Relazione del
Partito Comunista d’Italia al IV Congresso dell’Internazionale Comunista
(marzo - ottobre 1922)
( «Lo Stato
Operaio», N° 6, Anno II, 6 marzo 1924 )
Sommario :
- Condizioni generali, economiche e politiche
- Le finanze dello Stato e dei Comuni
- Condizioni dell’industria e dell’agricoltura
- Il precipizio della lira
II. La
condizione del proletariato
- Lo sviluppo dell’offensiva capitalistica.
L’opera del P.C. tra il III e il
IV Congresso dell’Internazionale Comunista
- Il Consiglio Nazionale di Verona
- L’Alleanza del Lavoro
- La propaganda comunista
- Contro il collaborazionismo; Per un fronte unico dal basso
- Lo sciopero metallurgico di giugno
- La proposta comunista in difesa dei Sindacati
- La mozione delle sinistre sindacali
- Dopo lo sciopero dell’agosto.
- Rapporti con Partito Socialista
- La resistenza al fascismo
- Gli Arditi del Popolo
- L’Alleanza del Lavoro e dei partiti proletari
- Lo sciopero dell’agosto 1922
- L’ultimatum dei fascisti
- Le conseguenze dello sciopero.
Parte prima
I. La situazione italiana
Condizioni
generali, economiche e politiche
Se si volesse indicare in un grafico la linea attuale di sviluppo della
società italiana, bisognerebbe marcare con un tratto largo, e senza esitazione,
una obliqua discendente a precipizio. L’Italia unisce in sé infatti nella sua
crisi faticosa di dissoluzione gli elementi e le cause di rovina che, dal
momento dell’armistizio del 1918, hanno separatamente esercitata la loro
deleteria influenza nel gruppo degli Stati vincitori ed in quello degli Stati
vinti.
Uscita dalla guerra sotto il peso e con l’aureola della vittoria, che la
poneva d’un tratto al terzo posto nella scala delle potenze europee ed al quinto
fra le potenze mondiali, essa si vide obbligata al ruolo di regolatrice degli
avvenimenti internazionali coll’obbligo di crearsi e di conservarsi
un’attrezzatura adatta alla grandiosa bisogna. La pace non segnò quindi per
l’Italia la occasione propizia per alleggerire la sua pesante armatura bellica e
d’altra parte la irresolubile questione fiumana e l’eterna guerriglia libica
hanno imposta una ininterrotta parziale mobilitazione. Ma la gloria guerresca di
cui la pace di Versailles donò un lembo anche all’Italia, non servì affatto a
soddisfare il sentimento popolare che non aveva mai nutriti soverchi entusiasmi
per l’intervento del 1915, né la sciocca incapacità dei governanti e dei
diplomatici riuscì ad esaudire sia pure parzialmente le ambizioni dei gruppi
nazionalisti e l’avidità dei gruppi bancari ed industriali; cosicché il
malcontento e la insoddisfazione generale furono il fermento favorevole ad un
sol movimento come di tutte le classi e di tutti i ceti, ad una irrequietezza
ognora più grandeggiante, ad un spirito di ribellione che progressivamente andò
guadagnando strati sempre più ampi, ad un senso di sfiducia e di scoramento che
gettò nell’impotenza ed in una fatalistica attesa il ceto dirigente. Fu in un
ambiente generale siffatto che si verificarono gli avvenimenti di carattere
rivoluzionario nel periodo 1919-1921, in ordine cronologico: 1. Il movimento per
il caro-viveri con la consegna alla Camera del Lavoro, da parte dei proprietari,
dell’amministrazione dei negozi e dei magazzini; 2. Il Congresso di Bologna del
Partito Socialista con l’adesione alla Terza Internazionale; 3. Le elezioni
generali con la riuscita di 156 deputati socialisti e la loro clamorosa
dimostrazione antimonarchica, in presenza del re, durante la seduta reale
dell’inaugurazione della tornata parlamentare: l’invasione e la presa di
possesso indebita delle terre; 4. Lo sciopero generale del Piemonte con il
conseguito riconoscimento dei Consigli di fabbrica; 5. la rivolta militare di
Ancona con la sospensione immediata della guerra di Albania; 6. L’occupazione
delle fabbriche e il contemporaneo primo esperimento di armamento dei
lavoratori.
Un’apparente prosperità economica accompagnò in un primo tempo questo
succedersi di avvenimenti cui il proletariato, che aveva raggiunto una
meravigliosa potenza di organizzazione, segnava il ritorno e dettava il corso;
che dall’una parte lo Stato, nei suoi tentativi di arginare la montante marea
rivoluzionaria, conservava artificiosamente in vita con sussidi ed inutili,
ingenti ordinazioni, tutto il vasto apparato industriale sorto durante la guerra
per le necessità militari; dall’altra parte i datori di lavoro, impreparati ad
un resistenza e desiderosi solo di prolungare di qualche tempo la loro esistenza
di classe privilegiata, cedevano rapidamente ad ogni richiesta ed imposizioni di
masse. Erano i periodi nei quali i sindacati, organizzati saldamente su base
nazionale, potevano con la sola tacita minaccia della sospensione del lavoro,
ottenere continuamente aumenti di salari e vantaggi d’ordine morale: cosicché,
per esempio, le otto ore di lavoro divennero patrimonio di tutta la classe
lavoratrice senza che a tale scopo essa abbia dovuto impegnare e vincere una
battaglia particolare. Tutte le lotte avvenute in quel volgere di tempo con la
grande frequenza delle azioni sindacali, ebbero carattere e sapore schiettamente
politico ed il proletariato raggiunse tutte le sue conquiste in dipendenza della
potenza politica che egli aveva raggiunto.
In realtà, sotto l’apparente prosperità, la crisi economica maturava
rapidamente: il bilancio dello Stato si stremava sotto i pesi enormi imposti dal
continuato artificioso funzionamento delle industrie di guerra; dalla prima
creazione e poi da perfezionamento della guardia regia, vero esercito mercenario
di circa 100.000 uomini destinato nell’intenzione dei governanti a costituire
l’ultima difesa disperata contro l’attacco rivoluzionario al potere; dal
raddoppiarsi degli stipendi all’enorme folla degli impiegati statali e dei
pubblici funzionari; dal prezzo politico del pane che costava annualmente oltre
3 miliardi di lire per grano importato. E contemporaneamente l’organismo della
produzione si spezzava scompigliando la rete dei suoi rapporti e dei suoi
collegamenti per la preoccupazione degli industriali di porre in salvo
all’estero la maggior parte possibile delle loro ricchezze, per sottrarle al
pericolo di una rivoluzione e al sequestro del fisco che per evitare il proprio
sbaraglio ed accontentare la volontà popolare, stabiliva la confisca dei
profitti di guerra, la nominatività dei titoli, l’imposta sul reddito e
l’imposta sul capitale. Ed è interessante notare che, mentre questi
provvedimenti di carattere draconiano non riuscivano per nulla a sanare le
finanze dello Stato per l’incertezza della loro applicazione e per l’abilità di
elusione dei capitalisti, essi raggiungevano perfettamente lo scopo di
affrettare la rovina della economia generale per il panico che diffondevano nei
ceti abbienti dei contribuenti. Cosicché mentre l’apparenza pareva testimoniare,
per il tenore di vita delle classi più numerose, un rigoglio ed un prosperare di
tutto il tessuto economico della collettività, in realtà questo si andava
sfacendo in una rapida rovina.
Il periodo di tempo che abbiamo fin qui descritto resta dunque caratterizzato da una linea discendente rappresentante lo sviluppo progressivo della crisi dell’economia, da una linea ascendente raffigurante la potenza ingrandentesi delle classi lavoratrici, e da una terza linea declinante segnante il graduale cedimento della forza politica della borghesia.
La fine dell’anno 1920 e l’inizio del 1921 segnano un rapido e quasi inatteso mutamento nella reciproca posizione di alcune di queste forze e precisamente della efficienza e della combattività del proletariato e della classe capitalistica. Ne sono note le ragioni fra cui la incapacità e l’inettitudine del partito socialista che non seppe portare decisamente allo sbocco rivoluzionario il fatto grandioso della occupazione delle fabbriche e delle terre, con il conseguente rilassamento della forza dei lavoratori e la ripresa della capacità e della volontà di lotta della borghesia. Solo da quel momento si è iniziato l’intervento diretto e decisivo del fascismo nella storia italiana come fattore primo e sostanziale della offensiva capitalistica, ed in quel momento si viene precisando nel centro stesso dell’esercito proletario col Partito Socialista, quella contesa e quell’opporsi di frazioni e di tendenze che, sfasciandone completamente l’organismo, mentre rendeva possibile l’opera di ricostruzione di un vero e saldo partito rivoluzionario, gettava nel marasma e nell’impotenza l’organizzazione operaia per l’appunto nell’istante del maggior pericolo e della più grave minaccia. La linea discendente raffigurante nel nostro grafico la progressiva decadenza politica della classe borghese volge a questo punto, con un rapido e decisivo mutamento, verso l’alto riportandola al di sopra della mediana nella posizione di maggior forza, contemporaneamente la linea ascendente della potenza politica dei lavoratori si flette ad un tratto oltrepassando il più basso limite in precedenza toccato dalla linea dell’efficienza della classe borghese; mentre la terza linea, segnante il progressivo sviluppo della crisi economica non volge il suo tracciato ch’anzi lo inclina più ancora verso gli abissi dello sfacelo. Infatti il quasi miracoloso, provvisorio arrestarsi della rovina politica della borghesia ed il capovolgimento dei rapporti di forza fra le due classi contrastanti non ha affatto influito sul fenomeno generale dell’economia nazionale, ha proseguito il suo corso con un ritmo accelerato dallo squilibrio politico improvvisamente sopraggiunto. Ad un anno e mezzo di distanza dal riconquistato potere da parte del capitalismo e in regime di effettiva dittatura antiproletaria la situazione italiana presenta tutti i sintomi di una malattia profonda ed inguaribile che abbia ormai toccati gli stessi centri vitali dell’organismo.
