Il terrorismo e il tormentato cammino della ripresa generale della lotta di classe

(« il programma comunista », Nos 7, 8, 9, 10, 11, 1978 / « programme communiste », Nos 77, 78, 1978 /  / « Communist Program », Nos 5, 6  / 1979,1980)

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Indice

 

●  I criteri fondamentali di una valutazione marxista del fenomeno

●  Una serie di risposte insufficienti

●  Da Lenin, alcune formulazioni di principio

●  Una lunga lotta su due fronti

●  La rottura, prima

●  Il superamento, su un piano infinitamente più alto, del terrorismo individualistico, poi

●  La « prova generale » del 1905

●  Punti conclusivi

●  Origini e forme specifiche del terrorismo individualistico

●  Incompatibilità fra marxismo e terrorismo individualista

●  « Legame con le masse » e « partito combattente »

●  Epilogo

●  Nella luce dell’Ottobre

 

 

 

Una valutazione critica del terrorismo di matrice individualista può essere data solo ponendosi dal punto di vista marxista, che riconosce nella violenza di classe la levatrice della storia e sa collocare nel suo ambito anche la funzione di episodi sporadici di spontanea violenza proletaria contro l’oppressione borghese.

A questo tema dedichiamo una serie di articoli che, dalle critiche insufficienti di quella particolare forma di terrorismo cercano di risalire alla sua critica di fondo. Questa critica non può prescindere dall’individuazione delle cause sociali materiali del fenomeno, del resto ricorrente nella storia della lotta fra le classi, per passare di qui all’analisi della sua tipica ideologia, i cui tratti fondamentali e le cui varianti storiche si tratta di esaminare dall’angolo visuale esclusivo di quella lotta di classe proletaria che, in ultima istanza, non può non svolgersi in guerra aperta con l’intervento organizzatore, orientatore e disciplinatore del partito, e lo dovrà in situazioni obiettive oggi certo non così vicine, ma alle quali è necessario prepararsi – politicamente anzitutto, ma anche materialmente.

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I criteri fondamentali di una valutazione marxista del fenomeno

 

« Il marxista si pone sul terreno della lotta di classe, non su quello della pace sociale. In certi periodi di acuta crisi economica e sociale, la lotta di classe si sviluppa sino a trasformarsi in aperta guerra civile. Ogni sua condanna morale è assolutamente inammissibile per il marxista. » (Lenin, La guerra partigiana, 30 settembre 1906) (1).

In queste righe sono condensati i fondamentali criteri di principio ai quali i marxisti devono ispirarsi nel valutare le manifestazioni fenomeniche, contingenti, immediate, del terrorismo, della « lotta armata di singoli individui e singoli gruppi », nel succedersi di situazioni certamente diverse, ma ognuna situata nel quadro di un processo inesorabile che non è mai di « pace sociale » anche se non è sempre di « guerra civile ».

Sono criteri di principio che, prima di determinare il contenuto del giudizio sul fenomeno « terrorismo », sbarazzano il campo da qualunque pretesa di formulare quel giudizio che si fondi su qualcosa di diverso dalla posizione di irreducibile e permanente opposizione allo Stato della classe dominante, propria dei comunisti – e di diverso non soltanto nel senso, proprio dell’opportunismo dichiarato, dell’adesione aperta al pacifismo sociale, ma anche in quello, più sottile ma non meno funesto, della rinuncia a schierarsi sempre e apertamente per la lotta di classe dichiarata (quand’anche non sia ancora possibile la guerra guerreggiata) e per le sue ferree esigenze. Questi criteri negano ai marxisti il diritto di deplorare questa come ogni altra manifestazione della crisi endemica della società borghese, invece, anzitutto, di spiegarne le ragioni materiali, le radici storiche, e, in secondo luogo, di porsi il quesito : che cosa essa significa, dal punto di vista della lotta di classe, non in astratto o in generale, ma qui ed ora ?, come va considerata, in funzione degli sviluppi di quella lotta di classe che il marxismo insegna destinata a trasformarsi, « in certi periodi di acuta crisi economica e sociale » – vicini o lontani che siano, ed oggi vicini non sono – in guerra civile ?, quali compiti pone al partito che trae la sua ragione di esistenza dall’essere l’organo destinato a non a « fare » la rivoluzione ma « a dirigerla », dandole – come dice ancora Lenin – la sua impronta ?, quale atteggiamento chiede ad un partito che sa in anticipo che a quel traguardo si arriva attraverso un percorso accidentato, fatto di « intervalli più o meno lunghi » di « piccoli scontri » elementari e spontanei prima delle « grandi battaglie », nè sarà dato dirigere queste se non si sarà lavorato, preparandovisi attivamente, per sottoporre alla propria direzione quelli ? E, in particolare, quale risposta dà (e deve darla con estrema franchezza, non essendo possibile eluderla senza suicidarsi come forza politica) a quel particolare fenomeno storico che è il terrorismo elevato a unico ed esclusivo contenuto della lotta di classe, e ad unico ed esclusivo mezzo di azione del partito di classe (se di partito, in tale concezione, si può ancora parlare), teoria appunto perciò inaccettabile dal punto di vista marxista – fermo restando che, per definizione, è fuori del marxismo chi nega la violenza in generale, la lotta armata in generale, il terrorismo in generale, e che, d’altra parte, non è sufficiente riconoscere in generale tutto ciò (che poi è la rivoluzione stessa) per avere il diritto di richiamarsi al marxismo ?

Nel primo capitolo dello scritto che abbiamo citato in apertura di questo articolo, Lenin scrive :

« A quali fondamentali esigenze deve attenersi ogni marxista nell’esaminare il problema delle forme di lotta ? Innanzi tutto, il marxismo si distingue da tutte le forme primitive di socialismo perchè non lega il movimento a una qualsiasi forma di lotta determinata. Esso ne ammette le più diverse forme, e non le “inventa”, ma si limita a generalizzarle e a organizzarle, e introduce la consapevolezza in quelle forme di lotta delle classi rivoluzionarie che nascono spontaneamente nel corso del movimento. Irriducibilmente ostile a ogni forma astratta, a ogni ricetta dottrinale, il marxismo esige un attento esame della lotta di massa in atto, che, con lo sviluppo del movimento, con l’elevarsi della coscienza delle masse, con l’inasprirsi delle crisi economiche e politiche, suscita sempre nuovi e più svariati metodi di difesa e di attacco. Non rinuncia quindi assolutamente a nessuna forma di lotta e non si limita in nessun caso a quelle possibili ed esistenti solo in un determinato momento, riconoscendo che inevitabilmente, in seguito al modificarsi di una determinata congiuntura sociale, ne sorgono delle nuove, ancora ignote agli uomini politici di un dato periodo. Sotto questo aspetto il marxismo impara, per così dire, dall’esperienza pratica delle masse, ed è alieno dal pretendere di insegnare alle masse forme di lotta escogitate a tavolino dai “sistematici”. Noi sappiamo che la crisi imminente ci arrecherà nuove forme di lotta, che adesso non possiamo prevedere.

« In secondo luogo, il marxismo esige categoricamente un esame storico del problema delle forme di lotta. Porre questo problema al di fuori della situazione storica concreta significa non capire l’abbiccì del materialismo dialettico. In momenti diversi dell’evoluzione economica, a seconda delle diverse condizioni politiche, culturali-nazionali, sociali, ecc., differenti sono le forme di lotta che si pongono in primo piano divenendo fondamentali, e in relazione a ciò si modificano, a loro volta, anche le forme di lotta secondarie, marginali. Tentar di dare una risposta affermativa o negativa alla richiesta di indicare l’idoneità di un certo mezzo di lotta senza esaminare nei particolari la situazione concreta di un determinato movimento in una data fase del suo sviluppo, significa abbandonare completamente il terreno del marxismo ».

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Una serie di risposte insufficienti

 

E’ qui la chiave per liquidare una serie di risposte al « terrorismo come metodo » (o come « principio ») assoluto, dietro la cui insufficienza si nascondono altrettante scappatoie, e che caratterizzano, anche nella migliore delle ipotesi, le posizioni di falsa sinistra di innumerevoli gruppi.

 

1) Non basta rispondere, al terrorismo come ideologia : Voi siete per la violenza individuale ; noi siamo per la violenza di classe, la violenza collettiva ; è qui la discriminante fra « avventurismo rivoluzionario » e marxismo. E’ insufficiente come ritorsione polemica ; è negativo agli effetti della preparazione rivoluzionaria. Il nocciolo di verità contenuto in questa critica è che levatrice di storia può essere solo la violenza esercitata dalla classe che nel periodo storico dato è l’unica classe rivoluzionaria della società, e che nella via crucis della sua lotta contro la classe dominante e sfruttatrice si è armata dell’organo-partito, indispensabile alla centralizzazione di tutti i suoi sforzi di emancipazione e all’indirizzo di tutte le sue spinte elementari ed anche « irrazionali » verso l’obiettivo della presa del potere.

Altrettanto giusto (e i teorici del terrorismo di tipo anarchico-spontaneista non lo capiscono) è che a questo obiettivo si giunge non in qualunque momento, ma attraverso una serie di fasi in cui masse sempre più vaste, non piccoli gruppi di audaci o di cospiratori, entrano in campo perchè spinte a muoversi da determinazioni materiali, non da propositi coscienti o da disegni razionali. Innegabile è, infine, che la manifestazione suprema della violenza di classe prima della conquista e, a maggior ragione, dell’esercizio dittatoriale del potere, cioè l’insurrezione, in tanto può diventare « arte », come è necessario che infine divenga per poter vincere, in quanto si fondi « non su un complotto, non su un partito (2) ma sulla classe d’avanguardia », faccia leva sullo « slancio rivoluzionario del popolo » e sappia « cogliere quel punto critico nella storia della rivoluzione in ascesa che è il momento in cui l’attività delle schiere più avanzate del popolo è massima, e più forti sono le esitazioni nelle file dei nemici e degli amici deboli, equivoci ed indecisi della rivoluzione » – tutti presupposti che il terrorismo vecchio e nuovo, di antico stampo anarchico o d’impronta BR, sistematicamente ignora, perchè, come vedremo, non può non ignorare.

Ma quando, nel corso dell’insurrezione, non meno che nel tragitto che direttamente vi porta, non solo la classe d’avanguardia ma, intorno ad essa, tutto un alone di strati e sottostrati del « popolo » entrano in movimento e si misurano con l’avversario, è puro sofisma pretendere che un confine non diciamo assoluto ma neppure rigidamente tracciato divida violenza (e terrore) individuali e violenza (e terrore) collettivi. E’ un sofisma credere che, nell’ambito di un processo di massa e quindi collettivo come quello che allora si svolge, l’iniziativa violenta e terroristica « di singoli individui e singoli gruppi » proletari possa e debba essere esclusa, e che il partito possa e debba escludere di affidarne perfino l’esecuzione, sotto il suo controllo diretto, ad una delle sue branche. E’ un sofisma degno di quei chiacchieroni che erano i massimalisti dell’altro dopoguerra e che sono i loro discendenti attuali, e utile solo a rinviare la violenza rivoluzionaria, la rivoluzione e la dittatura di classe, al … giorno del giudizio.

Nel 1906, Lenin, nel registrare gli episodi ricorrenti di lotta armata di « singoli individui e singoli gruppi », che da un lato miravano ad « uccidere singole persone, ufficiali e subalterni dell’esercito e della polizia », dall’altro si proponevano « di confiscare somme di denaro appartenenti sia al governo, sia a privati » (3), rispondeva a coloro che di fronte ad essi uscivano in grida scandalizzate di « anarchismo, blanquismo, terrorismo », che nella situazione data tali forme di lotta erano inevitabili e compito della « socialdemocrazia » era non di rifuggirne per timore di esserne « disorganizzata » e « demoralizzata », ma caso mai, di conferire loro quell’organizzazione di cui forzatamente mancavano e di cercar di « assumere in esse una parte dirigente » (4).

Nel 1921, mentre il proletariato italiano conduceva contro il fascismo una dura lotta difensiva senza tuttavia lasciarsi sfuggire l’occasione per passare all’attacco, il PCd’I scriveva, contro i mille argomenti speciosi dei massimalisti (firmatari in quei giorni del « patto di pacificazione » coi fascisti) :

« Il socialismo rivoluzionario riconosce che, in un determinato momento storico… l’urto fra le classi sociali assume gli aspetti della guerra civile. Questa, che è guerra combattuta con tutte le armi, si manifesta dapprima episodica, come cozzo di pattuglie le quali aumentano di numero e moltiplicano la loro attività e la loro asprezza aggressiva. C’è chi vorrebbe dettare norme cavalleresche nella guerra combattuta. Come tali iniziative siano infantili e lontane dalla realtà che si vive angosciosamente sul campo dell’azione, l’esperienza bellica dimostra, e lo dimostra anche l’esperienza delle rivoluzioni passate e recenti.

« Distinguere la violenza collettiva dalla violenza individuale in guerra vuol dire cavillare intorno alla possibilità di un combattimento dal quale possa essere bandita la violenza individuale ; e – al più spesso – significa non voler combattere la guerra. Si è apertamente contro la guerra civile, cioè si nega la lotta di classe (giacchè non è socialisticamente ammissibile la lotta di classe che non giunga, per le ragioni stesse che la originano, alla guerra civile) ? Allora si ha il dovere di chiaramente parlare al proletariato, come troppe volte hanno fatto gli uomini della destra socialista. Ma se si accede alla necessità storica della guerra civile, si deve accettare questa con tutte le intemperanze che l’accompagnano, pur domandandone, attraverso una disciplina politica, l’indirizzo e prevedendone gli sbocchi » (5).

E, a proposito di queste « intemperanze » (boccone preferito della propaganda opportunista), occorre ricordare il monito di Marx ed Engels agli operai saliti sulle barricate della rivoluzione e decisi a non fermarsi al traguardo fissato dai borghesi nella lotta comune contro l’ancien régime : « Ben lungi dall’opporsi ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta popolare su persone odiate o su edifici pubblici cui non si connettono altro che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne deve prendere in mano la direzione » ? (6).

Si dirà : tutte queste erano situazioni non paragonabili all’attuale. Senza dubbio ; e uno degli argomenti della nostra critica al « terrorismo » classico o attuale è appunto non solo la sua incapacità di capire quando il terrore individuale ha la sua ragion d’essere e quando no, ma di elevarlo a principio metafisico ; valido dunque, a prescindere da ogni base materiale, in ogni contingenza. Tuttavia il partito, proprio perchè ha il compito di costruire nel presente le condizioni soggettive della lotta rivoluzionaria futura, ha pure il dovere di preparare fin da oggi i suoi militanti e l’avanguardia del proletariato ai momenti, lontani o vicini non importa, in cui il gesto « di singoli individui o gruppi », spontaneo o predisposto coscientemente dal partito, avrà la sua collocazione logica e non dovrà trovare ostacoli e riserve in un falso ripudio « per questioni – presunte – di principio ». Ha il dovere sia di prepararli alla soluzione « ideale » di questo problema, che è di subordinare tali atti non solo alla valutazione ad opera del partito della situazione reale, ma alla sua generale strategia, sia di prepararli alla possibilità che essi avvengano, fuori del suo controllo, come manifestazioni di sana collera proletaria.

 

2) Non è sufficiente respingere la teoria – tipica del vecchio terrorismo, e, checchè si dica, anche presente nell’odierno – del « gesto esemplare » di terrore. Anche qui, si commette l’errore, simmetrico a quello degli ideologi della « propaganda del fatto », di erigere ad entità a se stante quello che è soltanto un mezzo, perfino un espediente. E’ certo che le situazioni rivoluzionarie non si creano, nè l’apparato di dominio dell’avversario si distrugge, col gesto isolato del « petroliere » o con l’eco morale « esemplare » che il colpo vibrato sull’inerzia stagnante della vita quotidiana suscita (o si crede che susciti) nella « coscienza » delle masse o, per usare un linguaggio più aderente al soggetto, del « popolo ».

Ma allora ciò che si critica (giustamente) non è l’atto in quanto tale ; è la sua idealizzazione, ovvero la teoria che gli sta alle spalle. E i marxisti, appunto perchè possiedono gli strumenti teorici necessari per non cadere vittime di idealizzazioni di quella natura, debbono anche saper riconoscere il valore che in date fasi dello scontro fra le classi assumono le azioni anche saltuarie, destinate più ancora che ad intimidire il nemico, a temprare la decisione dei combattenti proletari, a dar loro il senso della propria forza e della vulnerabilità dell’avversario, a diffondere tra gli sfruttati la consapevolezza che il regime contro il cui giogo si ribellano è, si, potente, ma non è onnipotente, è duro a morire, ma non è eterno. La lotta di classe nell’intera varietà delle sue forme obbedisce a leggi non dissimili – sotto certi aspetti ed entro certi limiti – da quelle di ogni guerra : si è forse dovuto aspettare la nostra epoca « felice » per conoscere l’effetto dei « deterrenti » su chi è attaccato come su chi attacca ? Ed è forse un caso che Marx ed Engels chiamino « esempi » da non deplorare ma incoraggiare e, se possibile, dirigere ?

