, però, è che anche i meccanismi della democrazia si logorano, perciò vanno “innovati”, cambiati, sostituiti o semplicemente gettati quando si dimostrano di troppo intralcio per gli affari borghesi.

Che la democrazia non risponda ai reali bisogni di vita degli esseri umani, è ormai evidente visto che la “maggioranza” degli uomini che abitano il pianeta vivono nella più nera miseria o al limite della sopravvivenza. Ciò non toglie che essa continui ad esercitare un’influenza determinante sul proletariato, anche se viene piegata sistematicamente agli interessi non della maggioranza degli uomini che formano le classi lavoratrici, ma a quelli della minoranza degli uomini che formano le classi dominanti. Sono dunque i gruppi di interesse (interesse economico e/o politico) che agiscono affinché la “maggioranza” democratica dia loro il “benestare” formale perché i loro vantaggi, i loro privilegi, siano mantenuti, ampliati, garantiti; perciò i loro sforzi maggiori tendenzialmente si concentrano su quel +1 del 50%. In questo modo il castello di contraddizioni, e di menzogne, costituito dalla democrazia applicata in politica, in economia e nella società può continuare a svolgere il suo vero ruolo, che non è di “garantire giustizia”, non è di “permettere ad ognuno” di far pesare la propria “scelta”, ma di nascondere i reali interessi che guidano le decisioni delle classi dominanti, dei gruppi di potere.

D’altronde, la regola del voto “segreto” contribuisce ad alimentare sia l’illusione che ogni singola persona “scelga” a chi o a che cosa dare il proprio voto senza averne direttamente eventuali conseguenze da parte di “oppositori” che un voto non segreto potrebbe invece provocare, sia la mistificazione della cosiddetta privacy che può avere una funzione soltanto in una società in cui ogni aspetto della vita di ciascuno può essere utilizzato da altri a proprio vantaggio. Ben altra funzione svolge invece il voto negli organismi immediati indipendenti del proletariato, come sono stati i soviet nel periodo rivoluzionario in Russia o le assemblee operaie e i consigli di fabbrica al tempo dei sindacati di classe. In questi organismi proletari di lotta, votare le mozioni in modo del tutto aperto e diretto era la dimostrazione pratica che nell’uso del voto non vi erano secondi fini e che la volontà di lottare contro i nemici di classe non veniva messa in discussione se il voto andava ad una mozione o ad un’altra, ad una rivendicazione o ad un’altra. A viso aperto, tutti i proletari – perché nessuno aveva qualcosa da nascondere – potevano verificare direttamente non soltanto quanti erano per una o per un’altra soluzione, ma anche chi e con quale motivazione. Solo in questo modo la partecipazione democratica poteva raggiungere il massimo coinvolgimento reale da parte dei proletari in lotta; e lo potrà anche un domani, quando organismi proletari di lotta immediata indipendenti dal collaborazionismo sindacale e politico rinasceranno. Ma questo può avvenire, senza costituire di per sé una deviazione in senso opportunistico, solo sul terreno della lotta immediata, solo in presenza di organismi effettivamente di classe, ed in presenza dell’attività reale del partito di classe in essi al fine di orientarli costantemente verso obiettivi di classe e l’utilizzo di mezzi e di metodi di classe, e di mantenerne l’orientamento classista.

In una società in cui tutto è merce, tutto è mercato, tutto si commercia, e la vita di tutti dipende dal potere economico – e quindi politico e sociale – di una ben precisa classe dominante, la borghesia, è logico che il sedicente “popolo sovrano” cui la democrazia borghese demanda quel che appare come l’«ultima parola», il «giudizio finale», debba avere la sensazione di “decidere”, almeno una volta ogni tanto – ad esempio con le elezioni – come regolamentare la vita sociale. La storia della società borghese è intrisa di democrazia piegata agli interessi di parte e comunque tutti inerenti i privilegi delle classi agiate, ma è allo stesso tempo caratterizzata dalla lotta fra le classi in cui non il “diritto” astratto, non il “voto” inserito in un’urna decidono le sorti di questa lotta, ma la forza reale, materiale, cinetica, che le classi antagoniste mettono in campo per affermare i propri interessi. Nella misura in cui gli strumenti di lotta utilizzati dalle classi proletarie sono funzionali esclusivamente alla conservazione della società borghese – e i mezzi della democrazia lo sono – ecco che quegli strumenti perdono le sembianze di lotta che artificialmente vengono loro date e mostrano la loro inutilità, di più, la loro funzione antiproletaria. Il massimo risultato che la borghesia può ottenere nella lotta che quotidianamente conduce contro il proletariato è che sia il proletariato stesso a danneggiare i propri interessi credendo di utilizzare mezzi e metodi efficaci a difenderli. La pratica della democrazia, che gli opportunisti di tutte le risme propagandano e sostengono, porta esattamente a questo risultato. E si capisce come mai le classi dominanti borghesi, in particolare dei paesi capitalisti avanzati, spendano cifre colossali per mantenere in piedi una congerie infinita di organismi, istituzioni e meccanismi di propaganda, di pratica e di burocrazia della democrazia. Finché il proletariato provvederà in buona parte da se stesso a tagliarsi le gambe sulla strada della lotta di difesa dei suoi interessi immediati e futuri di classe, la classe dominante borghese utilizzerà questo enorme vantaggio contro lo stesso proletariato, sia in pace che in guerra, sia sul piano del crescente sfruttamento della forza lavoro che su quello della crescente incertezza di vita delle classi proletarie, sia sul piano della competitività con la concorrenza sul mercato mondiale che sul piano della concorrenza fra proletari rispetto al salario e al posto di lavoro. Per i proletari, più democrazia significa più acuto asservimento agli interessi del capitale.

Essere comunisti non significa soltanto stare dalla parte degli interessi delle classi salariate, e lottare per l’affermazione di questi interessi contro le classi dominanti, ma significa anche svelare la realtà dei rapporti antagonisti che caratterizzano tutte le società divise in classi, e la società borghese in particolare. Combattere contro la mistificazione della democrazia borghese è, perciò, un’attitudine coerente dei comunisti in ogni epoca e in ogni luogo, tanto più in considerazione del fatto che la superstizione democratica (ogni persona ha gli stessi “diritti” delle altre, ad esempio vivere in modo decoroso e in pace) – alla pari delle superstizioni religiose – ha una fortissima influenza sulle classi lavoratrici, deviando la loro spinta materiale allo scontro aperto e diretto con le classi dominanti verso la conciliazione, la negoziazione che portano all’accettazione di soluzioni solo apparentemente egualitarie, ma vantaggiose solo per le classi che realmente hanno il potere, la forza, in mano. Quando le classi salariate hanno ottenuto che qualche loro rivendicazione fosse finalmente accettata dalle classi dominanti o dal padrone, ed applicata, l’hanno ottenuto solo dopo l’esercizio sistematico di azioni di forza e non con l’esercizio del “voto”. Esempio per tutti, la legge, ai tempi di Marx ed Engels, in Inghilterra delle 10 ore, e successivamente la legge delle 8 ore. Ma non è forse vero che le esigenze di sopravvivenza della maggior parte dei proletari, e dei contadini poveri, li costringono a lavorare ben oltre le 8 ore fissate per legge? E ciò è dovuto al semplicissimo rapporto di forze sociale, per cui le classi borghesi attraverso la loro pressione economica e sociale sulla società diminuiscono tendenzialmente il “prezzo del lavoro” – il salario – per alzare al massimo la quota di lavoro non pagato – il plusvalore – che va a costituire i loro profitti. Tutto però si svolge secondo le leggi del “mercato del lavoro”, concordate, e accettate da tutte le classi attraverso i voti parlamentari. Non è un caso che Lenin, nel suo «Stato e rivoluzione», risottolinea con Marx in che cosa consiste la democrazia borghese: «Decidere una volta ogni qualche anno qual membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo nel Parlamento: ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese, non solo nelle monarchie parlamentari costituzionali, ma anche nelle repubbliche le più democratiche» (25).    

Il partito comunista, fin dalla sua prima apparizione nella storia attraverso il Manifesto del 1848 di Marx ed Engels, ha ben individuato le contraddizioni e le menzogne contenute nella democrazia borghese. Ed una lezione storica fondamentale fu tratta dall’esperienza della Comune di Parigi del 1871, come ricorda Marx, e Lenin con lui. Il movimento comunista internazionale, lungo l’arco del suo corso di sviluppo, ha maturato la tesi che la democrazia borghese è il metodo di governo che più di altri riesce ad ingannare il proletariato, infondendo l’illusione di costituire il metodo migliore di governo non solo per la classe borghese ma anche per la classe proletaria.

L’inganno non è però solo nel metodo, nella prassi della democrazia, ma sta nelle basi economiche e politiche della società borghese. Infatti, nei periodi di profonda crisi dello Stato borghese, quindi di tutte le istituzioni democratiche, e in presenza di una ascesa consistente del movimento proletario sul cammino della lotta di classe che tende allo scontro diretto con il potere politico della borghesia, la classe dominante borghese tende ad abbandonare il metodo democratico parlamentare, e uscire allo scoperto, mostrando il volto anche sul piano politico della sua effettiva dittatura sulla società intera.