Le
finanze dello Stato e dei Comuni
Il bilancio dello Stato, dopo quattro anni quasi alla fine della guerra, si
chiude con un deficit, tuttora in aumento, di 5 miliardi di lire; non sono valse
a sanarlo, e neppure a migliorarne la condizione, né l’abolizione del prezzo
politico del pane che, facendo gravare sulle classi lavoratrici per oltre 3
miliardi di nuova spesa, ha in massima parte offerti alla speculazione dei
grandi produttori agrari nazionali; né l’imposizione di nuove imposte che,
cadendo a preferenza sui generi di consumo e di uso non di prima necessità,
hanno servito esclusivamente ad abbassare il tenore di vita delle classi medie e
povere: tipiche fra le altre le imposte sui bagni, sulle lampadine elettriche,
sui medicinali, sui saponi, sui biglietti tranviari, sui generi di lusso sotto
il qual titolo generico sono compresi i brillanti e le spazzole, gli automobili
e le calze, i dolciumi ed i vestiti. Il capitalismo, forte del riconquistato
potere se ne valse immediatamente per fare sospendere ed abolire le imposte di
carattere democratico che i governi nel periodo precedente avevano decretato
sotto la pressione della volontà popolare: così avvenne nei riguardi
dell’imposta sul reddito e sul patrimonio cui venne tolto il carattere di
espropriazione di una quota parte del capitale sminuzzandola e graduandola nel
tempo, snaturandone completamente lo scopo di porre rapidamente a disposizione
dello Stato una somma importante e liquida; così si fece per la nominatività dei
titoli mutata da obbligatoria in facoltativa e resa inadatta quindi al suo
intento di impedire l’imboscamento dei quel centinaio di miliardi di lire che
investite in azioni al portatore sfuggono normalmente e comodamente ad ogni
ricerca del fisco.
Solo nell’anno corrente fu ripresa l’usanza, sancita dalla Costituzione,
della discussione parlamentare dei singoli bilanci dello Stato; e fu in questa
occasione che dalla bocca stessa del ministro delle Finanze venne resa nota la
condizione spaventosa dell’azienda statale. Ai cinque miliardi di deficit
occorre ancora aggiungere infatti oltre un miliardo di debiti nuovi accesi nel
corso dell’esercizio con l’emissione, non più controllata e libera da ogni
limite legale, di buoni del Tesoro che graveranno per il rimborso sul bilancio
dei prossimi anni; le somme impiegate per la liquidazione delle pensioni di
guerra e per la ricostruzione delle terre liberate che attendono un ipotetico
pareggio da conseguire con l’incasso della varie indennità di guerra da versarsi
dagli Stati vinti. E non bisogna dimenticare il debito pubblico ammontante da
oltre cento miliardi dei quali 1/4 costituito dai debiti all’estero, spada di
Damocle sospesa perennemente su ogni speranza e su ogni tentativo di risollevare
la condizione economica generale. Si aggiunge a tutto questo la necessità di un
intervento finanziario continuo dello Stato per evitare il fallimento ad ogni
ora incombente sulle più importanti aziende bancarie e industriali, che si
appoggiano ai gruppi politici interessati a sostenere col denaro pubblico le
loro pericolose speculazioni e preoccupati di evitare un urto troppo brusco
all’organismo dell’economia nazionale che si sorregge per miracolo.
Questa forma di attività, assolutamente sconosciuta nel passato ed ancora
ignota negli altri paesi europei ha assunto in Italia un carattere quasi di
normalità; ciò è dovuto in gran parte al fatto che in questa nazione il governo
è diventato veramente più uno strumento ed un servo di alcuni potentissimi trust
bancari che se ne contendono il possesso allo scopo di sfruttarlo per le proprie
necessità; cosicché in maniera decisa ed inequivocabile ogni uomo politico
eminente ed ogni partito politico hanno dietro di sé, nei loro giuochi serrati e
nemici, uno dei più importanti istituti finanziari con tutta la rete dei suoi
interessi e dei suoi affari. Nitti e la fallita Banca di Sconto oggi risorta
nella Banca del Credito; Giolitti e la Banca Commerciale; il Partito Popolare e
il Banco di Roma non sono avvicinamenti casuali di nomi, coppie create per
esercizio polemico, ma rappresentano, nel potente connubio della politica e
della finanza, la forma ultima assunta in Italia dal predominio dittatoriale del
capitalismo. Ne discende la conseguenza ineluttabile che lo Stato risente e
subisce tutti i contraccolpi degli avvenimenti che si verificano nell’ambiente
della speculazione bancaria e, naturalmente, ne deve pagare le spese. È notoria
l’azione svolta dal governo italiano per evitare un crack definitivo della Banca
di Sconto; è conosciuta l’opera di soccorso a favore dell’Ansaldo sull’orlo
dell’abisso; nessuno ignora il salvataggio della ILVA e il puntellamento del
Banco di Roma: episodi tutti questi che sono per la loro importanza come le
pietre miliari nella lunga serie di sovvenzioni, di sussidi, di esenzioni date
dallo Stato a spese del suo bilancio fallimentare per sostenere le sue clientele
di borsa e di mercato. Queste operazioni camuffate nei bilanci sotto forma di
partite di giro che resteranno eternamente aperte, di concessioni di mutui senza
speranza di rimborso, di rilevamenti di debiti senza garanzia di rivalsa, non
costituiscono altro, tolto l’artifizio contabile, che erogazioni a fondo
perduto, veri saccheggi eseguiti dalla classe capitalistica sulla ricchezza
dello Stato. Il quale va alla deriva, si sfianca e affonda ripercuotendo dal
centro alla periferia l’ondata della rovina. Gli organismi locali pubblici
riflettono infatti nel loro più ristretto ambito il quadro finanziario statale;
comuni e province riescono a malapena a saldare l’un con l’altro i bilanci
d’ogni mese gravandosi di debiti e mutui, e privi della possibilità di servirsi
dei cento ripieghi offerti allo Stato dai suoi poteri superiori, lasciano
decadere e mancare le funzioni più importanti a loro attribuite. Tutti i grandi
municipi hanno un deficit di qualche centinaio di milioni e non una volta sola
essi sono stati obbligati a sospendere gli stipendi dei propri funzionari.
D’altra parte la guerra civile ferocissima divampante nei 3/5 del territorio fa
sentire i suoi contraccolpi in modo rude sui comuni che vivono la loro attività
più intimamente mescolata alla popolazione che non lo Stato, che sono
quotidianamente e concretamente il palio della lotta cui ambisce il vincitore.
Di circa 3000 comuni conquistati nel 1920, nelle ultime elezioni, dai partiti
operai, oltre 2000 sono già stati militarmente conquistati dalle milizie
fasciste; ed ognuno immagina in quali condizioni si ritrovino dopo le avventure
sanguinose.
La economia pubblica è dunque in completo sfacelo ed il mondo della
produzione da cui essa trae nutrimento e vita e cui offre protezione è
conseguentemente in preda da un marasma che si potrebbe chiamare mortale.
Condizioni
dell’industria e dell’agricoltura
L’Italia è paese sfornito di materie prime: metalli, legnami, combustibili
sono importati si può dire completamente, poiché nessuna importanza hanno, di
fronte al consumo interno, i minerali di ferro dell’Isola d’Elba e di Val
d’Aosta, la lignite della Toscana ed i boschi del Trentino recentemente annesso.
Ogni grande industria italiana è quindi tributaria dell’estero, ed i prodotti
nazionali non possono in linea generale battere la concorrenza delle altre
nazioni. Ciò spiega il relativamente lento sviluppo dell’industria italiana che
era nel passato riuscita ad affermarsi solo in alcune lavorazioni specializzate
come, esempio, nell’industria automobilistica. La guerra provocò in Italia un
improvviso e meraviglioso risveglio industriale ingigantendo senza limiti gli
impianti di produzione e ogni equilibrio di prezzi era scomparso, ogni rischio
superato, ogni concorrenza annullata dalla inesauribile necessità di prodotti
bellici che lo Stato richiedeva, acquistava, pagava senza freno. Ma la fine
della guerra spezzò d’un tratto il ritmo vorticoso del lavoro: scomparso dal
mercato il cliente sicuro e docile, lo Stato, riprese in parte vigore le legge
della concorrenza; riaperte sia pure parcamente le frontiere coi luoghi di
produzione straniera; contratta la domanda di merci per la crisi generale
iniziantesi, decuplicato il costo delle materie prime da importarsi per lo
svilimento della valuta; impauriti gli imprenditori per la crescente marea
rivoluzionaria, il meraviglioso apparato industriale fiorito durante la guerra
per l’artificiosa atmosfera di sicurezza commerciale che si era formata intorno
ad esso, vide mancarsi l’impulso ed il nutrimento. Ed incominciò, dopo un certo
periodo di effimera attività suscitata dallo Stato per placare in un ingannevole
floridezza le passioni della folla tumultuante, il rapido sfacelo, il cui inizio
coincise quasi con l’occupazione delle fabbriche nel 1920.
Fallimenti, serrate; chiusura definitiva delle officine, abbandono puro e
semplice dei fabbricati e del macchinario all’opera logoratrice del tempo;
vendita a prezzo di rottame degli impianti tecnici segnarono in un crescendo
demolitore la rovina di quell’organismo che aveva per qualche anno accecato
l’orgoglio egocentrico del nazionalismo italiano. Ed in lunghe teorie miserie i
lavoratori, che il vortice operoso dell’industria di guerra aveva strappati
alla campagna e rinserrati, in un fenomeno d’urbanesimo esasperato, fra le mura
cittadine, ripresero la via dei campi e dei villaggi. Ma la campagna, come la
città, langue e non sfama. L’Italia, che non è un paese industriale per la sua
conformazione geologica, non è neppure paese agricolo nonostante la sua antica
tradizione «mater frugum»; tanto dieci secoli di guerre, di rapine,
di sfruttamento e di sgoverno ne hanno disertate le terre già fiorenti e
ricche. La «mater frugum» è tributaria all’estero di un buon sesto del suo
fabbisogno granaio ed importa dall’estero il bestiame da macello. L’importazione
industriale non è però controbilanciata dall’esportazione agricola, e dalla fine
della guerra questo squilibrio della bilancia commerciale si è enormemente
aggravato.