Partendo dal vivo di un’esperienza di guerra civile guerreggiata, il Progetto di programma di azione del PCd’I, presentato al IV Congresso dell’Internazionale alla fine del 1922 in tutta coerenza con l’azione svolta nel biennio precedente, scriveva (7) :

« Questo [il fascismo] tende a demoralizzare e battere il proletariato col metodo terroristico, ossia spargendo l’impressione della sua invincibilità e della impossibilità a resistergli. Per contrastare questo processo di demoralizzazione della massa è necessario far sentire al proletariato che l’opporre forza a forza, organizzazione ad organizzazione, armamento ad armamento, non è solo una vaga parola che sarà attuata solo in un avvenire remoto, ma una possibile e pratica attività nell’applicazione della quale sarà solo possibile preparare una riscossa armata proletaria. In questo campo di attività il Partito non si pone limiti di principio se non nel senso che è da respingersi ogni azione che non venga predisposta dagli organi di Partito adatti, e quindi ogni iniziativa individuale. Questo non vuol dire che si rinunci all’iniziativa individuale, intesa cioè a colpire dati individui di parte avversa, o condotta da compagni comunisti isolati, su ordine del Partito. Anzi l’azione non potrà avere carattere di impiego di gruppi o formazioni militari che nelle circostanze in cui le grandi masse siano in moto ed in lotta : nel corso ordinario della guerriglia di classe sono le azioni dei singoli o di gruppetti ben scelti che, ben preordinate per evitare conseguenze sfavorevoli, devono essere organizzate. Obiettivo di tali azioni saranno non solo le forze armate fasciste, ma in genere le ricchezze, le istituzioni, le persone della classe e di tutti i partiti borghesi. In massima si deve evitare un troppo grande danno diretto o indiretto agli interessi dei lavoratori o di ceti sociali neutri. Obiettivo della condotta di simili lotte dovrebbe essere quello di rispondere sempre con una rappresaglia ai colpi degli avversari contro istituzioni proletarie. In tale campo il PC deve agire, rispetto alla borghesia, come l’inquadramento fascista rispetto alla massa di tutto il proletariato. Un corollario di questa tattica deve essere quello di non prestarsi, nella campagna antifascista, a fare troppo il gioco del fascismo stesso insistendo sulla atrocità ed implacabilità della sua azione ; pur attribuendo ad esso tutte le responsabilità, si deve evitare di prendere un’attitudine pietosa e si deve dare il rilievo massimo agli atti di violenza con cui le nostre forze o il proletariato spontaneamente rispondono ai colpi nemici ».

Non sono – una volta di più – criteri morali quelli che guidano il partito di classe nella scelta dei mezzi di azione ; non sono neppure criteri attinti ad una specie di codice del logoramento del nemico, o della vittoria propria garantita per decreto. Si tratta di assicurare il massimo di efficacia, anche in una disperata difensiva e perfino nella più dolorosa delle sconfitte, a quei coefficienti « psicologici » della lotta sociale, il cui peso è certamente diversissimo in uno sciopero (e ancor più in una normale vertenza) e in un episodio di guerra civile aperta o potenziale, ma è in tutti presente, e quindi sempre da tenere in conto – non per farne un mito come nella consuetudine idealistica dei teorici del terrorismo elevato a sistema, bensì per farne l’uso migliore in quanto risorsa tattica.

 

3) Come sia non solo insufficiente, ma pericolosa l’impostazione alla quale si devono argomenti come quelli che abbiamo ricordato, e che ricorrono da più di un secolo nella critica spicciola al « terrorismo », si vide nel 1921 quando, reagendo alla balorda teoria dell’« offensiva » ad ogni costo nella prospettiva della crisi finale e « irreversibile » (come hanno vita dura, certi aggettivi !) del capitalismo, un’ala del Partito tedesco non solo piombò nella più disfattista delle posizioni difensive… ad ogni costo, ma bollò, al solito, di blanquismo, anarchismo, teppismo, le azioni di terrore e rappresaglia che nuclei di proletari braccati dalla polizia, dall’esercito e dalla magistratura organizzavano – e guai se non l’avessero fatto ! – anche solo per difendersi e sopravvivere (8).

Lenin e Trotsky, dalla tribuna del III Congresso, tuonarono che, se è da imbecilli predicare l’offensiva in permanenza, è da traditori respingere l’offensiva « per principio », e l’internazionale rese omaggio solenne alle gesta « terroristiche » di Max Hölz nell’atto stesso in cui condannava l’offensivismo eretto a cannone assoluto. Ma questa messa a punto non vale soltanto in generale – nel senso cioè che sarebbe una sciagura se un partito comunista dimenticasse d’essere la guida di una classe chiamata storicamente ad attaccare il nemico e a distruggerne i fortilizi centrali, anche se non per questo deve credersi tenuto a lanciarsi in ogni momento all’attacco diretto ed armato : vale anche (e chi poteva saperlo meglio di Trotsky ?) in particolare, nel senso cioè che è buona regola di guerra che non ci si difende efficaciemente se si rinuncia a priori ad offendere e che, su questo terreno, chi decide sull’opportunità o meno di passare alla controffensiva anche limitata non è un principio astratto, ma una valutazione pratica. Proprio allora scriveva, in pieno accordo con l’Internazionale, uno dei nostri testi-base (9) :

« Nessuno che sia comunista può affacciare pregiudiziali contro l’impiego dell’azione armata, delle rappresaglie, anche del terrore, e negare che il partito comunista debba essere il diretto gerente di queste forme di azione che esigono disciplina ed organizzazione. Così pure è bambinesca quella concezione secondo la quale l’uso della violenza e le azioni armate sono riservati alla « grande giornata » in cui sarà sferrata la lotta suprema per la conquista del potere. E’ nella realtà dello sviluppo rivoluzionario che urti sanguinosi tra il proletariato e la borghesia avvengano prima della lotta finale, non solo nel senso che potrà trattarsi di tentativi proletari non coronati dal successo, ma nel senso di inevitabili scontri parziali e transitori tra gruppi di proletari spinti ad insorgere e le forze della difesa borghese, ed anche tra manipoli delle « guardie bianche » borghesi e lavoratori da esse attaccati e provocati. Nè è giusto dire che i partiti comunisti debbano sconfessare tali azioni e riservare ogni sforzo per un certo momento finale, poichè per ogni lotta è necessario un allenamento e un periodo di istruzione, e la capacità rivoluzionaria di inquadramento del partito deve cominciare a formarsi ed a saggiarsi in queste preliminari azioni.

« Darebbe però a queste considerazioni una valutazione errata chi concepisse senz’altro l’azione del partito politico di classe come quella di uno stato maggiore dalla volontà del quale unicamente dipenda lo spostamento delle forze armate e il loro impiego ; che si costruisse la prospettiva tattica immaginaria del partito che, dopo essersi fatta una rete militare, ad un certo momento, pensandola abbastanza sviluppata, sferri un attacco credendo di potere con quelle forze battere le forze difensive borghesi.

« L’azione offensiva del partito non è concepibile che allorquando la realtà delle situazioni economiche e sociali pone le masse in movimento per la soluzione di problemi che direttamente interessano la loro sorte, e la interessano sulla più grande estensione, creando un sommovimento per lo sviluppo del quale nel vero senso rivoluzionario è indispensabile l’intervento del partito, che ne fissi chiaramente gli obiettivi generali, che lo inquadri in una razionale azione bene organizzata anche come tecnica militare. Anche in movimenti parziali delle masse è indubbio che la preparazione rivoluzionaria del partito può cominciare a tradursi in azioni preordinate, come indispensabile mezzo tattico è la rappresaglia dinanzi al terrore dei bianchi che tende a dare al proletariato la sensazione di essere definitivamente più debole dell’avversario, e a farlo desistere dalla preparazione rivoluzionaria.

« Ma credere che col gioco di queste forze, sia pure egregiamente e largamente organizzate, si possano spostare le situazioni e determinare, da uno stato di ristagno, la messa in moto della lotta generale rivoluzionaria, questa è ancora una concezione volontarista che non può e non deve trovar posto nei metodi dell’Internazionale marxista ».

Sono qui efficacemente riassunte le considerazioni materialistiche che guidano il marxismo in questa come in ogni altra questione della lotta di classe e della sua direzione, e vi si dimostra che l’ideologia del « terrorismo » non va tanto criticata nel dettaglio dell’armamentario delle sue « regole di comportamento » – che, in un dato contesto, sono inoppugnabili, e si tratta solo di metterle al posto giusto –, e neppure tanto negli errori sempre ricorrenti di valutazione dei rapporti di forza, quanto va criticata nelle sue stesse basi. Solo a questa condizione la sua critica non cade nel piatto, triviale e disfattista pacifismo contro cui si scagliava con tutto il suo sdegno di rivoluzionario Vladimiro Lenin.

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Da Lenin, alcune formulazioni di principio

 

Alla notizia dell’uccisione del primo ministro austriaco Stürgkh ad opera di Fritz Adler (21 ottobre 1916), Lenin prendendo la parola al congresso del Partito socialdemocratico svizzero, e lasciando aperto il quesito se, nel caso specifico, si fosse trattato di « un esempio di terrorismo, in quanto tattica consistente nell’organizzare metodicamente omicidi politici senza collegarsi con la lotta rivoluzionaria delle masse, o invece di un’iniziativa sporadica nel passaggio dalla tattica opportunistica, non socialista, connessa con la difesa della patria, dei socialisti austriaci ufficiali alla tattica dell’azione rivoluzionaria di massa », (10) dichiarava :

« Siamo comunque persuasi che l’esperienza della rivoluzione e della controrivoluzione in Russia abbia confermato la giustezza della lotta più che ventennale combattuta dal nostro partito contro il terrorismo in quanto tattica [nel senso su indicato]. Non bisogna però dimenticare che questa lotta è stata combatutta in stretta connessione con una lotta inesorabile contro l’opportunismo, il quale era propenso a ripudiare qualsiasi impiego della violenza da parte delle classi oppresse contro gli oppressori. Noi siamo sempre stati favorevoli a impiegare la violenza sia nella lotta delle masse, che in relazione con questa lotta. Abbiamo inoltre associato la lotta contro il terrorismo con una lunga opera di propaganda, cominciata molto tempo prima del dicembre 1905, a favore dell’insurrezione armata. Per noi l’insurrezione armata non è soltanto la migliore risposta del proletariato alla politica del governo, ma anche il risultato inevitabile dello sviluppo della lotta di classe per il socialismo e la democrazia. Infine, non ci siamo limitati a riconoscere su un piano di principio l’impiego della violenza e a far propaganda a favore dell’insurrezione armata. Già quattro anni prima della rivoluzione [del 1905] abbiamo sostenuto l’impiego della violenza da parte delle masse contro i loro oppressori, soprattutto nel corso delle manifestazioni di strada. Ci siamo sforzati di far assimilare da tutto il paese gli insegnamenti derivanti da ognuna di queste manifestazioni. Ci siamo sempre più impegnati a organizzare la decisa e sistematica resistenza delle masse alla polizia e all’esercito, a trascinare mediante questa resistenza la maggior parte dell’esercito nella lotta tra il proletariato e il governo, a far partecipare consapevolmente a questa lotta i contadini e i soldati. Ecco la tattica che abbiamo applicato nella lotta contro il terrorismo, e che, ne siamo profondamente convinti, è stata coronata da successo » (11).

In questo breve richiamo alla storia del processo di formazione e di sviluppo del partito bolscevico sono contenute alcune basilari formulazioni di principio, che si riallacciano a quanto si è detto fin qui e gettano un ponte verso quanto ancora si deve dire.

Primo : La critica (e, in un dato ambito, la lotta aperta) contro quel terrorismo che, per le ragioni già indicate preferiamo chiamare « individualistico » piuttosto che « individuale », è legittima ed anzi doverosa alla sola condizione preventiva di collegarla alla critica inesorabile (e alla lotta in ogni ambito) contro l’opportunismo, il cui tratto distintivo è indicato da Lenin, significativamente, nel « ripudio di qualsiasi impiego della violenza da parte delle classi oppresse contro gli oppressori ». Non ha quindi nessun diritto di condurla chi, viceversa, si muove sul terreno di questo ripudio, e neppure chi si prevale della critica leniniana al terrorismo slegandola dalla demolizione spietata dell’opportunismo.

Secondo : Le due « storture » solo in apparenza opposte, nella lotta contro le quali il movimento operaio si è potuto storicamente dare una organizzazione a indirizzo fermamente classista – la stortura opportunistica e quella terroristica – non tollerano d’essere poste sullo stesso piano, così come (vedi Lenin 1920) non è lecito porre sullo stesso piano « l’estremismo malattia d’infanzia del comunismo » e quella forma di degenerazione senile che è l’opportunismo pacifista, riformista e legalitario. Di quest’ultimo, infatti, non c’è nulla da salvare e c’è tutto da respingere ; del primo c’è almeno (e non è poco) da salvare la rivendicazione della violenza contro gli oppressori, nell’unico modo in cui salvarla si possa – inserendone l’impiego nel movimento generale e multiforme delle masse proletarie ed anche genericamente popolari, e commisurandolo ai suoi sviluppi ed alle sue esigenze ; tendendo anzi a sottoporlo al controllo diretto e perfino all’iniziativa cosciente del partito di classe. Solo così si possono disperdere i fumi in cui è inevitabile che l’avvolgano i suoi teorizzatori in quanto portavoce dell’intellettualità piccolo-borghese, e che le conferiscono necessariamente un carattere individualistico e velleitario.

Terzo : Lungi dal limitarsi a rivendicare la violenza « degli oppressi contro gli oppressori » in linea di principio, o come tesi generale, impegnativa soltanto sul piano teorico, i comunisti devono estenderne la rivendicazione, in gradi e forme certamente diverse, all’intero arco di manifestazioni della lotta di classe, dalle più elementari a quelle via via più complesse (12) fino al loro sbocco nell’insurrezione armata, quindi alla presa e all’esercizio del potere ; e preparare idealmente i proletari alla necessità del suo impiego per essere poi in grado – quel che più importa – di prepararveli materialmente, non esitando a salutare come meritevole di « tutta la nostra simpatia » (Lenin nella stessa occasione) anche un gesto tuttavia isolato, individualistico e intinto di venature anarchiche, come quello di Fritz Adler, se esprime, attraverso la reazione istintiva del militante o di un gruppo di militanti, un processo di risalita dell’organizzazione politica operaia dal pantano dell’opportunismo, e la ferma decisione di uscirne.

Quarto : Come dimostra proprio l’esperienza russa, alla quale ci riferiamo in quanto emblematica di un processo storico reale, la « lotta contro il terrorismo » è coronata da « successo », e il fenomeno tende a passare in ultimo piano sulla scena storica, nella misura in cui il movimento operaio organizzato si estende, si ramifica, si rafforza, le sue ali di avanguardia si portano sul terreno politico della lotta contro la classe dominante ed il suo Stato, e il partito di classe conquista in seno ad esse un’influenza tale da permettergli di orientarne e promuoverne l’organizzazione e da irradiare in tutti i suoi settori la propaganda e l’agitazione delle finalità massime del comunismo, dei suoi principi, del suo programma, della sua tattica. Tende a passare in ultimo piano come fenomeno specifico ; ma solo perchè il movimento e il partito ne hanno ereditato la rivendicazione della violenza, trasfigurandola, come uno dei mezzi tattici che le situazioni impongono di adottare in gradi e forme diversi ; mai come mezzo unico o fondamentale, meno ancora come mezzo taumaturgico. In altri termini, perchè si è potuto superarne i limiti angusti, uscire dal vicolo cieco nel quale, altrimenti, esso è condannato a muoversi.

Non bisogna infatti dimenticare che, storicamente, il terrorismo di tipo individualistico nasce in situazioni di profonda crisi interna della società, che mettono in vorticoso movimento strati più o meno estesi della classe dominante o di sue sottosezioni, sopratutto dell’intellighentsia, incapaci di ritrovarsi più nel quadro del regime vigente e di farvisi avanti, e spinti da questa condizione di disagio acuto ad occupare il proscenio della vita politica e sociale muovendosi nel senso delle motivazioni ideologiche – idealistiche, volontaristiche, moralistiche – proprie delle loro origini, e in tanto assumeva un ruolo sia pur fuggevole di guida proprio in quanto manca, o sta rifluendo, o è debole, il movimento organizzato, il solo potenzialmente rivoluzionario, della classe operaia – dunque, come espressione di un ceto sociale ben preciso, e delle sue tipiche ideologie, abbandonati alla loro spontaneità immediata in assenza della superiore forza polarizzatrice del proletariato moderno (è stato questo il caso del terrorismo degli anni Settanta del secolo scorso in Russia a sfondo prevalentemente populista e blanquista, o dell’ultimo ventennio del secolo in Francia o in Spagna, a sfondo essenzialmente anarchico, dopo la sconfitta della Comune parigina e dei moti repubblicani del 1863-1864). Oppure, ed è il caso delle reviviscenze terroristiche nel quinquennio precedente la rivoluzione del 1905 in Russia (come sarà quello di periodi successivi, in parte anche d’oggi), nasce come reazione « disperata », insieme politica e morale, al prevalere in seno al movimento operaio di correnti opportunistiche : « l’anarchismo – dirà Lenin nel 1920 riassumendo sotto questo termine generico tutta la varietà del terrorismo non solo anarchico ma populista e blanquista – è stato non di rado una specie di castigo per i peccati opportunistici del movimento operaio : le due storture si integrano a vicenda » (13). L’eclissi del « vecchio » terrorismo coincide, agli inizi degli anni Novanta, con la diffusione e radicalizzazione degli scioperi (14) e la nascita dei primi gruppi o circoli marxisti ; l’eclissi del « nuovo » precorre la rivoluzione del 1905 ed è parallela all’ascesa sia del movimento operaio alla testa del contadiname, sia del partito di classe. La storia ha le sue leggi inesorabili – anche se, per i teorici del terrorismo individualistico, il loro è un libro chiuso.

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Una lunga lotta su due fronti

 

E’ della massima importanza seguire nelle grandi lineee il processo attraverso il quale, nel Partito russo, la critica del terrorismo individualistico si intrecciò alla lotta inesorabile contro le tendenze opportunistiche che gli fornivano una giustificazione obiettiva, e vedere come, se nel 1898-1902 la rottura più netta ed esplicita con la tradizione anarchica e blanquista, terrorista e cospirativa, fu una delle condizioni necessarie per la nascita e lo sviluppo del Partito di classe, man mano che si precisava la complessità dei compiti dei rivoluzionari marxisti, sul piano della prospettiva generale come della tattica e dell’organizzazione, la questione del terrore rivoluzionario e del suo impiego uscì dalle nebbie del passato e prese il suo posto nel quadro di un movimento esteso all’insieme della società, al cui centro la classe operaia assumeva il ruolo di protagonista e di guida.

