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Il proletariato americano non potrà non lottare contro la nuova politica di lacrime e sangue della presidenza Obama

 

Il democratico Barak Obama, nuovo presidente USA, è voce della classe borghese dominante col compito di difendere innanzitutto gli interessi capitalistici e della classe borghese.

Che la lotta di classe proletaria anticapitalistica rinasca potente e travolgente ricollegandosi alla tradizione storica delle magnifiche lotte del proletariato americano!

 

I proletari americani e del mondo intero non si aspettino cambiamenti a loro favore, perché la crisi capitalistica iniziata l’anno scorso perdurerà ancora a lungo falcidiando posti di lavoro e potere d’acquisto dei salari; accrescerà l’intensità dello sfruttamento del lavoro salariato e aumenterà la disoccupazione, anche se lentamente, ma inesorabilmente.

La miseria della classe proletaria è destinata ad aumentare a causa della crisi di sovrapproduzione capitalistica che ha colpito ripetutamente gli Stati Uniti e tutti i paesi capitalisti del mondo: contro questo fenomeno connaturato allo sviluppo dell’economia capitalistica, la borghesia dominante non ha soluzioni che prevedano un generale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro proletarie, ma soltanto interventi che difendano i profitti capitalistici contro ogni  interesse delle classi lavoratrici. Quando i profitti scarseggiano a cause delle grandi masse di merci invendute, i capitalisti tagliano sul costo del lavoro, sul monte salari generale, gettando sul lastrico i lavoratori «in esubero», diminuendo il salario ai lavoratori rimasti occupati! E i disoccupati non si contano soltanto nel settore bancario, ma in tutti i settori produttivi, dall’automobile all’edilizia, dall’informatica all’aeronautica  e al petrolifero.

La situazione internazionale di estrema concorrenza tra le potenze imperialistiche maggiori obbligherà anche Barak Obama, come ha obbligato i suoi predecessori, a trasformare il cosiddetto «sogno americano» in una gigantesca macchina da guerra. Gli urti interimperialistici sono destinati ad acutizzarsi ancor di più su tutte le aree del mondo: in Medio Oriente, per il suo fastidioso semimonopolio petrolifero; in Africa, per le sue enormi riserve minerarie; in Asia per il controllo strategico delle vie di comunicazione dei futuri nemici potenziali a partire dalla Cina e dalla Russia per tornare al vecchio Giappone; in  America Latina, il «giardino di casa» dove, tra gli altri, Messico, Venezuela, Bolivia e, non ultimo, il Brasile, tentano da tempo di allentare la morsa soffocante del capitalismo yankee. E l’Europa, la vecchia matrigna, culla del capitalismo mondiale e dei conflitti interimperialistici, dove si annidano i più insidiosi fattori di crisi interimperialistica sia per l’accrescere dei contrasti fra le stesse potenze di un’Europa «unita» solo sulla carta, sia per la spinta concorrenziale sempre più prepotente fra le storiche potenze europee: Germania, Francia, Gran Bretagna. Un’Europa che oggi, di fronte alla grave crisi finanziaria tuttora in essere e della crisi economica in arrivo, tenta di unire le forze per fronteggiare «in comune» gli effetti di queste crisi, ma che domani non potrà non liberare le forze centrifughe degli imperialismi nazionali tesi a salvare i propri e predominanti interessi contro ogni concorrente.

