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Prises de position - Prese di posizione - Toma de posición - Statements                        


 

PRIMO MAGGIO internazionalista e di lotta!

 

Proletari!  Compagni!

 

Quando le forze dell’opportunismo riformista e del collaborazionismo tricolore non erano ancora riuscite ad influenzare totalitariamente il proletariato di tutti i paesi, il Primo Maggio rappresentava ancora il giorno che internazionalmente veniva dedicato dai proletari – ed esclusivamente dai proletari – alla lotta di difesa delle condizioni di vita e di lavoro; il giorno in cui i proletari di tutto il mondo gridavano alto il loro grido di battaglia: lotta di classe contro tutti i padroni, tutte le classi dominanti, contro ogni sopruso, ogni sfruttamento, ogni discriminazione, ogni forma di oppressione!

I proletari di ogni paese del mondo si riconoscevano parte della stessa classe lavoratrice universale, e riconoscevano nella lotta di classe, nei mezzi, nei metodi e negli obiettivi della lotta di classe, le uniche armi efficaci per difendersi dalla pressione e dalla repressione dei poteri dominanti borghesi. Perché è sempre stata necessaria la lotta di classe del proletariato contro la borghesia, contro la classe dei proprietari dei mezzi di produzione e dell’intera ricchezza sociale prodotta dal lavoro salariato? Perché non esiste paese in cui, dominando la borghesia, il proletariato non sia sfruttato bestialmente al solo scopo di estorcergli il plusvalore, ossia quella quota di tempo di lavoro non pagato che nel sistema mercantile moderno viene trasformata in profitto capitalistico.

Perché la lotta di classe prese le caratteristiche di un continuo scontro tra le forze della borghesia e della difesa del suo potere economico e politico, e le forze del proletariato? Perché la borghesia, la classe dei padroni, è spinta inesorabilmente dallo stesso modo di produzione capitalistico a sfruttare con crescente pressione la classe dei proletari: per accumulare più profitti è obbligatorio sfruttare più duramente i proletari impiegati nelle fabbriche, nei servizi, negli uffici, in tutte le attività atte a far girare la grande macchina del profitto capitalistico. E lo sfruttamento significa: giornata lavorativa più lunga, intensità di lavoro crescente, più mansioni svolte dallo stesso lavoratore, meno pause, risparmio sui sistemi di sicurezza e sulla prevenzione delle nocività. Ma significa anche: differenze crescenti di condizioni salariali tra proletari dei diversi paesi e delle diverse categorie, concorrenza sempre più vasta e acuta fra proletari giovani e vecchi, fra donne e uomini, fra indigeni ed immigrati, tra lavoro nero e lavoro regolarizzato, aumento della precarietà del lavoro e della disoccupazione.

E’ contro queste forme di oppressione che i proletari, prima isolatamente e in qualche manifattura, poi sempre meno isolati e tendenzialmente in tutte le fabbriche, hanno iniziato fin dall’Ottocento ad opporsi giungendo all’unica forma di lotta che fosse efficace e con la quale rispondere alla pressione dei padroni con altrettanta forza: lo sciopero, la fermata improvvisa e unitaria sul posto di lavoro, senza limiti prefissati se non quelli dettati dall’ottenimento delle richieste avanzate ai padroni.

La globalizzazione, l’universalizzazione del mercato capitalistico ha diffuso in tutti i paesi, anche in quelli più arretrati economicamente, le leggi di produzione e di scambio del capitalismo: i proletari sotto ogni cielo sono sottoposti alle stesse condizioni generali di sfruttamento perché per sopravvivere sono obbligati dappertutto a vendere la loro forza lavoro ai capitalisti. Ma la globalizzazione non è un fenomeno di questi anni; era già ben presente nella fase di espansione mondiale del modo di produzione capitalistico che, portando con sé i capitali, ha nello stesso tempo  portato con sé i metodi dell’espropriazione violenta e dell’imposizione brutale del lavoro salariato per milioni e milioni di contadini e artigiani. Là dove sopravviveva la piccola produzione individuale l’arrivo del capitalismo ha sconvolto da cima a fondo la situazione e trasformato la maggior parte degli abitanti in proletari, in possessori esclusivamente della propria forza lavoro che, per sopravvivere, dovevano necessariamente vendere ai capitalisti o morire di fame.