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La rottura, prima

 

1898. In quello stesso opuscolo, I compiti dei socialdemocratici russi, in cui la funzione del proletariato e del suo partito di classe nella rivoluzione duplice viene precisata con una nettezza che non lascia nemmeno la più lontana possibilità di equivoco sul significato della partecipazione della classe operaia alla rivoluzione democratica, si legge fra l’altro :

« La tradizione blanquista della cospirazione è così tenacemente radicata nei seguaci della « Volontà del popolo » che essi non riescono ad immaginare la lotta politica altrimenti che sotto forma di cospirazione politica. I socialdemocratici non peccano di siffatta RISTRETTEZZA di vedute ; essi non credono alle cospirazioni, pensano che il periodo delle cospirazioni è ormai passato da molto tempo, ritengono che RIDURRE la lotta politica alla cospirazione significa, da una parte, RESTRINGERLA eccessivamente e, dall’altra, scegliere i mezzi di lotta meno adatti » (maiuscoli nostri).

Al centro della critica è dunque la « ristrettezza » dell’orizzonte dei cospiratori « per principio » – non la sua « illegittimità » in linea teorica – ; l’« inadeguatezza » dei mezzi di lotta adottati – non la loro « inconsistenza » in assoluto. Spezzarne il cerchio chiuso è il presupposto affinchè si sviluppi quella multiforme attività dei « socialdemocratici russi » che « consiste nella propaganda delle dottrine del socialismo scientifico, nella diffusione fra gli operai di una giusta concezione del regime economico e sociale contemporaneo, delle sue basi e della sua evoluzione, delle diverse classi della società, dei loro rapporti reciproci, della lotta che si svolge fra queste classi, della funzione delle classi che declinano e di quelle che sono in ascesa, verso il passato e l’avvenire del capitalismo, della funzione storica della socialdemocrazia internazionale e della classe operaia russa », e che ha come necessario complemento, « l’agitazione fra gli operai […] la partecipazione dei socialdemocratici a tutte le manifestazioni spontanee della classe operaia, a tutti i conflitti tra gli operai e i capitalisti per la durata della giornata lavorativa, il salario, le condizioni di lavoro, ecc » (15).

1900. Lenin, che ha già fissato nel « Progetto di programma del nostro Partito » le linee dorsali di quello che sarà negli anni successivi il poderoso lavoro di riarmo teorico del POSDR, affronta senza reticenza (I compiti urgenti del nostro movimento) i delicati problemi del « periodo di tentennamenti, di dubbi spinti fino all’autonegazione » che « la socialdemocrazia russa attraversa », e ne individua le cause nelle stesse insufficienze d’impostazione dell’attività pratica del Partito. Quei tentennamenti, quei dubbi, si manifestano sia nello « staccare il movimento operaio dal socialismo » aiutando gli operai a condurre la lotta economica senza spiegar loro « i fini socialisti e i compiti politici del movimento nel suo insieme », sia nello « staccare il socialismo dal movimento operaio » pretendendo che, poichè gli operai si limitano alla lotta economica, « a lottare contro il governo devono essere gli intellettuali con le sole loro forze ». L’errore « economicista » genera di rimbalzo l’errore della riduzione della politica all’attività cospirativa, e viceversa. La via alla rivoluzione passa per il superamento di queste due deviazioni e del carattere, unilaterale di posizioni che, inquadrate in un piano tattico generale, assolvono tutte un compito proprio :

« CONTRIBUIRE ALLO SVILUPPO POLITICO E ALL’ORGANIZZAZIONE POLITICA DELLA CLASSE OPERAIA : ECCO IL NOSTRO COMPITO PRINCIPALE E FONDAMENTALE. Chiunque respinga questo compito in secondo piano, chiunque non SUBORDINI AD ESSO I COMPITI PARTICOLARI E I SINGOLI METODI DI LOTTA, s’incammina per una via sbagliata e arreca un grave pregiudizio al movimento. E lo respingono in secondo piano, anzitutto, coloro i quali chiamano i rivoluzionari a lottare contro il governo con le sole forze di circoli cospirativi isolati e staccati dal movimento operaio. Lo respingono in secondo luogo, coloro i quali restringono il contenuto e l’ampiezza della propaganda, dell’agitazione e dell’organizzazione politica, ritengono possibile e opportuno offrire la « politica » agli operai solo in momenti eccezionali della loro vita, solo nei casi solenni […].

« La socialdemocrazia non si lega le mani, non restringe la propria attività in base ad un qualche piano o metodo di lotta politica prefissato : essa ammette TUTTI I MEZZI DI LOTTA, PURCHE’ CORRISPONDANO ALLE FORZE REALI DEL PARTITO E DIANO LA POSSIBILITA’ DI CONSEGUIRE I MASSIMI RISULTATI POSSIBILI NELLE ATTUALI CONDIZIONI. Quando esiste un forte partito organizzato, uno sciopero isolato può trasformarsi in una dimostrazione politica, in una vittoria politica sul governo. Quando esiste un forte partito organizzato, una rivolta in una singola località può, sviluppandosi, tramutarsi in una rivoluzione vittoriosa » (16).

1901. Gettate le basi programmatiche del partito e definite le grandi linee della sua tattica (« la tattica-piano » del Che fare ?), si pongono con urgenza i compiti organizzativi. In tale quadro, che ruolo svolge il terrorismo ? Una volta di più, la questione è posta non in astratto, ma in funzione della prospettiva, dei compiti e delle finalità generali del movimento, del grado di sviluppo e di organizzazione del suo organo-guida, e del contributo che l’impiego di un dato mezzo tattico può dare al suo potenziamento o, viceversa, al suo indebolimento e perfino alla sua distruzione. Scrive Lenin in Da che cosa cominciare ? :

« IN LINEA DI PRINCIPIO, NOI NON ABBIAMO MAI RINUNCIATO E NON POSSIAMO RINUNCIARE AL TERRORISMO. E’ un’operazione militare che può perfettamente servire, ed essere perfino necessaria, in un determinato momento della battaglia, quando le truppe si trovano in una determinata situazione ed esistono determinate condizioni. Ma la sostanza del problema è precisamente che OGGI IL TERRORISMO NON VIENE AFFATTO PROPOSTO COME UN’OPERAZIONE DELL’ESERCITO OPERANTE, STRETTAMENTE LEGATA ED ADEGUATA A TUTTO IL SISTEMA DI LOTTA, ma come un mezzo di attacco singolo, autonomo e indipendente da ogni esercito. E, quando manca un’organizzazione rivoluzionaria centrale e quelle locali sono deboli, il terrorismo non può essere niente altro. Ecco perchè dichiariamo decisamente che NELLE CIRCOSTANZE ATTUALI questo metodo di lotta è intempestivo, inopportuno, in quanto DISTOGLIE I COMBATTENTI PIU’ ATTIVI DAL LORO VERO COMPITO, PIU’ IMPORTANTE PER TUTTO IL MOVIMENTO, E DISORGANIZZA NON LE FORZE GOVERNATIVE, MA QUELLE RIVOLUZIONARIE [...]

« il compito immediato del nostro partito non può essere quello di chiamare le forze ora disponibili all’attacco, ma quello di promuovere la formazione di UNA ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONARIA CAPACE DI UNIRE LE FORZE E DI DIRIGERE IL MOVIMENTO, NON SOLTANTO DI NOME MA DI FATTO, CIOE’ DI ESSERE SEMPRE PRONTA A SOSTENERE OGNI PROTESTA ED OGNI ESPLOSIONE, SFRUTTANDOLE PER MOLTIPLICARE E CONSOLIDARE LE FORZE MILITARI CHE POSSONO SERVIRE PER LA BATTAGLIA DECISIVA » (17).

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Il superamento, su un piano infinitamente più alto, del terrorismo individualistico, poi

 

Il movimento operaio può superare e supererà le angustie nelle quali tende a costringerlo una visione legata alla contingenza nel suo capriccioso oscillare, alla sola condizione di superare l’immediatezza della sua spontaneità – i cui due estremi, convergenti nel risultato di sottomettere il movimento all’influenza dell’ideologia borghese, e quindi anche della politica borghese, sono appunto l’economicismo e il terrorismo. Esso può superarla solo grazie all’assimilazione del programma rivoluzionario marxista difeso con dogmatica fermezza e continuità, e importato nelle sue file con inflessibile tenacia, dal partito. Nel Che fare ? (1902) :

« In generale, tra gli economisti e i terroristi esiste un legame non accidentale, ma necessario, intrinseco […]. Gli economisti e i terroristi della nostra epoca hanno una radice comune : LA SOTTOMISSIONE ALLA SPONTANEITA’ […]. A prima vista, la nostra affermazione può sembrare paradossale, tanto grande sembra la differenza fra coloro che antepongono a tutto la « grigia lotta quotidiana » e coloro che propugnano la lotta che esige la massima abnegazione : la lotta di individui isolati. Ma non si tratta per niente di un paradosso. Economisti e terroristi si prosteranno dinanzi ai due poli della tendenza della spontaneità : i primi dinanzi alla spontaneità del « movimento operaio puro » [cioè tradunionista, puramente economico], i secondi dinanzi ALLA SPONTANEITA’ E ALLO SDEGNO APPASSIONATO DEGLI INTELLETTUALI CHE NON SANNO COLLEGARE IL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO E IL MOVIMENTO OPERAIO, O NON NE HANNO LA POSSIBILITA’.

« […] L’ATTIVITA’ POLITICA HA UNA PROPRIA LOGICA INDIPENDENTE DALLA COSCIENZA DI COLORO CHE, CON LE MIGLIORI INTENZIONI DEL MONDO, O FANNO APPELLO AL TERRORISMO, OPPURE DOMANDANO CHE SI DIA ALLA STESSA LOTTA ECONOMICA UN CARATTERE POLITICO. L’INFERNO E’ LASTRICATO DI BUONE INTENZIONI E IN QUESTO CASO LE BUONE INTENZIONI NON SALVANO ANCORA DAL LASCIARSI ATTRARRE DALLA « LINEA DEL MINIMO SFORZO » […].

« Terroristi e economisti sottovalutano l’attività rivoluzionaria delle masse […]. Gli uni cercano degli « stimolanti » artificiali, gli altri parlano di « rivendicazioni concrete » [corsi e ricorsi : non sembra d’essere ai giorni nostri ?]. Gli uni e gli altri non rivolgono sufficiente attenzione allo sviluppo della LORO attività per l’agitazione politica e per l’organizzazione di campagne di denuncia politica » (18).

E in vari capitoletti successivi (« Quale tipo di organizzazione occorre ? », « Organizzazione “cospirativa” e “democrazia” »), Lenin dimostra come solo nel quadro complesso e articolato dell’azione del partito, cosciente di tutta la gamma dei suoi compiti e pronto a servirsi di tutti i mezzi adeguati ad una propaganda e ad una agitazione che investono tutta la società, tutti i rapporti fra le classi, e fra queste e lo Stato, e che operi per « AVVICINARE E FONDERE IN UN TUTTO UNICO LA FORZA DISTRUTTRICE SPONTANEA DELLA FOLLA E LA FORZA DISTRUTTRICE COSCIENTE DELL’ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONARIA », solo in tale quadro l’azione terroristica individuale evita di divenire quello che spontaneamente è, una manifestazione di « avventurismo rivoluzionario ».

« Una forte organizzazione rivoluzionaria è assolutamente necessaria per rendere stabile il movimento e premunirlo contro la possibilità di attacchi inconsulti. Proprio in questo momento, data la mancanza di una simile organizzazione, dato il rapido sviluppo spontaneo del movimento operaio, si possono già notare due estremi (che, come è naturale, « si toccano ») : un economismo assolutamente inconsistente, che predica la moderazione, e un « terrorismo stimolante » che è altrettanto inconsistente […]. Vi sono già dei socialdemocratici i quali capitolano dinanzi a questi due estremismi. E non è affatto strano, perchè, a parte altre ragioni, è evidente che « la lotta economica contro i padroni e contro il governo » non soddisferà MAI un rivoluzionario, ed è quasi fatale che i due estremismi opposti sorgano qua e là. SOLTANTO UN’ORGANIZZAZIONE DI COMBATTIMENTO CENTRALIZZATA, CHE ESPLICHI CON ENERGIA UN’AZIONE POLITICA SOCIALDEMOCRATICA, E SODDISFI, PER COSI’ DIRE, TUTTI GLI ISTITUTI E TUTTE LE ASPIRAZIONI RIVOLUZIONARIE, PUO’ PREMUNIRE IL MOVIMENTO CONTRO UN’OFFENSIVA INCONSULTA E PREPARARE UN ATTACCO CHE POSSA CONCLUDERSI CON LA VITTORIA » (19).

E, perchè non sorgano dubbi, al solito, non si obietti che in tal modo si rimanda la rivoluzione al giorno del mai, Lenin precisa nel settembre 1902 :

« La socialdemocrazia metterà sempre in guardia contro l’avventurismo e denuncerà in modo implacabile le illusioni che inevitabilmente finiscono con una totale delusione […]. Noi dobbiamo ricordare che un partito rivoluzionario merita tale nome solo quando dirige EFFETTIVAMENTE il movimento della classe rivoluzionaria. Dobbiamo ricordare che ogni movimento popolare assume forme infinitamente varie, ne elabora costantemente delle nuove, scartando le vecchie, combinandole, e creando nuove combinazioni delle vecchie e delle nuove forme. Ed è nostro dovere partecipare attivamente a questo processo di elaborazione dei metodi e dei mezzi di lotta […].

« SENZA NEGARE AFFATTO IN LINEA DI PRINCIPIO LA VIOLENZA E IL TERRORISMO, abbiamo chiesto che si lavorasse per preparare forme di violenza che FACESSERO ASSEGNAMENTO SULLA DIRETTA PARTECIPAZIONE DELLE MASSE E ASSICURASSERO QUESTA PARTECIPAZIONE. Noi non chiudiamo gli occhi sulla difficoltà di questo compito, ma lavoreremo fermamente e tenacemente per adempierlo, SENZA TURBARCI SE QUALCUNO CI OBIETTA CHE SI TRATTA DI UN « AVVENIRE INFINITAMENTE LONTANO ». SI’ SIGNORI, NOI SIAMO ANCHE PER LE FORME FUTURE E NON PER LE FORME PASSATE DEL MOVIMENTO. PREFERIAMO UN LAVORO LUNGO E DIFFICILE CHE HA PER SE’ L’AVVENIRE ALLA « FACILE » RIPETIZIONE DI CIO’ CHE E’ GIA’ STATO CONDANNATO DAL PASSATO » (20).

Lavoro lungo e difficile che ha per sè l’avvenire. Tre anni dopo, il 26 settembre 1905, un breve articolo di Lenin (Dalla difesa all’attacco) saluta con entusiasmo la notizia che, a Riga, quello che oggi si chiamerebbe un « commando », ma che era composto di una settantina di persone, ha attaccato la prigione centrale, è penetrato nel cortile e ha liberato due prigionieri politici, riuscendo poi ad eclissarsi senza subire alcuna perdita e infliggendone ai carcerieri :

« Ecco quand’è che i pionieri della lotta armata non soltanto a parole ma nei fatti si fondono con le masse, e si mettono alla testa delle squadre e dei distaccamenti del proletariato, educano al ferro e al fuoco della guerra civile decine di capi popolo che domani, al momento dell’insurrezione operaia, sapranno aiutare con la loro esperienza e con il loro eroico valore migliaia di operai […].

« Il nostro bottino : due capi rivoluzionari strappati alla prigionia. E’ una splendida vittoria ! E’ una vittoria nello scontro con un nemico armato fino ai denti. NON SI TRATTA PIU’ DI UNA CONGIURA CONTRO UN INDIVIDUO INVISO, DI UN ATTO DI VENDETTA, D’UN ATTO DISPERATO, D’UNA SEMPLICE « INTIMIDAZIONE » ; NO : SI TRATTA DELL’INIZIO DI OPERAZIONI STUDIATE E PREPARATE, CALCOLATE DAL PUNTO DI VISTA DEI RAPPORTI DI FORZA, DI DISTACCAMENTI DELL’ESERCITO RIVOLUZIONARIO […].

« Sono passati i tempi in cui, in assenza di un popolo rivoluzionario, erano i terroristi rivoluzionari isolati a « fare » la rivoluzione. La bomba ha cessato d’essere l’arma del « bombista » isolato ; è divenuta un ACCESSORIO NECESSARIO ALL’ARMAMENTO POPOLARE ».

Per giungere a tanto, e al riprodursi dello stesso episodio su scala immensa ; per vedersi realizzare il passaggio dal terrorismo individuale a quello di massa e l’assorbimento del primo nel secondo come suo aspetto derivato, non occorreva soltanto che il movimento proletario alla testa delle grandi masse sfruttate prendesse le dimensioni del 1905 : occorreva che il Partito avesse preventivamente posto all’ordine del giorno i problemi dell’insurrezione armata e della lotta partigiana intesa come lotta « di singoli o gruppi » coi mezzi del terrore rivoluzionario,e che della loro soluzione avesse fatto la base sicura di un « avvenire » forse lontano, forse preceduto da delusioni e sconfitte, ma nella visione saldamente marxista dei bolscevichi, immancabile : l’avvenire dell’Ottobre 1917 dopo la « prova generale » del 1905.

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La « prova generale » del 1905

 

Non a caso Lenin chiama « prova generale » (rispetto al 1917) il 1905 russo. Prova generale esso fu per il proletariato, che in quell’anno turbinoso sperimentò tutte le forme possibili di lotta, dalle manifestazioni di piazza agli scontri di strada, dagli scioperi parziali e locali a quelli generali, dalle rivolte urbane e rurali ai tentativi di insurrezione, passando per gli audaci colpi di mano alle prigioni e alle armerie o per gli ammutinamenti di reparti dell’esercito e sopratutto della marina, e costituendo i primi Soviet di delegati operai. Prova generale esso fu per il Partito, che nel suo drammatico corso affilò le proprie armi teoriche, programmatiche e tattiche, ponendo all’ordine del giorno il problema dell’insurrezione armata (e, già allora, dell’« insurrezione come arte » !), con tutto ciò ch’essa implica non solo durante la sua attuazione, ma durante la sua preparazione ; e, se non potè saggiare quelle armi alla prova vivente dei fatti, le trasmise come patrimonio intangibile all’Ottobre rosso di dodici anni dopo.