Il nuovo presidente americano viene presentato come più democratico degli altri, e come simbolo di una nuova epoca negli Stati Uniti e nel mondo. E’ afroamericano; solo vent’anni fa mai i borghesi americani avrebbero pensato di dover consegnare ad un nero il compito di scalzare la lunga serie di presidenti di pelle bianca. Fino a qualche mese fa la bionda Hillary Clinton sembrava avere tutti i numeri per raccogliere, con probabilità di vittoria, la sfida elettorale contro i repubblicani che, in perfetta coerenza con la progressione militarista dei governi Bush, si facevano rappresentare dal soldato McCain, per di più reduce del Vietnam. Una cosiddetta nuova epoca sarebbe stata avviata anche nel caso di elezione di Hillary Clinton, che sarebbe stata la prima donna-presidente degli USA. Quel che «sorprende» il mondo borghese e piccolo-borghese sono esattamente questi aspetti: una donna, un nero, al posto di un maschio bianco. Ma i programmi politici dei candidati presidenti che cosa dicevano? Salvaguardia dell’economia americana, del sistema bancario e finanziario americano, dei profitti del capitalismo americano. McCain propagandava la volontà di «creare ricchezza», mentre Obama propagandava la volontà di «distribuire la ricchezza» in modo più «equo». Dov’è la differenza? L’uno, con la sua ruvidezza di ex soldato, l’altro con la sua affabile temperanza religiosa, in realtà rappresentavano e rappresentano fazioni diverse della stessa classe dominante! La demagogia li accomunava ieri come oggi: la ricchezza di cui parlano, è la ricchezza prodotta col lavoro salariato dei proletari che il capitalismo sfrutta non solo «in casa» ma, grazie alla globalizzazione, in ogni paese del mondo.

Per la società borghese americana, nata e rimasta nel profondo schiavista e che fino a qualche decennio fa – pur osannata come esempio di più ampia democrazia esistente al mondo – discriminava i neri d’America non solo nelle abitudini e negli atteggiamenti ma anche per legge, l’aver indicato in un candidato nero la sua migliore scelta nella corsa alla Casa Bianca, rappresenta effettivamente un cambiamento che appare radicale e che abbacina tutti i democratici del mondo. In realtà, come già in passato – e forse anche in futuro – la borghesia dominante, in situazione di crisi economica e sociale, si è dimostrata capace di consegnare la difesa del proprio potere politico e del capitalismo come sistema sociale nelle mani perfino degli ex nemici «comunisti» (la socialdemocrazia nel periodo a cavallo della prima guerra mondiale, il nazionalcomunismo nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale), così è perfettamente in grado di scovare, per le alternanze governative, il personale politico che nella situazione data risulti più «trascinatore», capace di raccogliere ampi consensi  in tutti gli strati della popolazione e, quindi, anche fra i proletari e di levare le castagne dal fuoco meglio di altri; se poi, questo personale politico esprime, come nel caso americano odierno, un leader di pelle nera, ben venga!, l’importante che tiri fuori dai guai una borghesia predona, brigante e assassina che ha estremo bisogno di riconquistare un prestigio mondiale caduto ai minimi storici. L’ipocrisia democratica ne risulta perciò rafforzata anche nel caso avessero ragione taluni commentatori che hanno avanzato il timore che il nuovo presidente Obama possa finire ammazzato come Martin Luther King.  

Tutti i commentatori del mondo affermano che l’America, con queste elezioni, e per il risultato elettorale raggiunto, ha dimostrato di essere il paese più democratico del mondo! Tutti i governanti del mondo si inchinano di fronte alla democrazia americana, e promettono un lungo periodo di solidale collaborazione…per il benessere e la pace nel mondo!… fino alla prossima guerra… Non è secondario il fatto che Obama, nella prima dichiarazione dopo la vittoria elettorale, abbia calcato sul concetto di unità nazionale. Questo concetto di «unità nazionale» è il leif motive della politica borghese in generale, ma d’ora in avanti, proprio perché molte tempeste si annunciano all’orizzonte – in termini di crisi economiche e di crisi di guerra – diventerà sempre più il grande valore storico e patriottico cui si rifaranno tutte le classi dominanti borghesi, ognuna per la propria patria. Più la borghesia imperialista parla di «unità nazionale», più prepara il terreno alla guerra mondiale!

Noi, comunisti rivoluzionari, non vediamo nella democrazia americana nessuno beneficio per il benessere generale e per la pace nel mondo, tanto meno per il proletariato, né all’immediato né per il futuro!