Non impunemente si sono sottratte dalla campagna per 4 anni milioni di
braccia.
Il precipizio della lira
Dopo la rapida esposizione che abbiamo fatta della situazione economica
italiana (finanziaria - industriale - agricola) non vi sarà più alcuno che si
meravigli quando osservi il continuo e progressivo peggiorare della valuta
italiana: la lira italiana scende verso gli abissi dove il marco e la corona
segnano già il tramonto di due capitalismi che furono tra i più potenti del
mondo. A fine settembre 1922 in una condizione di completa soggezione del
proletariato (negli anni passati si dava la colpa dello svalutamento della lira,
mai giunto però al limite attuale, all’agitazione operaia) e di effettiva
dittatura capitalistica, 100 franchi valgono 180 lire (alla pari normalmente)
una sterlina carta invece di 20 ben 100 lire, un dollaro oppone 24 lire attuali
alle 5 anteguerra, e 100 franchi svizzeri devono essere pagati con 443 lire
italiane, mentre nel 1914 la valuta italiana e l’elvetica si equivalevano.
Più che ogni descrizione queste cifre valgono ad indicare il punto rovinoso
cui è giunta la progrediente crisi del capitalismo italiano. Ogni stabilità di
prezzi è scomparsa dai mercati italiani e, se anche non si è giunti ancora al
punto della Germania e dell’Austria nelle quali di minuto in minuto muta nei
negozi il cartello delle vendite, però ogni giorno porta con sé una variazione.
Le merci aumentano di prezzo per una quantità di cause: la loro scarsità, la
mancanza di denaro liquido, l’alto corso della valuta, l’abolizione di ogni
limitazione e di ogni controllo dello Stato, la riunione dei produttori e dei
venditori in organizzazioni salde e disciplinate con la conseguente abolizione
di ogni concorrenza, ecc. All’aumento continuo del prezzo delle merci si
accompagna naturalmente la loro rarefazione: e già dai dirigenti stessi del
Commissariato degli approvvigionamenti si predice sui giornali la prossima
carestia invernale. Questo disordine dei mercati trasforma il commercio nella
speculazione ed in questa si affondano e scompaiono sempre più rapidamente
imprese ed aziende. Un indice se ne trae dai bollettini dei protesti cambiari e
dagli elenchi dei fallimenti. Mentre negli anni passati questi si erano ridotti
al minimo ancora di quello degli anni precedenti la guerra, nel 1922 essi si
sono quadruplicati nei confronti del 1921 come risulta dai dati esposti, con
commenti preoccupanti dalla Camera di Commercio di Milano.
In stretta connessione con questo stato del commercio sono le condizioni
disastrose delle ferrovie, il cui bilancio presenta un deficit di oltre un
miliardo nell’esercizio 1921-22; lo stato di inattività dei porti italiani in
gran parte inoperosi, ed il disarmo della flotta mercantile effettuato nella
proporzione, ancora aumentante, di oltre il 50%. Si può qui a titolo di
curiosità e di esempio, rammentare che il porto di Trieste, già primo emporio
commerciale dell’Adriatico, e fra i primi del Mediterraneo, è ridotto dalla sua
unione all’Italia, ad una rada semideserta dove rari piroscafi attraccano,
carichi di merci destinate quasi solamente ai nuovi stati sorti dallo
smembramento dell’impero austro-ungarico.
II. La
condizione del proletariato
Lo sviluppo dell’offensiva capitalistica
Non vi è forse in Europa presentemente una nazione nella quale le masse
lavoratrici si trovano nella disperata situazione in cui giace il proletariato
italiano. Colpito contemporaneamente dalle conseguenze economiche della crisi
generale (disoccupazione, diminuzione dei salari, caro-viveri, mancanza di
alloggi) e dalla reazione cosciente ed organizzata della classe borghese e dello
Stato, egli sta attraversando un periodo più pauroso della lunga storia della
sua emancipazione. E tanto più angosciosa è questa condizione di impotente
soggezione in quanto che essa è succeduta immediatamente alla potenza
incredibile cui il proletariato era assurto fino al 1920.
Due ordini di fatti hanno condotto a questo punto: l’offensiva capitalistica
e la crisi del Partito Socialista, l’una concatenata all’altra, reciprocamente
causa ed effetto, ma diversamente martellanti sulla compagine organizzativa del
proletariato.
L’offensiva capitalistica trovò il suo inizio verso la fine del 1920 e si
manifestò dapprima in due distinte forme a seconda del terreno su cui si mosse:
e così le regioni agrarie videro sferrarsi i primi attacchi sanguinosi del
fascismo (Bologna 21 novembre 1920, Ferrara dicembre 1921) mentre nei centri
industriali la tattica dei licenziamenti principiò a scompaginare la forza
operaia. Le due forme della offensiva furono suggerite dal modo con cui si era
costituita nei due campi della produzione la potenza del proletariato, dai
rapporti che si erano formati nel suo interno e fra la massa e gli altri ceti
sociali, dagli aspetti della sua organizzazione, dalla psicologia diversa dei
lavoratori agricoli e di quelli industriali. L’offensiva capitalistica ha
veramente assunto in Italia la sua perfezione, valendosi e sfruttando ogni
particolare della situazione, non già affidata allo Stato, cieco organismo
pesante e macchinoso ed all’iniziativa dei singoli slegata e confusa, ma diretta
e condotta con scientifici criteri dalle organizzazioni della classe borghese
riunita nazionalmente in forti sindacati industriali ed agrari. La
Confederazione Generale dell’Industria, cui aderisce la quasi totalità degli
industriali, divenne il Comando Supremo della guerra antiproletaria, mentre la
federazione dei proprietari agrari fu la sostenitrice diretta ed aperta del
sorgente esercito fascista; sono noti gli episodi delle due guerre contemporanee
ed intrecciantesi: i larghi licenziamenti quotidiani di migliaia di operai,
privanti ad un tratto le maestranze dei loro elementi più coscienti e
combattivi, indebolenti rapidamente le organizzazioni sindacali cui sfugge il
controllo dei disoccupati, provocanti la formazione di eserciti di miserabili
pronti a vendere per un boccone di pane la loro forza lavorativa. Contro i
licenziamenti le maestranze oppongono la difesa dello sciopero al quale gli
industriali, decisi a giocare il tutto per tutto, risposero con le serrate degli
stabilimenti. Sono noti i particolari di queste lotte condotte dalla massa sotto
l’impressione radicata della delittuosa ritirata del 1920, con la sfiducia nei
capi e secondo la tattica disfattista di questi miranti a sminuzzare in infiniti
piccoli episodi locali l’azione unitaria e generale del proletariato: qui è
sufficiente notare che l’attacco capitalistico riuscì vincitore su tutta la
linea, e che l’offensiva contro i salari raggiunse ovunque la sua meta: la loro
diminuzione, raggiungente in alcuni luoghi il 60 e il 70%, ha toccato per tutte
le categorie di lavoratori una media del 25%. Questo risultato disastroso della
lotta si è ripercosso terribilmente sull’efficienza dei sindacati i quali hanno
visto più che dimezzarsi i loro effettivi; basti dire che la Confederazione
Generale del Lavoro è scesa da circa due milioni e mezzo di aderenti nel 1920 a
poco più di 800.000 nel corrente anno 1922.
E mentre nelle regioni industriali si svolgeva in queste forme, nelle
regioni agricole la ripresa borghese assumeva gli aspetti ben noti della guerra
civile aiutata, favorita, protetta dallo Stato. Il crollo delle forze
proletarie fu qui più rapido ancora che nelle regioni industriali; già sul finire
del 1920 alcune fra le province dove i lavoratori avevano raggiunto più
perfezionate forme di organizzazione, come Bologna, Ferrara, Rovigo, erano
state completamente conquistate dal fascismo. E in progressione di tempo tutta
l’Emilia, la Toscana, la Puglia, gli Abruzzi, la Romagna, parte del Piemonte e
della Lombardia, le terre più ricche d’Italia quelle in cui la rete delle leghe
e delle cooperative si era stesa più salda e più fitta, furono sommerse dal
fiotto sanguinoso della reazione: la Federazione dei Lavoratori della Terra già
forte di un milione di aderenti è oggi ridotta a meno di 200.000. Sconfitto il
proletariato e sconvolte le sue file, fu così facile per la borghesia passare
direttamente all’offensiva antisindacale: il diritto di organizzazione se non
di nome, certo di fatto, venne tolto violentemente ai lavoratori uccidendo i
dirigenti dei Sindacati, distruggendone le sedi, rifiutando, ove ancora
esistono, di riconoscerli nelle controversie come rappresentanti della massa,
creando, in loro concorrenza, altre sedicenti organizzazioni sottoposte agli
ordini e alle disposizioni del padronato. E questa opera perseguita con
particolare accanimento dalla borghesia è stata in ogni modo facilitata dal
pauroso estendersi della disoccupazione, in parte provocata dalla generale
rovina dell’economia, in parte perseguita dalla tattica industriale di
asservimento del proletariato.
III. La
disoccupazione
L’Italia nei tempi precedenti la guerra ha sempre avuto contro la
disoccupazione un rimedio eccellente e sovrano: l’emigrazione. Ogni anno circa
mezzo milione di proletari abbandonava il paese cercando stabilmente all’estero
dimora e lavoro; circa 3/5 di questo immenso fiotto umano si dirigeva verso
l’America dove formava grandiose colonie nazionali, specialmente negli Stati
Uniti. La guerra arrestò il flusso emigratorio che non riebbe libertà di corso
neppure con la pace sopraggiunta, e quando, dopo tre o quattro anni, le vie
normali di relazione fra gli stati si riaprono e lo sfogo tradizionale della
esuberante popolazione italiana si presentò possibile, la nuova legislazione
americana sull’emigrazione venne d’un tratto e definitivamente a vietarlo ed
ostruirlo. Con le disposizioni entrate in vigore nel corrente anno non oltre
50.000 italiani possono ottenere annualmente l’entrata negli Stati Uniti: tali
cifre, già insufficienti per gli anni normali di attività economica ordinata e
di vasto assorbimento locale di manodopera, si presenta nella attuale situazione
di disoccupazione dilagante come effetto visibile e senza efficacia per le
necessità italiane.