E’ infatti nel susseguirsi incalzante degli eventi rivoluzionari che la questione della violenza e del terrore anche di « individui e piccoli gruppi » si spoglia del suo carattere velleitario, idealistico e « blanquista » (nel lato caduco del termine, non in quello che da Marx a Lenin i comunisti non hanno mai cessato di rivendicare), e tocca ai bolscevichi riprenderla in quel preciso contesto non solo contro gli opportunisti « puri » di allora, ma anche contro i rivoluzionari a parole del manscevismo, e lo stesso Plekhanov.

La rivoluzione è da poco scoppiata, quando, al III congresso del POSDR riunito a Londra dal 17 aprile al 10 maggio (12-25 aprile del vecchio calendario), Lenin presenta una risoluzione sull’atteggiamento verso l’insurrezione armata, che riproduciamo anche se egli stesso accettò poi di attenuarne alcune formulazioni e di precisarne altre :

« Considerato :

1) che il proletariato, essendo per la sua situazione la classe più avanzata e coerentemente rivoluzionaria, è chiamato ad assolvere la funzione di capo e dirigente del movimento rivoluzionario democratico in Russia ;

2) che solo l’adempimento di questa funzione durante la rivoluzione assicurerà al proletariato la posizione più vantaggiosa nella futura lotta per il socialismo contro le classi ricche della nascente Russia democratica borghese » ;

[si noti come in questi due primi accapo sia riassunto il compito della classe operaia nella rivoluzione duplice : dirigere la rivoluzione democratico-borghese spingendola fino in fondo, e creare così le premesse della rivoluzione proletaria futura in collegamento con la rivoluzione europea]

« 3) che il proletariato può svolgere questa funzione solo se si organizza, sotto la bandiera della socialdemocrazia, in una forza politica autonoma, e interviene negli scioperi e nelle manifestazioni nel modo più unitario ;

« Il III Congresso del POSDR dichiara che il compito di organizzare le forze del proletariato per la lotta diretta contro l’autocrazia, mediante gli scioperi politici di massa e l’insurrezione armata, e di costituire a tale scopo un apparato di informazione e direzione, è uno dei compiti principali del partito nell’attuale fase della rivoluzione, e incarica quindi il CC, i comitati e le unioni locali di preparare lo sciopero politico di massa, nonchè di organizzare dei gruppi speciali per l’acquisto e la distribuzione di armi, per l’elaborazione di un piano insurrezionale e la direzione concreta dell’insurrezione armata. L’attuazione di questo compito non solo non deve danneggiare l’opera generale di risveglio della coscienza di classe del proletariato, ma deve invece contribuire ad approfondirla e garantirla » (21).

E’ la rivoluzione stessa ad « istruire le masse popolari » ; il problema, per il partito politico, è di « stabilire se sarà a sua volta capace di insegnare qualcosa alla rivoluzione » (22). Esso che, fin da quando esiste il movimento operaio, ha il duplice compito di « rendere consapevole » nei proletari « la bruciante esigenza di armarsi » in vista della presa del potere e, inseparabilmente, di « indurre chi la prova a tener conto della necessità di un’organizzazione e di un’azione pianificata, a tener conto di tutta la congiuntura politica » ; esso che, in congiunture normali, alla velleità generosa ma impotente di « regolare subito i conti col nemico » oppone sempre « la forza dell’organizzazione e della disciplina, la forza della coscienza, della consapevolezza del fatto che le uccisioni individuali sono assurde, che non è ancora suonata l’ora della lotta popolare profonda, rivoluzionaria, che non c’è una situazione politica favorevole », e che « in tali condizioni […] non dice e non dirà mai al popolo : àrmati, ma gli fa invece sentire sempre e di necessità (altrimenti non si è un socialista, ma un vuoto ciarlatano) la bruciante esigenza di armarsi e di attaccare il nemico », esso lancia, oggi 1905, « seguendo gli operai che hanno preso l’iniziativa della rivoluzione, la parola d’ordine : ALLE ARMI !! » (23).

La posizione dei marxisti rivoluzionari, come appare con potente chiarezza da questo brano, è antitetica sia a quella dei « CIARLATANI » che evitano di propagandare (o vi hanno per sempre rinunciato) in ogni circostanza la necessità di prepararsi a quell’insurrezione armata senza la quale sono pure fantasticherie la conquista del potere prima e il passaggio al socialismo poi, sia a quella dei velleitari che impugnano le armi – o chiamano i proletari ad impugnarle – in qualunque momento, a prescindere da ogni seria valutazione dei reali rapporti di forza (spregevoli i primi, in quanto hanno in realtà abdicato alla stessa prospettiva rivoluzionaria ; disorganizzatori e inconcludenti malgrado le migliori intenzioni i secondi, nella loro pretesa di sostituirsi alla forza delle cose, che è anche forza della classe e del partito rivoluzionario) ; è antitetica, nel corso dei moti insurrezionali, sia a quella di coloro che scambiano l’insurrezione con un tiro a segno di individui singoli contro individui singoli, sia a quella di coloro che predicano bensì la necessità dell’insurrezione, ma rifuggono dall’organizzarla nel vivo della lotta generale della classe, perchè, anche se non lo confesseranno mai, « pensano con terrore che tocchi loro di “attuarla” ».

Sulla traccia di questa posizione saldamente definita, Lenin segue, con ansia e passione mai disgiunte dalla lucidità, gli sviluppi infinitamente diversi e complessi della lotta rivoluzionaria, registra i suoi insegnamenti, addita ai militanti marxisti la via per assumere in essa un ruolo di « guida e direzione » in tutti i campi, quindi anche (ma non solo) in quello della preparazione militare. Ricordiamo solo alcuni frammenti delle sue riflessioni e indicazioni.

« Per quanto, signori, arricciate il naso con disprezzo a proposito degli attacchi notturni e di altri simili problemi militari strettamente tattici […] la vita ha il sopravvento, la rivoluzione insegna, stimola e scuote i più incalliti pedanti – scrive nell’agosto 1905 (24). Durante la guerra civile si devono studiare i problemi militari, anche i più minuti, e l’interesse che gli operai dimostrano per tali questioni è uno dei fenomeni più legittimi e normali. Si devono organizzare quartieri generali (o un servizio di turno dei membri dell’organizzazione). La formazione di pattuglie, la distribuzione dei reparti, sono funzioni strettamente militari, sono le operazioni iniziali dell’esercito rivoluzionario (25), l’organizzazione dell’insurrezione armata, la organizzazione del potere rivoluzionario, che matura e si rafforza in questi piccoli preparativi, in questi facili scontri, provando le sue forze, imparando a combattere, preparandosi alla vittoria ».

Afrfrontare questi problemi è tanto urgente, quanto delicato. Non c’è un atomo di « avventurismo » o di precipitazione, neppure nel più irruento brano di Lenin :

« Insurrezione è una grande parola – egli scrive in ottobre –. L’appello all’insurrezione è un appello estremamente serio. Quanto più complessa diventa la struttura sociale, quanto più elevata l’organizzazione del potere statale, quanto più perfezionata la tecnica militare, tanto più inammissibile è avanzare avventatamente questa parola d’ordine. E noi abbiamo detto più volte che i socialdemocratici rivoluzionari da tempo si sono preparati ad avanzarla, MA L’HANNO AVANZATA COME APPELLO DIRETTO SOLO ALLORQUANDO NON POTEVANO SUSSISTERE INCERTEZZE SULLA SERIETA’, L’AMPIEZZA E LA PROFONDITA’ DEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO, NESSUNA INCERTEZZA SUL FATTO CHE LE COSE SI AVVIAVANO VERSO L’EPILOGO, NEL VERO SENSO DEL TERMINE […].

« La parola d’ordine dell’insurrezione è la parola d’ordine che decide del problema della forza materiale, E LA FORZA MATERIALE NELLA CIVILTA’ EUROPEA MODERNA E’ SOLTANTO LA FORZA MILITARE. Questa parola d’ordine non può essere avanzata FIN QUANDO NON SONO MATURE LE CONDIZIONI GENERALI PER L’INSURREZIONE ; FIN QUANDO NON SI SONO MANIFESTATI IN MODO PRECISO IL FERMENTO DELLE MASSE E LA LORO PREPARAZIONE ALL’AZIONE, FIN QUANDO LE CIRCOSTANZE ESTERIORI NON HANNO PORTATO AD UNA CRISI PALESE. Ma poichè tale parola d’ordine è stata posta, sarebbe vergognoso tirarsi indietro, ritornare alla forza morale, ritornare ancora ad una delle condizioni di sviluppo della base per l’insurrezione… No, poichè il dado è tratto, BISOGNA ABBANDONARE TUTTE LE SCAPPATOIE, BISOGNA ESPLICITAMENTE E CHIARAMENTE SPIEGARE ALLE PIU’ GRANDI MASSE QUALI SONO ORA LE CONDIZIONI PRATICHE PER UNA RIVOLUZIONE VITTORIOSA » (26).

Ancora una volta, saper apprendere dalla rivoluzione da un lato, saperle insegnare dall’altro ; decidere con energia, avendo valutato con freddezza il momento ; farlo in anticipo sulle masse, ma dopo averle preparate materialmente e moralmente alla necessità di una decisione irrevocabile : non pretendere nè che le masse siano autosufficienti, nè che sia autofufficiente il partito, non diciamo poi il suo « braccio armato » – peggio ancora se eretto, sotto forma di reparto militare, a suo « sostituto ». Il processo rivoluzionario è caratterizzato dall’erompere vulcanico di forze sociali che si aprono una via in mille direzioni, e creano, ricreano, abbandonano, riprendono, le forme organizzative in cui le loro energie cercano via via di incanalarsi e disciplinarsi : ognuna di queste rimanda all’altra, tutte si legano, tutte stanno o cadono insieme.

Nel luglio 1906, quando la prima ondata rivoluzionaria è ormai rifluita ma tutto sembra indicare una sua vigorosa ripresa – tanto da imporre ai bolscevichi l’aperto boicottaggio delle elezioni alla Duma, decretate per aprire una valvola di sfogo alla collera operaia e contadina –, Lenin nota come « l’ultima parola » del movimento di massa nell’ultimo trimestre dell’anno precedente sia stata lo sciopero generale politico, ma questo, se è condizione necessaria dello sviluppo di situazioni di altissima tensione sociale, è tuttavia insufficiente se non sbocca in quell’insurrezione che il fatto stesso di verificarsi in presenza di un avversario consapevole di giocare le sue carte estreme chiama a gran voce : « indipendentemente dalla nostra volontà, a dispetto di qualsiasi “direttiva”, l’inasprita situazione rivoluzionaria trasformerà la dimostrazione in sciopero, protesta in lotta, lo sciopero in insurrezione », e sarà soltanto lo svolgersi di questa catena ascendente nell’intreccio di tutti i suoi anelli che porrà, con evidenza indiscutibile anche per le grandi masse, il problema della conquista del potere.

Analogamente, nel corso degli ultimi mesi del 1905, sono sorti dallo sciopero e mediante lo sciopero, « come organi della lotta di massa immediata », i Soviet dei delegati operai ; « la necessità li ha spinti a diventare molto rapidamente organi della lotta rivoluzionaria generale contro il governo », trasformandoli « irresistibilmente in organi dell’insurrezione ». Tuttavia, « indispensabili per raggruppare saldamente le masse, per unirle nella lotta, per trasmettere le parole d’ordine della direzione politica del partito (o avanzate col consenso del partito), per interessare, risvegliare, attrarre le masse », essi « non sono sufficienti per organizzare le forze che dovranno condurre direttamente la lotta, per organizzare l’insurrezione nel più stretto significato del termine ». La loro stessa sopravvivenza implica perciò l’esistenza, « accanto all’organizzazione dei Soviet, di una organizzazione militare, per la loro difesa, per condurre QUELLA INSURREZIONE SENZA LA QUALE QUALSIASI SOVIET E QUALSIASI ELETTO DALLE MASSE SARANNO IMPOTENTI » ; e la creazione di questi organismi militari non può essere opera esclusiva del Partito : accanto ad essa, « lo spirito organizzativo delle masse, raggruppate in piccoli gruppi volanti di combattimento, agevolerà immensamente, nel momento dell’azione, la soluzione del problema di procacciarsi le armi » (27).

Ma neppur questo basta. Se l’insurrezione di Mosca nel dicembre 1905 ha dimostrato, contro l’opinione di Plekhanov che « non si sarebbero dovute impugnare le armi », la necessità, tutt’al contrario, di impugnarle « con maggior decisione, energia e spirito offensivo », in rigorosa osservanza della tesi di Marx secondo cui « l’insurrezione è un’arte, e la regola principale di quest’arte consiste nell’offensiva condotta con estrema audacia e con decisione inflessibile », ha pure dimostrato che non si può parlare « di una lotta seria, finchè la rivoluzione non è divenuta un movimento di massa e non abbraccia anche l’esercito » e che, lungi dall’essere « una cosa semplice, un atto singolo », la « conquista dell’esercito » è frutto di una lotta dura e tenace, « intraprendente ed offensiva », destinata a trasformarsi, nel momento dell’insurrezione, « anche in lotta fisica » (28).

Infine, e analogamente, l’insurrezione armata come culmine della lotta rivoluzionaria generale è inconcepibile senza quell’azione di « squadre mobili molto piccole, gruppi di dieci, di tre e persino di due » in cui è tutto il senso della « tattica della guerra partigiana », e che è resa insieme possibile e necessaria dagli sviluppi della tecnica militare moderna, come preludio e, insieme, aspetto concomitante della vera e propria insurrezione :

« La guerra partigiana, il terrorismo di massa, che ora, dopo il dicembre, si esercita in Russia quasi senza interruzione, ci aiuteranno indubbiamente, NEL MOMENTO DELL’INSURREZIONE, a insegnare alle masse l’impiego di una giusta tattica. La socialdemocrazia deve ammettere questo terrorismo ESERCITATO DALLE MASSE, INCLUDERLO NELLA SUA TATTICA, ORGANIZZANDOLO E CONTROLLANDOLO, S’INTENDE, SUBORDINANDOLO AGLI INTERESSI E ALLE CONDIZIONI DEL MOVIMENTO OPERAIO E ALLA LOTTA RIVOLUZIONARIA GENERALE, eliminando e stroncando implacabilmente nella guerra partigiana quelle deformazioni “da straccioni” di cui i moscoviti nei giorni dell’insurrezione e i lettoni nei giorni delle celebri repubbliche lettoni hanno così magnificamente e inesorabilmente fatto giustizia » (29).  

D’altra parte, non è men vero che all’insurrezione armata si giunge solo al culmine di una lunga serie di manifestazioni e scioperi economici e politici, alla “conquista dell’esercito” si giunge solo al culmine di uno sforzo di auto-armamento e di riarmo proletario, ai distaccamenti in difesa dei Soviet si giunge al culmine della formazione e generalizzazione dei Soviet, e così via. Tutto si tiene, tutto concorre al risultato finale.

E’ in questo quadro dalle dimensioni immense, e alieno dalla miopia e dalle angustie proprie del terrorismo individualistico e velleitario, che, nel progetto di Piattaforma tattica per il congresso di unificazione del POSDR, Lenin fa seguire ad una nuova e più ampia risoluzione sull’insurrezione armata – in cui tutti i punti che abbiamo via via toccato sono riassunti – la celebre (e tanto fraintesa da quelli che oggi pretendono di rifarvisi) risoluzione Sulle azioni di guerra partigiana. Eccola :

 

« Considerando :

1) che, dopo l’insurrezione di dicembre, in Russia non sono state quasi mai sospese del tutto le azioni di guerra, che trovano oggi espressione, da parte del popolo rivoluzionario, in singoli attacchi partigiani contro il nemico :

2) che queste azioni partigiane, inevitabili dal momento che esistono due forze armate ostili e che la repressione militare temporaneamente trionfante è al suo culmine, servono in pari tempo a DISORGANIZZARE IL NEMICO e a PREPARARE LE FUTURE AZIONI ARMATE APERTE E DI MASSA ;

3) che queste azioni sono necessarie per EDUCARE ALLA LOTTA E ADDESTRARE MILITARMENTE LE NOSTRE SQUADRE DI COMBATTIMENTO, le quali, durante l’insurrezione di dicembre, si sono in molte località rivelate praticamente impreparate a un compito per loro nuovo ;

« riconosciamo e proponiamo al congresso di riconoscere :

1) che il partito deve considerare IN LINEA DI PRINCIPIO ammissibile e opportune NELL’ATTUALE PERIODO le azioni di guerra partigiana delle squadre che aderiscono o simpatizzano per il partito ;

2) le azioni di guerra partigiana devono tendere per la loro natura a EDUCARE I QUADRI DIRIGENTI DELLE MASSE OPERAIE DURANTE L’INSURREZIONE e ad ACCUMULARE L’ESPERIENZA NEL CAMPO DELLE OPERAZIONI OFFENSIVE E DIFENSIVE ;

3) che l’obiettivo principale e immediato di queste azioni dev’essere la distruzione dell’apparato governativo, poliziesco e militare, e la lotta implacabile contro le organizzazioni dei centoneri, che ricorrono alla violenza e al terrorismo contro la popolazione ;

4) che sono ammesse anche azioni le quali consentono di impadronirsi di fondi appartenenti al nemico, e di devolvere questi fondi per le necessità dell’insurrezione ; che è inoltre necessario controllare con la massima cura che gli interessi della popolazione vengano lesi il meno possibile ;

5) che le azioni di guerra partigiana DEVONO ESSERE CONDOTTE SOTTO IL CONTROLLO DEL PARTITO, e inoltre che LE FORZE DEL PROLETARIATO NON VENGANO SPRECATE A VUOTO E CHE SI PRENDANO IN CONSIDERAZIONE LE CONDIZIONI DEL MOVIMENTO OPERAIO DI UNA DATA LOCALITA’ E LO STATO D’ANIMO GENRALE DELLE LARGHE MASSE » (30).