Il capitalismo americano sarà anche il «più democratico», ma è, nello stesso tempo, il più aggressivo al mondo; e questo non da oggi, e in modo particolare dalla sua vittoria nella seconda guerra mondiale. Da allora non c’è stato conflitto al mondo che non vedesse il capitalismo americano coinvolto, direttamente o indirettamente, tanto da poter affermare che non si muoveva foglia al mondo senza che Washington non lo volesse. Il lungo periodo di condominio russo-americano sul mondo, seguito alla fine del secondo macello imperialistico, non ha cancellato le guerre, ma ne ha giustificato di volta in volta lo scoppio e lo svolgimento, a partire dalla guerra di Corea del 1950. Che cosa è stata la guerra contro il Vietnam, iniziata dai francesi e continuata dagli americani fino alla loro disfatta, portata avanti indifferentemente da presidenti repubblicani e democratici? E le più recenti guerre nei Balcani, nel Golfo, in Afghanistan, per non parlare delle guerre fatte «per procura» come quella dell’Iraq contro l’Iran, o dei veri e propri mattatoi come in Cile, in Argentina e prima ancora in Grecia? Si trattava sempre degli Stati Uniti d’America e dei loro interessi imperialistici, aldilà di chi fosse seduto sulla poltrona della presidenza!

Di democrazia americana ha sofferto da sempre il proletariato mondiale, e non solo il proletariato americano; d’altra parte non poteva essere diverso da quel che succedeva prima in Europa. Gli Stati Uniti d’America non sono stati che il prolungamento e il concentrato all’ennesima potenza del capitalismo europeo e delle sue caratteristiche di spietatezza, di aggressività e di terrorismo. Ciò che i vecchi capitalismi europei fecero attraverso la loro epoca del colonialismo ottocentesco, lo ha fatto il capitalismo americano attraverso la sua epoca novecentesca di massimo splendore: colonizzando il mondo intero con il dollaro e le proprie merci, e sottoponendo alla propria forza dominante, con la vittoria nella seconda guerra mondiale, anche i paesi a capitalismo sviluppato della vecchia Europa!

Oggi, il presidente Obama dichiara che il suo obiettivo è di collaborare con tutti i paesi del mondo per cercare la pace e perché la democrazia vinca sul terrorismo e sulle dittature.

Continua in questo modo il grande inganno: il terrorismo, come metodo sistematico di pressione per piegare ai propri interessi coloro che non intendono piegarsi, è esattamente la politica di tutti i paesi imperialisti, primo fra tutti gli Stati Uniti d’America. Non sempre il terrorismo prende la forma della brutalità evidente; molto più spesso, il terrorismo prende la forma dell’intimidazione, del ricatto, del lento strangolamento economico, dell’isolamento. E non c’è Stato borghese al mondo che non abbia usato, e che usi, una politica che contenga anche il metodo terroristico. Nei confronti del proletariato, soprattutto se accenna a reagire con la forza ai continui attacchi alle sue condizioni di vita e di lavoro, e all’aumentato dispotismo in fabbrica e nella vita quotidiana, il terrorismo borghese è metodo usuale anche se, soprattutto nelle cosiddette «democrazie moderne», è mascherato normalmente con parole e atteggiamenti di conciliazione.

D’altra parte, sotto il velo della democrazia parlamentare ed elettoralistica c’è la ben più consistente e armata dittatura del capitale. Perché mai, di fronte alla crisi finanziaria e bancaria che ha sconvolto i mercati di tutto il mondo e che sta avendo i suoi effetti negativi sull’economia produttiva di ogni paese, ogni Stato borghese, a partire da quello americano, è intervenuto – e continua ad intervenire – prima di ogni altra cosa per salvare dal crollo il sistema bancario e finanziario del proprio paese e, di converso, di tutti i paesi collegati? E’ evidente a tutti che i milioni di miliardi di dollari e di euro sborsati finora, e che sborseranno ancora, per tappare i continui buchi che si aprono nel sistema bancario vanno a ridurre enormemente le risorse utilizzabili a sostegno degli strati più poveri della popolazione. E’ la legge del profitto capitalistico che detta le regole, e le decisioni, non il «buon cuore». La dittatura del capitale agisce in pieno, con tutta la sua carica di spietato cinismo, pur  sotto le vesti del regime democratico, anche perché, come la storia dello sviluppo del capitalismo e della politica borghese dimostra, ha ottenuto più duraturi consensi dal proletariato utilizzando il metodo democratico che non quello fascista. La democrazia è il guanto di velluto che nasconde il pugno di ferro del capitale!

