Sul filo del tempo

L'uguaglianza delle nazioni, bidone supremo

(« Battaglia comunista », n° 7, 29 marzo - 10 aprile 1951)

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L'argomento guerra e pace, aggressione e difesa, è tale da meritare ancora qualche insistenza dopo i richiami alle dottrine marxiste e leniniste con cui abbiamo ricordato come il "difesismo" e il "pacifismo" vadano relegati tra le fantasie idealistiche da cui il comunismo critico è mille miglia lontano, e rispondano in pieno a mezzi di imbottimento dei crani per la conservazione borghese.

Il socialismo scientifico ha avuto a che fare dal suo sorgere con due "bidoni" classici della truffa ideologica e propagandistica: alla scala "interna" l'eguaglianza di diritto degli individui, alla scala "estera" l'eguaglianza giuridica degli Stati, gabellate dal pensiero borghese come verità "naturali ed eterne" finalmente realizzate dalla moderna civiltà e democrazia.

Ma oggi non si possono leggere tre righe di fogli e scritti ad etichetta "socialista", "comunista" e "marxista" senza vedere richiamate come inconcussi dogmi quelle balle orripilanti, che suscitavano onde di tempesta tra i ciuffi della barba di papà Carlo, stereotipati sui quadretti delle nostre anguste e fumose sezioni socialiste di quarant'anni fa.

Se a tanto avessimo saputo di giungere in luogo di coltivare marxismo, fin da allora ci saremmo procurati un secchio e una spugna, e sbarcato il lunario andando in giro a render servigio a Madonna Borghesia, dopo i suoi trascorsi. Orizzonte di vita non eccelso, meno tuttavia disgustoso di quello dei presenti e Migliori capi della classe operaia.

 

Ieri

 

La grande conquista giusnaturalistica della eguaglianza tra gli uomini subisce un supersfottimento irrevocabile quando Federico Engels, partendo dalla buaggine dello scienziato Dühring che ne costruiva la dottrina sullo schema della "società di due uomini" A e B, in cui A è uguale a B, e quindi B è uguale ad A, per arrivare di pari passo ad X, a Z, e al cittadino sovrano Pallino dei Pinchi, traccia uno dei suoi indimenticabili "abrégés" storici, mostrando il divenire del criterio e della rivendicazione egualitaria dal clan primitivo alla casta, alla classe, e nel seno di tali gruppi e forme concrete. Ricorda Engels in nota, una volta giunto al periodo capitalistico, che la "derivazione del concetto dell'eguaglianza dalle condizioni economiche della società borghese è stata per la prima volta esposta da Marx nel Capitale". Qui Engels non allude alla critica filosofica e storica dell'ugualitarismo borghese, contenuta già nel Manifesto, ma alla dimostrazione che lo sfruttamento economico dei salariati riposa sul canone dello "scambio tra valori uguali", pilastro della borghese giustizia.

Il Capitalismo non poteva avere vittoria senza la abolizione dei feudali "privilegi di classe". Questo postulato apparve ideologicamente come conquista del diritto umano e dell'eguaglianza. I proletari, Engels dice, presero la borghesia in parola, portarono la richiesta della eguaglianza dal campo giuridico a quello economico, e chiesero la abolizione delle classi. La richiesta di eguaglianza in bocca al proletariato ha un doppio significato: o è ingenua reazione allo stridente contrasto tra ricchi e poveri, dissipatori e affamati, come nelle prime rivolte contadine, e trova giustificazione come semplice espressione dell'istinto rivoluzionario; o serve come mezzo di agitazione per eccitare i lavoratori contro i capitalisti con le stesse parole di questi, "e in questo caso essa si mantiene e cade con la stessa eguaglianza borghese". Ma "in entrambi i casi il vero contenuto della richiesta proletaria di eguaglianza è la richiesta della abolizione delle classi. Ogni pretesa di eguaglianza che vada al di là di questo cade nell'assurdo".