E’ la presenza di tutte queste condizioni – sistematicamente ignorate dal velleitarismo e romanticismo anarchico e blanquista, per il semplice fatto che esso nasce dal medesimo tronco dell’individualismo borghese, soltanto « capovolto » – che fa delle « azioni di guerra partigiana », del « terrorismo di massa », un elemento inscindibile ma subordinato della lotta insurrezionale per la presa del potere ; ed è la loro riaffermazione che ci conduce al punto di partenza, alle citazioni da La guerra partigiana di Lenin e dal nostro Partito di classe e azione rivoluzionaria, dalle quali abbiamo preso le mosse. Ed è avendo ripercorso idealmente la parabola storica del bolscevismo dal suo nascere fino alla soglia della lotta per il potere in un 1905-1906 che anticipa l’Ottobre 1917, che si possono fissare in una serie di punti la nostra valutazione critica non solo del terrorismo individualistico in generale, ma anche delle sue versioni contemporanee.

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Punti conclusivi

 

Origini e forme specifiche del terrorismo individualistico

 

Abbiamo preferito seguire la via indiretta della rievocazione storica del cammino di formazione del Partito bolscevico fra il 1898 e il 1905, sul piano teorico come su quello delle indicazioni pratiche e tattiche, per chiarire l’atteggiamento del marxismo (atteggiamento solo in apparenza contradditorio, come scrive Trotsky parlando del ruolo della cospirazione nel processo rivoluzionario) di fronte al terrorismo : critica di principio del terrorismo individualista e romantico, rivendicazione della violenza e del terrore nella strategia generale classista della conquista del potere. Possiamo ora formulare una serie di considerazioni conclusive, in polemica diretta con la valanga di deformazioni interessate alle quali, nei più diversi ambienti politici, hanno dato l’avvio le « gesta » delle BR :

1) Il marxismo respinge tutte le « spiegazioni » del fenomeno sociale del terrorismo che, non poggiando su basi materialistiche, hanno a loro volta bisogno d’essere spiegate. Dato e non concesso che il terrorismo individualista sia il puro e semplice prodotto di una data ideologia, resta il problema di scoprirne le radici obiettive : tutte le ideologie sono il riflesso di realtà materiali. Dato e non concesso che il terrorismo individualista sia, su scala non episodica, il frutto dell’azione di « trame oscure » di colore opposto a quello di cui si ammantano i suoi protagonisti, resta da spiegare perchè la « provocazione » trovi il terreno atto a farla attecchire e prosperare. Dato e non concesso (a parte occasionali casi patologici) che esso sia una « variante politica » della criminalità comune, resta da spiegare tanto quel fenomeno eminentemente sociale che è la criminalità, quanto quel fenomeno non meno sociale che è la sua « trasfigurazione » politica.

Il marxismo sa collocare il fenomeno del terrorismo individualista in un preciso contesto storico e sociale, o non ha il diritto di chiamarsi scienza. E la verità – a solenne smentita di quanti pretendono di richiamarsi ad esso per avallare « spiegazioni » come quelle citate – è che così il marxismo ha sempre fatto, come presupposto necessario alla critica della « dottrina » terrorista. Esso ne ha sempre individuato le radici di una violenta crisi interna della classe dominante, che spinge alla rivolta contro l’ordine costituito i suoi stessi figli (anche ad altissimo livello) e, in particolare, i figli dei suoi strati minori, i più vulnerabili al terremoto sociale in atto o in potenza (gli intellettuali, gli studenti ; più in generale, una volta impiantatosi o in corso di acclimatazione il modo di produzione capitalistico, la piccola borghesia, specialmente urbana) ; più di rado, e marginalmente, ne ha individuato le radici in una reazione elementare e spontanea (il luddismo, le prime associazioni segrete) della classe operaia nascente al cataclisma provocato nelle abitudini di vita e di lavoro del passato dall’accumulazione originaria del capitale e dalla nascita della grande industria. (Nel caso particolare delle BR, l’albero genealogico che le riconduce alla matrice del ‘68 studentesco e sopratutto universitario, dunque ad una matrice sociale piccolo-borghese, è li a portata di mano).

Poichè conosce le radici del fenomeno, il marxismo è il solo in grado di darne la giustificazione storica anche quando procede alla sua demolizione teorica ; è il solo in grado di riconoscerne il valore di sintomo di avvenimenti destinati a prodursi non solo a prescindere dalla volontà, dai propositi, dagli obiettivi coscienti dei « protagonisti » del momento sulla scena sociale, ma CONTRO la loro volontà, CONTRO i loro propositi, CONTRO i loro obiettivi coscienti. Che gli avvenimenti così preannunciati siano di segno positivo o negativo dipende, per il marxismo, dal dato materiale della congiuntura storica, non da considerazioni astratte, peggio se moralistiche.

E valga il vero. Lo stesso Engels che nel 1847, insieme con Marx, mena lo staffile sul « tirannicida » Heinzen, mostrando come sia vana la pretesa di capovolgere i rapporti politici e sociali esistenti eliminando dalla scena i « personaggi », alti o bassi, che ne sono non la causa, ma il prodotto, saluta nel 1878 e nel 1879 i segni premonitori in Russia di una rivoluzione che, è vero, « scoppierà dall’alto, nel seno della nobiltà impoverita e frondeuse » (meno di cinquant’anni dopo, saranno gli esponenti di questa nobiltà ad assassinare Rasputin e i benpensanti democratici li copriranno di elogi !), ma che, « una volta in moto, travolgerà i contadini (e allora – aggiunge Engels – vedrete delle scene di fronte alle quali impallidiranno quelle del ‘93) » ; saluta « la cospirazione potente nell’esercito e perfino nella Corte imperiale » ; saluta « l’assassinio politico » come « il solo mezzo che hanno gli uomini intelligenti, dignitosi e di carattere, per difendersi contro gli agenti di un dispotismo inumano » (31).

Lo stesso Engels che dal 1875 al 1894 sottopone a critica devastatrice l’ideologia populista in Russia e le sue filiazioni blanquiste per gettare così le basi teorico-programmatiche del partito comunista, organo del proletariato nascente, scrive nel 1885, a proposito della « polveriera » in cui si sta tramutando l’impero zarista : « E’ questo uno dei casi ECCEZIONALI in cui un pugno di individui può fare la rivoluzione, cioè spingere verso l’abisso, con un piccolo colpo di mano, un paese in equilibrio più o meno labile […] e, con un gesto insignificante, scatenare INCONTROLLABILI forze esplosive. Se mai il blanquismo – cioè la fantasia di poter sovvertire l’intera società mediante una piccola congiura – ha una CERTA ragion d’essere, è, senza dubbio, ora a Pietroburgo. Dato fuoco alle polveri, liberate le forze e trasformata l’energia nazionale da potenziale in cinetica […] , GLI UOMINI CHE HANNO INCENDIATO LA POLVERIERA SARANNO TRAVOLTI DA UN’ESPLOSIONE PIU’ FORTE DI LORO, CHE SI TROVERA’ UNA VIA DI USCITA COME MEGLIO POTRA’ ; cioè, COME LE FORZE E LE CIRCOSTANZE STORICHE DECIDERANNO » (32).

Inversamente, Marx condanna, non giudicandoli neppure sintomi di situazioni positive, i sogni velleitari di « presa del potere subito (altrimenti, andiamocene a dormire) » di Schapper e Willich nelle condizioni negative susseguenti al 1850, e Engels condanna quelli analoghi dei comunardi blanquisti a Londra nel 1874, nell’ondata di riflusso seguita alla repressione della Comune parigina : nello stesso tempo, entrambi li spiegano con la situazione disperata di una classe operaia « interdetta igni et aqua », privata dello stesso diritto di « stampa, parola e associazione » dopo le brucianti sconfitte del 1848-1849 in Germania e del 1871 in Francia ; e con l’impazienza – generosa, sia pure, ma impotente – di uscirne non fra « 15, 20, 50 anni », come previsto possibile da Marx ed Engels a condizione di lavorare a costruire il partito proletario di domani, ma subito, per decisione e per atto di arbitrio.

In entrambi i casi, la comprensione del fenomeno del terrorismo – vero, o aspirante a divenirlo – è condizione imprescindibile del suo superamento in una visione classista e materialistica del processo rivoluzionario e del ruolo in esso del partito. Lo è tanto più, in quanto il « terrorismo romantico » trova non solo spazio ma ragione di esistere – come si è già avuto modo di osservare – nell’assenza, o nella temporanea eclissi della sola forza storica in grado di polarizzare le « energie esplosive » sonnecchianti nella società, sia per condurre fino alle sue estreme conseguenze la rivoluzione proletaria e comunista – cioè la classe operaia.

2) Il giudizio fortemente critico formulato dai marxisti non verte sul terrorismo in generale, ma sulla forma specifica da esso assunta, per dirla con la formula breve ma lapidaria di Marx sempre a proposito di Schapper-Willich, in « coloro che sostituiscono alla concezione materialista quella idealistica ; che, al posto dei rapporti reali, elevano a ruota motrice della rivoluzione LA PURA VOLONTA’ » (33). Non è l’impiego o no della violenza e del terrore, che ci divide da costoro, ma una visione diversa ed anzi opposta del processo rivoluzionario, di quella lotta e di quella guerra di classe nel quadro e in funzione delle quali il terrore anche di « singoli e gruppi », l’atto dimostrativo, l’attacco audace, siano essi compiuti dalle masse in turbinoso movimento, siano diretti e perfino organizzati dal partito, e la cospirazione come necessario momento dell’insurrezione, trovano il loro posto naturale e il loro impiego positivo, appunto perchè inseriti in un ciclo storico intollerante d’essere immeschinito alla misura di un … « golpe ».

E’ centrale nella concezione marxista il principio che lo scontro fra le classi si decide non sul terreno del diritto, ma su quello della forza – forza che nella sua massima espressione è violenza rivoluzionaria, eversiva dello Stato capitalistico, autoritaria e centralizzatrice, e che si traduce, una volta conquistato il potere, in un’altra forma di violenza pianificata e sistematica, la dittatura. Tutto questo significa la celebre frase del Capitale sulla « violenza, levatrice di ogni vecchia società gravida di una società nuova » ; ed è un’infame menzogna quella, oggi corrente su tutte le labbra, di destra e di sinistra, secondo cui nulla di tutto ciò che questa formula necessariamente implica sarebbe stato previsto da Marx e da Engels, e la storia avrebbe riservato a Lenin (padre di … Stalin !!!) il privilegio di scoprirlo !

Senza dubbio, nella Londra degli anni successivi al 1850, Marx ed Engels volsero le terga allo stuolo di « facitori di rivoluzioni » indaffarati a progettare « governi provvisori dell’avvenire » dopo che si era riaperto un periodo di « nuova e inaudita prosperità industriale », e la situazione poggiava su « basi momentaneamente così sicure e (…) così borghesi » (34). Ma, nel fuoco delle battaglie rivoluzionarie dei due anni precedenti – dunque, non a freddo o « per libera scelta » – è Marx (non a caso proclamato dai borghesi « dottor terrore-rosso ») a scrivere che « esiste un solo mezzo per abbreviare, semplificare, concentrare l’agonia assassina della vecchia società e le cruente doglie del parto della nuova ; un solo mezzo : il terrore rivoluzionario ! ». Il proletariato non ha certo la vocazione « cannibalesca » della controrivoluzione borghese ; soprattutto, ignora l’ipocrisia dietro la quale quest’ultima nasconde la ferocia della sua rappresaglia. Ma « noi non abbiamo riguardi – scrive Marx alle autorità di polizia prussiane che sopprimono la Nuova Gazzetta Renana – ; non ne attendiamo da voi. Quando verrà il nostro turno, non abbelliremo il terrore ». (35).

Nel 1850, Marx ed Engels rompono i ponti con Schapper e Willich, gli uomini – tuttavia personalmente ammirati – che « scambiano lo sviluppo rivoluzionario con la frase della rivoluzione », il partito proletario di classe, e a difenderne le « posizioni rigorosamente indipendenti ». Ma a questo partito, nell’Indirizzo del marzo del 1850, dettano la tassativa disposizione di « armare tutto il proletariato con schioppi, fucili, pistole e munizioni », nella chiara coscienza che gli « alleati di ieri » sono i nemici di oggi e ancor più lo saranno domani ; di « non consegnare, sotto nessun pretesto, le armi e le munizioni e, ad ogni tentativo di disarmo, se occorre, opporsi con la forza » ; di procedere, insomma, all’« immediata organizzazione indipendente ed armata dei lavoratori » ; mentre nello stesso anno, in Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, Engels fissa nella pagina che Lenin rievocherà alla vigilia di ottobre 1917 le norme tattiche inderogabili dell’« insurrezione come arte », « non abbandonata alla sua propria spontaneità priva di centralizzazione e quindi di efficacia », e sicuramente poggiante sulla massima decisione e, una volta assicuratesi le necessarie « posizioni di vantaggio » rispetto al nemico, sull’offensiva audace (36).

Nel 1854, la condanna marxista del velleitarismo imperante fra gli esuli blanquisti è inesorabile. Ma, nelle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Blanqui è ricordato come colui nel quale la borghesia identificava a buon diritto – nelle giornate del 1848-1849 (e non poteva rendergli omaggio più alto) – il terribile spettro « della dichiarazione della rivoluzione in permanenza e della dittatura di classe del proletariato » ; ancora nel 1861 Marx lo esalta come « la testa e il cuore del partito proletario in Francia » per non aver esitato ad affrontare il nemico sul suo stesso terreno, quello della forza, quindi anche della violenza (37).

Nel 1871, gli occhi rivolti al sublime esempio dei Comunardi a Parigi, Marx scrive a Kugelmann che « se essi soccomberanno, la colpa sarà soltanto della loro “bonarietà” » e, prima di tutto, del « non aver voluto incominciare la guerra civile » (oggi si trema, in campo opportunista, che le BR possano scatenare, figurarsi, la guerra civile !), marciando immediatamente su Versailles (38). A comune sconfitta, è ancora Marx a rivendicare per « la guerra degli schiavi contro i loro asservitori, la sola giustificabile nella storia », quelle misure di ritorsione, intimidazione e terrore non dissimulato, che la vile classe dominante sta scatenando contro i vinti (e non esita, essa, a dare alle proprie forze dell’ordine « licenza ufficiale di uccidere, bruciare e distruggere » (39). Nel 1874, è Engels a ricordare agli avversari dell’« autorità » che « una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia ; è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra col mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari se ce ne sono ; e il partito vittorioso, se non vuol avere combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi inspirano ai reazionari. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno, se non si fosse servita di questa AUTORITA’ di popolo armato, IN FACCIA AI BORGHESI ? NON SI PUO’ AL CONTRARIO RIMPROVERARLE DI NON ESSERSENE SERVITA ABBASTANZA ? » (40).

Est-ce clair, messieurs ?, potremmo dire noi, riprendendo le parole rivolte da Marx a quelle tali autorità di polizia : non annunziano questi brani – pochi scelti fra i tanti – l’epopea dell’Ottobre Rosso e della Guerra Civile, condotta alla vittoria sotto la guida dei « barbari », « asiatici » o, alternativamente, « giacobini » Lenin e Trotsky ?

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Incompatibilità fra marxismo e terrorismo individualista

 

3) Conoscendone le radici sociali, il marxismo non ha esitazioni nell’individuare e giudicare criticamente l’ideologia che il terrorismo individualista porta con sè dalle sue stesse origini, e che ne governa le azioni.

E’ su questo piano, visto non nelle peculiarità delle sue manifestazioni contingenti, ma nelle sue costanti storiche, nei suoi inevitabili ricorsi, che la demarcazione fra marxismo rivoluzionario e romanticismo terrorista diviene incompatibilità, le divergenze si trasformano in antitesi. I membri degli strati sociali nelle cui file germina il terrorismo individualista – le mezze classi e, nei loro interstizi, l’« intellighentsia » – non possono non trascinare con sè, nella lotta o anche solo nella reazione istintiva all’ordine costituito, il bagaglio di motivazioni ideologiche proprie delle loro origini sociali, e le forme di azione ad esse corrispondenti.Ribelli come individui al peso di strutture produttive e di impalcature sociali e politiche che soffocano sempre più la « persona umana » (e tanto più la soffocano, quanto più pretendono di averla liberata, dandole ali e spazio per muoversi e svilupparsi a suo piacere), essi non possono non dare alla loro rivolta, anche quando si servono di brandelli di terminologia marxista, anche quando si appellano al « proletariato » e parlano di « lotta per il comunismo », la bandiera di quell’« individualismo borghese alla rovescia », di quell’« individualismo come base di tutta la concezione del mondo », in cui Lenin ravvisa l’essenza stessa di uno dei filoni ideologici del terrorismo populista, l’anarchia (41), e del quale sono il necessario complemento, comune del resto al filone blanquista del terrorismo elevato a sistema, l’idealismo nel modo di interpretare la storia e il velleitarismo nella teorizzazione delle vie per agire in essa e modificarne il corso, che Marx denunciava nei pur generosi Schapper e Willich.

Al centro di questa visione del mondo e della storia non sono le classi e, alla loro base, i modi e rapporti di produzione di volta in volta esistenti, ma gli individui sganciati da quelle e da questi, e spinti ad agire non – come necessariamente avviene alle classi – da determinazioni materiali, ma da libere « scelte », da atti del volere : « scelte » ed atti che al « male » del potere e del privilegio detenuti dagli individui oppressori e sfruttatori oppongono lo sdegno morale, l’appassionata volontà, la forza dell’idea (di un modello « razionale » di società nuova) negli individui oppressi e sfruttati.