La situazione sociale interna ad un paese e la situazione politica internazionale non sempre hanno  “richiesto” la distruzione della democrazia attraverso la restaurazione dei poteri precapitalistici; dopo il 1789 francese e il 1848 europeo, la vittoria del capitalismo non solo sul piano economico ma anche su quello politico, nell’Europa occidentale, aveva segnata la strada; le classi precapitalistiche avevano perso definitivamente ogni possibile loro “restaurazione”. Successivamente, la soppressione della democrazia liberale come metodo di governo non fu provocata da rigurgiti precapitalistici (come il gramscismo e lo stalinismo vollero, considerando il fascismo come un passo indietro della storia), bensì dalle imperiose esigenze di centralizzazione politica ed economica del capitalismo sviluppato, dell’imperialismo. L’instaurazione del fascismo e del nazismo negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, corrisponde alle necessità di classi dominanti borghesi alle prese con il reale pericolo rivoluzionario: in quegli anni il proletariato aveva vinto in Russia, stava lottando in Europa occidentale per conquistare il potere anche in Ungheria, in Polonia, in Germania, in Italia, e in tutto il mondo le masse contadine e proletarie erano in grandissimo fermento per rivoluzionare gli ordini sociali esistenti. La paura delle classi dominanti borghesi, in particolare dei paesi capitalistici avanzati, era tale che per salvarsi dalla marea rossa montante dovevano escogitare un nuovo metodo di governo, visto che il metodo democratico non era riuscito a scoraggiare le masse proletarie dal loro cammino rivoluzionario. Questo nuovo metodo di governo fu il fascismo, dichiaratamente antiproletario, non prima di aver fatto terminare alla canagliesca socialdemocrazia “operaia” la sua opera di disarmo, di repressione e di disorganizzazione del proletariato che ancora influenzava e dirigeva.

Il fascismo fu la risposta borghese e imperialista a posteriori nei confronti delle classi proletarie che già durante la prima guerra mondiale avevano dimostrato di possedere vigore, combattività, energie e guida in grado di mettere in serio pericolo i poteri borghesi. Che lezione hanno tirato le classi borghesi da quella paura? Che avrebbero fatto di tutto per non ritrovarsi nuovamente in una situazione simile, con un proletariato così forte socialmente e politicamente da costituire un reale pericolo di morte definitiva per la borghesia e per il capitalismo.

I borghesi, di fronte a situazioni sociali di grande tensione, che avrebbero potuto aprire la strada alla ripresa della lotta di classe e alla lotta rivoluzionaria, maturavano la tesi che la loro risposta non avrebbe dovuto più essere a posteriori, ma avrebbe dovuto essere preventiva; e doveva riguardare tutti i piani, sia quello politico, che quello economico e sociale, quello ideologico e culturale, quello militare. Dunque, là dove le risorse economiche esistevano e dove il proletariato era più legato alla tradizione di classe e rivoluzionaria, la democrazia “antifascista” doveva sposarsi con un consenso sociale ottenuto grazie all’applicazione di riforme e di “garanzie” economiche (i famosi ammortizzatori sociali), senza tralasciare le incursioni armate repressive dello Stato (per l’Italia, da Portella delle Ginestre ai braccianti uccisi negli scioperi ad Avola, a Battipaglia, ai dimostranti uccisi nel giugno-luglio del 1960, ai giovani ammazzati a Roma e a Milano nel 1969-70) e le stragi comandate da forze borghesi illegali (in Italia, Piazza Fontana a Milano, Piazza della Loggia a Brescia, il treno 961, fino alla stazione di Bologna del 1980). Dove le risorse economiche non erano così abbondanti e il proletariato non presentava tradizioni di lotta di classe e rivoluzionarie di vecchia data o era stato drammaticamente deviato da esse ad opera dello stalinismo, allora la democrazia “antifascista” e “popolare”, di fronte a situazioni sociali di forte tensione, doveva lasciare il passo all’aperta repressione militare (a Berlino nel 1953, a Budapest nel 1956, e poi i colonnelli in Grecia, i generali in Argentina, Pinochet in Cile, Sukarno in Indonesia, ecc.). La dittatura militare diventava così la riposta preventiva alle mobilitazioni proletarie, mentre la democrazia “antifascista” si fascistizzava sempre più.

La degenerazione della democrazia liberale, col fascismo e con la seconda guerra imperialista mondiale, lascia ineluttabilmente il posto alla democrazia imperialista, ovvero alla democrazia fascistizzata, blindata, insomma più “moderna”. Essa mostra più evidenti i segni dell’inganno nei confronti delle popolazioni oppresse e dello stesso proletariato. Nonostante questo, nonostante le mille dimostrazioni in cui essa ha operato decisamente contro gli interessi “generali” del popolo – di cui si ammanta di essere invece il miglior metodo per rappresentarne gli interessi e le istanze – la democrazia ha ancora un forte grado di attrazione presso il proletariato: è una superstizione durissima a morire. Ragione di più, per i comunisti degni di questo nome, per lottare contro di essa su tutti i piani, da quello teorico, programmatico e ideologico a quello politico e tattico.

 

Il partito di classe, anche per la sua vita interna, tira una lezione dalla storia: esclude l’uso del meccanismo democratico 

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Perché mai il partito comunista rivoluzionario, dopo le innumerevoli dimostrazioni che fornisce la storia delle lotte proletarie e della lotta rivoluzionaria, dovrebbe utilizzare, anche se solo dal punto di vista organizzativo, il meccanismo democratico?

E’ noto che i partiti che aderirono all’Internazionale comunista adottarono la formula organizzativa del centralismo democratico. Il che significava, sostanzialmente, che gli iscritti al partito comunista erano tenuti ad essere disciplinati alle direttive emanate dagli organi centrali, applicandole in tutte le situazioni previste coi metodi definiti centralisticamente, ma che tali direttive provenivano da posizioni, programmi, risoluzioni, tesi discusse in appositi congressi e su cui i partecipanti (delegati di tutti i partiti aderenti) erano chiamati a votare. La maggioranza decretava il passaggio della tale posizione, della tale tesi, tale risoluzione, ecc. e fino al congresso successivo nulla si doveva cambiare. Il centralismo democratico era senza dubbio un passo avanti rispetto alla “separazione dei poteri” esistente in precedenza, per cui ad esempio il Gruppo Parlamentare aveva una sua autonomia di comportamento rispetto alle decisioni degli organi centrali del Partito Socialista, così come i dirigenti socialisti nel Sindacato. Mettendo l’accento sul sostantivo centralismo, si tagliava di netto con il metodo dell’autonomia di singoli pezzi del Partito, autonomia che in realtà copriva atteggiamenti, posizioni e pratiche opportuniste. La democrazia borghese era diventata l’asse intorno al quale ruotavano le decisioni e i poteri dei partiti socialisti, tanto che spesso era il Gruppo Parlamentare a dettare al Partito la linea da seguire. Restava l’aggettivo democratico, proveniente dalla precedente storia del movimento proletario e socialista, col quale si intendeva sottolineare la pratica del coinvolgimento e della partecipazione di tutti i compagni di partito a tutte le attività del partito, compresa quella di redigere risoluzioni, tesi, ecc., e comunque di votarle Ma l’ambiguità del termine «democratico» non scompariva, anche se il senso che ne davano i comunisti allora non era quello di mistificare una fittizia uguaglianza tra capi e gregari, tra organi direttivi e base, ma appunto di sottolineare che a nessun compagno di partito era impedito per principio, o per statuto, di svolgere una qualsiasi attività all’interno del partito. Attraverso il meccanismo democratico, ritornava però continuamente nel partito comunista l’attitudine a contrapporre tesi a tesi, mozione a mozione, opinione a opinione, instillando di continuo una pratica che di fondo si dimostrava anticentralista, attraverso la quale si potevano mettere continuamente in discussione le direttive emanate dagli organi centrali fino a trovare un motivo “personalmente valido” per non applicarle; da questo punto di vista, la «partecipazione», il «coinvolgimento» democratici invece che favorire l’integrazione e l’unitarietà di pensiero e d’azione della compagine di partito, si limitano a scimmiottarle in una finzione. In questo modo, il partito perdeva inevitabilmente la sua unità d’azione e la sua visione unitaria, aprendosi alla formazione di frazioni, correnti, “partiti” nel partito. Invece di rappresentare una guida ferma, decisa, univoca, compatta, affidabile, sicura per il movimento proletario rivoluzionario, tesa allo scopo storico principale della preparazione rivoluzionaria e della direzione della rivoluzione, si poteva trasformare – dapprima impercettibilmente, e poi in modo sempre più evidente – in un partito “borghese”, al servizio non della rivoluzione proletaria ma della democrazia, quindi al servizio della borghesia dominante.