All’inizio del 1922 le statistiche ufficiali davano una cifra di mezzo milione di disoccupati in tutto il paese; al 1° maggio essi erano discesi a 432.372 ed al 1° giugno 410.127 (industrie minerarie ed edilizie 190.549, agricole 95.532, metallurgica 38.277, tessili 42.379 ecc.), ma ove si tenga conto dei sistemi di registrazione in vigore, di carattere facoltativo non obbligatorio, si comprenderà come tale cifra rappresenta una parte soltanto dei senza lavoro. Le stesse comunicazioni ufficiali che fornivano i dati su riferiti avvertivano infatti prudentemente che riferendosi essi al periodo nel quale gli intensi lavori agricoli assorbono provvisoriamente grande quantità di mano d’opera non occorreva assumerli con piena credibilità, ma occorreva al contrario portare a circa un milione i disoccupati nell’inizio dell’estate. La condizione dei senza lavoro italiani è spaventosa, esistendo nel paese una forma imperfetta ed inadeguata di assistenza. Se si escludono alcune istituzioni di previdenza mutua di carattere volontario e le casse di disoccupazione organizzate internamente in certi sindacati l’unica forma di aiuto viene alla grande maggioranza offerta dall’assicurazione statale contro la disoccupazione. Hanno diritto a questa, per un periodo massimo di 90 giorni annui, quei lavoratori che hanno in regola l’apposita tessera comprovante il puntuale pagamento delle quote cui devono concorrere, operaio, industriale, Stato. Ma poiché una parte di industriali e di operai, gli uni per speculazione, gli altri per ignoranza, eludono la legge dell’obbligatorietà dell’assicurazione, molti disoccupati restano privi anche di questa limitatissima forma di assistenza. Per comprendere la insufficienza di questa, bisogna porre mente al fatto che la disoccupazione attuale non è saltuaria e contingente, ma ha un carattere di normalità e di continuità dipendente dal rimpicciolimento definitivo dell’apparato industriale e non soltanto da una transitoria contrazione dei mercati e del consumo. Non si presenta quindi come possibile la trasposizione della mano d’opera dall’una all’altra fabbrica, dall’una all’altra regione, dall’una all’altra industria, ma l’espulso del lavoro è condannato ad un’inerzia che si prolunga per mesi e per anni.
La miseria da ciò riceve un impulso formidabile: prova ne è il continuo
aumento dei depositari ai monti di pietà, il verificarsi frequente dei morti per
inedia, ecc.
Mancano in Italia da qualche anno le statistiche ed i censimenti, ché
l’organismo dello Stato in sfacelo non riesce più ad esercitare quest’opera
elementare e necessaria di rilievo e di controllo, ma l’osservazione empirica
della situazione fornisce ad ognuno queste notizie generali. Riesce impossibile
esporre in modo preciso, ad esempio, il continuo alzarsi dei numeri indici dei
prezzi dei generi di prima necessità, ma ciononostante, le esperienze personali
di ciascuno permettono di constatare il famoso aumento dei viveri, dei vestiari,
delle abitazioni.
La vita costa in Italia oltre cinque volte più dell’anteguerra; e quando si
ponga in rapporto questo fatto con la diminuzione dei salari o con la
disoccupazione dilagante si comprenderà che non vi è esagerazione nell’affermare
che il proletariato italiano scende in questo tempo negli abissi della
disperazione.
(«Rassegna Comunista» - 31 ottobre 22).
Parte seconda
L’opera del P.C. tra il III e
il IV Congresso dell’Internazionale Comunista
Attività
sindacale
La posizione tattica del Partito Comunista d’Italia nell’attuale situazione
del movimento sindacale italiano, si definisce in rapporto a tre principali
punti: l’unità sindacale, i rapporti internazionali, l’azione di resistenza e di
riscossa contro l’offensiva capitalistica e contro il fascismo.
Il 15 agosto 1921, di fronte allo sviluppo dell’offensiva capitalistica ed
alla manifesta impotenza della tattica seguita dai riformisti dirigenti la
C.G.L. a difendere i lavoratori dall’attacco padronale, il Comitato Sindacale
Comunista, con una lettera diretta alla C.G.L., al Sindacato Ferrovieri e alla
U.S.I., proponeva la costituzione del fronte unico proletario sul terreno
sindacale, e lo sciopero generale nazionale in difesa della classe lavoratrice.
La risposta pervenuta dalla C.G.L. riflette chiaramente fino a qual punto i
riformisti italiani, come i loro compagni degli altri paesi, abbiano rinnegata
la causa proletaria e si siano posti al servizio della borghesia: essi
tacciarono di demagogia e di incoscienza la proposta comunista.
Il Sindacato Ferrovieri e l’U.S.I. pur dichiarandosi favorevoli al fronte
unico non hanno però neppure essi presa in seria considerazione il nostro
invito. La questione fu portata dai comunisti direttamente fra la massa, nella
quale trovò le maggiori simpatie. Contemporaneamente si chiedeva alla C.G.L. di
discutere le nostre proposte in un Congresso nazionale. Numerose organizzazioni
sindacali, pur non essendo dirette da comunisti, accettarono la proposta
comunista.
Il Consiglio Nazionale di Verona
Frattanto, nei giorni 7 e 8 settembre si teneva a Milano un convegno nazionale delle organizzazioni su direttiva comunista. Un centinaio di delegati rappresentanti oltre 50.000 organizzati nella C.G.L. e nel Sindacato Ferrovieri, convennero da ogni parte d’Italia. Vennero ampiamente discusse questioni di organizzazione e fissate le direttive dell’azione dei comunisti in seno alle organizzazioni proletarie.
La campagna per il fronte unico proseguiva. Dietro richiesta di numerose
organizzazioni aderenti, il Consiglio Direttivo della C.G.L. fu costretto a
convocare il Consiglio Nazionale, che si tenne a Verona nei primi giorni di
novembre del 1921. Questione centrale intorno alla quale si svolse la
discussione, fu quella del fronte unico e dello sciopero generale nazionale,
come più valida forma di lotta contro la offensiva capitalistica. Contro tale
proposta si schierarono quasi tutti i burocrati sindacali della C.G.L. Il
risultato delle votazioni fu il seguente:
– Camere del Lavoro: Mozione comunista: voti 246.402; Mozione socialista:
voti 612.653;
– Frazioni di mestiere: Mozione comunista: voti 169.310; Mozione socialista:
voti 813.868.
Devesi rilevare che la votazione avvenne in base al numero degli
organizzati esistenti alla fine del 1920. Ciò ha avuto la seguente conseguenza:
che mentre molte organizzazioni ebbero modo di pesare nelle votazioni a favore
della mozione confederale, votando per un numero di soci molto maggiore del
reale, numerose organizzazioni sorte nel 1921 ed aderenti alla proposta
comunista non poterono far valere la loro forza nel voto. Tipico l’esempio
della Federazione dei Lavoratori della terra che votò per 850.000 iscritti,
tanti quanti erano nel 1920, mentre all’epoca del Consiglio Nazionale
Confederale non ne contava che 200.000.
L’Alleanza del lavoro
Ma nonostante tutti gli ostacoli e tutti gli impedimenti, la pressione delle
masse spinge inesorabilmente verso il fronte unico. La costituzione della
Alleanza del Lavoro fra le cinque maggiori organizzazioni sindacali nelle quali
è diviso il proletariato italiano, fu un passo notevole verso la costituzione
del fronte unico.
La posizione del nostro Partito di fronte alla Alleanza del Lavoro,
definita in pubbliche dichiarazioni, fu la seguente: denunziando anzitutto il
pericolo che gli opportunisti se ne facessero un mezzo per coprire con una
maschera di popolarità la politica di collaborazione borghese, accettare però,
e riconoscere il centro direttivo della Alleanza, impegnando l’azione di tutte
le forze sindacali comuniste alla disciplina verso le disposizioni che quel
centro emanasse. Condurre, però, contemporaneamente, nel seno delle masse e
servendosi della rete sindacale del Partito, ed anche invitando a porsi sullo
stesso terreno gli elementi sindacalisti ed anarchici, una campagna per questi
punti fondamentali:
a) - Il fronte unico deve essere organizzato su di una vasta rappresentanza
delle masse, con comitati locali eletti in tutti i sindacati, e attraverso
l’iniziativa di un grande convegno nazionale sindacale, eleggendo un organismo
direttivo a cui partecipino tutte le frazioni sindacali proletarie, su di una
chiara piattaforma comune;
b) - Più che una semplice intesa fra gli uffici delle grandi centrali
sindacali, il fronte unico deve essere una alleanza di tutte le categorie
proletarie e di tutte le Camere del lavoro locali, che reciprocamente si
impegnino alla fusione in una sola battaglia di tutte le vertenze parziali che
l’offensiva padronale solleva;
c) - Devono essere stabiliti i postulati da difendere con questa azione
solidale di tutto il proletariato, fra i quali deve primeggiare la difesa della
esistenza e della funzione dei sindacati e il mantenimento del livello del
salario e il tenore di vita proletario;
d) - I mezzi di azione da adoperarsi in comune non devono avere come
piattaforma la politica parlamentare statale, ma restare sul terreno della
azione diretta sindacale di pressione sulla borghesia e sullo Stato, usando come
mezzo centrale e decisivo lo sciopero generale nazionale.
I capisaldi da stabilire a base di una dichiarazione di alleanza, dovevano dunque corrispondere a quelli avanzati più volte dai comunisti nella nota lettera aperta del Comitato sindacale e nella mozione di Verona.