La triplice « incomprensione » che Lenin rileva nella concezione anarchica « incomprensione delle cause dello sfruttamento », « incomprensione dello sviluppo della società che conduce al socialismo », « incomprensione DELLA LOTTA DI CLASSE come forza creativa per attuare il socialismo », e che si può estendere al lato pre-marxista ed antimarxista del blanquismo (« socialista soltanto per sentimento, pieno di simpatia per le sofferenze del popolo, Blanqui non possiede nè una teoria socialista, nè proposte pratiche definite di intervento sociale ») (42), è solo l’altra faccia di una visione idealistica del processo rivoluzionario, che parte dal dato bruto e immediato del rapporto oppresso-oppressore, sfruttato-sfruttatore, dominato-dominante (rapporto comune ad ogni società divisa in classi, quindi indipendente dalla particolare società in cui ci si trova a vivere ed a operare), e si esaurisce in esso per l’incapacità di risalire alle cause materiali che lo determinano non in astratto e fuori del tempo, ma nel modo di produzione e di vita associata presente ; di risalire alle forze di classe che quest’ultimo genera dal proprio seno e che tendono irresistibilmente ad infrangerne l’involucro, quindi, di risalire alle vie e ai mezzi che soli permettono di spezzarne il cerchio, e alle finalità che la sua stessa evoluzione rende insieme possibile e necessario raggiungere : è quindi condannato ad aggirarsi in un vicolo cieco di illusioni e delusioni, e a fantasticare di poterne uscire con la « pura volontà », insieme distruttiva e creatrice.

Perciò Lenin mette in parallelo economicismo e terrorismo come manifestazioni solo apparentemente opposte di una fondamentale sottomissione alla spontaneità : se la lotta « puramente economica » (tradunionista, sindacale) non solo non vede più in là del binomio salariato-padrone, ma riduce ad esso lo storico conflitto fra classe proletaria e classe borghese, la lotta « puramente terroristica » non vede più in là del binomio oppressore-oppresso, suddito-sovrano (poco importa se privo di corona) in generale, e riduce ad esso lo storico conflitto dal quale attende tuttavia che emerga una società più « umana ». La spettacolarità delle azioni dello spontaneismo terrorista (del resto oggi figlio delle illusioni frustrate di « contropotere » o di « potere alternativo » del ‘68, come il nichilismo nacque dalle illusioni frustrate dell’« andare verso il popolo » negli anni ‘70) in confronto al grigiore dello spontaneismo economicista, non toglie che sia comune ad entrambi un orrizzonte ideologico rinchiuso entro i limiti di quello stesso ordine costituito contro il quale l’uno e l’altro credono (sinceramente, sia pure) di battersi – con un punto d’onore (ma solo d’onore !) per il terrorista, quello di ribellarsi, e con un’astrazione in più rispetto all’economicista, quella di ragionare in termini che si adattano indifferentemente ad una società schiavista, feudale o capitalista, e di agire in conseguenza.

Su questo piano, non è casuale, ma inevitabile, che ci si illuda di « colpire il cuore dello Stato » colpendo le persone dei suoi strumenti, o l’apparato produttivo colpendo le persone dei suoi agenti, scambiando la rete di interessi, rapporti, istituti su cui si regge la « società civile » con una gerarchia o, addirittura, una « cricca » di individui, vulnerabile – appunto perchè mero aggregato di individui – dal colpo audace di un altro gruppo di individui.

Non è casuale, ma inevitabile, che si scambi la rivoluzione per una congiura di eletti lanciata all’assalto di una cospirazione universale di reprobi, quasi che, nella fitta trama della struttura economica e della sovrastruttura sociale e politica, il personale cosiddetto esecutivo non fosse un insieme di pezzi di ricambio, intercambiabili e infatti continuamente intercambiati, al servizio di una macchina impersonale, storicamente determinata.

Non è casuale, ma inevitabile, che si isoli la parte – il singolo « centro di potere », il singolo governo, il singolo partito, ecc. – dal tutto, e ci si illuda di « disarticolare » il tutto disarticolando (ma ci vuol altro che la classica bomba e il modernissimo sequestro) la parte ; o che si cerchi la « trama oscura » delle… multinazionali in un mondo che chissà come le ha generate – solo ora ! – e che, senza di esse, potrebbe ancora offrire un margine di tollerabilità al genere umano.

Non è casuale, ma inevitabile, che si veda nello Stato un puro e semplice apparato militare cui non si possa e non si debba contrapporre altro che la forza simmetrica di un opposto apparato militare, ignorando tutto ciò che permette allo Stato borghese, in particolare se democratico, di circondare di consensi la macchina, altrimenti inefficacie, della repressione aperta.

Non è casuale, ma inevitabile, che si misuri il carattere rivoluzionario o controrivoluzionario delle situazioni storiche dal grado di temperatura del proprio « entusiasmo » : che importa il gioco complesso dei rapporti di forza, quando è la volontà pura a generarli e a dirigerli ? (Dove si vede che la sistematica sopravvalutazione del momento storico non è, nei terroristi extra ed antimarxisti, un « errore di analisi », ma una « ragion d’essere »).

La sottomissione alla spontaneità non si traduce però soltanto nel graffio impotente alla corazza del « sistema » ; incapace di « disorganizzare » l’avversario anche quando gli crea degli innegabili fastidi, il terrorismo individualista non è meno incapace di organizzare le forze sociali di cui si erige a rappresentante e difensore, quando non le disorganizza addirittura.

 I populisti vivevano nel mito del popolo, e soprattutto del popolo contadino russo, « rivoluzionario per istinto », vergine nell’intatto possesso di istituti comunitari anticipanti la società socialista futura, pronto a riprendere il suo cammino luminoso purchè la cappa di piombo di una sovrastruttura meramente politica e poliziesca, l’autocrazia zarista, fosse fatta volare in pezzi. A Tkaciov che scriveva : « Basta [eh già, « basta » !] risvegliare simultaneamente in diverse regioni il senso accumulato di rancore e di amarezza che… cova inestinguibile in seno al nostro popolo, perchè l’unione delle forze rivoluzionarie avvenga DA SE’ e la lotta… si risolva a favore della causa popolare. La necessità pratica, l’istinto di conservazione creeranno DA SOLI un’alleanza indistruttibile fra le comuni in rivolta », Engels rispondeva : « Si potrebbe immaginare rivoluzione più comoda, più liscia ? Battiamo simultaneamente in tre o quattro punti diversi [« mordi e fuggi », nel linguaggio odierno] ; il resto lo faranno da sè il “rivoluzionario per istinto”, la “necessità pratica”, l’ “istinto di conservazione”. Davvero, perchè un simile giochetto da bambini, una rivoluzione così facile, non sia riuscita vittoriosa già da tempo, perchè non abbia già liberato il popolo e trasformato la Russia in un modello di paese socialista, lo capisca chi è buono » (43).

Lo stesso mito, varianti terminologiche a parte, ricorre nell’deologia terrorista dei nostri giorni in riferimento a quello che essa chiama « il proletariato », e che sistematicamente confonde con « il popolo ». Colpiamo : il proletariato è lì bell’e pronto ; insorgerà. Insorgiamo : il socialismo è lì bell’e pronto ; nascerà da sè. Ma ciò significa ignorare tutto della storia, fatta sul piano storico di avanzate e ancor più di sconfitte, della classe operaia ; del peso di queste vicende alterne ; dell’azione frenante di inerzie del passato, e di passaggi in campo avverso di intere frotte di dirigenti ; dell’influsso martellante dell’ideologia borghese predicata da mille pulpiti ; degli effetti dissolventi della « concorrenza fra salariati » ; della stessa difficoltà di compiere il salto – poichè di vero e proprio salto si tratta – dalla lotta meramente economica alla lotta politica ; dell’assenza – e dell’impossibilità di costruirle, malgrado ogni velleitarismo – di isole di « potere alternativo » entro la società capitalistica ; e, a coronamento (purtroppo !) di tutto ciò, significa ignorare la distruzione – ad opera dello stalinismo per tanti anni e magari tuttora ammirato e corteggiato – del Partito mondiale di classe, che non si crea nella lotta, non nasce per generazione spontanea, non attende il suo programma (che è il programma stesso dell’emancipazione proletaria) dai pensamenti dei militi di un « esercito armato », e intanto sarà l’organo- guida della rivoluzione, in quanto l’avrà preceduta e nel programma (non di oggi, ma di un secolo e mezzo) e nell’organizzazione pratica : oppure la rivoluzione sarà, ancora una volta, sconfitta, se mai avrà luogo.

Che cosa fare, qui ed ora, in seno ad una classe operaia che comincia appena a scrollarsi di dosso il peso dell’opportunismo anche soltanto sul terreno della difesa economica immediata (non parliamo poi dell’autodifesa fisica), e cerca faticosamente di darsi, per prima cosa, quelle organizzazioni di resistenza sindacale che un lungo ciclo controrivoluzionario ha distrutto o profondamente deformato, insieme con i più elementari metodi e strumenti della lotta di classe ? Che cosa, per controbattere e a poco a poco smantellare l’influenza non solo dell’opportunismo senza veli, ma delle sue mille varianti in veste « di sinistra » ? Quale rapporto può sussistere fra le lotte immediate che la classe operaia deve condurre su un terreno ancora così arduo e sfavorevole, e un’« organizzazione armata » la cui esistenza presuppone una fase di altissima tensione sociale, e che in tale fase può essere soltanto il « braccio armato » del partito politico ? Come stabilire un legame di solidarietà nella lotta fra occupati, disoccupati, emarginati invece di cullare questi ultimi con prospettive rivoluzionarie vicine per le quali mancano troppi presupposti, e alcuni dipendono da noi ? Quale giudizio dare del « socialismo » russo, cinese, cubano, vietnamita, e dei mille travestimenti « socialisti » che si sono dati e si danno i moti rivoluzionari democratico-nazionali, delle cui ideologie piccolo-borghesi si nutre tuttora il romanticismo terrorista completando con esse il bagaglio ideologico premarxista ereditato dai filoni anarchico e blanquista ? E’ o non è indispensabile, non solo per la presa del potere, ma per la guida e l’esercizio della dittatura proletaria, il partito di classe, ricostituito sul filo di una tradizione ininterrotta da restituire integra alla classe operaia, spoglia di tutte le deformazioni e aberrazioni accumulate da destra e da « sinistra » ? E che cos’è lo stesso comunismo, da troppe parti ridotto ad una mala copia del capitalismo ?

A questi e a tutti gli altri quesiti ancora aperti nelle « avanguardie rivoluzionarie », e senza aver fatto chiarezza sulle quali è vano parlare di rivoluzione in marcia, gli odierni terroristi, al pari dei vecchi, non danno nessuna risposta, all’infuori del loro : colpire al (cosiddetto) cuore dello Stato, sorvolando sull’enormità dei compiti, umili, certo e non inebrianti, ma essenziali, della preparazione rivoluzionaria. Ma ignorare questi interrogativi, affidarne la soluzione al colpo di tuono di un terrore gratuito, significa qualcosa di più che evitare di preparare le condizioni soggettive della rivoluzione ; significa idealizzare lo stato di disorganizzazione e disorientamento programmatico e tattico della classe operaia. Non significa soltanto, come scriveva Plekhanov nel lontano 1884, « distrarre la nostra attenzione dall’essenziale : l’organizzazione della classe operaia per la lotta contro i suoi nemici presenti e avvenire » (44) ; significa aggiungere alla disorganizzazione attuata dall’opportunismo riformista la disorganizzazione e l’amorfismo propri, vanamente nascosti dietro il rumore – suggestivo, certo, ma soltanto rumore, della « frase rivoluzionaria ». « in fondo, in ogni società divisa in classi ci sono contraddizioni sufficienti per poter imbastire un complotto nei suoi interstizi – scrive giustamente Trotsky – [Ma] una pura e semplice cospirazione, anche in caso di successo, può determinare solo l’avvento al potere di cricche diverse DELLA STESSA CLASSE DIRIGENTE, o, meno ancora, UNA SOSTITUZIONE DI UOMINI DI GOVERNO. Soltanto le insurrezioni di massa hanno determinato nella storia il prevalere di un regime sociale sull’altro ». Ma « le masse ATTACCANO E RIPIEGANO A PIU’ RIPRESE prima di decidersi all’attacco finale » (45) (e Trotsky parla di un periodo già prerivoluzionario : figurarsi oggi !). E’ a questo difficile travaglio che si tratta di offrire il meglio delle proprie forze, nella chiara coscienza che il suo punto d’arrivo sarà una tormentata e contestata conquista, non il prodotto di un « colpo di spalla » all’edificio, purtroppo ancora solido sulle sue fondamenta tuttavia corrose, del capitalismo. Ma non è questa la strada del terrorismo individualista : , nel rifiuto di imboccarla – non nel riconoscimento della necessità storica della violenza, come vorrebbero far credere i nostri bravi democratici (pronti, da parte loro, a farne l’uso più largo in difesa delle proprie istituzioni) – è il suo « delirio » ; lì è la sua condanna.

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« Legame con le masse » e « partito combattente »

 

4) Il fatto che – oggi come in passato – a un certo punto della sua parabola il « romanticismo terroristico » cerchi, e si illuda, di uscire dal vicolo cieco del suo isolamento dalla situazione reale prefiggendosi di « proiettarsi nel movimento di massa » (come si è letto sui giornali che proclama la « risoluzione » delle BR dello scorso febbraio), non solo non contraddice all’idealismo individualistico della sua « dottrina » e della sua prassi, ma ne è un’ulteriore conferma : sia infatti che pretenda di suscitare il movimento per poi « inserirvisi », sia che si autodefinisca come la « punta dell’iceberg » di una « rivoluzione in marcia », esso non fa che spostare su un altro piano, e presentare in altra veste, un velleitarismo congenito, che, sommandosi allo spontaneismo, vaneggia fin da ora di « organizzare il potere proletario nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, nelle carceri » e di mettere a sua disposizione il braccio armato di un’organizzazione militare.

La storia si ripete. Nell’estate 1902, Lenin si trovò ad affrontare quei socialrivoluzionari i quali « si fanno in quattro per dichiarare che il terrorismo lo accettano solo se unito al lavoro fra le masse ; e che perciò gli argomenti con i quali i socialdemocratici russi [i marxisti oggi] hanno confutato (e l’hanno confutata da gran tempo) l’opportunità di questo metodo di lotta, non li riguardano » ; noi, essi giuravano nell’esaltare gli episodi di « duello » armato con le autorità, « facciamo appello al terrorismo non per sostituirlo al lavoro fra le masse, ma precisamente per fare questo stesso lavoro, e per farlo contemporaneamente ».

La risposta di Lenin è tanto più istruttiva, in quanto parte da una situazione radicalmente diversa dall’attuale ; allora le masse « si stavano sollevando », e il grave problema per i rivoluzionari era di colmare il vuoto scavatosi fra un movimento in vigorosa ascesa e la fragilità di un’organizzazione ansiosa ma incapace non diciamo di dirigerlo, ma di soddisfarne le esigenze elementari di indirizzo, orientamento ed organizzazione da una parte, di preparazione politica in senso lato, dall’altra (l’« incomprensione del ruolo dell’organizzazione e dell’educazione degli operai» è, per Lenin per il marxismo in genere, uno dei tratti caratteristici dell’anarchismo). Chiusi in una visione immediatista del movimento, gli economisti – questi opportunisti dell’inizio del secolo – esaurivano il compito dei « rivoluzionari » nel « lavoro minuto » di intervento nelle lotte economiche ; affetti da una malattia analoga, ed « economicisti alla rovescia », i terroristi, lo esaurivano nell’azione eroica : gli uni non meno degli altri ignoravano le necessità urgenti, insieme « minime » e « massime », di quel movimento al quale « giuravano » di offrire tutto il loro impegno ; gli uni non meno degli altri, distruggevano i presupposti soggettivi del rafforzamento dell’organo, il Partito di classe, in assenza del quale il movimento è condannato a girare a vuoto su se stesso. Oggi che gli effetti a lunga scadenza della controrivoluzione socialdemocratica e staliniana rendono così faticosa la rinascita di un autentico « movimento di massa » e, a maggior ragione, ostacolano e ritardano la ricostituzione delle basi programmatiche, tattiche ed organizzative del Partito classista rivoluzionario, suonano ancor più taglienti le parole scritte da Lenin in anni di grande fermento sociale e, contemporaneamente, di tessitura della trama del futuro Partito dell’Ottobre rosso (i corsivi di Lenin figurano qui in maiuscolo) :

« L’errore [dei terroristi] consiste, come già abbiamo osservato altre volte, NEL NON COMPRENDERE la deficienza fondamentale del nostro movimento […] Fare appello a un terrorismo quale l’organizzazione di attentati contro i ministri da parte di singoli individui e di circoli che non si conoscono fra loro, in un momento in cui i rivoluzionari NON HANNO SUFFICIENTI forze e mezzi per dirigere le masse che già si stanno sollevando, SIGNIFICA non solo minare il lavoro fra le masse, ma anche introdurvi una vera e propria disorganizzazione… »

E Lenin, abituato a ricondurre le questioni teoriche anche più difficili sul terreno del reale – antidemagogico e antiretorico – lavoro di partito, esemplifica :

« Chi svolge effettivamente il suo lavoro rivoluzionario in legame con la lotta di classe del proletariato, sa, vede e sente perfettamente che un gran numero di esigenze immediate e dirette del proletariato [e degli strati popolari che possono appoggiarlo] rimane insoddisfatto. Sa che in moltissimi luoghi, in intere, immense regioni, il popolo lavoratore anela letteralmente alla lotta, e i suoi slanci rimangono vani perchè le pubblicazioni sono scarse, pochi i dirigenti e alle organizzazioni rivoluzionarie mancano le forze e i mezzi. Ci veniamo quindi a trovare – e lo vediamo – nello stesso maledetto circolo vizioso che, come una mala sorte, ha gravato così a lungo sulla rivoluzione russa. Da una parte, rimane vano lo slancio rivoluzionario della folla disorganizzata e non sufficientemente illuminata. Dall’altro rimangono vane le sparatorie degli “individui inafferrabili” », che non sanno e non possono « lavorare in stretto contatto con le masse » (46).