Come non attribuiamo nessuna intrinseca virtù alle forme di organizzazione e di rappresentanza delle organizzazioni proletarie immediate e di massa, così non attribuiamo intrinseche virtù nemmeno a determinate forme di organizzazione del partito. Se è valida la tesi marxista che la rivoluzione non è un problema di forme di organizzazione, ma è problema di contenuto («di movimento e di azione delle forze rivoluzionarie in un processo incessante», come si può leggere nell’articolo Il principio democratico, del 1922, di A. Bordiga), è altrettanto valida per il partito comunista il cui scopo storico è quello di preparare, guidare la rivoluzione proletaria fino alla vittoria definitiva e internazionale sul capitalismo e sulle classi borghesi. Anche per il partito politico di classe il problema è innanzitutto di contenuto, quindi di teoria e di programma, dai quali discendono le linee politiche, tattiche e organizzative. «Il partito può essere e non essere adatto al suo compito di propulsore dell’opera rivoluzionaria di una classe, non il partito politico in generale, ma un partito, ossia quello comunista, può corrispondere a simile funzione, e lo stesso partito comunista non è preventivamente assicurato dai cento pericoli della degenerazione e della dissoluzione» – scriveva Bordiga nell’articolo ora citato, preoccupandosi però di chiarire subito che «i caratteri positivi che pongono il partito all’altezza del suo compito non stanno nel meccanismo dei suoi statuti e nelle nude misure di organizzazione interna, ma si realizzano attraverso il suo processo di sviluppo e la sua partecipazione alle lotte e all’azione come formazione di un  indirizzo comune intorno a una concezione di un processo storico, a un programma fondamentale che si precisa come una coscienza collettiva, ed a una sicura disciplina di organizzazione al tempo stesso» (26). Si ribadisce decisamente che i criteri di organizzazione – tanto più i criteri di organizzazione interna – non valgono in se stessi ma in quanto si coordinano con i fini della lotta rivoluzionaria del partito. I fini della lotta rivoluzionaria del partito comunista non prevedono la difesa, la salvaguardia o l’eventuale miglioramento (ammesso e non concesso che possa essere realizzato) dei metodi e dei meccanismi della democrazia; tutt’altro, essi prevedono la distruzione della democrazia borghese con tutti i suoi apparati e la sua sostituzione non con una sedicente democrazia proletaria, ma con la formazione dichiarata e aperta dello Stato proletario, ossia uno Stato di classe, che organizza la classe proletaria contro tutte le altre classi che devono essere spogliate dei loro privilegi economici, politici, sociali. Lo Stato proletario è una forza storica reale che si adatta allo scopo che persegue, ossia alle necessità per cui è nato (cfr. Il principio democratico, cit.), e per questo motivo, nel lungo processo di dittatura proletaria, di lotta e guerra rivoluzionaria contro le classi borghesi a livello mondiale, esso «potrebbe in dati momenti prendere impulso dalle più vaste consultazioni di massa come dalla funzione di ristrettissimi organismi esecutivi muniti di pieni poteri; l’essenziale è che a questa organizzazione di potere proletario si diano i mezzi e le armi per abbattere il privilegio economico borghese e le resistenze politiche e militari borghesi, in modo da preparare poi la sparizione stessa delle classi, e le modificazioni sempre più profonde dello stesso suo compito e della sua struttura».

Lo Stato proletario, come l’esperienza russa ci indica con larghezza di elementi di ammaestramento, continua il testo ora citato, «fonda il suo ingranaggio costituzionale su caratteristiche che vengono direttamente a lacerare i canoni della democrazia borghese, per cui i fautori di questa gridano a violazione di libertà, mentre non si tratta che di smascheramento di pregiudizi filistei con cui la demagogia ha sempre assicurato il potere dei privilegiati». Lo Stato proletario, nella prospettiva rivoluzionaria del marxismo, andrà estinguendosi lasciando il posto ad organi di amministrazione e di organizzazione della società che non sarà più divisa in classi antagoniste, ma sarà di specie. E il partito comunista, che è l’unica ed esclusiva guida della dittatura proletaria, e quindi dello Stato proletario, dovrà essere l’elemento più coerente con i fini rivoluzionari della lotta fra le classi che, portata appunto fino in fondo, non può che porre di fronte alla storia lo sbocco decisivo: o capitalismo o comunismo, o dittatura capitalistica e borghese o dittatura proletaria e comunista. Ma la coerenza con i fini rivoluzionari non sta nella democrazia borghese, né nel suo principio né nei suoi meccanismi pratici e organizzativi: sta nella continuità della lotta rivoluzionaria fino alla vittoria mondiale e definitiva sul capitalismo e su tutte le classi privilegiate che dal capitalismo e dai regimi borghesi traggono privilegi e benefici a discapito delle classi proletarie e diseredate del mondo.  

La Sinistra comunista italiana ha combattuto fin dalle sue origini una battaglia coerentemente marxista contro la democrazia «in generale» e contro il meccanismo democratico in particolare, ritrovandosi perfettamente concorde con Lenin quando affermava – nel «Che fare?» del 1903 – che il regime borghese, anche il più democratico, non supera né sospende il regime di sfruttamento salariale del proletariato, ma lo ribadisce con la caratteristica di mistificarlo sotto le vesti della «partecipazione» del popolo, e quindi del proletariato che ne costituisce la maggioranza, attraverso le elezioni democratiche che si tengono periodicamente.

Lo sviluppo del movimento operaio, e della sua lotta di classe, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, ha dimostrato che la democrazia borghese e la sua prassi non hanno risolto le contraddizioni sociali del capitalismo, né hanno superato gli antagonismi di classe fra borghesie dominanti e proletariati dominati. Il tasso di sfruttamento del lavoro salariato nel tempo è aumentato, la forbice tra accumulo di ricchezza da una parte e sprofondamento nella miseria dall’altra si allarga sempre più confermando inesorabilmente la teoria marxista della miseria crescente. Il sistema democratico, quindi, è inefficace rispetto alle ferree leggi economiche del capitalismo: la legge del valore non si fa imbrigliare dai codici civili o dal testo delle Costituzioni, anche le più democratiche. La democrazia veste come una maschera il vero volto del capitalismo, la sua effettiva dittatura economica e sociale. E non c’è come l’emergenza delle crisi economiche, in cui il modo di produzione capitalistico inevitabilmente e periodicamente precipita, a dimostrare che quella dittatura economica e sociale condiziona il suo stesso sviluppo tendendo ad una sempre più accentuata concentrazione e ad una maggiore centralizzazione di capitali; tendenza che condiziona ovviamente tutta la società e i rapporti sociali tra le classi, quindi anche l’amministrazione politica della società borghese, incanalandola verso un regime autoritario, egualmente centralista. Il fascismo è l’esempio più evidente di questa tendenza che, in realtà, proprio perché esprime a livello politico le tendenze economiche profonde del capitalismo, costituisce una fase dello sviluppo politico della classe borghese dalla quale quest’ultima non può più indietreggiare. A livello formale, una serie di obblighi e di aut aut possono anche essere sostituiti da una serie di «diritti» cosiddetti democratici – ed è successo con la caduta militare dei regimi fascisti nella seconda guerra mondiale – ma a livello sostanziale la fase centralistica, autoritaria, «fascista» non è cambiata, anzi si accentua sempre più come dimostrano i rapporti interstatali, ad esempio, fra Stati Uniti e “alleati” europei rispetto alle recenti guerre nella ex Yugoslavia, in Afghanistan e in Iraq.

Il meccanismo democratico è stato ripristinato dopo la caduta del fascismo, ma su di una società che economicamente ha già ampiamente sviluppato il suo imperialismo e che, perciò, mette sempre più in evidenza la forte contraddizione tra l’involucro di una democrazia inattuata e inattuabile e il contenuto imperialista e dittatoriale della sua economia. La rete di interessi che caratterizza le classi dominanti borghesi non è che la rappresentazione del movimento dei capitalisti a livello economico, soprattutto nella sua sfera finanziaria. In questo movimento il capitale più forte si mangia quello più debole, la concentrazione di capitali batte nella lotta di concorrenza la frammentazione di capitali, i grandi trust dominano il mercato internazionale e condizionano la “vita” dei capitali più piccoli. A livello politico, questo movimento esprime partiti e Stati lo scopo dei quali è di difendere gli interessi di quelle eccezionali concentrazioni di capitali, di facilitarne la penetrazione nei mercati più diversi, di allargarne il raggio d’azione e di ingigantirne la dimensione. Lo scontro di interessi sul mercato mondiale è naturale per i capitali, e tale scontro si realizza a tutti i livelli anche se non necessariamente in contemporanea: a livello economico e finanziario, a livello diplomatico, a livello politico e militare. Più alto è lo scontro più si rende necessaria la concentrazione di forze; più alta è la posta in gioco nel mercato mondiale, più gli Stati si attrezzano, anche attraverso la rottura di vecchie alleanze e l’innesto di nuove alleanze pronte a rompersi nuovamente di fronte a cambi di rapporto di forze tra grandi trust e grandi Stati, per difendere la rete di interessi di cui sono emanazione.

Il meccanismo democratico, a questo livello di lotta di concorrenza, diventa un intralcio. Non è un caso, infatti, che ormai da decenni le decisioni fondamentali sia in economia che in politica vengano prese non nei parlamenti, ma nelle stanza dei cosiddetti «poteri forti». La democrazia, se la borghesia non avesse il problema di influenzare, orientare, organizzare le forze sociali del proletariato in funzione dei suoi interessi di classe dominante, non servirebbe a nulla e verrebbe gettata tranquillamente nella spazzatura dalla stessa borghesia.