Il grave problema della disoccupazione, considerato in prima linea fra
questi postulati, fu oggetto di agitazioni di massa dirette dai comunisti, i
quali dimostrarono di poterlo e saperlo impostare rivoluzionariamente, nel
campo dei problemi che interessavano i lavoratori.
La
propaganda comunista
Non è necessario soffermarci in modo particolare sull’attività svolta dai
comunisti in ciascuno dei congressi nazionali professionali, per il fatto che il
carattere centralizzato della lotta contro i socialdemocratici determina un
unico piano d’azione per tutti i comunisti, qualunque sia l’organismo sindacale
nelle cui file essi militano.
Il nostro Partito ha intrapreso dal primo momento della sua costituzione un
intenso lavoro sindacale. Ma il problema di raggiungere con la nostra propaganda
le masse controllate dai socialisti e dagli anarchici si presentò subito a noi e
fu praticamente risolto, prima ancora di possedere i dati del III Congresso
mondiale e del Congresso dei Sindacati Rossi. Lo studio della situazione
italiana ci dettò il nostro piano tattico, che non seguimmo incoscientemente, ma
tracciammo e lanciammo tra le masse tenendo conto, naturalmente, delle
disposizioni e tendenze di queste.
La storia della accoglienza data alla nostra proposta dell’agosto 1921 si
riassume in poche parole: ostruzionismo dei capi sindacali, simpatia sempre
crescente delle masse. Con questa proposta noi divenivamo gli iniziatori del
fronte unico proletario, e nello stesso tempo non interrompevamo ma
intensificavamo il nostro lavoro per strappare posizioni ai socialisti e agli
anarchici.
Lo spirito della proposta comunista fu pienamente compreso fra le masse:
esse capirono che l’azione parziale di gruppi non avrebbe riportato successo
contro l’offensiva borghese, che si imponeva l’affasciamento di tutte le
vertenze che l’offensiva della borghesia solleva.
Fu lo sviluppo della nostra campagna che portò alla formazione
dell’Alleanza del Lavoro. L’iniziativa ne fu presa nel febbraio dal Sindacato
Ferrovieri che, prima di convocare i sindacati, volle convocare i partiti al
solo scopo di informazione sulla proposta di alleanza dei Sindacati. Tanto è vero
che non furono i partiti presenti a detta adunata che ebbero diritto a una
rappresentanza del C.C. dell’Alleanza. Noi non partecipammo alla riunione. Il
nostro intervento avrebbe portato ad un contrasto di opinioni insanabili, senza
gravissime concessioni di principio da parte nostra, e l’Alleanza non sarebbe
sorta. Noi infatti non avremmo potuto sottoscrivere il comunicato equivoco e
pacifista uscito dalla riunione dei partiti. Ci limitammo a mandare ai
ferrovieri una lettera dicendo che eravamo stati noi gli iniziatori
dell’Alleanza sindacale, e che questa avrebbe potuto contare sulla disciplina
dei comunisti.
Contro
il collaborazionismo
La iniziativa dei ferrovieri coincideva con la crisi ministeriale tra il
Gabinetto Bonomi e quello Facta. Fu evidente che i socialisti volevano allora
formare un blocco proletario per servirsene allo scopo di premere per un
ministero «di sinistra». La posizione indipendente del partito come
tale aveva l’obiettivo di permetterci di lottare contro questo piano attaccando
anche il C.C. dell’Alleanza del Lavoro se avesse deviato dagli scopi
dell’Alleanza stessa, senza per altro romperne le compagine della disciplina
come coalizione di organizzazioni di masse. Il piano del «governo
migliore» in Italia si esplicò con una propaganda disfattista in mezzo
alle masse, poiché lo si presentò come un mezzo per eliminare il fascismo e la
reazione, invitando il proletariato a desistere da ogni resistenza attiva. La
tattica che ci si impose fu quella della nostra indipendenza e della nostra
costante opposizione rispetto a questo piano. La costituzione dell’Alleanza era
una concessione allo spirito dell’unità di azione che aveva guadagnato le
grandi masse, concessione che dagli elementi di destra era stata fatta appunto
per diminuire la pressione di queste e dilazionare il momento in cui l’azione
si sarebbe imposta. Dovevamo lottare contro il pericolo che l’Alleanza
addormentasse le masse nella inazione. Quindi nel fronte unico ci occorreva non
una posizione di compromesso reciproco che vincolasse la nostra azione ad una
formula comune, ma una assoluta libertà di azione e di propaganda, senza poter
essere ricattati ogni giorno da una minaccia di rottura.
Condotti socialisti ed anarchici a compiere il passo irrevocabile
dell’Alleanza sindacale, che si esplica in convocazioni di comitati e comizi di
masse, abbiamo dettato le direttive per una propaganda sistematica, tendente ad
agitare il contenuto effettivo d’azione che secondo di comunisti doveva essere
dato alla Alleanza. In un manifesto del marzo ne riassumemmo i capisaldi. Per
gli scopi ponemmo avanti una serie di rivendicazioni concrete contro le
manifestazioni sia economiche che politiche dell’offensiva, tra cui in prima
linea quello che i socialisti non accettano: rifiuto delle riduzioni salariali.
Per i mezzi: lo sciopero generale nazionale. Per l’organizzazione dell’Alleanza
chiedemmo che essa venisse allargata sulla base della rappresentanza diretta
delle masse, con vasti comitati locali nei quali fossero rappresentati tutti i
sindacati, e con la convocazione di un congresso nazionale dell’Alleanza del
Lavoro.
Per un fronte unico dal basso
Nel comitato nazionale dell’Alleanza chiedemmo anche direttamente a mezzo
del comitato sindacale comunista, che le delegazioni di ciascun organismo
sindacale non fossero composte di soli funzionari della centrale, ma nominate
con criterio proporzionale alle frazioni in cui ciascun sindacato è diviso. Se
tale proposta fosse stata accettata, sarebbero entrati nel comitato i comunisti
in rappresentanza dell’U.S.I., delle minoranze confederali e del Sindacato
Ferrovieri, i sindacalisti favorevoli all’Internazionale dei Sindacati Rossi. Si
sarebbe così avuta una maggioranza contro i socialisti nell’Alleanza del Lavoro,
composta da comunisti, sindacalisti e anarchici. Il rifiuto di tale proposta ci
ha permesso di fare una campagna contro il settarismo degli altri e la loro
opera di siluramento dell’unità. Un rapporto dettagliato dell’attività sindacale
del nostro Partito viene presentato dalla delegazione italiana al II Congresso
del Profintern.
L’attività sindacale del Partito è di duplice aspetto: organizzativa,
nel senso che essa ha mirato a rafforzare ed a estendere i gruppi comunisti nei
sindacati, ed a portare il pensiero del partito attraverso questi dinnanzi alle
masse; diretta, per quanto gli organismi sindacali nelle mani del
Partito hanno fatto nelle varie occasioni in cui le masse organizzate furono in
agitazione. In occasione del Congresso dell’Internazionale di Amsterdam a Roma,
il nostro Partito, attraverso di suo comitato sindacale, aveva preparato una
serie di sessanta comizi pubblici, nei quali oratori comunisti avrebbero dovuto
spiegare il programma della I.S.R., ed accusare i traditori gialli. Migliaia di
manifesti, edizioni straordinarie dei giornali, avrebbero dovuto completare la
nostra campagna. In occasione della gita a Tivoli dei congressisti, offerta
dalla C.G.L. d’Italia, migliaia e migliaia di manifesti erano stati affissi a
Tivoli (allora quel comune era in nostre mani) nei quali erano scritte severe
espressioni di disprezzo agli ospiti. In tale occasione era stato predisposto
che il redattore capo de «Il Comunista» compagno Palmiro Togliatti,
tenesse una conferenza a Tivoli. Tutta questa nostra preparazione fu annullata,
non appena il compagno Bordiga ci fece conoscere da Berlino che la riunione
delle tre Internazionali imponeva la necessità di attutire in un primo tempo
l’attacco comunista alle altre due Internazionali.
Lo sciopero metallurgico di giugno
Notevole la posizione predominante assunta dai comunisti nell’importante
sciopero metallurgico del giugno 1922. Nel convegno metallurgico che seguì dopo
17 giorni di sciopero e che si tenne a Genova, i comunisti riportarono 39.000
voti (contro 44.000 avuti da tutte le altre frazioni socialiste – meno la
terzinternazionalista – assieme a 17.000 astenuti) sulla proposta di estendere a
tutte le categorie lo sciopero. Le grandi agitazioni operaie che continuamente
scoppiarono nella primavera e nell’estate 1922 diffondevano nella massa il
concetto dello sciopero generale. La reazione sempre maggiormente intensa, e il
dissidio verificatosi in seno al Partito Socialista a proposito del
collaborazionismo, indussero il Consiglio Direttivo Confederale a convocare il
Consiglio Nazionale nei giorni 3-4-5-6 luglio.
La nostra posizione sindacale, in tale occasione emersa, non può essere
considerata sulla sola base delle cifre dei voti. Questi sono i risultati di
imbrogli abominevoli. In una nostra relazione del 23 luglio, noi esaminavamo la
portata del voto. Nella preparazione del C.N. noi avevamo guadagnato parecchi
sindacati, e le Camere del lavoro di Trento, Roma, Ravenna, Como, Vercelli,
Aquila, ed altre minori.
La proposta Comunista in difesa dei Sindacati
Altrove diciamo dello sciopero generale della situazione nuova venutasi a
creare. Oggi il compito preciso è quello di salvare i sindacati dal pericolo di
un ulteriore disgregamento, che la reazione accelera con un martellamento senza
fine, e di impedire che il sindacato perda i suoi connotati classisti. A tal
proposito il nostro Comitato Sindacale avanzò recentemente la seguente lettera
alle frazioni di sinistra dei sindacati:
Milano, 6 settembre 1922
Al Comitato Sindacale terzinternazionalista
Al Comitato Sindacale massimalista
Al Comitato Sindacale della frazione sindacalista
dell’U.S.I.
All’Ufficio Sindacale dell’Unione Anarchica Italiana
Al Comitato Massimalista Ferroviario.