Perciò, come abbiamo ricordato in uno dei capitoli precedenti, Lenin oppone alla « “facile” ripetizione di ciò che è stato già condannato dal passato », ovvero alle « sole forme passate del movimento », « ciò che ha per sè l’avvenire », « le forme future del movimento ». Perciò, nel « dichiarare una guerra risoluta ed implacabile ai socialisti rivoluzionari », scrive fra l’altro :

« Nessuna assicurazione verbale, nessun giuramento può smentire il fatto che il terrorismo, come oggi viene esercitato e propugnato dai socialisti-rivoluzionari, NON HA NESSUN LEGAME con il lavoro fra le masse, per le masse e insieme alle masse ; che gli atti terroristici organizzati dal partito distolgono [non in assoluto, nè per principio come ripete Lenin molte volte, in situazioni del genere] le nostre forze organizzative estremamente scarse dal compito difficile, e ancora lontano dall’essere realizzato, di organizzare un partito OPERAIO rivoluzionario ; che DI FATTO il terrorismo dei socialisti-rivoluzionari non è altro che un DUELLO, condannato in pieno dall’esperienza storica », non foss’altro perchè semina « illusioni nocive » che « possono condurre solo a una rapida delusione e all’indebolimento del lavoro di preparazione per l’assalto delle masse contro l’autocrazia » (47) o, come oggi, contro lo Stato democratico borghese.

5) La questione si ricollega a quella – di cui pure si fanno portavoce, usando a sproposito una formula di Lenin, gli odierni terroristi – del cosiddetto « partito combattente ». E’, questo riconoscimento della necessità primaria del partito, il segno di un « salto di qualità » teorico e programmatico nell’ideologia del terrorismo individualista ? La nostra risposta è recisamente negativa.

Nella concezione marxista, svolta da Lenin in tutte le sue conseguenze esplicite ed implicite, mai « raddobbata » e « riveduta », il partito di classe, il partito politico, sa fin dalla nascita (perchè è scritto nel suo immutabile programma) che la sua ragion d’essere come « organizzazione del proletariato in classe » è la preparazione del proletariato al salto qualitativo verso l’« organizzazione in classe dominante » : la preparazione, quindi, alla presa rivoluzionaria del potere, che presuppone l’insurrezione armata, e all’esercizio della dittatura sulla classe avversa, che è inconcepibile senza l’impiego della violenza e del terrore, ad opera del potere conquistato e diretto dal partito, così per infrangere le resistenze interne e gli attacchi esterni della borghesia, come per trasportare sul terreno della guerra rivoluzionaria, quando ne siano date le condizioni obiettive, la lotta per definizione internazionale contro il capitalismo. Ma sa, per lo stesso motivo, che a questo traguardo si può giungere, e quindi a provvedere a tale preparazione, alla SOLA CONDIZIONE non solo di aver svolto, in tutto il periodo che precede la situazione rivoluzionaria, l’intero complesso di attività di propaganda, proselitismo, agitazione, intervento nelle lotte operaie ecc., che lo contraddistinguono (sia pure in grado diverso), ma di non cessare di svolgerlo nel corso stesso di quella situazione. Sa che soltanto così esso può rispondere alle esigenze di organizzazione e preparazione politica del proletariato in funzione delle quali è sorto, e che lo definiscono come il partito di classe.

« Nell’epoca della guerra civile – scrive Lenin nel già citato articolo su La guerra partigiana – l’ideale del partito del proletariato è IL PARTITO COMBATTENTE ». Lo è nell’epoca della guerra civile, appunto ; non in qualunque epoca, magari decretata di guerra civile dalla volontà o dalle elucubrazioni dei singoli ; lo è, dunque, quando « il movimento di massa è già arrivato praticamente all’insurrezione, e subentrano intervalli più o meno lunghi fra le “grandi battaglie” dell’insurrezione », quando perciò, affinchè il movimento non si disperda nella demoralizzazione e disgregazione implicite nella sua spontaneità, generosa ma priva di indirizzo, il partito deve abilitarsi a guidarlo. Il partito è allora « partito combattente » perchè si è messo già prima in grado di affrontare il compito – previsto ma non realizzabile in qualsiasi momento, nè adatto per una situazione qualsivoglia – di crearsi il proprio « braccio armato » ; non è tuttavia questo braccio armato, nè potrà mai risolversi in esso. E’ « partito combattente » perchè usa, avendo mezzi propi dell’« epoca della guerra civile » – cioè mezzi e metodi militari –, ma non li considera « MAI COME GLI UNICI E I PRINCIPALI MEZZI DI LOTTA », anzi « LI SUBORDINA AGLI ALTRI, LI ADEGUA AI PRINCIPALI MEZZI DI LOTTA, E LI NOBILITA GRAZIE ALL’INFLUENZA EDUCATRICE E ORGANIZZATRICE DEL SOCIALISMO » (48). Li usa, dunque, inquadrandoli in un piano strategico e tattico che non consente mai di trasformare il partito politico nè in una rete più o meno stretta di « brigate », nè in un « esercito », e che, al contrario, gli impone di costruire in quella fase il proprio apparato militare (e di prepararne i presupposti soggettivi nelle fasi precedenti), IN RIGOROSA DIPENDENZA dagli obiettivi, dal programma, dalla rete organizzativa, dalle decisioni tattiche generali sue proprie, non arretrando di fronte al margine inevitabile di « disorganizzazione » che il passaggio ad ogni azione di guerra, anzi « ogni nuova forma di lotta accompagnata da nuovi pericoli e da nuovi sacrifici », porta con sè, ma che saranno tanto minori, quanto più i militanti del partito saranno stati preparati ad affrontarli e risolverli, e quanto più il partito nel suo insieme si sarà conquistato la fiducia, la simpatia, l’appoggio, di strati crescenti della classe attraverso un lavoro svolto con tenacia e continuità su un terreno e con « utensili » che non sono nè possono essere militari.

Questo partito, per il quale il « braccio armato » è solo uno strumento, per di più sussidiario, tecnico e rigorosamente subordinato, non « sceglie la clandestinità » – come dicono con fraseologia tipicamente velleitaria i romantici del terrorismo –, anche se, prevede di dover essere costretto ad una esistenza sotterranea a un certo punto del proprio cammino. Non cade, d’altra parte, nell’errore « idealistico » di credere che clandestinità sia sinonimo, meccanicamente, di « lotta armata » o di azione militare, anche se sa in anticipo che quest’ultima diverrà, nella fase cruciale dell’insurrezione, una – ma sempre una soltanto – delle sue manifestazioni essenziali di esistenza. Non cesserà, al contrario, di svolgere con mezzi « illegali » le attività proprie della sua vita « legale », così come, del resto, provvederà in giorni « normali » a tessere una rete clandestina parallela più o meno rigida non come alternativa alla rete aperta e dichiarata di partito, ma come sua necessaria difesa, come suo complemento indispensabile. Insomma, non si illuderà che il compito permanente di organizzare ed orientare le masse, per poi dirigerle – tanto permanente da dover essere assolto ancora dopo che il fragore delle armi nella guerra civile successiva alla conquista del potere sarà da tempo cessato – possa identificarsi con uno solo dei suoi momenti, uno dei più delicati, senza dubbio, ma – appunto perciò – uno dei più bisognosi di controllo politico da una parte, uno dei più limitati nel tempo, dall’altra. E che cosa può avere in comune, un organismo che si muove sulla base di presupposti simili, col « partito combattente » dei terroristi di stampo blanquista, usi ad erigere a partito quello che il marxismo considera uno dei suoi strumenti, e dal quale esige, prima di tutto, disciplina ed ubbidienza insieme politiche ed organizzative, perchè solo a questa condizione gli affiderà, nell’ora x, funzioni di comando in un settore specifico e temporaneo ? (49).

Per il marxismo, l’organo-partito non « nasce dal movimento », come pretendono tutti gli spontaneisti, nè, peggio ancora, può nascere da un movimento ridotto all’espressione omeopatica di pattuglie militari, come vorrebbero i moderni brigatisti ; non attinge il suo programma dalla contingenza – raccattando qua e là i brandelli di teorie “nuove” – ; non vincola la sua organizzazione alle richieste (reali o fittizie) del momento ; non subordina il suo piano tattico alle sollecitazioni immediate della congiuntura : la sua capacità di dirigere il movimento reale (che esso non crea, nè ha il potere di « fissare la data di nascita » delle sue forme sempre diverse, delle sue esigenze sempre molteplici) è relativa alla capacità di precederlo, nella visione sia dello sbocco finale, sia del cammino da percorrere per raggiungerlo, delle fasi che si dovranno attraversare lungo questa via, dei mezzi che di volta in volta bisognerà mettere in azione, nessuno dei quali escluderà l’altro, anche quando prevarrà su tutti gli altri. Essa è condizionata, dunque, dal possesso di una teoria e di un programma che in tanto illuminano la via della rivoluzione, in quanto incarnano interessi e finalità che non si deducono da nessuna fase isolata del movimento, e che superano quelli che ai singoli membri della classe, e alla stessa classe nel suo insieme, possono apparire dominanti nell’ora tale o nel giorno tal altro della « propria » storia. Il partito, è, insomma, il punto di partenza, o non sarà neppure, come è necessario, il punto di approdo risolutivo del processo di emancipazione della classe operaia. Inversamente, l’apparato militare, organo vitale ma non sufficiente nè autonomo dell’insurrezione, può essere soltanto uno dei punti di arrivo nella scala ascendente della rivoluzione proletaria, mai il suo punto di partenza.

Perciò nel Che fare ? Lenin accomuna i fenomeni solo in apparenza opposti dell’economicismo e del terrorismo come le due facce di una stessa medaglia che ha nome : sottomissione alla spontaneità. Perciò scrive : « Si commetterebbe un grave errore se nell’organizzazione del partito si facesse assegnamento soltanto sullo “sviluppo progressivo della grigia lotta quotidiana”… Non si può pensare che la rivoluzione si svolga in un solo atto : la rivoluzione sarà una successione rapida di esplosioni più o meno violente, alternantisi con fasi di calma più o meno profonda. Perciò il contenuto essenziale dell’attività del nostro partito, il fulcro della sua attività, deve consistere nel lavoro che è POSSIBILE E NECESSARIO sia nei periodi delle esplosioni più violente, che in quelli di calma completa, cioè in una agitazione unificata per tutto il paese, che illumini tutti gli aspetti della vita e si rivolga alle masse più larghe ». Perciò Lenin addita il nerbo del partito in quello strumento di educazione e organizzazione politica che non è… la P38, ma il giornale con la rete costruitasi intorno ad esso, e che, essendo il veicolo dei principi, delle finalità e del piano tattico ai quali ogni singolo mezzo di lotta è e deve rimanere subordinato, « sarà precisamente pronto a tutto, sia a salvare l’onore, il prestigio e la tradizione del partito nei momenti di peggiore “depressione” rivoluzionaria, che a preparare, a decidere e ad attuare l’insurrezione armata di tutto il popolo » (50). Perciò, in periodi di altissima tensione sociale, affida « il compito non solo di creare organizzazioni che abbiano la più grande capacità di dirigere le masse tanto nelle grandi battaglie, quanto, nella misura del possibile, nei piccoli scontri », o, « nell’epoca in cui la lotta delle classi s’inasprisce sino a trasformarsi in guerra civile », il compito « sia di partecipare a questa guerra civile, sia di assumere in essa una funzione dirigente », non ad una organizzazione contingente qualsiasi, nata dalla lotta o dalla volontà di lotta nelle loro espressioni immediate, armate o non armate, ma al partito rivoluzionario di classe (51) incarnazione non metafisica ma fisica della teoria, del programma e delle tradizioni di battaglia di un secolo di movimento operaio.

Solo su questo piano è lecito e doveroso battersi per il « partito combattente ». Su ogni altro, ci si batte solo per i fantasmi del proprio velleitarismo e, nella stessa misura, si disorienta e disperde il tanto osannato « movimento di massa ».

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Epilogo

 

Nella luce dell’Ottobre

 

Appunto per essersi mantenuto rigorosamente fedele a questa visione globale, non angusta e non immediatista, del ruolo del partito nella rivoluzione proletaria e nella sua preparazione, il bolscevismo potè nell’Ottobre 1917 non solo dare il segnale (che sarebbe stato troppo poco) dell’insurrezione armata, ma dirigerla e condurla alla vittoria.

Dal febbraio all’ottobre, il partito passa attraverso tutte le sue fasi di sviluppo, assolve tutti i suoi compiti, spinge in ogni direzione la sua propaganda, la sua agitazione, i suoi sforzi di organizzazione del proletariato ; non si bea della propria condizione minoritaria, ma cerca di superarne i limiti lavorando entro le file della classe, alla luce del sole come « sottoterra », nelle manifestazioni di piazza e nelle battaglie economiche, nell’audacia dei giorni di limitata offensiva e nella prudenza dei giorni di difesa e perfino di rinculo, sempre tendendo l’orecchio alla voce non dei propri astratti desideri o delle proprie impazienze, ma delle aspirazioni reali e dei bisogni profondi delle masse, sempre cercando di anticipare il movimento, a costo di cacciare dai propri ranghi i troppo inclini ad « arrancargli dietro ». E’ questo, non la sua parodia in veste « militare » il « partito combattente » ; e proprio perchè questo è, ad esso si deve il « capolavoro di arte militare » che si chiama insurrezione di Ottobre. Proprio perciò l’Ottobre segna nello stesso tempo la pietra tombale del terrorismo individualista e la più sublime esaltazione della violenza e del terrore di classe.

In tutta questa trattazione, abbiamo cercato di ristabilire gli anelli dialettici della catena che sola permette di riaffermare – contro i belati della democrazia e dei suoi sacerdoti « operai » – la sostanza rivoluzionaria del marxismo, senza per questo mutare una virgola alla critica marxista, ormai più che centenaria, del romanticismo terrorista. Non potremmo concluderla meglio che con la pagina in cui Trotsky, in perfetta concordanza con il Lenin delle lettere al CC del partito alla vigilia (e antivigilia) di Ottobre, ricolloca al suo posto, salvandola (orrore !) al proletariato come indispensabile arma, la cospirazione.

Dopo aver ricordato l’enorme distanza che separa « l’insurrezione, che spicca come una vetta nella catena degli avvenimenti », e che « non può essere provocata artificialmente come non può esserlo la rivoluzione nel suo insieme », dall’« azione concertata di una minoranza contrapposta al movimento spontaneo della maggioranza », Trotsky scrive :

« Ma quello che si è detto non significa affatto che l’insurrezione popolare e la cospirazione si escludano a vicenda in ogni caso. IN UNA MISURA O NELL’ALTRA, UN ELEMENTO DI COSPIRAZIONE E’ SEMPRE PRESENTE IN UNA INSURREZIONE. Come fase storicamente condizionata della rivoluzione, l’insurrezione di massa non è mai del tutto spontanea, anche se scoppia inaspettatamente per la maggioranza dei partecipanti, è stata fecondata dalle idee che rappresentano per gli insorti una via d’uscita dalle miserie della vita. Ma una insurrezione di massa può essere prevista e preparata. Può essere organizzata in precedenza. In questo caso, la cospirazione è subordinata all’insurrezione, la serve, ne facilita la marcia, ne accellera lo sviluppo. Quanto più alto è il livello politico di un movimento rivoluzionario, e quanto più seria ne è la direzione, tanto maggiore è il posto della cospirazione nell’insurrezione popolare. E’ indispensabile comprendere esattamente la relazione tra insurrezione e cospirazione sia per quello che le contrappone sia per quello che le rende complementari : tanto più che l’uso del termine « cospirazione » nella letteratura marxista può apparire contradditorio, poiché riguarda a volte l’azione indipendente di una minoranza che assume l’iniziativa e a volte la preparazione da parte di una minoranza di un’insurrezione della maggioranza.

« La storia dimostra, certo, che un’insurrezione popolare, in determinate circostanze, può vincere anche senza cospirazione. Scoppiando « spontaneamente » come risultato di una generale ribellione, di proteste di vario genere, di manifestazioni, di scioperi, e di conflitti di strada, l’insurrezione può trascinare con sè una parte dell’esercito, paralizzare le forze dell’avversario e rovesciare il vecchio potere. Così accadde, in una certa misura, nel febbraio 1917 in Russia. Si ebbe pressapoco lo stesso quadro nello sviluppo della rivoluzione tedesca e della rivoluzione austroungarica nell’autunno 1918. Nella misura in cui, nell’un caso e nell’altro, non c’era alla testa degli insorti un partito che comprendesse sino in fondo gli interessi e i fini della rivoluzione, la vittoria della rivoluzione stessa doveva inevitabilmente determinare il trasferimento del potere ai partiti che si erano opposti all’insurrezione fino all’ultimo momento.

« Rovesciare il vecchio potere è una cosa. Prendere in mano il potere un’altra. La borghesia può impadronirsi del potere nel corso di una rivoluzione non perchè sia rivoluzionaria, ma in quanto borghesia : dispone della proprietà, della cultura, della stampa, di una rete di posizioni strategiche, di una gerarchia di istituzioni. Ben diversa la situazione del proletariato : non godendo naturalmente di nessun privilegio, il proletariato insorto può contare solo sul proprio numero, sulla propria coesione, sui propri quadri, sul proprio stato maggiore. Come un fabbro non può afferrare a mani nude un ferro incandescente, così il proletariato non può impadronirsi a mani nude del potere : ha bisogno di un’organizzazione adatta allo scopo. LA COMBINAZIONE DELL’INSURREZIONE DI MASSA CON LA COSPIRAZIONE, LA SUBORDINAZIONE DELLA COSPIRAZIONE ALL’INSURREZIONE, L’ORGANIZZAZIONE DELL’INSURREZIONE PER MEZZO DELLA COSPIRAZIONE, rientrano nella sfera complicata e gravida di responsabilità della politica rivoluzionaria che Marx ed Engels chiamavano “arte dell’insurrezione”. Tutto ciò presuppone UN GIUSTO ORIENTAMENTO GENERALE DELLE MASSE, UNA LINEA DUTTILE NELLE MUTEVOLI CIRCOSTANZE, UN MEDITATO PIANO OFFENSIVO, PRUDENZA NELLA PREPARAZIONE TECNICA E AUDACIA NELLO SFERRARE IL COLPO […].