Ma la classe dominante borghese non può dimenticare il proletariato, perché il proletariato nella sua lunga storia di classe ha dimostrato di essere in grado di opporre alle classi borghesi di tutto il mondo non solo la forza bruta, la forza della massa sociale in movimento che oltre un certo limite di compressione tende ad esplodere, ma anche la forza di un programma politico che deriva da una teoria scientifica – il marxismo – in grado di interpretare la realtà sociale delle organizzazioni umane, e di prevedere il corso storico di sviluppo della società borghese ponendo il proletariato in quanto classe sociale moderna come il perno del movimento storico delle classi sociali in lotta fra di loro per una organizzazione sociale completante diversa da quelle che si sono caratterizzate come società di classi nelle quali il progresso, lo sviluppo ulteriore non poteva essere che una società divisa in classi con un modo di produzione sempre più moderno, semplificato, economicamente più potente e socialmente più universale.

La forza della teoria rivoluzionaria del marxismo non sta, infatti, soltanto nell’interpretazione materialistica, storica e dialettica, della storia delle società umane, ma nell’essere allo stesso tempo guida rivoluzionaria per il cambiamento generale e fondamentale della società. E’ questa forza che le classi borghesi si sono trovate a dover fronteggiare, in situazioni storiche diverse ma tendenzialmente unite in un unico grande arco storico che va dalla società capitalistica e borghese come ultima società divisa in classi alla società comunista come società di specie, e ad imparare in qualche modo a conoscere. Dal 1848  e 1871 europei al 1905 russo e al 1917-21 mondiali, le classi borghesi hanno potuto saggiare – spaventandosi a morte – di quale forza storica rivoluzionaria sia dotata la classe proletaria. Certo, esse sono corse ai ripari, utilizzando tutta la loro forza economica e militare, la loro intelligenza di classe e tutta la loro esperienza di dominio sociale e politico, per impedire al proletariato rivoluzionario di portare a termine i processi rivoluzionari iniziati. E finora ci sono riuscite, come già era capitato alle vecchie classi dominanti aristocratiche e feudali nei confronti delle classi borghesi rivoluzionarie che iniziarono il loro percorso storico nel 1640 con Cromwell per vederlo finalmente terminato più di duecento anni dopo in Europa con il 1871.

Non sappiamo se anche per la vittoria rivoluzionaria definitiva sulla vecchia e putrescente società capitalistica ci vorranno più di duecento anni da quel 1848 nel quale la storia aveva per la prima volta messo la società moderna di fronte all’inevitabile sbocco rivoluzionario: proletariato contro borghesia, dopo che il proletariato aveva contribuito in modo decisivo alla vittoria rivoluzionaria delle classi borghesi contro le vecchie classi feudali, e nel quale svolto storico nacque d’un getto la teoria marxista della rivoluzione proletaria come unica rivoluzione in grado di far passare l’organizzazione sociale dall’ultima società divisa in classi (la società borghese) alla società senza classi (la società comunista), dalla preistoria della società umana alla storia della società umana. Sappiamo che la società capitalistica è storicamente segnata non essendo più in grado, ormai da molto tempo, di far fare all’organizzazione sociale dei passi in avanti. Economicamente, il capitalismo non ha più alcuna possibilità di sviluppare la vita sociale se non alla condizione di acutizzare la differenza fra i minoritari gruppi di capitalisti che accentrano nelle proprie mani la stragrande maggioranza delle risorse economiche, finanziarie e naturali e la maggioranza assoluta degli uomini che vive invece nella miseria, nell’inedia, nell’incertezza quotidiana della vita; differenza che non fa che accrescere l’antagonismo di classe fra classi borghesi dominanti e classi dominate, in ispecie il proletariato. Politicamente, il capitalismo ha prodotto una serie interminabile di “soluzioni” governative, di alleanze, di contrasti al fine di conciliare gli interessi di accumulazione e di valorizzazione del capitale e gli interessi di sopravvivenza della maggioranza della popolazione umana, “soluzioni” sempre inesorabilmente indirizzate alla conservazione e alla difesa del dominio politico e sociale delle classi borghesi. La borghesia è stata ed è in grado di sfornare partiti politici di ogni genere, pronti a rappresentare interessi di gruppi anche molto ristretti, rispondendo con ciò alla legge della concorrenza che domina la vita sociale sotto il capitalismo; ma come è dimostrato dallo sviluppo della concorrenza capitalistica, la tendenza economica alla concentrazione e alla centralizzazione si ripercuote anche sul livello politico, spingendo la borghesia a formare partiti centralisti, “unici”, autoritari, pur dovendo conservare simboli, pratiche e apparati della democrazia in funzione, praticamente esclusiva, dell’inganno delle grandi masse.

Quanto al partito proletario e comunista, rappresentando nella società borghese la lotta rivoluzionaria per l’abbattimento definitivo del potere politico borghese e per la trasformazione economica e sociale dell’intera società, esso corrisponde in un certo senso ad uno stato maggiore della rivoluzione proletaria, e in quanto tale non può essere organizzato che con una struttura piramidale, centralistica, la cui efficienza è data dalla coerenza delle sue azioni e della sua organizzazione ai fini del programma rivoluzionario comunista. Naturalmente, a differenza dell’esercito, lo «stato maggiore –partito» non è semplicemente uno strumento efficace della rivoluzione proletaria, ma è nello stesso tempo guida e rappresentazione delle finalità storiche, oltre che un’organizzazione che comprende l’adesione volontaria e cosciente dei suoi militanti. In questa prospettiva, storicamente, il partito proletario non poteva che tendere anche nella sua organizzazione formale verso la più organica centralizzazione poiché i suoi obiettivi non sono condizionati da gruppi di interessi in concorrenza e in contrasto fra di loro, ma dall’unico sbocco classista dell’abbattimento del potere borghese e dell’instaurazione della dittatura proletaria, che è quanto di più autoritario, centralistico e ferreamente disciplinato che ci sia. Può un partito con questi compiti dipendere nelle sue decisioni, nelle sue azioni, nella sua pratica quotidiana, da meccanismi tecnici come ad esempio le consultazioni democratiche? No, in quanto i meccanismi tecnici non determinano la bontà o meno del programma politico del partito, ma sono utilizzati e utilizzabili in funzione dei contenuti del programma politico e delle finalità dell’azione di partito. Quando nel 1921, la Sinistra comunista italiana, attraverso la penna di Amadeo Bordiga, sviluppava la critica all formula del centralismo democratico – che era il principio organizzatore dei partiti comunisti di allora – metteva al centro della questione non il problema di organizzazione, ma il problema dei contenuti, e quindi della continuità dell’azione del partito nello spazio e nel tempo. Si legge, infatti, nell’articolo che abbiamo citato moltissime volte, quanto segue: «Il centralismo democratico è finora per noi un accidente materiale per la costruzione della nostra organizzazione interna e  la formulazione degli statuti di partito: esso non è l’indispensabile piattaforma. Ecco perché noi non eleveremo a principio la nota formula organizzativa del “centralismo democratico”. La democrazia non può essere per noi un principio; il centralismo lo è indubbiamente, poiché i caratteri essenziali dell’organizzazione del partito devono essere l’unità di struttura e di movimento. Per segnare la continuità nello spazio e della struttura di partito è sufficiente il termine centralismo, e per introdurre il concetto essenziale di continuità nel tempo, ossia nello scopo a cui si tende e nella direzione in cui si procede verso successivi ostacoli da superare, collegando anzi questi due essenziali concetti di unità, noi proporremmo di dire che il partito comunista fonda la sua organizzazione sul “centralismo organico”». Il fatto che il tema fosse stato già posto nel 1921, quindi durante il periodo più intenso della lotta rivoluzionaria che poteva all’epoca contare sul potere proletario e comunista vittorioso in Russia e sulla fondazione dell’Internazionale Comunista, dimostra che le lezioni che il partito di classe è tenuto a tirare dalla storia e dal movimento della lotta fra le classi sono molto più proficue e stabili nel tempo se affondano le proprie basi sul terreno più fertile della viva lotta rivoluzionaria, nel più alto svolto storico. Non è mai stata una questione di terminologia, e non si è mai trattato dell’innamoramento di una formula: nessun partito allora e nessuna forza che si dichiarasse comunista in seguito, e fino ai giorni nostri, sono mai stati in grado di giungere ad una chiarezza dialettica quanto lo è stata la Sinistra comunista italiana. Scopo cui si tende, direzione in cui si procede, unità di struttura e di movimento, sono gli elementi essenziali perché da questi si traggano le formule politiche che condensano l’azione e l’attività del partito di classe.