Cari compagni,
La situazione presente del movimento sindacale italiano
ci spinge alla seguente iniziativa, per il successo della quale non dubitiamo
del vostro efficace concorso.
Il pericolo che sovrasta in questo
momento alle organizzazioni di classe del proletariato non è solo quello della
reazione statale e fascista che i prefigge di stroncarle con la violenza.
Un’altra insidia si delinea sempre più, proveniente dai capi stessi di una
parte del proletariato organizzato, che vorrebbero incanalare i sindacati su
vie e metodi nei quali si snaturerebbe il loro carattere di classe.
Equivoche forme collaborazioniste e borghesi vengono da
più parti affacciate sotto il nome di sindacalismo nazionale, di movimento
operaio entro il campo degli organismi nazionali; e questo piano non significa
altro che il proposito di togliere ai sindacati ogni efficienza rivoluzionaria
e perfino ogni effettiva capacità di lotta contro il padronato nelle stesse
contese economiche.
Si tende per tal modo al siluramento del fronte unico e
dell’Alleanza del Lavoro e a rendere impossibile ogni schieramento delle forze
proletarie sul terreno della lotta diretta contro la reazione e contro il
fascismo, con i quali stessi si giungerà in ultima analisi a patteggiare, prima
una resa vergognosa, poi una effettiva alleanza.
Simili propositi non debbono riuscire a realizzarsi: ad
essi tutte le forze sane del movimento proletario devono opporre le gloriose
tradizioni rosse di questo, la insopprimibile ragione della lotta di classe, la
salda speranza delle masse nell’abbattimento del regime capitalistico.
A tale scopo noi
riteniamo che le varie tendenze sovversive militanti nel campo sindacale,
restando nettamente distinte e serbando libertà d’azione non solo per quello
che è il loro programma politico, ma anche nelle loro particolari vedute su
dati problemi di tattica sindacale, possano e debbano stringere fra loro una
intesa leale per la difesa delle posizioni comuni a quanti sono per la causa
della lotta emancipatrice del proletariato.
Questi punti, su cui una intesa dovrebbe effettuarsi con
l’impegno reciproco di coalizzarsi nelle loro affermazioni in tutte le adunate
proletarie e i congressi sindacali, sono, a nostro modo di vedere, i seguenti.
Le organizzazioni sindacali devono essere indipendenti da ogni influenza dello
Stato borghese e dei partiti della classe padronale, e la loro bandiera deve
essere la liberazione dei lavoratori dallo sfruttamento padronale. Il fronte
unico proletario per la difesa contro l’offensiva padronale deve essere
mantenuto e rinnovato nell’Alleanza del Lavoro, stretta fra le organizzazioni
tra cui sorse e resa tale nella sua costituzione da rispecchiare le forze e la
volontà delle masse.
Noi quindi vi invitiamo ad un convegno, nel quale una
comune dichiarazione da lanciare al proletariato italiano suggellerebbe una
simile intesa, e darebbe a tutte le forze classiste una chiara piattaforma
comune di propaganda e di agitazione, suonando severa rampogna ai pochi che
tentennano e defezionano nell’ora del pericolo.
Per tale modo si opererà potentemente al fine di salvare
la rossa bandiera della classe proletaria da oblique insidie come dalla bufera
della violenza reazionaria, e di stringere i vincoli dell’unità del fronte del
proletariato contro la reazione borghese.
Siamo ben certi di ricevere la vostra adesione alla
convocazione del convegno tra le delegazioni degli organismi a cui la presente
lettera è indirizzata e di quelli che la sottoscrivono, riservandoci di farvi
noto il luogo e la data di convocazione.
In tale fiducia vi porgiamo il nostro saluto.
Il Comitato Sindacale Comunista
Il Comitato Comunista Ferroviario.
Il giorno 8 ottobre si tenne a Milano il convegno delle
sinistre sindacali. Erano presenti: i rappresentanti del Comitato Sindacale
Comunista, del Comitato Sindacale Social-massimalista, del Comitato comunista
Ferroviario, della Frazione Sindacalista Rivoluzionaria (Vecchi). Poiché
l’U.S.I. è diretta da sindacalisti anarchici, desiderando l’intervento dei
dirigenti attuali dell’U.S.I. dal convegno fu inviata una lettera al Comitato
Sindacale del Partito Anarchico. L’Ufficio di corrispondenza dell’Unione
Anarchica aveva risposto con una lettera nella quale, fra l’altro, era detto:
«In quanto alla difesa del movimento operaio dalle perniciose
infiltrazioni collaborazioniste da un lato e nazionaliste dall’altro, noi siamo
in linea di massima perfettamente d’accordo, anzi pensiamo che esso debba
essere mantenuto indipendentemente da qualsiasi governo e da qualsiasi partito
politico».
Il contenuto della lettera era dunque di adesione al convegno. Ma saranno
fatti da parte nostra altri passi per impegnare possibilmente in maniera più
stretta gli anarchici che dirigono organismi sindacali alla difesa dei
«punti» approvati nel convegno dell’8 ottobre a Milano.
La
mozione delle sinistre sindacali
In detto convegno fu approvata la seguente mozione:
«I rappresentanti del Comitato Sindacale Comunista, del Comitato
Sindacale Socialista, del Comitato Comunista Ferroviario, della Frazione
Sindacalista Rivoluzionaria dell’U.S.I., riuniti a convegno il giorno 8 ottobre
1922, esaminata la situazione del movimento sindacale italiano, convinti che
nell’interesse e per la salvezza del proletariato italiano sia indispensabile
difendere con una azione risoluta e concorde i punti seguenti:
1) - Le organizzazioni sindacali dei lavoratori devono rimanere
indipendenti da ogni influenza e controllo dello Stato borghese e dei partiti
della classe padronale, loro programma e loro bandiera deve essere la lotta per
l’emancipazione dei lavoratori dallo sfruttamento capitalistico, le loro file
devono essere aperte ad ogni propaganda delle idealità rivoluzionarie del
proletariato.
2) - Il fronte unico proletario per la difesa e la riscossa contro le
molteplici manifestazioni della offensiva borghese deve essere mantenuto nella
forma dell’Alleanza del Lavoro, stretta fra tutti gli organismi classisti del
proletariato, ma organizzata in modo che essa sia deliberante a voto
maggioritario e assicuri la più fedele consultazione e rappresentanza
proporzionale per ogni sindacato aderente delle frazioni che militano nel seno
del medesimo e anche come necessaria preparazione alla auspicata definitiva
fusione in un sola di tutte le organizzazioni di classe dei lavoratori
italiani.
Convinti che ogni manovra tendente sotto varie formulazioni ad intaccare
questi capisaldi, con voler raffrenare l’azione sindacale entro i limiti delle
istituzioni borghesi, escludere la propaganda e l’azione dei partiti estremi dai
sindacati, legalizzare l’opera e l’attività di essi sullo stesso piano delle
corporazioni dei ceti abbienti per una pretesa collaborazione ricostruttiva
della economia, ammainare il glorioso vessillo rosso emblema delle altissime
tradizioni delle organizzazioni classiste italiane, corrisponde al tentativo
reazionario di stroncare la lotta di classe, rendere impossibile ogni resistenza
economica dei salariati, e avvilire ad un livello schiavistico il tenore di vita
delle classi lavoratrici per consentire alle classi sfruttatrici di consolidare
le basi compromesse del loro dominio: impegnano tutte le forze aderenti agli
organismi convenuti, pur differenziandosi nel sostenere particolari punti di
vista circa altri problemi di tecnica e politica sindacale, a coalizzarsi per
l’affermazione e la difesa dei capisaldi suddetti, in tutte le adunate e
convegni, congressi dei sindacati e convocazioni comuni a vari sindacati, contro
proposte e atteggiamenti che tali capisaldi tendessero a ledere, e a provocare,
con una attiva campagna, dalle adunate proletarie, voti che esigano dagli organi
centrali dei sindacati nazionali la ripresa dei contatti per la riorganizzazione
immediata dell’Alleanza del lavoro».
Dopo
lo sciopero dell’agosto
In seguito all’approvazione di tale mozione noi tendiamo a mettere sul
tappeto della discussione la immediata intesa per la ricostruzione dell’Alleanza
del Lavoro, che dopo lo sciopero dell’agosto fu dai capi riformisti ed
opportunisti spezzata, ed a sostenere i concetti classisti del Sindacato che una
corrente di destra tenterebbe di distruggere.
La intensa opera di propaganda e di organizzazione comunista, compiutasi
nel seno dei sindacati classisti italiani, sollevò l’offensiva dei dirigenti
socialisti, anarchici e sindacalisti contro di noi. Una campagna di
diffamazione fu aperta contro il presunto intendimento dei comunisti di
dissolvere i sindacati, che è una parola d’ordine dei mandarini di ogni paese
contro l’attività comunista. La campagna dette una maggior vivacità alla lotta,
ed i nostri compagni furono costretti ad una asprezza polemica vivacissima. Fu
votato, in una riunione del consiglio direttivo della Confederazione, un ordine
del giorno con il quale minacciavasi di espellere chi mantenesse un contegno
polemico «diffamatorio» ed «organizzasse la indisciplina». Queste espressioni
volevano significare che i capi comunisti dovevano essere espulsi dai sindacati.
Ma noi eravamo riusciti ad essere troppo forti perché i funzionari riformisti ed
opportunisti osassero liberarsi con troppa facilità dall’opposizione comunista.
E provvedimenti simili non furono presi. Chi invece, seppe dare esempio del modo
come si debbano trattare i comunisti nei sindacati, furono i sedicenti
rivoluzionari dirigenti del Sindacato Ferrovieri Italiani, i quali nel luglio
espulsero dalla loro organizzazione i compagni Isidoro Azzario e Carlo Berruti,
per la loro attività comunista e per aver essi aspramente criticato taluni capi
del sindacato. Il provvedimento, nuovo nella storia delle organizzazioni di
classe italiane, indignò le masse sindacali e quella ferroviaria in specie.