 

Proletari!  Compagni!

 

Oggi tutto questo sembra, in particolare nei paesi capitalistici avanzati, in Europa e in America,  diventato talmente naturale che, per sopravvivere, sembra che non si debba fare altro che vendere la propria forza lavoro a qualche capitalista. E non ci si pone nemmeno più la domanda: si potrà mai vivere senza farsi sfruttare bestialmente tutta la vita? Le lotte accanite di generazioni passate di proletari per non farsi schiacciare totalmente dalla pressione capitalistica sembrano lontane, argomento per qualche film o per qualche saggio di storia; i proletari morti negli scontri con gli eserciti e le polizie in tutti i paesi sembrano numeri per le statistiche e per qualche resoconto giornalistico; i proletari ammazzati a milioni nelle guerre di rapina delle borghesie di ogni parte del mondo riempiono qualche servizio alla televisione, danno spunto per qualche inchiesta e qualche libro-denuncia, ma non scuotono in profondità questa società che è capace soltanto di divorare i vivi per difendere i profitti di classi dominanti che fanno solo questo di mestiere.

Le esigenze primarie dei proletari in termini di vita e di lavoro, sono questioni messe in fondo alla lista delle priorità che i sindacati cosiddetti operai e i partiti cosiddetti comunisti o socialisti non hanno il coraggio di cancellare del tutto, pena la perdita totale di credibilità fra i lavoratori. Il passaggio di questi  sindacati tricolore e di questi partiti operai borghesi, qualsiasi sia la loro sigla attuale, sul carro della borghesia non è di oggi: esso è avvenuto definitivamente con la seconda guerra mondiale, quando le forze del comunismo rivoluzionario e del classismo operaio furono totalmente annientate dall’azione convergente dello stalinismo e del democratismo antifascista. La rinascita dalle ceneri del macello imperialistico della patria economica e politica fu il loro primo e principale pensiero, e da allora non fecero che progredire inesorabilmente nel loro processo di integrazione nelle istituzioni statali borghesi.

I proletari non hanno vie d’uscita dallo sfruttamento capitalistico, dal corso di crisi che continua a peggiorare la loro situazione quotidiana e il loro futuro prossimo, se non si scrollano di dosso il peso paralizzante e schiavizzante dell’opportunismo che confonde continuamente le loro esigenze con quelle dell’azienda, dell’economia nazionale, della democrazia e delle sue istituzioni.

I proletari devono riorganizzarsi sul terremo dell’aperta e dichiarata lotta di classe: non hanno nulla da nascondere né a se stessi né al loro nemico di classe. Essi devono rimettere al centro delle proprie rivendicazioni gli obiettivi che già fecero tremare le borghesie di tutto il mondo:

 

- DIMINUZIONE DRASTICA DELLA GIORNATA LAVORATIVA

- AUMENTO DI SALARIO PIU’ FORTE PER LE CATEGORIE PEGGIO PAGATE

- STESSO SALARIO PER LE STESSE MANSIONI A UOMINI DONNE IMMIGRATI O AUTOCTONI

- SALARIO DA LAVORO  O SALARIO DI DISOCCUPAZIONE

- NO AL LAVORO IN MANCANZA DI MISURE DI SICUREZZA

- NO AL LAVORO NERO

 

E lo scioperoimprovviso, senza limiti di tempo e in atto durante le trattative – ridiventi l’arma principale che i proletari di ogni categoria, di ogni paese, di ogni razza e nazione, utilizzano nella loro lotta  di difesa. Riorganizzarsi in associazioni economiche classiste significa unirsi sotto lo stesso programma di lotta, per la difesa esclusiva degli interessi proletari immediati. Questa è la sola via per fermare il continuo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari, per risalire dall’abisso in cui l’opportunismo di ogni colore ha fatto precipitare il proletariato in ogni paese, e per riprendere il cammino dell’emancipazione proletaria dalla schiavitù salariale.

 

Partito comunista internazionale

1° Maggio 2007

www.pcint.org

 

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