"Il concetto dell'eguaglianza, tanto nella sua forma borghese che nella sua forma proletaria, è esso stesso un prodotto storico, per la cui formazione furono necessarie determinate condizioni storiche. Esso quindi tutto è, all'infuori di una verità eterna. E se oggi questo concetto dell'eguaglianza per il grosso pubblico - in un senso o nell'altro - si intende da sé; se, come dice Marx, esso possiede quasi la forza di un pregiudizio popolare, ciò non è effetto della sua verità assiomatica, ma è conseguenza della propaganda universale e della persistente attualità delle ideologie borghesi del secolo XVIII".

Ma a che altro hanno ridotto oggi la propaganda del "marxismo"? Ci si domanda nei bene arredati gabinetti da lavoro dei moderni dirigenti, nella raffinatissima preparazione per le campagne agitatorie o partigiane: cosa v'ha dunque oggi, che "si intenda da sé pel grosso pubblico?". E di tal materia si impastano le interviste da radiotrasmettere al mondo e le discorse da degurgitare monotonamente nelle sedute parlamentari o nei congressi provinciali...

"Se quindi il signor Dühring può senz'altro far vivere i suoi due uomini famosi sul terreno dell'eguaglianza, deriva da ciò che esso sembra affatto naturale al pregiudizio popolare". E non da altro deriva, se quattro chierichetti in giro per il mondo possono trionfalmente agitare milioni di firme per la Pace, la pace "concreta", la pace "senza qualifica", la pace in veste candida, oltre la quale, sotto la quale non c'è nulla, che non ha nulla a che fare con le caratteristiche economiche della società in cui viviamo, o con le condizioni storiche determinate; che è fra le tante verità eterne, che in barba alle convulsioni della storia vola in becco alla stessa colomba dal tempo dell'arca di Noè...

Tè, zuca ccà! sogliono dire a Napoli, sporgendo il mignoletto, quando si imbattono in questi candori da bimbo lattante.

Tanto difficile farsi intendere, che ci si martella da un secolo? Non sono, i socialisti, i cavalieri erranti del sogno per la Eguaglianza e la Giustizia astratta, ma sono quelli che si sono accorti di vivere nel tempo in cui si pongono i dati per la abolizione delle classi, per un tipo di produzione sociale senza divisione di classi. Faccenda che non verte sulla parità del signor A col signor B, sul non poter più essere quello duca e questo vile meccanico, ma sull'esistere macchine, officine, navi a motore, sull'essersi svolti in serie conflitti ed urti per il controllo della società e per il potere.

Non una virgola v'ha da mutare nella chiarificazione di Engels dal 1878 ad oggi, secondo noi, sebbene di professori e di scrittori e di Dühring se ne siano tanti e tanti avvicendati, rimpetto ai quali siamo dei poveri uomini di parte, e basta; come una virgola non trovava da mutare cotal Lenin nel 1920.

Riprenderemo la tesi sulla questione nazionale e coloniale del secondo Congresso di Mosca. Comincia così: "I. La posizione astratta e formale della questione dell'eguaglianza - intendendovi inclusa anche la questione dell'eguaglianza delle nazionalità - è propria della democrazia borghese, sotto la forma dell'eguaglianza delle persone, in generale. La democrazia borghese proclama l'eguaglianza formale o giuridica del proletario, dello sfruttato, col proprietario e con lo sfruttatore, inducendo così nel più profondo errore le classi oppresse. L'idea di eguaglianza, che non era che il riflesso dei rapporti creati dalla produzione a fine di scambio, diviene tra le mani della borghesia un'arma contro l'abolizione delle classi, oramai combattuta in nome della eguaglianza assoluta delle personalità umane (formola sacramentata, interpoliamo noi, della superballa moderna, della menzogna numero uno, comune all'agitazione di preti cattolici, di quacqueri dollarizzati e di attivisti rublizzati)". Non era Lenin il tipo di regalare agli avversari un'arma, sia pure da "successo popolare" come la parola magica dell'eguaglianza, per solo lusso teorico. Egli precisa: "quanto al vero e serio significato della rivendicazione egualitaria, esso non risiede che nella volontà di abolire le classi". Copiato! Copiato da Engels! Il quale ad ogni passo protesta: non faccio che copiare dai manoscritti di Marx. Il marxista non inventa mai, copia sempre. Desolato, se di questo soffre la "dignità della persona umana". Questa si rifà largamente coi lampi di genio dei colombofili.