Il meccanismo democratico, a suo tempo, venne giustificato non solo rispetto alla necessità di far partecipare e coinvolgere tutta la compagine di partito fino all’ultimo militante in tutte le diverse situazioni, ma anche rispetto all’insorgere di divergenze, di punti di visti diversi e quindi al suo inquadramento. In realtà, come succede nella vita politica di tutti i partiti borghesi, i meccanismi democratici non hanno alcuna efficacia nella prevenzione delle eventuali divergenze: essi si limitano a constatarle e ad ordinarne l’espressione, il dibattito e la loro “gestione” nel tentativo di evitare che l’organizzazione di partito si spezzi tutte le volte che si presentano punti di divergenza al suo interno. Nelle Tesi della Sinistra al 3° congresso del Partito comunista d’Italia, a Lione nel 1926, la Sinistra risponde al problema del frazionismo e del pericolo opportunista all’interno del partito, affermando: «I partiti comunisti devono realizzare un centralismo organico che, col massimo compatibile di consultazione della base, assicuri la spontanea eliminazione di ogni aggruppamento tendente a differenziarsi. Questo non si ottiene con prescrizioni gerarchiche formali o meccaniche, ma, come dice Lenin, con la giusta politica rivoluzionaria. La repressione del frazionismo non è un aspetto fondamentale della evoluzione del partito, bensì lo è la prevenzione di esso. Essendo assurdo e sterile, nonché pericolosissimo, pretendere che il partito e l’Internazionale siano misteriosamente assicurati contro ogni ricaduta o tendenza alla ricaduta nell’opportunismo, che possono dipendere da mutamenti della situazione come dal giuoco dei residui delle tradizioni socialdemocratiche, nella risoluzione dei nostri problemi si deve ammettere che ogni differenziazione di opinione non riducibile a casi di coscienza e di disfattismo personale può svilupparsi in una utile funzione di preservazione del partito e del proletariato in generale da gravi pericoli. Se questi si accentuassero, la differenziazione prenderebbe inevitabilmente ma utilmente la forma frazionistica, e questo potrebbe condurre a scissioni non per il bambinesco motivo di una mancanza di energia repressiva da parte dei dirigenti, ma solo nella dannata ipotesi del fallimento del partito e del suo asservimento ad influenze controrivoluzionarie» (27).

Nel bilancio che abbiamo fatto delle crisi del nostro partito di ieri, abbiamo messo in evidenza che tutte le diverse tendenze che si sono scontrate nelle diverse crisi interne avevano una caratteristica comune, quella di esagerare determinati formalismi, o di negarne la funzione e l’utilità. Altro errore, in questo caso, sarebbe credere che il giusto sia “nel mezzo”, quando invece il problema, per l’ennesima volta, è innanzitutto politico. La disciplina formale è dovuta alle direttive centrali del partito non in quanto esse giungano alla rete di partito da un organo centrale, ma in quanto politicamente coerenti con il programma e le linee politiche e tattiche che il partito si è dato e che, aderendo al partito, ogni militante accetta e condivide. Il fatto che debba essere il centro del partito ad emanare le direttive risponde prima di tutto all’esigenza politica dell’unità d’azione e di movimento del partito; e l’unità d’azione e di movimento è meglio assicurata da un organo centrale che non da tanti organi diversi spostati nello spazio e “indipendenti”. Ma, non riconoscendo una “intrinseca virtù” a determinati meccanismi o strutture del partito, possiamo, senza tema di essere accusati di essere centralisti a parole e anticentralisti nei fatti, affermare che per noi nemmeno l’organo centrale del partito in quanto tale è dotato di virtù intrinseca e la disciplina che gli è dovuta è comunque sempre discendente da una accettazione politica, cosciente e volontaria, delle linee-guida del partito. L’esagerazione di formalismi denota la presenza di una tendenza ad utilizzare espedienti organizzativi e disciplinari nel tentativo di risolvere problemi politici. Ci sono formalismi che nel partito non si adottano mai e che il solo fatto di adottarli mette coloro che li usano automaticamente fuori dal partito. Un esempio: il ricorso al tribunale che i capi del nuovo “programma comunista” hanno fatto per riprendere il controllo del giornale del partito è stato un espediente tecnico con il quale essi si proponevano di essere riconosciuti nuovamente come i “veri” e “autentici” eredi politici della Sinistra comunista italiana; espediente che in ogni caso non doveva mai essere utilizzato – nemmeno eccezionalmente – anche in assenza di una aperta discussione e lotta politica sulle linee politiche e tattiche del partito. Ci sono formalismi il cui abuso dimostra che nel partito si stanno  stravolgendo i metodi organizzativi che consentono una coerente e corretta attività del partito ai diversi livelli e nei diversi campi. Lo stesso metodo delle sanzioni disciplinari, delle radiazioni e delle espulsioni – adottato in alcune occasioni nel partito di ieri in particolare dopo la morte di Amadeo Bordiga – è metodo eccezionale, ma «se le crisi disciplinari si moltiplicano e diventano una regola», come negli anni dal 1923 in poi nei partiti e nell’Internazionale,  e come avvenne, fatte le debite proporzioni storiche, nel nostro partito di ieri fra il 1979 e il 1982, «ciò significa che qualche cosa non va nella conduzione generale del partito, e il problema merita di essere studiato» (28). E già questo modo di porre la questione fa vedere che nel partito non vi sono articoli costituzionali, o di statuto, con l’applicazione dei quali «si risolvono» le crisi interne; la prevenzione alle deviazioni e alle degenerazioni non può che essere politica, basata sul continuo richiamo ai punti teorici e programmatici su cui il partito di classe si fonda e sul bilancio storico e politico che il partito ha fatto delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni. Altre garanzie non esistono, tanto meno quelle spesso rivendicate sotto l’influenza dell’opportunismo di diffondere nel partito una democrazia interna con la quale spostare sulle opinioni dei militanti di base (e la loro conta numerica) la decisione di seguire una via piuttosto che un’altra.

Noi non imputiamo «le degenerazioni che si sono verificate nel partito comunista all’aver lasciato scarsa voce in capitolo alle assemblee e ai congressi dei militanti rispetto alle iniziative del centro», anche se riconosciamo che «una sopraffazione da parte del centro sulla base in senso controrivoluzionario vi è stata in molti svolti storici; la si è raggiunta perfino con l’impiego dei mezzi che offriva la macchina statale, fino ai più feroci» (29), come è successo ad esempio al tempo di Stalin. «Ma tutto ciò –continua il testo di partito citato – più che l’origine, è stata l’inevitabile manifestazione del corrompersi del partito, del suo cedere alla forza delle influenze controrivoluzionarie». I militanti aderiscono individualmente al partito, esprimendo la propria volontà di impegnare le proprie energie e le proprie capacità al servizio dell’attività complessiva del partito. In questo impegno è prevista la disciplina agli organi centrali del partito, una disciplina non esclusivamente formale, ma sostanzialmente politica, perciò cosciente. Sempre nel testo citato possiamo leggere un altro interessante passo: «Alla base del rapporto fra militante e partito vi è un impegno; di tale impegno noi abbiamo una concezione che, per liberarci dell’antipatico termine di contrattuale, possiamo definire semplicemente dialettica. Il rapporto è duplice, costituisce un doppio flusso a sensi inversi, dal centro alla base e dalla base al centro; rispondendo alla buona funzionalità di questo rapporto dialettico l’azione indirizzata dal centro, vi risponderanno le sane reazioni della base».            

La disciplina organizzativa non è d’altra parte cosa secondaria, anche perché a ciascun militante, che abbia responsabilità centrali o meno, non è dato di decidere per proprio conto se, quando e in che forma applicare le direttive del partito. Seguiamo ancora il testo citato: «Il problema quindi della famosa disciplina consiste nel porre ai militanti di base un sistema di limiti che sia l’intelligente riflesso dei limiti posti all’azione dei capi. Abbiamo perciò sempre sostenuto che questi non debbono avere la facoltà in importanti svolti della congiuntura politica di scoprire, inventare e propinare pretesi nuovi principi, nuove formule, nuove norme per l’azione del partito. E’ nella storia di questi colpi a sorpresa che si compendia la storia vergognosa dei tradimenti dell’opportunismo. Quando questa crisi scoppia, appunto perché il partito non è un organismo immediato e automatico, avvengono le lotte interne, le divisioni in tendenze, le fratture, che sono in tal caso un processo utile come la febbre che libera l’organismo dalla malattia, ma che tuttavia “costituzionalmente” non possiamo ammettere, incoraggiare o tollerare».

D’altra parte, il partito ha tutto l’interesse a prepararsi preventivamente contro le possibili deviazioni e degenerazioni, e se non lo può fare con articoli costituzionali o di Statuto, con specifici regolamenti o ricette, come?

Al solito, vi sono condizioni politiche derivanti dal bilancio delle esperienze della lotta proletaria e rivoluzionaria di tanti decenni, «la cui ricerca, la cui difesa, la cui realizzazione devono essere instancabile compito del nostro movimento». Le condizioni politiche principali, riprendendo da alcuni nostri testi di base, possono essere così riassunte (30):

 

1)  Il partito deve difendere ed affermare la massima chiarezza e continuità nella dottrina comunista quale si è venuta svolgendo nelle successive applicazioni agli sviluppi della storia, e non deve consentire proclamazioni di principio in contrasto anche parziale coi suoi cardini teoretici. Il partito perciò vieta la libertà personale di elaborazione e di elucubrazione di nuovi schemi e spiegazioni del mondo sociale contemporaneo, vieta la libertà individuale di analisi, di critica e di prospettiva anche per il più preparato intellettuale degli aderenti e difende la saldezza di una teoria che non è effetto di cieca fede, ma è il contenuto della scienza di classe proletaria, costruito con materiale di secoli, non dal pensiero di uomini, ma dalla forza di fatti materiali, riflessi nella coscienza storica di un a classe rivoluzionaria e cristallizzati nel suo partito.