« La socialdemocrazia non nega la rivoluzione in generale come catastrofe sociale, allo stesso modo come non nega i terremoti, le eruzioni vulcaniche, le eclissi di sole e le epidemie di peste. Quello che nega, come “blanquismo” o peggio come bolscevismo, è LA PREPARAZIONE COSCIENTE DELL’INSURREZIONE, IL PIANO, LA PREPARAZIONE […]. Dalle sue osservazioni e riflessioni sugli insuccessi delle insurrezioni cui aveva preso parte e di cui era stato testimone Auguste Blanqui ricavò un certo numero di norme tattiche, la cui innosservanza rende estremamente difficile, se non impossibile, la vittoria dell’insurrezione. Blanqui esigeva la formazione tempestiva di reparti rivoluzionari regolari, una loro direzione centralizzata, una adeguata riserva di munizioni, un’accorta collocazione delle barricate […]. Tutte queste norme, connesse ai problemi militari dell’insurrezione, devono essere inevitabilmente rettificate in relazione ai mutamenti delle condizioni sociali e della tecnica militare, ma di per se stesse non possono essere considerate “blanquismo” nel senso dell’espressione tedesca “putchismo” o nel senso di “avventurismo” rivoluzionario.

« L’insurrezione è un’arte e, come ogni arte, ha le sue leggi. Le norme di Blanqui corrispondevano alle esigenze di un realismo militare rivoluzionario. L’ERRORE DI BLANQUI CONSISTEVA NON NELLA SUA TEORIZZAZIONE POSITIVA, MA IN QUELLA NEGATIVA. Dal fatto che l’inconsistenza tattica condannava l’insurrezione al fallimento, Blanqui traeva la conclusione che la pura e semplice applicazione delle norme tattiche insurrezionali poteva assicurare la vittoria. SOLO A PARTIRE DA QUESTO PUNTO E’ LEGITTIMO CONTRAPPORRE IL BLANQUISMO AL MARXISMO. LA COSPIRAZIONE NON SOSTITUISCE L’INSURREZIONE. La minoranza attiva del proletariato, per quanto organizzata, non può impadronirsi del potere indipendentemente dalla situazione genrale : in questo senso il blanquismo è condannato dalla storia. Ma solo in questo senso. LA TEORIZZAZIONE IN FORMA POSITIVA CONSERVA TUTTO IL SUO VALORE : PER LA CONQUISTA DEL POTERE NON BASTA AL PROLETARIATO UNA INSURREZIONE DI FORZE SPONTANEE. HA BISOGNO DI UN’ADEGUATA ORGANIZZAZIONE, HA BISOGNO DI UN PIANO, HA BISOGNO DELLA COSPIRAZIONE ».

Ha bisogno, per tutti questi motivi presi assime, nessuno separato all’altro, del PARTITO RIVOLUZIONARIO DI CLASSE : saldamente radicato nei Soviet, nei sindacati, nei consigli di fabbrica ecc. e forte del suo apparato militare, ma non subordinato ad essi. E Trotsky aggiunge con parole che riecheggiano posizioni tipiche della nostra Sinistra :

« Grazie ad un favorevole concorso di condizioni storiche, sia interne che internazionali, il proletariato russo si trovò ad avere alla sua testa un partito eccezionalmente dotato di chiarezza politica e di una tempra rivoluzionaria senza precedenti : SOLO PER QUESTO FU POSSIBILE AD UNA CLASSE GIOVANE E POCO NUMEROSA ASSOLVERE UN COMPITO DI UNA PORTATA IMMENSA. In generale, come dimostra l’esperienza storica – della Comune di Parigi, della rivoluzione tedesca e di quella austriaca del 1918, dei soviet in Ungheria e in Baviera, della rivoluzione italiana del 1919, della crisi tedesca del 1923, della rivoluzione spagnola del 1931 – L’ANELLO PIU’ DEBOLE DELLA CATENA DELLE CONDIZIONI NECESSARIE E’ STATO SINORA QUELLO DEL PARTITO : la cosa più difficile per la classe operaia è stata la costruzione di una organizzazione rivoluzionaria all’altezza dei suoi obiettivi storici. NEI PAESI PIU’ VECCHI E PIU’ AVANZATI, FORZE PODEROSE LAVORANO PER INDEBOLIRE E DISGREGARE L’AVANGUARDIA RIVOLUZIONARIA. UNA PARTE CONSIDEREVOLE DI QUESTO LAVORO CONSISTE NELLA LOTTA DELLA SOCIALDEMOCRAZIA CONTRO IL “BLANQUISMO”, CIOE’ CONTRO LA SOSTANZA RIVOLUZIONARIA DEL MARXISMO » (52).

Combattere queste forze – socialdemocratiche e, oggi, soprattutto d’origine staliniana – e impedire che, per reazione ad esse, prendano piede le sempre risorgenti ideologie negatrici della funzione centrale del partito, è un compito immenso. Perciò, nell’atto di mettere a nudo l’inconsistenza del “lato negativo” del blanquismo terroristico, di ogni variante di questo lato negativo, noi chiamiamo i giovani proletari a lottare tenacemente, contro le pestifere illusioni del gradualismo riformista ma fuori dai sogni sterili e impotenti del terrorismo individualista, affinchè la “sostanza rivoluzionaria del marxismo” ritorni in piena luce ; affinchè l’anello della « catena delle condizioni necessarie » finora dimostratosi più debole nei paesi a capitalismo avanzato – il partito politico marxista – cresca, si rafforzi e si manifesti in tutto il suo vigore, e della sua congiunzione con l’insorgere di forze spontanee dal vulcano della vita economica e sociale rinasca e vinca, invece d’essere uccisa prima ancora di nascere o appena nata, la rivoluzione proletaria.

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(1) Opere, XI, p. 200.

(2) Si noti bene : non su un complotto e nemmeno, a rigore, su un partito, in quanto le situazioni rivoluzionarie non si creano nè ad arte nè su comando. Ma è lo stesso Lenin autore di queste parole (il marxismo e l’insurrezione, 26-27 sett. 1917, in Opere, XXVI, pp. 14-15) a chiarire con estremo vigore ai compagni esitanti che, una volta presenti quelle tali condizioni oggettive, è indispensabile l’intervento orientatore e disciplinatore del Partito, e in esso, di uno speciale organo clandestino, « cospiratorio », militare chiamato a tradurre « tecnicamente » in pratica l’« arte dell’insurrezione ». E ciò mostra l’insufficienza anche dell’obiezione (tuttavia giusta nel suo nocciolo centrale) che i marxisti respingono il cospirativismo blanquista : cioè la cospirazione elevata a modello assoluto e soprastorico.

(3) Oltre che, naturalmente, a catturare ostaggi, togliere di mezzo spie e provocatori, liberare prigionieri politici, ecc.. Su questo tema ritorneremo.

(4) La guerra partigiana, cit., pp. 202-203. Si legga anche l’articolo, estremamente dettagliato ed « istruttivo », su I compiti dei distaccamenti dell’esercito rivoluzionario, fine Ottobre 1905, in Opere, IX, pp. 398-402.

(5) Mentre si prepara la « spedizione pacificatrice », in « il comunista » del 31/7/1921.

(6) Indirizzo del Comitato centrale della Lega dei Comunisti, 1850, in Il Partito e l’Internazionale, Ed. Rinascita 1948, pp. 93-94.

(7) Riprodotto in Relazione del Partito comunista d’Italia al IV Congresso dell’Internazionale Comunista, novembre 1922, Ed. Iskra, Milano, 1976, pp. 44-45.

(8) Al solito (giacchè il male è antico) le urla al blanquismo, all’anarchismo, al bakuninismo si intrecciavano, soprattutto in Paul Levi, alle grida di orrore per il rischio che correva il Partito di mescolarsi al sottoproletariato, ai « Lumpenproletarier », alla « teppa » – e giù citazioni mal digerite da Marx e da Engels. Lenin aveva già risposto nel 1906 : « Si dice : la guerra partigiana accomuna il proletariato cosciente con gli alcoolizzati, straccioni, declassati. E’ vero. Ma ne risulta solo che il partito del proletariato NON PUO’ MAI CONSIDERARE LA GUERRA PARTIGIANA COME L’UNICO E NEMMENO IL PRINCIPALE MEZZO DI LOTTA ; QUESTO MEZZO DEV’ESSERE SUBORDINATO AGLI ALTRI ; deve essere adeguato ai principali mezzi di lotta e nobilitato dall’influenza educatrice del socialismo. E nella società borghese senza quest’ultima condizione tutti, assolutamente tutti i mezzi di lotta mettono il proletariato in contatto con i vari ceti non proletari che stanno al disopra e al disotto di esso, ed essendo tali mezzi ABBANDONATI AL CORSO SPONTANEO DEGLI AVVENIMENTI [parole da ricordare in tutto il corso di questa serie di articoli], vengono sviliti, deformati, prostituiti » (La guerra partigiana, cit., p. 202).

(9) Da Partito e azione di classe, in « Partito e classe », Ed. il programma comunista, Milano 1972, pp. 45-46.

(10) Il termine tattica in riferimento al terrorismo di tipo individualistico può sembrare riduttivo, visto il senso in realtà strategico che il blanquismo in senso lato attribuisce agli atti di terrore. Ma qui Lenin parla in piena guerra mondiale e ipotizzando non solo una situazione rivoluzionaria, ma una strategia rivoluzionaria basata sulla trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile, nel cui ambito si tratta di definire i compiti tattici dell’avanguardia proletaria e comunista poggiandoli sul giusto terreno – nel caso degli atti di terrore individuale o di gruppo, sul giusto terreno di un collegamento con l’azione di massa « dei proletari e degli sfruttati in generale », invece che su quello del gesto « esemplare ».

(11) Discorso al congresso del Partito svizzero, Zurigo, 4 novembre 1916, il Opere, XXIII, pp. 120-121.

(12) Il breve discorso parla soltanto delle « manifestazioni di piazza », cioè di qualcosa che supera già, e non di poco, il livello embrionale della lotta operaia ; ma abbiamo già visto (nota 3) e vedremo ancora come altrove Lenin ne preveda esplicitamente di più modeste e « sporadiche », a cominciare dai picchetti di sciopero, anch’essi forme elementari di violenza, sia pure soltanto difensiva. Nelle trenta tesine sui : Compiti degli zimmerwaldiani di sinistra nel Partito socialista svizzero, qualche mese dopo, illustrando il multiforme lavoro di propaganda e di agitazione da svolgere in tutti i campi nello sforzo di portare le masse sul terreno del disfattismo rivoluzionario, e sottolineando la necessità a questo fine di « costituire gruppi socialdemocratici in tutte le unità dell’esercito » e di « spiegare che l’impiego delle armi è storicamente inevitabile e legittimo, dal punto di vista del socialismo, nell’unica guerra legittima, cioè nella guerra del proletariato contro la borghesia per l’emancipazione dell’umanità dalla schiavitù salariale », Lenin suggerisce bensì (tesi 23) di « far propaganda contro gli attentati isolati », ma soltanto « al fine di collegare la lotta della parte rivoluzionaria dell’esercito al largo movimento del proletariato e degli sfruttati in generale », intensificando inoltre la propaganda « che raccomanda ai soldati la disobbedienza quando l’esercito viene impiegato contro gli scioperanti e che sottolinea la necessità di NON LIMITARSI ALLA DISOBBEDIENZA PASSIVA » (Opere XXII cit., p. 141).

(13) “L’estremismo” malattia infantile del comunismo, in Opere, XXXI, p. 23.

(14) Si vedano soprattutto i capitoli « La via rivoluzionaria degli intellettuali » e « Sotto la cappa della reazione » ne Il giovane Lenin di Lev Trotsky, tr. it. Milano, 1971.

(15) Opere, II, pp. 330 e 319. Inutile ricordare al lettore che « socialdemocratico » era allora sinonimo di socialista o comunista.

(16) In Opere, IV, pp. 404 e 406.

(17) In Opere, V, pp. 11-12.

(18) In Opere, V, pp. 386-388.

(19) Ivi, pp. 439-440.

(20) L’avventurismo rivoluzionario, in Opere, VI, p. 183.

(21) In Opere, VIII, pp. 332-333.

(22) Prefazione a Due tattiche della socialdemocrazia russa, giugno-luglio 1905, in Opere, IX, p. 12.

(23) Dobbiamo organizzare la rivoluzione ?, 21 febbraio 1905, in Opere, VIII, pp. 156-157.

(24) I centoneri e l’organizzazione dell’insurrezione, 29 agosto 1905, in Opere, IX, p. 186.

(25) Perchè non si dia di questo termine un’interpretazione banalmente « tecnica », parli ancora Lenin : « La forza militare, la forza militare del popolo rivoluzionario (e non del popolino in generale)… è costituita : 1] dal proletariato e dai contadini armati ; 2] dai distaccamenti d’avanguardia organizzati, formati dai rappresentanti di queste due classi, 3] dai reparti dell’esercito pronti a passare dalla parte del popolo. Tutto ciò, PRESO INSIEME, forma l’esercito rivoluzionario » (Opere, IX, p. 347). Tutto ciò preso insieme : mai uno solo dei termini (il 2°, magari, o il 3°) !

(26) L’ultima parola della tattica “iskrista”, 17 ottobre 1905, in Opere, IX, pp. 348-349.

(27) Lo scioglimento della Duma e i compiti del proletariato, luglio 1906, in Opere, XI, pp. 108-109, 110-111.

(28) Gli insegnamenti dell’insurrezione di Mosca, 29 agosto 1906. Ivi, pp. 154-155.

(29) Ivi, pp. 157-158. Abbiamo riprodotto in maiuscolo le frasi che nel pensiero di Lenin rappresentano la chiave di volta della visione marxista dell’impiego della violenza e del terrore nella lotta rivoluzionaria diretta.

(30) Il testo pubblicato il 20 marzo 1906, si legge in Opere, X, pp. 149-150 subito dopo la risoluzione sull’insurrezione armata. Che proclamazioni simili mandino in bestia i borghesi, è chiaro : esse sono fatte in vista della rivoluzione proletaria, dunque contro la borghesia e i suoi istituti, democratici o no che siano. Se si trattasse di difendere o restaurare questi ultimi e schiacciare il proletariato, non solo essi sottoscriverebbero ma, come nella « guerra di resistenza nazionale », le applicherebbero senza riserve – e non curandosi affatto che « gli interessi della popolazione vengano lesi il meno possibile » !

(31) In « La Plebe », 22. I. 1878 e 21.III. 1879 : cfr. India, Cina, Russia, Milano 1965, pp. 232 e 233. Si noti come Engels rifugga dall’ingenerosità, cara agli stalinisti di oggi non meno che ai borghesi, verso gli esponenti di un ribellismo tuttavia aspramente criticato : sono pur sempre degli « eroici combattenti di avanguardia » (ivi, p. 283) !

(32) A Vera Zasulic, 23. IV. 1885, vol. cit., p. 251.

(33) Rivelazioni sul processo dei comunisti a Colonia, 1853, in Werke, VIII, p. 412.

(34) Engels in Per la storia della Lega dei Comunisti, in Il Partito e l’Internazionale, Roma, 1947, pp. 28-29.

(35) Le due citazioni in Marx-Engels, Il Quarantotto, Firenze 1970, pp. 114 e 290.

(36) Indirizzo del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti, in Il Partito e l’Internazionale, cit., pp. 94-95 ; Marx-Engels, Il 1848 in Germania e in Francia, Roma 1946, pp. 100-101.

(37) Vol. cit., p. 229, e lettera a L.Watteau, 10.XI.1861, Werke, XXX, p. 617.

(38) Lettere a Kugelmann, Roma 1950, p. 140.

(39) La guerra civile in Francia, nel 1871, in Il Partito e l’Internazionale, cit., p. 197.

(40) Dell’autorità, 1874, in Scritti italiani, Milano 1955, p. 97.

(41) Anarchia e socialismo, 1901, in Opere, V, pp. 303-304.

(42) Engels nel citato articolo sul programma dei comunardi blanquisti profughi a Londra.

(43) Soziales aus Russland, 1875, in India-Cina-Russia, cit., p. 228. Il vocabolario di Tkaciov anticipa quello degli odierni terroristi : « terrorizzare il governo e disorganizzarlo », « tutta la questione, per noi rivoluzionari materialisti [!!], si riduce [dici poco !] ad impossessarsi di un potere la cui forza è attualmente rivolta contro di noi », ecc.

(44) Le nostre divergenze, cap. II, par. 2 (Oeuvres philosophiques, Mosca, tomo I, p. 162).

(45) Trotsky, Storia della rivoluzione russa, Milano 1969, pp. 1070-1071.

(46) L’avventurismo rivoluzionario, cit., pp. 179-184.

(47) Perchè la socialdemocrazia deve dichiarare una guerra risoluta ed implacabile ai socialisti rivoluzionari ?, giugno-luglio 1902, in Opere, VI, p. 161.

(48) La guerra partigiana, cit., p. 203.

(49) Il « comitato militare rivoluzionario » dell’Ottobre fu uno splendido strumento tecnico-politico del Partito Bolscevico, dal quale riceveva ordini e verso il quale rispondeva delle proprie azioni. Nessuno avrebbe mai pensato – a cominciare da Trotsky – di elevarlo al ruolo storico di partito !

(50) In Opere, V, pp. 475-476.

(51) La guerra partigiana, cit., p. 203. Inutile dire che appunto questo è, nel linguaggio di allora, « la socialdemocrazia ».

(52) Trotsky, Storia della rivoluzione russa, cit., pp. 1070-1071, 1072-1074, 1078-1079. Inutile dire che, a questo punto, si apre un nuovo capitolo : quello del terrore rosso nel corso della guerra civile. Esso tuttavia esula dalla presente trattazione. E’ necessario ricordare come ne abbia scritto in modo del tutto esauriente – e con grandissima forza dialettica – il Trotsky di Terrorismo e comunismo ?

 

 

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