La tesi nazionale di Lenin viene ad integrare, in rapporto ben stretto, quella del Primo Congresso su "Democrazia borghese e dittatura proletaria", con la classica e marxisticamente fedele demolizione della "democrazia in generale", e della democrazia come atmosfera e limite di lotta tra borghesia e proletariato. Come in quelle tesi si distrugge la possibilità di una competizione ad armi pari tra lo sfruttatore e lo sfruttato nei confini del diritto e dello Stato, in queste si fa altrettanto con la "illusione piccolo borghese - già da noi citata - sulla possibilità di una pacifica vicinanza e di una vera eguaglianza tra le nazioni sotto il regime capitalista". Lenin qui discute due grandi problemi storici: uno è quello dei rapporti tra diverse "nazionalità", di diversa razza, lingua e cultura, all'interno di uno stesso Stato; l'altro è quello dei rapporti tra i diversi Stati nazionali. Il primo problema era di grande attualità per la Russia nel passaggio da zarismo a sovietismo: vi erano nello Stato moscovita cento popoli delle stirpi più diverse. Lenin analizza, sulla via della completa parità di trattamento, attuabile solo in una economia divenuta comunista e mondiale, la soluzione transitoria federalista, ricorda la creazione di repubbliche autonome, dei Baskhiri e dei Tartari "che non avevano mai avuto uno Stato". Tratta poi, in questo e in tanti altri documenti, la situazione del tempo nei rapporti tra gli Stati del mondo.

Su tutti e due i punti occorre rovesciare la posizione borghese. La democrazia capitalistica ostenta di credere al "principio eterno" della eguaglianza giuridica delle nazionalità nello stesso Stato. Tutti i cittadini sono sotto l'imperio della medesima legge anche se di razza e lingua differente o minoritaria. Ma questa non è che una menzogna! Non occorre ricordare il trattamento fatto agli ebrei in mille storici esempi, e nell'ultimo del proclamato razzismo di Stato in Germania, o nello... ancora più ultimo degli affondamenti inglesi di barcate di carne umana in vista della costa palestinese. Basta pensare al modo come la superdemocrazia statunitense tratta i negri, e alla sapienza giuridica per cui un bianco che violenta una negra compie un semplice atto di cattivo gusto, ma il nero va alla sedia elettrica, anche senza prove formali, come ultimamente è accaduto.

Qui ci interessano i rapporti tra gli Stati. Come la menzogna borghese riduce la questione sociale al principio verbale dell'eguaglianza dei cittadini, così le "democrazie borghesi che si dicono socialiste" - e, aggiungeremmo noi oggi, che si dicono comuniste - "riducono l'internazionalismo al formale riconoscimento del principio di eguaglianza delle nazioni" ma "conservano intatto l'egoismo nazionale".

La balla della convivenza pacifica tra le nazioni e del principio di eguaglianza tra di esse, che si gabella niente po' po' di meno per un principio leninista-stalinista, non poteva infatti condurre che al pieno riconoscimento del "sacro" egoismo nazionale, e lo vediamo bene in Italia. Si è infatti narrato a Milano nel dì di San Giuseppe che: "la classe operaia quando chiede una politica di pace adempie ad una funzione nazionale e difende gli interessi di tutti gli italiani a qualunque classe sociale appartengano". Per San Giuseppe, li conosceva Lenin i suoi polli e i suoi colombi!

Che devono fare, secondo Lenin, i comunisti, contro le due menzogne, quella di uso interno e quella di uso internazionale? Lo dice la tesi II: "Dissociazione precisa degli interessi delle classi oppresse dei lavoratori, degli sfruttati, in rapporto alla concezione generale dei sedicenti interessi nazionali, che significano in effetti quelli delle classi dominanti" (piglia e porta a Casalpusterlengo). - "Divisione altrettanto netta e precisa delle nazioni oppresse, dipendenti, protette, e oppressive e sfruttatrici... con l'asservimento della immensa maggioranza della popolazione del globo a una minoranza di ricchi paesi capitalistici".