2)  Il partito deve in ogni situazione storica proclamare apertamente l’integrale contenuto del suo programma quanto alle attuazioni economiche, sociali e politiche, e soprattutto in ordine alla questione del potere, della sua conquista con la forza armata, del suo esercizio con la dittatura.

3)  Il partito deve attuare uno stretto rigore di organizzazione nel senso che non accetta di ingrandirsi attraverso compromessi con gruppi o gruppetti o peggio ancora di fare mercati fra la conquista di adesioni alla base e concessioni a pretesi capi e dirigenti.

4)  Il partito deve lottare per una chiara comprensione storica del senso antagonista della lotta. I comunisti rivendicano l’iniziativa dell’assalto a tutto un mondo di ordinamenti e di tradizioni, sanno di costituire essi un  pericolo per tutti i privilegiati, e chiamano le masse alla lotta per l’offensiva e non per la difensiva contro pretesi pericoli di perdere millantati vantaggi e progressi, conquistati nel mondo capitalistico. I comunisti non danno in affitto e prestito il loro partito per correre ai ripari della difesa di cause non loro e di obbiettivi non proletari come la libertà, la patria, la democrazia ed altre simili menzogne.

5)  I comunisti rinunciano a tutta quella rosa di espedienti tattici che furono invocati con la pretesa di accelerare il cristallizzarsi dell’adesione di larghi strati delle masse intorno al programma rivoluzionario. Questi espedienti sono il compromesso politico, l’alleanza con altri partiti, il fronte unico, le varie formule circa lo Stato usate come surrogato della dittatura proletaria – governo operaio e contadino, governo popolare, democrazia progressiva. I comunisti ravvisano storicamente una delle principali condizioni del dissolversi del movimento proletario e del regime comunista sovietico proprio nell’impiego di questi mezzi tattici, e considerano coloro che deplorano la lue opportunista del movimento staliniano e nello stesso tempo propugnano quell’armamentario tattico come nemici più pericolosi degli stalinisti medesimi.

6)  La base organizzativa del partito comunista è quella per circoscrizioni territoriali e non per cellula, nuclei d’azienda o simili organismi settoriali. Nel gruppo territoriale sono posti in partenza sul medesimo piano i lavoratori di ogni mestiere e dipendenti da svariatissimi padroni, e con essi tutti gli altri militanti di categorie sociali non strettamente proletarie che il partito dichiaratamente ammette come gregari, e deve in ogni caso ricevere come tali e se occorre tenerli in maggiori quarantene, prima di chiamarli, ove ne sia il caso, a cariche di organizzazione.

7)  La concezione della Sinistra comunista sull’organizzazione di partito sostituisce allo stupido criterio maggioritario scimmiottato dalla democrazia borghese un ben più alto criterio dialettico che fa dipendere tutto dal solido legame di militanti e dirigenti con la impegnativa severa continuità di teoria di programma e di tattica.

8)  Il partito, considera il sindacato, o meglio l’associazione economica del proletariato, organo indispensabile per la mobilitazione della classe sul piano politico e rivoluzionario, attuata con la presenza e la penetrazione del partito comunista nelle organizzazioni economiche di classe. nelle difficili fase che presenta il formarsi delle associazioni economiche, si considerano come quelle che si prestano all’opera del partito le associazioni che comprendono solo proletari e a cui gli stessi aderiscono spontaneamente ma senza l’obbligo di professare date opinioni politiche religiose e sociali. Tale carattere si perde nelle organizzazioni confessionali e coatte o divenute parte integrante dell’apparato di Stato (come in sostanza gli attuali sindacati tricolore).

9)  Il partito non adotta mai il metodo di formare organizzazioni economiche parziali comprendenti i soli lavoratori che accettano i principi e la direzione del partito comunista. ma il partito riconosce senza riserve che non solo la situazione che precede la lotta insurrezionale, ma anche ogni fase di deciso incremento dell’influenza del partito tra le masse non può delinearsi senza che tra il partito e la classe si stenda lo strato di organizzazioni a fine economico immediato e con alta partecipazione numerica, in seno alle quali vi sia una rete emanante dal partito (nuclei, gruppi e frazione comunista sindacale).

10)  Compito del partito nei periodi sfavorevoli e di passività della classe proletaria è di prevedere le forme e incoraggiare l’apparizione delle organizzazioni a fine economico per la lotta immediata, che nell’avvenire potranno assumere anche aspetti del tutto nuovi, dopo i tipi ben noti di lega di mestiere, sindacato d’industria, consiglio d’azienda e così via. In partito incoraggia sempre le forme di organizzazione che facilitano il contatto e la comune azione tra lavoratori di varie località e di varia specialità professionale, respingendo le forme chiuse.

11)  Dato che il carattere di degenerazione del complesso sociale si è concentrato e si concentra nella falsificazione e nella distruzione della teoria e della sana dottrina, è chiaro che il piccolo partito di oggi ha ancora  un carattere preminente di restaurazione e di difesa dei principi di valore dottrinale, e purtroppo manca dello sfondo favorevole in cui Lenin lo compì dopo il disastro della prima guerra mondiale. Tuttavia non per questo caliamo una barriera fra teoria e azione pratica, poiché oltre un certo limite distruggeremmo noi stessi e tutte le nostre basi di principio. Rivendichiamo dunque tutte le forme di attività proprie dei momenti favorevoli nella misura in cui i rapporti reali di forze lo consentono, e quindi il partito non  perde occasione per entrare in ogni frattura, in ogni spiraglio, sapendo bene che non si avrà la ripresa se non dopo che questo settore si sarà grandemente ampliato e divenuto dominante.

12)  Il parlamentarismo, seguendo lo sviluppo dello Stato capitalista che assumerà palesemente la forma di dittatura che il marxismo gli ha scoperto sin dall’inizio, va man mano perdendo d’importanza. Anche le apparenti sopravvivenze degli istituti elettivi parlamentari delle borghesie tradizionali vanno sempre più esaurendosi rimanendo soltanto una fraseologia, e mettendo in evidenza nei momenti di crisi sociale la forma dittatoriale dello Stato, come ultima istanza del capitalismo, contro cui deve esercitarsi la violenza del proletariato rivoluzionario. Il partito, quindi, permanendo questo stato di cose e gli attuali rapporti di forza, si disinteressa delle elezioni democratiche di ogni genere e non esplica in tale campo la sua attività. Il partito, perciò, di fronte alle elezioni democratiche esprime questa non attività nel campo elettorale e parlamentare come astensionismo rivoluzionario, ossia dedica le proprie energie alla generale attività di studio, propaganda, agitazione e proselitismo nel quadro della lotta anticapitalistica, e quindi anche contro la democrazia e i suoi meccanismi di inganno e di imbottimento dei crani proletari, e per l’orientamento classista del proletariato.

13)  Per accelerare la ripresa di classe non sussistono ricette bell’e pronte. Per fare ascoltare ai proletari la voce di classe non esistono manovre ed espedienti, che come tali non farebbero apparire il partito quale è veramente, ma un travisamento della sua funzione, a deterioramento e pregiudizio della effettiva ripresa del movimento rivoluzionario, che si basa sulla reale maturità dei fatti e del corrispondente adeguamento del partito, abilitato a questo soltanto dalla sua inflessibilità dottrinaria e politica.

  

*  *  *

     

Molti sarebbero ancora i punti interessanti da svolgere, ma rimandiamo, anche per ragioni di lunghezza, a successive occasioni di ripresa delle questioni che il testo della nuova manchette richiama.

E’ indispensabile, lo precisiamo anche se è evidentemente implicito, rifarsi al lavoro di bilancio delle crisi che abbiamo svolto in tutti questi anni, e in particolare ad alcuni testi come gli articoli seguenti, pubblicati nel 1981-1982 in “il programma comunista”: «La capacità del partito di interrogarsi sulla strada percorsa, presupposto per andare avanti sulla strada della rivoluzione proletaria» (RG novembre 1981, nn. 10, 11 e 12 del 1981), «Le questioni poste dalla crisi del nostro partito» (RG ottobre 1982, n. 20 del 1982); e pubblicati, fra il 1985 e il 1987 in “il comunista”: «Propaganda comunista, fattore essenziale della preparazione rivoluzionaria» e «In difesa del programma comunista» (n. 2, Aprile 1985), «Punti sulla questione della lotta immediata e degli organismi proletari indipendenti» (nn. 3-4, 5 e 6, Luglio-Dicembre 1985), «Che cosa significa fare il bilancio della crisi di partito?» (n. 6, Novembre 1986), «La riconquista del patrimonio teorico e politico della Sinistra comunista passa anche attraverso la riacquisizione della corretta prassi di partito» (nn. 8, 9-10, Agosto-Dicembre 1987), «Rapport du centre international à la Réunion général du parti», Luglio 1982 (in “Programme communiste” n.89/1987); inoltre, «La critica senza l’errore non nuoce nemmeno la millesima parte di quanto nuoce l’errore senza la critica» (“il comunista” n. 45, Aprile 1995), e «Sulla questione della formazione del partito dopo la crisi esplosiva del 1982-84 del “partito comunista internazionale-programma comunista”, in Italia e in altri paesi» (“il comunista” nn. 56/1997, 57-58/1998 e 62/1998).