Numerose assemblee di ferrovieri votarono risoluzioni di simpatia ai nostri due
compagni. Sopravvenuto lo sciopero generale, i capi ferrovieri che i nostri
compagni avevano accusato dettero prova di voler portare il sindacato fuori
dall’orbita classista. La critica dei nostri compagni veniva a trovare conforto
nella prova dei fatti. Intanto l’amministrazione ferroviaria dimissionava il
compagno Azzario perché capeggiatore dello sciopero. Il Consiglio Generale del
S.F.I. (3 settembre 1922) era costretto a ritirare il precedente deliberato e a
riammettere nel Sindacato i due nostri compagni. Tale avvenimento segnò la
vittoria comunista nella organizzazione dei ferrovieri.
Contemporaneamente alla convocazione del Consiglio Generale del S.F.I. si
riuniva a Roma il Convegno Nazionale dei gruppi comunisti ferroviari, il quale
riuscì numeroso di rappresentanti, e manifestò la preparazione dei ferrovieri
comunisti nelle questioni tecniche della vita del loro Sindacato ed il possesso
da parte loro delle soluzioni sulla varie rivendicazioni di categoria.
Rapporti
con il Partito Socialista
Il Congresso Internazionale di Mosca, nel discutere l’appello presentato dal
Partito Socialista contro la sua esclusione, interpretò la situazione italiana
diversamente dalla nostra delegazione e dal nostro partito, e rinnovò
l’ultimatum al Partito Socialista Italiano esigendo l’esclusione dei riformisti
per la sua riammissione nell’Internazionale. Il congresso di Mosca si orientò
verso la convinzione che il P.S.I. si sarebbe scisso. Il nostro Partito con
ampie relazioni in materia precisò invece il suo diverso punto di vista presso
l’Internazionale. Esso previde come sarebbero andate le cose, con
l’allontanamento di ogni possibilità di contrasto pratico tra la politica del
nostro Partito e quella dell’Internazionale, esponendo a Mosca che nessuna
scissione sarebbe venuta a Milano e che una piccola frazione avrebbe sostenuto
la esclusione dei riformisti, ma non per le ragioni collimanti con le direttive
nostre e affermate da noi a Livorno, né con la decisione di uscire nel caso non
si fosse effettuata la scissione nel Partito Socialista.
D’altra parte il nostro Partito osservava che nell’ipotesi di una scissione tra intransigenti e collaborazionisti, ossia sulla questione che era sul tappeto al Congresso Socialista di Milano, non si sarebbero verificate quelle condizioni che sono necessarie per l’entrata nell’Internazionale, a cui non basta che si espellano i fautori della collaborazione borghese, ma anche tutti coloro che sono contro la lotta rivoluzionaria e la preparazione della dittatura proletaria, così come lo era tutto il Partito Socialista, compresa la frazione dei dirigenti di sinistra, responsabile di vergogne come la pacificazione coi fascisti. Ripetiamo che questo contrasto fu eliminato dai fatti. Dopo il Congresso di Milano, l’Internazionale con una sua dichiarazione, il testo della quale rispondeva ai desiderata della nostra centrale, escludeva definitivamente il Partito Socialista dalle sue file.
Restava il problema dell’atteggiamento da tenere verso la frazione Lazzari,
Maffi, Riboldi. Il nostro Partito precisò la sua posizione col manifesto ai
lavoratori socialisti, che li invitava a venire nelle sue file aprendo gli
occhi sulla rovinosa politica socialista, e con la decisione di non accettare
adesioni di gruppi, né di aver contatti ufficiali con la organizzazione di
frazione nel seno del Partito Socialista, poiché i singoli elementi di tendenza
affine alla nostra erano chiamati a passare nelle nostre file e non invitati a
fare un lavoro per noi nelle file socialiste. Disposizioni interne chiarirono
che gli elementi proletari potevano e dovevano essere cordialmente accolti,
come in genere tutti quelli che erano sinceramente convinti nel venire a noi, e
le ammissioni pur seguendo le norme statutarie dovevano essere facilitate nello
sbrigarne la procedura. In tal modo non pochi sono stati casi di socialisti
passati a noi anche con aperte dichiarazioni contro la politica del loro antico
partito. Quanto alla frazione Maffi essa non è stata trattata con ostilità dal
nostro Partito e dalla nostra stampa, a parte le obiettive critiche a quanto
essa ha di indeciso e di incompleto nel suo atteggiamento. Non si sono evitati
alcuni esperimenti di collaborazione sindacale con essa, che se non hanno avuto
più grande ripercussione, deriva appunto dalla posizione equivoca in cui si
trova chi voglia fare opera rivoluzionaria nelle file del Partito Socialista.
La
lotta contro la reazione
Non vi è alcuna probabilità che il fenomeno fascista abbia a cessare per
dar luogo ad un regime di liberalismo pratico e di neutralità dello Stato nelle
lotte tra classi e partiti, nemmeno nella misura in cui si simulava in altri
periodi meno critici l’apparenza giuridica di tutto questo. La situazione tende
a due ben distinti sbocchi: o allo schiacciamento del proletariato e dei suoi
sindacati, e ad un regime di sfruttamento negriero; o a una risposta
rivoluzionaria delle masse che in tal caso contro di sé troveranno la
coalizione del fascismo, dello Stato e di tutte le forze che difendono il
fondamento democratico delle presenti istituzioni.
La resistenza al fascismo
Data questa previsione, resta risolta una prima questione: quella della
resistenza da opporre al fascismo. I socialdemocratici predicarono la non
resistenza alle gesta fasciste perché previdero o dettero ad intendere che se
il proletariato rinunciava alle «provocazioni» lo Stato avrebbe
restaurato contro le violenze fasciste il «diritto comune» e, in fondo, perché
contrari all’impiego della violenza di classe da parte del proletariato; il
Partito Comunista deve sostenere la resistenza con tutti i mezzi possibili e
dichiarare che è giusto e utile adoperare contro il fascismo gli stessi suoi
mezzi offensivi, passando ad organizzare la preparazione e l’impiego di tali
mezzi.
Una parola d’ordine veniva data dal Partito in occasione dei fatti di
Firenze. Un secondo problema fondamentale tattico era quello della misura in
cui si poteva collaborare con altri partiti proletari che prendevano
atteggiamento antifascista e che dettero luogo al sorgere, in episodi del
luglio 1921, di formazioni di lotta dette «arditi del popolo».
Gli
Arditi del Popolo
La Centrale dette decisamente la disposizione che il nostro organismo di
inquadramento dovesse restare affatto indipendente dagli Arditi del Popolo, pur
lottando a fianco di questi come molte volte è avvenuto, quando si avessero di
fronte le forze del fascismo e della reazione.
Le ragioni di questa tattica non furono di ordine teorico e pregiudiziale,
ma essenzialmente pratiche e ben connesse ad un attento esame della situazione
e dell’eventualità a cui nell’uno e nell’altro caso si andava incontro,
soprattutto in base ad informazioni riservate, assunte con i mezzi di cui si
disponeva, intorno agli Arditi del Popolo ed al loro movimento. Una relazione
verbale sul nostro inquadramento potrà indicarvi la misura del lavoro fatto nel
campo della organizzazione militare. Certo le difficoltà di vincere vecchi
pregiudizi e le resistenze della situazione hanno contribuito a dare carattere
embrionale a questo tipo di organizzazione, ma i fatti hanno dimostrato più
volte che senza di essa difficile è sperare di vincere l’avversario.
La parola d’ordine gettata fra le masse dal nostro Partito fu questa: unità
proletaria e lotta contro la reazione.
Il nostro Partito, accettando la costituzione della Alleanza del Lavoro, ne
fissava i compiti di azione. In ogni adunata proletaria si prospettavano tali
compiti, che la massa approvava per acclamazione, culminanti nello sciopero
generale nazionale di tutte le categorie.
Nel giugno scorso il Partito Comunista d’Italia partecipò con una
delegazione ai lavori del Comitato Esecutivo allargato dell’Internazionale. In
tale occasione il C.E. del Comintern adottò la risoluzione nota alle sezioni
dell’Internazionale Comunista, con la quale dichiaravasi la inesistenza di un
conflitto disciplinare tra il P.C.d’I. e il C.E. del Comintern. Pure in tale
occasione il Presidium affermò alla delegazione italiana la necessità di
lanciare alcune parole d’ordine al proletariato italiano come quella del Governo
Operaio.
Al ritorno della delegazione in Italia fu data ampia informazione ai gruppi
dei lavori svoltisi a Mosca a mezzo della stampa del Partito. In data 2 luglio,
mentre si apriva la serie di agitazioni locali antifasciste, noi lanciammo in un
manifesto la parola d’ordine del Governo Operaio. Nei discorsi parlamentari del
giugno-luglio la parola d’ordine del Governo Operaio fu lanciata dai nostri
compagni e fu portata al Consiglio Nazionale di Genova della Confederazione
Generale del Lavoro con la mozione comunista.
Dopo la manifestazione del 1° Maggio, i riformisti della C.G.L.
rappresentati nel C.C. dell’Alleanza del Lavoro, dichiararono la inevitabilità
dello sciopero generale, il quale non poteva che essere insurrezionale e
tendere ad una crisi politica del regime. E perciò essi proposero di
interpellare i partiti politici proletari. Noi intervenimmo e dichiarammo che
potevamo arrivare alla coalizione politica, ma sotto precise condizioni. Queste
condizioni erano tali che l’accettarle voleva dire per i socialisti e
confederali veder fallire tutto il loro piano di deviazione del movimento mentre
il respingerle ci avrebbe dato buon gioco nel dimostrare alle masse la giustezza
delle condizioni da noi poste, e che equivalevano a proteggere il proletariato
da tradimenti e terribili delusioni come quelle di cui è viva la memoria.