Cambiati oggi questi dati storici? Lo può dire solo chi è così cieco o dollarizzato da negare che al vertice di questi paesi oppressori sta il "Leviatano" di America. E, per San Giuseppe del Kremlino, come diavolo lo si getta di sotto, con la colomba e con la pace?

Il principio borghese della eguaglianza delle nazioni si basa sulla attribuzione agli Stati di una "personalità" giuridica. La si è data agli uomini, ai cittadini nel singolo Stato, pretendendo di aver data una uniforme copertura e tutela all'uomo concreto A, e all'uomo concreto B, poco importa se sotto tal clamide ideale il ventre di A sia vuoto, quello di B rimpinzato a sazietà. Questo rapporto è visto da noi marxisti come la materiale conseguenza dell'esservi una forza fisica: lo Stato, ovvero il birro, le manette, il carcere, di gran lunga superiore a quella di A e di B singoli, e anche di gruppi ribelli. Questa forza preponderante riesce a far camminare A, B, e il resto dell'alfabeto nei ranghi di una sua disciplina normativa. Sono tavole, codici, leggi, comandamenti e regolamenti: tu non ruberai, tu non ammazzerai, tu non disturberai gli interessi della classe dominante... La geniale scoperta dell'epoca capitalistica è che, conducendo con le stesse leggi formali il contenersi del gregge che da A va fino a Z, e scrivendo alle spalle del giudice: la legge è uguale per tutti, si assicura l'optimum di condizioni perché una banda di affaristi sfrutti il lavoro e la miseria della massa.

La finzione base del diritto borghese ha creata la persona "giuridica". Esso non ha corpo fisico e stomaco digerente, non ha nemmeno spirito o anima, e quindi non interverrà a nessun titolo alla valle di Giosafat, ma si muove nella rete legale con le stesse tutele che se fosse una umana lettera dell'alfabeto. Non solo l'uomo non deruberà l'altro uomo, ma nemmeno la Ditta, la Società, l'Ente, l'Azienda e altre simili furfanterie, sotto le stesse sanzioni che "tutelano" la "santità" delle "persone fisiche". Ed allora abbiamo imparato che cosa è la "Persona giuridica" e perfino, giù il cappello, l'Ente Morale.

La trastola numero due del democratismo borghese, è quella di dare anche agli Stati, sovrani all'interno, armati e facultati, essi soli, a violentare il proprio "suddito", agli Stati nei rapporti tra loro, la personalità giuridica; di fare agire anche tra questi mostri senza viscere e cuore una morale universale, un diritto naturale, di dare alla loro "comunità" sul pianeta una "costituzione" ed una "carta" consisté nello scoprire dopo i "diritti dell'uomo" l'altra baggianata del "diritto delle genti".

Davanti alla tesi della parità giuridica delle persone umane, la nostra critica chiarisce che essa non è "verità eterna" ma espressione storicamente contingente di un rapporto di classe; ha nella storia una applicazione concreta, ma solo al fine di una oppressione sociale.

Davanti all'altra, della parità giuridica delle persone statali, ossia al "principio dell'eguaglianza delle nazioni", non solo si ripete l'analisi storica che mostra le lunghe vicende dei rapporti tra Stato e Stato - l'antichità classica, Engels ricorda tra l'altro nel suo scorcio, lasciò in eredità la teoria dello Stato mondiale unico che investiva di potere le comunità minori, seguita col nascere del capitalismo dalla nuova teoria sullo Stato nazionale, autonomo al mille per mille - e si mostra come anche qui si tratti di "verità passeggere", che nascono e muoiono, ma di più si mostra, dal marxismo, che praticamente quel principio di parità tra gli Stati non può nemmeno essere eretto a finzione in tempo borghese.

Che unica legge tra le classi sociali sia la forza bruta, l'epoca capitalistica ha potuto nasconderlo, nel diritto scritto. Resta verissimo. Ma che unica legge tra gli Stati sia la forza delle armi non solo è vero, ma non è nemmeno dissimulabile dietro una "carta mondiale".