 

 


 

Note

 

(1) In seguito alla Riunione di Firenze del dicembre 1951, è stato presentato e diffuso un testo intitolato «Base per l’Organizzazione 1952». Nel n.5, 6-20 marzo 1952 di «battaglia comunista», dopo molti atti di indisciplina e di frazionismo avvenuti nel partito, vengono pubblicati contemporaneamente tre testi:

Ø    Distingue il nostro partito

Ø    Comunicato del Comitato Centrale

Ø    Base per l’organizzazione 1952

I testi sono i seguenti:

«DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx, a Lenin, a Livorno 1921, alla lotta della sinistra contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei blocchi partigiani, la dura opera di restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori del politicantismo personale ed elettoralesco.»

«COMUNICATO del Comitato Centrale. La presente decisione, presa all’unanimità dal C.C. il 24-2-1952, adempie la necessità di sistemare l’organizzazione e l’attività del Partito a chiusura di un periodo di ripetuti e gravi atti di indisciplina e di aperta disgregazione, che deve assolutamente considerarsi superato.

Essa viene adottata dal C.C. anche a seguito di una serie di contatti, riunioni e consultazioni con molti compagni e gruppi dell’organizzazione, che nella stessa concordano senza la minima eccezione e riserva.

L’adesione di tutti quanti i compagni si ritiene raggiunta attraverso il loro tesseramento per l’anno 1952 già in corso sulla base dei capisaldi e delle elaborazioni cui qui si fa riferimento.

Il Partito con tutti i suoi organi e aderenti si impegna a lavorare sul piano dei risultati delle riunioni di studio che hanno avuto luogo nel 1951 a Roma, Napoli e Firenze, nonché sulla base dello Statuto-programma e delle piattaforme politiche precedentemente elaborate e pubblicate.

Con speciale riferimento a quelli che sono i compiti pratici e di azione nell’attuale periodo aspro e difficile per il movimento proletario, l’attività del partito si impernia sul testo presentato a Firenze nel dicembre 1951 e diffuso già nelle sue file come Base per l'Organizzazione 1952, il quale ha il carattere (premesso il richiamo ai principi fondamentali del movimento) di delimitare la portata e l’estensione nella attuale congiuntura del partito.

I punti di tale elaborato stabiliscono che senza sottacere o dimenticare nessun aspetto dell’integrale compito del Partito di classe, è oggi preminente quello del riordinamento teorico, della ricostituzione organizzativa col massimo sviluppo possibile, del proselitismo e della propaganda, nel convincimento che la mai abbandonata agitazione tra le masse e con le masse raggiunga in tempo non lontano ampiezza e potenza.

Il Partito non perde mai il contatto con le manifestazioni concrete e fisiche della lotta di classe; evita di confondersi coi movimenti di carattere freddamente intellettuale e settario; prosegue nella sua opera e nel suo lavoro secondo i punti della Parte IV del citato testo che va riprodotto sulla stampa del Partito (Battaglia Comunista, n. 5 del 1952).

Gli organi centrali del Partito rimangono a Milano ed il loro funzionamento viene dal C.C. demandato all’ufficio esecutivo affidato al compagno Bruno Maffi che, per la distribuzione del lavoro dei vari settori (organizzazione, stampa –Battaglia Comunista e Prometeo – amministrazione) si avvarrà del lavoro di altri compagni del C.C. o, per appositi compiti, di altri organizzati.

Ogni manifestazione, attività e pubblicazione esplicate al di fuori di queste precise linee direttive e di questo inquadramento organizzativo devono considerarsi estranee al Partito.

Il C.C., 24 febbraio 1952»

Per quanto riguarda la «BASE PER L’ORGANIZZAZIONE 1952», nel n. 5 di «Battaglia» furono pubblicati per esteso soltanto i punti III. Tattica ed azione del Partito, e IV. Azione del Partito in Italia e altri Paesi al 1952:, mentre il punti I: Dottrina, e II: Compito generale del Partito di classe, furono solamente riassunti. La pubblicazione integrale di questi Punti-base per l’adesione al Partito fu fatta nel «programma comunista» a dieci anni di distanza, nel 1962.

(2) «L’Appello per la riorganizzazione internazionale del movimento rivoluzionario marxista», scritto nel 1949 in lingua francese è stato ripubblicato in italiano nel “programma comunista” n. 18 del 1957. Nella Premessa a questa ripubblicazione si affermava che «esso servì di base al lavoro di ripresa dei legami tra i gruppi della sinistra comunista marxista dei vari paesi. Ma soprattutto fu utile nel seno del nostro piccolo partito in Italia a determinare più chiari orientamenti programmatici e una migliore selezione organizzativa di elementi fuorviati o esitanti su punti base. (…) E’ chiaro che quanto nell’Appello è detto a proposito dello stalinismo, vale a maggior ragione per quel sottoprodotto deteriore che è il cosiddetto post-stalinismo; a sua volta la critica ai gruppetti di falsa sinistra e agli immancabili loro ondeggiamenti ha avuto in questo settennio una serie di conferme evidenti, in Italia e fuori, e nelle dolorose vicende del moto ungherese del 1956». Questo testo fu poi inserito nel n.7 dei testi del partito comunista internazionale intitolato «Lezioni delle controrivoluzioni», volumetto pubblicato dal partito nel maggio 1981, attualmente disponibile.

(3) Sulla questione specifica del parlamentarismo, vedi in particolare l’opuscolo di partito intitolato «O preparazione rivoluzionaria, o preparazione elettorale», in cui vi sono contenuti articoli e interventi di Lenin, Bordiga, Trotsky, Repossi ecc. Vedi anche l’opuscoletto di partito del 1976 intitolato «Le ragioni del nostro astensionismo», da tempo esaurito, che stiamo ripubblicando in questi numeri de «il comunista».

(4) Dal n. 16 al n. 24 del 1975 di “programma comunista” il testo della manchette è questo: «Distingue il nostro partito: la linea da Marx a Lenin, al programma di Livorno 1921, alla fondazione dell’Internazionale comunista e alla sua difesa contro la degenerazione, alla lotta contro la teoria del socialismo in un paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionale; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco». Nel n. 8 del 1976 viene pubblicato un testo che chiarisce il nostro “distingue”, intitolato appunto: «Distingue il nostro partito», poi raccolto a parte in opuscoletto.

(5) Filotempismo, filotempista, termini coniati ex novo dal nostro partito per indicare la continuità nel tempo e nello spazio delle posizioni marxiste autentiche, fuori da ogni pretesa di aggiornamento, di revisione, di adattamento delle tesi programmatiche e teoriche a supposte nuove ed impreviste situazioni. «Sul filo del tempo» era il titolo di una serie di articoli che Amadeo Bordiga scrisse dal 1949 al 1953, pubblicati fino alla scissione del 1952 su «battaglia comunista», e poi su «programma comunista», coi quali intendeva collegare fatti storici e tesi programmatiche e politiche del movimento marxista tra un «ieri» e un «oggi», dimostrando la validità della continuità teorica e politica della sinistra comunista; articoli che avevano per obiettivo soprattutto la lotta contro l’opportunismo di ieri, di oggi e di domani.

(6) A proposito della scissione avvenuta nel partito comunista internazionalista nel 1952, ne abbiamo trattato più volte, in particolare nel lavoro di bilancio delle crisi del partito. Ad es. nel “Bollettino interno n.3” del febbraio 1975, ripreso nel lavoro di bilancio che abbiamo svolto dal 1982 in poi, e pubblicato ne «il comunista» nn.25-26,27 e 28 del 1991; e l’articolo “La portée de la scission de 1952 dans le Partito Comunista Internazionalista” pubblicato nel n.93 (maggio 1993) della nostra rivista “programme communiste”.