Questo nostro atteggiamento fu puramente tattico: in verità noi eravamo per
lo sciopero sindacale da cui la lotta politica, che ne è anzi un episodio, si
sviluppa. Fummo contro ogni coalizione di partiti nel dirigere l’azione
insurrezionale ed il movimento rivoluzionario delle masse, di cui altri
parlavano in mala fede o con incoscienza ed in genere con spaventosa
impreparazione. Tuttavia la nostra tattica mise gli altri in posizione assai imbarazzante:
non accettarono né respinsero la nostre proposte: non potevano accettarle e
temevano di compromettersi respingendole, dal momento che si servivano contro
l’impulso alla lotta del demagogico argomento che questa poteva essere solo la
«rivoluzione». Data la situazione, non era da pensarsi che una
soluzione intermedia tra l’aperta collaborazione borghese che preparavano di
riformisti, e la nostra proposta di azione diretta delle masse.
L’Alleanza
del Lavoro e dei partiti proletari
I contatti dell’A.d.L. con i partiti proletari duravano. In ogni riunione
si manifestò l’assenza di serietà dei presenti. I rappresentanti socialisti
mutavano continuamente attitudine e dichiaravano di non potere impegnare tutti
gli aderenti. Si arrivò alla costituzione di un Comitato tecnico segreto
che doveva preparare l’azione generale proletaria (per noi lo sciopero generale
contro l’offensiva borghese e il fascismo, per gli altri la redenzione
completa), ma non si accettarono le nostre condizioni per la formazione
ufficiale del fronte unico dei partiti. Questo comitato tecnico si riunì per
iniziativa della Alleanza del Lavoro, senza far nulla di serio, al contrario si
cercò di servirsi di esso per impedire l’azione e per cercare di coinvolgere in
ciò la responsabilità del nostro partito.
Parecchie volte si è cercato, violando gli impegni al segreto, di sfruttare
le nostre dichiarazioni per dire pubblicamente che il Partito Comunista aveva
dichiarato che lo sciopero generale era impossibile. Contro queste menzogne noi
abbiamo preso un’attitudine assai energica, precisando i nostri punti di vista
nelle caratteristiche dell’azione generale proletaria che noi sostenevamo come
immediata nei nostri manifesti, e la nostra attitudine al C.N. della C.G.L. nel
luglio.
Lo sciopero dell’agosto 1922
La sera del 29 luglio il nostro delegato nel Comitato Tecnico ci informò che
il rappresentante dell’Alleanza aveva annunciato lo sciopero per il mattino del
1° agosto. Non si doveva pubblicare la notizia: l’ordine era stato dato dalla
Alleanza del Lavoro per vie interne. Noi osservammo il segreto. Il nostro
delegato, in altra seduta, dichiarò insufficienti le misure di organizzazione
dello sciopero. Poiché non si era voluto lanciare la parola dell’azione in
occasione di una svolta della lotta, gli operai non potevano comprendere senza
una preparazione il brusco cambiamento di attitudine di quelli organizzatori che
avevano sempre imprecato contro lo sciopero generale. Noi dichiarammo di essere
disciplinati, pur riservandoci di accompagnare la pubblicazione della
risoluzione dell’A.d.L. con un nostro manifesto.
La riuscita dello sciopero fu da principio parziale. Le masse furono
sorprese per gli ordini imprevisti, dopo essere state disarmate qualche giorno
addietro. Al secondo giorno il movimento era in pieno sviluppo, le masse erano
largamente entrate in azione, la lotta cominciò ovunque.
La borghesia fu sorpresa dalla situazione prodotta dallo sciopero. La notizia data la domenica 30 luglio dal «Lavoro» fu smentita dai giornali borghesi: a Roma l’emozione fu enorme quando il lunedì sera (31) «Il Comunista» uscì avanti agli altri giornali proletari e la sua vendita fu più che decuplicata.
Il venerdì precedente (28 luglio) la frazione parlamentare socialista aveva
votato per la partecipazione al Gabinetto, non importa quale; il sabato Turati
era stato dal Re: tutta l’attenzione era volta all’accordo dei socialisti con le
istituzioni costituzionali, quando lo scioperò scoppiò.
I collaborazionisti non avrebbero potuto fare una bestialità maggiore. Nei
circoli borghesi e parlamentari le loro azioni caddero tutte di un colpo: in
poche ore Facta compose un ministero qualunque, senza socialisti, con la
destra, con l’antico prefetto di Torino, sen. Taddei – vale a dire un
funzionario di polizia – al Ministero degli Interni.
L’ultimatum
dei fascisti
I fascisti lanciarono un ultimatum: se il governo non fosse
intervenuto a soffocare il movimento entro 48 ore, lo avrebbero fatto essi
stessi.
Le 48 ore passarono senza grandi conflitti. Nelle sfere ufficiali si sforzarono di dimostrare che lo sciopero era fallito. Il terzo giorno, come si prevedeva, lo sciopero sarebbe riuscito imponente, quando fu spezzato dall’Alleanza. I fascisti scatenarono allora le loro rappresaglie. Non essendo più impegnati in tutto il paese, ciò che li aveva momentaneamente immobilizzati, essi poterono fare dei concentramenti servendosi dei treni non più fermi, ed attaccarono quelle città nelle quali durante lo sciopero gli operai avevano attaccato gli elementi fascisti locali. La difesa delle masse operaie in questa seconda fase, cioè dopo la fine dello sciopero, fu meravigliosa. Milano, Bari, Ancona, Genova, Parma ecc. furono teatro di vere battaglie, nelle quali i comunisti validamente parteciparono, mettendosi in evidenza agli occhi delle masse, che ne ricevettero una entusiastica impressione. Carattere quasi generale di questa lotta: il fascismo concentrato nel centro della città andò all’attacco dei quartieri operai: furono ricevuti sparando dagli angoli delle strade, delle case, da barricate e trincee improvvisate. Le donne aiutarono gli uomini, pietre e oggetti di ogni sorta completarono l’armamento insufficiente.
I fascisti si ritirarono chiedendo aiuto, e la forza pubblica entrò in
scena con le mitragliatrici e le autoblindo che coprirono le case con raffiche
di proiettili: le case furono invase da centinaia di armati, furono arrestati
tutti gli abitanti sospetti di essersi difesi. Dopo i fascisti ritornarono per
distruggere, incendiare, predare: la polizia che avrebbe dovuto respingerli
aveva l’ordine di tirare in aria e li lasciava passare. In questo modo furono
prese non dai fascisti, ma dalla polizia, Ancona e Livorno, Milano, Bari, Roma,
Genova resistettero. Il Partito Socialista uscì da questa lotta distrutto. Il
collaborazionismo in rotta, i sindacati socialisti impotenti a mantenersi alla
testa delle masse che risposero così bene all’appello, i massimalisti resi
nulli dalla loro insufficienza pacifista e dalla loro debolezza. Il Partito
Comunista al contrario, che denunziò gli errori e che evitò di impegnarsi da
solo in una lotta che avrebbe potuto rovinarlo dopo la ritirata dei socialisti,
ma che diede arditamente la parola del combattimento, dimostrò di essere al suo
posto fra le masse in lotta e ha guadagnato molta influenza sul proletariato.
Gli elementi estremisti e gli operai anarchici anch’essi tesero a raggrupparsi
intorno a noi, avendo compreso che noi siamo un vero partito rivoluzionario.
Le
conseguenze dello sciopero
Noi facemmo una inchiesta sullo svolgimento dello sciopero che riuscì
interessantissima. Ne risultarono in modo quasi generale le seguenti
caratteristiche degli avvenimenti: cattiva organizzazione dello sciopero e
ritardo nella trasmissione degli ordini da parte dell’Alleanza del Lavoro.
Tradimento e sabotaggio generale da parte dei funzionari sindacalisti
socialisti. Vittoria militare dei fascisti contro gli operai assicurata soltanto
dopo l’intervento delle forze poliziesche a fianco dei fascisti. Lodevole
attitudine dei comunisti con eccezioni di ordine puramente personale che furono
risolte in linea disciplinare normale. Buona partecipazione delle masse allo
sciopero, quasi ovunque. Considerevole combattività del proletariato.
Le conseguenze dello sciopero sul movimento sindacali furono gravi, bisogna
riconoscerlo, per l’attitudine degli organi centrali a completare l’effetto
dell’attacco fascista. Parecchie organizzazioni si sfasciarono. Il passaggio ai
sindacati fascisti non ebbe una grande importanza e la stampa borghese li
esagerò molto. Esso si limitò a dei piccoli gruppi di certe categorie
organizzate su basi corporative (come i lavoratori dei porti) ma fu nullo
nell’industria. Ma i sindacati sono in cattive condizioni a causa della
reazione, della disoccupazione, delle rappresaglie, della mancanza di fiducia
nell’attitudine dei capi, della crisi generale. Le forze proletarie lottarono
contro i vari tentativi di tradimento riformisti, dopo lo sciopero, come quello
di trasformare i sindacati in una organizzazione a carattere nazionale entro il
quadro dello stato borghese ecc. I massimalisti furono in quel momento contro la
politica dei riformisti e il loro punto di vista sindacale, ma nessuno più li
ascolta e ogni giorno di più essi perdono influenza e importanza.
Il nostro Partito ha preso posizione sulla stampa e con un manifesto al
proletariato in questo senso: per il fronte unico reale delle masse operaie e
per l’Alleanza del Lavoro appoggiata sulle masse secondo le nostre antiche
proposte. Per una lotta generale del proletariato libero dagli impacci
riformisti e collaborazionisti e da tutte le illusioni che la politica dello
Stato borghese possa volgersi contro il fascismo, basata sulla azione diretta
classista delle masse. Per l’unità sindacale ma al di fuori di tutte le
influenze sul movimento sindacale dello Stato borghese o dei partiti della
classe padronale.
Nel programma di azione che il P.C.d’I. sottopone alla approvazione del IV
Congresso del Comintern noi diciamo quale è il lavoro che il nostro Partito deve
svolgere in un prossimo avvenire.
È certo che l’esperienza di questo anno di lotte sanguinose è un contributo prezioso allo sviluppo della nostra capacità all’azione; ed i rilievi che i compagni della Internazionale vorranno fare alle nostre deficienze noi li considereremo nel loro altro valore.
Partito comunista internazionale
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