Per questa finzione, è bene chiaro, occorre una "supercostituzione" un "superstato" una "superpolizia" terrestre. Occorre scrivere che ogni stato-persona concorre e ricorre allo stesso titolo ad un tale apparato. Ora questo, che alla scala interna non si può fare, ma si può scrivere, alla scala mondiale non si può né fare né scrivere.

Lo stesso pensatore della rivoluzione borghese Rousseau, che come Marx riconosce era in certe opere un potente dialettico, parlò di "contratto sociale" più che di "diritto naturale". Egli prima di Marx sentì che spinta nella formazione degli aggruppamenti umani organizzati non è una norma dall'esterno, come da un volere divino, e nemmeno da imperativi etici "insiti" in tutti i viventi, ma un confluire di interessi per cui si "stipula" di vivere in un certo modo, da quando ognuno non può più vivere da solo nella sua spelonca. Prima dunque di un "diritto degli Stati" si potrebbe parlare di un "contratto degli Stati". Come i primi trogloditi stipularono tenendo la clava nel villoso pugno, gli odierni Stati contrattano al tavolo verde tenendo pronte le armate di terra, di mare e di aria.

Sono i tentativi federalisti, la Società delle Nazioni della prima guerra, la Organizzazione delle Nazioni Unite di questa seconda, contro la cui ideologia abbiamo più volte arrecato il bombardamento delle citazioni di Marx, di Lenin, del Comintern. Ma per sapere che una morale degli Stati non è pensabile, e nemmeno una morale della lotta politica dei partiti, per deridere le famose "regole comuni del gioco", non occorre nemmeno Marx, basta persino Croce. I torinesi hanno addirittura dimenticato il loro Croce.

 

Oggi

 

Sotto l'eguaglianza giuridica dei cittadini vive la camorra sociale, il gangsterismo dello sfruttamento capitalistico; la estorsione dello sforzo di chi lavora. Sotto gli statuti dell'ONU non è nemmeno dissimulato il fatto che taluni organismi statali ultrapotenti ed imperiali dominano e tiranneggiano quelli minori. Tutti i "giri di orizzonte" condotti dalla Terza Internazionale dal 1919 al 1926 riconoscono questo fatto, che non ha più la sola espressione coloniale, ossia di una sovranità ufficiale e legale dello Stato dominante, ma la espressione della soggezione delle potenze minori alle maggiori, dei piccoli ai "big", tanto di moda. Molto semplice quanto spiega la tesi di Lenin: non ci sono i "parenti poveri" solo tra i cittadini solennemente "uguali", ma anche tra le Nazioni e tra gli Stati, resi uguali "in principio" dalla dottrina... wilsonista - stalinista - trumanista.

Nell'ONU ogni Stato ha un voto: grande o piccolo. Non si poteva chiedere altro alla "democrazia in generale". Un voto plurimo? Ohibò! Ogni cittadino nel suffragio universale ha un voto. Ma le persone umane, su per giù, sono di uguale peso: da cinquanta a cento chili, Stati ne abbiamo di 22 milioni di chilometri quadri (Unione Sovietica) e di 1,5 (uno e mezzo: Monaco). Ci sarebbe la Città del Vaticano che va nei decimali: 0,49, ma il suo regno non è di questo mondo... Quali banalità materialistiche! Il povero cittadino delle caricature americane, l'anonimo uno qualunque, che paga tasse e sgobba, chilo più chilo meno, vota per lui solo e non sposta maggioranze che in greggi sterminate; il delinquente professionale Costello, da solo, sposta quella del Congresso da un partito all'altro. Il sistema elettorale fascista corporativo, più sincero, dava ad ogni datore di lavoro tanti voti quanto era il numero dei suoi dipendenti: una espressione meno mentita del vero rapporto di forze. Come la metteremo negli scrutini tra gli Stati-elettori?