(7) Sull’industrialismo di stato, si veda la polemica tra Bordiga e Damen a proposito del “capitalismo di Stato” in Russia negli anni fino al secondo dopoguerra. In questa polemica, alla semplice e superficiale formulazione di Damen sull’economia russa come ormai già “capitalismo di Stato” Bordiga oppone una formulazione più complessa e dialettica: in Russia l’economia tende al capitalismo e lo Stato funziona come strumento acceleratore dato il potere che concentra nelle sue mani, mentre ciò che si diffonde in Russia è un industrialismo, ossia appunto quel processo di accelerazione della diffusione dell’economia capitalistica in virtù dell’esistente potenziale capitalista storicamente non ancora pienamente sviluppato. Tendere al capitalismo, oltretutto, da due versanti: uno – storicamente avanzato – dall’economia naturale e precapitalistica, soprattutto in agricoltura, verso il capitalismo, due – storicamente rinculante – dai settori di socialismo inferiore impiantati in forza della vittoria rivoluzionaria (trasporti urbani gratis, treni con tessera, ecc.) a mercantilismo puro (si paga in denaro qualsiasi cosa). Per “capitalismo di Stato” si deve intendere che tutte le attività economiche (nell’industria, nell’agricoltura, nei servizi, dunque sia nella produzione che nella distribuzione) sono così sviluppate da poter essere centralizzate nelle mani dello Stato e da questo dirette (come nel fascismo); il che non vuol dire che l’impresa privata non esista più, ma che lo Stato (massima espressione della difesa degli interessi generali del capitalismo, e non della somma degli interessi dei singoli capitalisti), sia in grado di gestire direttamente l’economia del paese anche nella funzione di imprenditore.

 (8) Sulla “Frazione all’estero” vedi il rapporto tenuto alla riunione generale di partito del novembre 1980 e pubblicata nella prima serie de “il comunista” nei nn. 7, 8, 9 e 10 del 1984 come «Storia della Frazione comunista all’estero».

(9) Al 1926 è stato dedicato un lavoro di partito specifico che ha prodotto il Quaderno n. 4, aprile 1980, intitolato: «La crisi del 1926 nel partito e nell’Internazionale», ancora disponibile.

(10) Amadeo Bordiga, nella famosa intervista del 1970, poco prima di morire, rispondendo per iscritto ad una delle domande che gli sottoposero gli intervistatori, affermò: “Divergendo dalle teorie elaborate da Gramsci e dai centristi del Partito italiano, noi contestammo che il fascismo potesse spiegarsi come una contesa tra la borghesia agraria, terriera e redditiera dei possessi immobiliari, contro la più moderna borghesia industriale e commerciale. Indubbiamente, la borghesia agraria si può considerare legata a movimenti italiani di destra, come lo erano i cattolici o clerico-moderati, mentre la borghesia industriale si può considerare più prossima ai partiti della sinistra politica che si era usi chiamare laica. Il movimento fascista non era certo orientato contro uno di quei due poli, ma si prefiggeva d’impedire la riscossa del proletariato rivoluzionario lottando per la conservazione di tutte le forme sociali dell’economia privata. Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemici ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’”antifascismo” che il fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; “anrifascismo” che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù, giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici”, in “Comunismo e fascismo”, edizioni Quaderni Internazionalisti, Torino 1994, pag. 320.

(11) Vedi le «Tesi supplementari sul compito storico, l’azione e la struttura del partito comunista mondiale», aprile 1966. Queste tesi sono dette anche “Tesi di Milano” perché presentate alla riunione generale di partito  del 2-3 aprile dello stesso anno tenuta a Milano, e sono state pubblicate in “il programma comunista” n.7 del 1966. Poi raccolte in volume dal titolo «In difesa della continuità del programma comunista», nr. 2 della serie «i testi del partito comunista internazionale», Firenze, giugno 1970. La citazione è dal punto 5, pag 184.

(12) Cfr. il «Tracciato d’impostazione», pubblicato nel n.1, luglio 1946, di “Prometeo”, rivista teorica del partito comunista internazionalista, raccolto poi nel volumetto pubblicato dal partito nel novembre 1974 come n.1 della serie «i testi del partito comunista internazionale». La citazione è alle pp. 17-18 di quest’ultimo.

(13) Vedi il testo «Forza violenza dittatura nella lotta di classe», pubblicato in cinque puntate nella rivista “Prometeo” fra il 1946 e il 1948, raccolto poi nel n.4 della serie «i testi del partito comunista internazionale» intitolato «Partito e classe», Milano 1972. La citazione, ripresa da questo volumetto, è alle pp. 96-97.

(14) Ibidem, p. 96.

(15) Ibidem, p. 97.

(16) Sul tema democrazia e fascismo, vedi anche il «Rapporto Bordiga sul Fascismo» al IV Congresso dell’Internazionale Comunista, 1922, in “il comunista” n. 42 (1994); l’articolo di A. Bordiga del 1921 intitolato «Che cosa è il fascismo», in “il comunista” n. 43-44 (1995); il resoconto della riunione generale del 1994 intitolata, «Democrazia e fascismo: quale lotta per il proletariato?» pubblicato ne “il comunista” nn. 48, 49-50, 56; suggeriamo anche la lettura di alcuni testi, come «Communisme et fascisme», edito dal partito nel 1970 e rieditato nel 2002, contenente una serie di articoli di A. Bordiga del 1921-1923, il Rapporto Bordiga sul fascismo ai congressi dell’I.C. sia del 1922 che del 1924 e il rapporto Gramsci al CC del PCI del 1924; la «Relazione del partito comunista d’Italia al IV congresso dell’IC , novembre 1922»  ed. Iskra, 1976, e il volumetto «Comunismo e fascismo» contenente i molti testi della sinistra comunista sul fascismo a partire dal 1921 fino al 1926, edito da “Quaderni internazionalisti”, Torino 1994.

(17) Cfr. «Partito e azione di classe», di A. Bordiga, in “Rassegna Comunista” anno I, n.4, 31 maggio 1921; poi raccolto nel testo di partito intitolato «Partito e classe», cit., pp. 37-47; la citazione è a pag. 39.

(18) Vedi il Programma del Partito comunista internazionale, in un qualsiasi numero de “il comunista” o, a partire dal n. 89, della rivista teorica di partito “programme communiste”.

(19) Vedi  il resoconto della Riunione di Roma del 1° aprile 1951, uscito ciclostilato nel “Bollettino interno” n. 1 del 10 settembre 1951, che conteneva due testi: «Il rovesciamento della prassi nella teoria marxista», e «Partito rivoluzionario e azione economica», poi raccolti in volume nel nr. 4 della serie «i testi del partito comunista internazionale», cit. Il brano ora ripreso è dal testo intitolato «Partito rivoluzionario e azione economica», alle pp. 124-5 del volume.

(20) Vedi il “filo del tempo” intitolato «Gracidamento della prassi», pubblicato nel n.11 del 1953 del “programma comunista”, poi raccolto assieme ad altri “fili del tempo” e altri materiali in un opuscolo intitolato «Classe, partito, Stato nella teoria marxista», pubblicato dal partito nel 1972, e dal quale traiamo la citazione (pp. 45-46).

(21) Vedi l’altro “filo del tempo” raccolto nell’opuscolo «Classe, partito, Stato…», cit., intitolato «Danza di fantocci: dalla coscienza alla cultura», pubblicato a suo tempo nel n.12 del 1953 in “programma comunista”; la citazione è da p. 55 dell’opuscolo.

(22) Vedi «Gracidamento della prassi», cit. nell’opuscolo «Classe, partito, Stato…», cit. p.54.

(23) Il comunicato cui ci si riferisce è stato pubblicato ne “Il Comunista” del 19 marzo 1922, ripreso poi nell’articolo «Il senso della nostra azione “esterna”» pubblicato in “il programma comunista” nn. 2 e 3 del 1976.

(24) Il testo della nuova manchette fu pubblicato a partire dal n.1 del 1976 de “il programma comunista”.

(25) Cfr. Lenin, «Stato e rivoluzione», Editori Riuniti, Roma 1981, pag. 109.

(26) Vedi «Il principio democratico», di A Bordiga, pubblicato in “Rassegna Comunista” n. 18 del 28 febbraio 1922, raccolto in volume nella serie «i testi del partito comunista internazionale», n.4, intitolato «Partito e classe»; le citazioni sono alle pagg. 56-59.

(27) Cfr le Tesi per il III Congresso del partito comunista, 1926, nel volumetto di partito intitolato «In difesa della continuità del programma comunista», Firenze 1970, punto 5 (Disciplina e frazioni) del primo capitolo “Questioni generali”, pag. 105.

(28) Cfr le Tesi sul compito storico, l’azione e la struttura del partito comunista mondiale, secondo le posizioni che da oltre mezzo secolo formano il patrimonio storico della sinistra comunista, dette anche «Tesi di Napoli», presentate alla riunione generale di partito a Napoli il 17-18 luglio 1965 e pubblicate ne “il programma comunista” n.14, Luglio 1965; poi raccolte nel volumetto intitolato «In difesa della continuità…», cit.; la citazione è ripresa dal punto 11., a pag. 180.

(29) Vedi il testo «Forza, violenza dittatura nella lotta di classe», di Amadeo Bordiga, pubblicato per la prima volta nella rivista “Prometeo” tra il 1946 e il 1948, poi ripreso nel volumetto di partito intitolato «Partito e classe», cit.; i passi citati sono alle pagg.116-117.

(30) I testi da cui abbiamo ripreso qualche passo sono: Forza violenza dittatura nella lotta di classe, Partito rivoluzionario e azione economica, Tesi caratteristiche del partito, Considerazioni sull’organica attività del partito nelle situazioni storicamente sfavorevoli, tutti già citati in questo articolo.

 

 

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