D'accordo tra i tre maestri della teoria della uguaglianza, se la sono cavata col diritto di veto. Sulle questioni veramente importanti lo Stato "peso massimo" può opporsi ad una numerica maggioranza di tanti staterellini "pesi piuma". Sarebbe bello questo canone giuridico applicato tra le persone umane: si alza l'imputato e dice: signor presidente, faccio uso del diritto di veto e declino la cortese vostra condanna a venti anni di reclusione.

Giusnaturalisti, enciclopedisti, filosofi della santità, dignità e personalità, scovatemi tra le "verità eterne" l'affare del "veto"! Il Signore in persona guardò tranquillo Caifas, guardò tranquillo Pilato, e raccolse la sua croce. Non si credette investito del "veto"; non aveva fatta tanta carriera quanto un Acheson o un Gromiko.

Questo "contratto" tra le libere nazioni è un contratto che nemmeno Costello e Lucky Luciano lo avrebbero passato tra loro.

Ed allora a che pro uno degli autori della teoria, Stalin, ci viene a ricordare la maggioranza automatica del "nucleo aggressivo delle Nazioni Unite": dieci Stati del Patto Atlantico, venti paesi latino-americani? La Cina è stata dichiarata aggressore, mentre non ha voto perché il suo lo ha Ciang-Kai-Chek, e non solo perché il suo voto e quello dell'India (850 milioni di uomini) pesi quanto quello della Repubblica Dominicana (due milioni).

De Gasperi si vanta di essere atlantico non perché il suo partito riflette interessi economici che sudiciamente ingrassano colla protezione americana disamministrando la provincia Italia, ma perché sta in regola "con la maggioranza legale alle Nazioni Unite" e ciò sebbene colà... non voti la Città del Vaticano. Palmiro, scosso, risponde: bravo, ma la maggioranza non è legale, perché sostiene cose contrarie ai principii stessi dell'organizzazione! Magnifico. Questi superpolitici nel battersi sono al di sotto del celebre "sciur Panera": come faccio a colpirlo se non sta fermo? Nessuna maggioranza eviterà che la minoranza dica che ha violato i comuni principii: questo lo evita solo la unanimità! Ecco che accade a chi si riduce, come Stalin, a rimpiangere che sia andata perduta l'autorità "morale" delle nazioni unite. Ecco le sconfitte politiche che sorgono dalla rinunzia alla propria dottrina di un tempo. Nessuno degli arzigogolatori abilissimi che il Kremlino manda in giro ha potuto dire: se non volete ammettere la Cina rossa, se conservate il seggio a quella nazionalista, vuol dire che la prima è uno Stato fuori del "contratto", fuori della organizzazione: come potete introdurre nel vostro sinedrio una causa a suo carico quale imputata? Ma avendo ammesso in partenza il "principio" stalinista dell'eguaglianza eterna tra tutte le nazioni, hanno perduta perfino la possibilità di contestare che una tale prassi distrugge l'ipocrita canone di non intervento internazionale negli affari interni di uno Stato; soprattutto distrugge quello che Engels dialetticamente affermava per lo stesso prussiano Bismark, il diritto alla rivoluzione. Erige la forca interstatale!

Quale la via di uscita, se così stanno le cose, di diritto o di fatto? Giocando con pazienza di molluschi su "ciò che il grosso pubblico intende di per sé", che arrivate a spostare? Una maggioranza legale nelle elezioni di due paesi atlantici, Francia e Italia? Improbabile; comunque non si sposta quella, già calcolata da Stalin, nelle Nazioni Unite. Come dunque pensate di arrivare a rompere il controllo Costello-Truman su tutto l'apparato giuridico che legalmente amministra il pianeta, costruito purtroppo non con trattati di filosofia e con chiacchiere ma con effettivi apporti di forza, dalle fucilazioni dei bolscevichi nel 1935 alle montagne di morti di Stalingrado? Giocando sulla imbecille definizione dell'aggressore?

È un fatto, l'imperialgangsterismo yankee non si prepara ad aggredirlo nessuno. Ma se lo si potesse aggredire, e fottere, che bella cosa!

 

 

Partito comunista internazionale

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