La ventata di cosiddetta novità che soffia da Chicago avrà con sé forse qualche briciola da far cadere dal tavolo dell’opulenza capitalistica, ma non traghetterà mai il proletariato verso sostanziosi miglioramenti nelle sue condizioni di vita e di lavoro. E’ certo, però, che porterà con sé una forte pressione patriottica utilizzando tutte le aspirazioni che i neri, gli afroamericani, gli ispanici, gli asiatici e i nativi americani hanno da molto tempo per una vita meno tormentata, meno vessata, meno discriminata. E in quella pressione patriottica ci sarà tutta la demagogia borghese che richiama un popolo ad un preteso compito storico: quello di diffondere la «democrazia americana», anche con i cannoni e i bombardamenti, in tutti i paesi del mondo. Ma la «democrazia americana» non è altro che la veste pulita della spietata dittatura del capitalismo americano, capace di bombardare eroicamente villaggi afghani, quartieri di Belgrado o di Bagdad come in tempi più lontani diffondeva a piene mani napalm e diossina in Vietnam o radeva a zero città come Dresda. La guerra superdistruttrice di merci e di uomini è nel dna del capitalismo, il militarismo con la sua corte di terrorismo e di orrore è nel dna della classe dominante borghese, e nessuna proclamazione di diritti, di pace, di benessere fatta in tempo di pace può nascondere questa realtà. La pace borghese non è che un intervallo tra una guerra e la successiva, sempre di rapina e di sfrenata accumulazione di profitti capitalistici.

I proletari continueranno a morire sui posti di lavoro, continueranno a subire il tormento di uno sfruttamento sempre più bestiale per poter sopravvivere, continueranno a scappare dalla repressione, dal terrorismo e dalle guerre che fazioni borghesi somministrano a popoli interi, come in Africa, in Medio Oriente, in Asia, in una specie di anticipazione di quello che sarà un futuro teatro di crisi e di guerra anche nel cuore dell’Europa.

La classe borghese dominante americana condensa all’ennesima potenza tutta l’esperienza storica di dominio che ha accumulato nel tempo la borghesia in Europa, forte anche di un’impressionante sviluppo capitalistico che ha sostenuto, e difeso, il capitalismo a livello mondiale in un secolo e mezzo di storia. Per il proletariato americano e per il proletariato mondiale il capitalismo americano resta il nemico più potente, anche se vestito di democrazia e se presieduto da un leader nero.

La prospettiva di classe, sebbene oggi ancora appaia una cosa lontana e fumosa agli occhi di tutti i proletariati del mondo, è l’unica prospettiva per la quale vale lottare: ogni proletario vive la condizione di schiavo salariato, nel tempo del suo impiego o della sua disoccupazione, della sua malattia o della sua vecchiaia. Questa condizione sociale non è passeggera, è condizione storica che lo riduce ad un semplice prolungamento della macchina produttiva capitalistica: finché funziona a pieno ritmo e risponde alle esigenze della produzione con il minor costo possibile (in termini di manutenzione giornaliera e di riparazione) per il capitale ha motivo di essere sfruttata, ma quando il mercato rifiuta di assorbire tutte la produzione realizzata, quella macchina viene fermata e magari distrutta e, prima o poi,  sostituita con un’altra meno costosa e più produttiva! E’ la stessa cosa che capita alla forza lavoro, ai lavoratori salariati: spremuti fino all’estremo quando sono impiegati nella produzione di profitto, gettati nei rifiuti quando non “rendono” più lo stesso tasso di profitto. Ma per tenere sotto controllo la massa proletaria, che è la stragrande maggioranza della popolazione nei paesi capitalistici avanzati, e per scoraggiarne ogni forma di resistenza attiva e classista alla pressione capitalistica, entra in campo la propaganda della democrazia, dei diritti, della pace sociale, della conciliazione fra le classi, e l’opera delle forze opportuniste col compito di stemperare le tensioni, di disorganizzare le frange più avanzate e combattive della classe operaia, di deviare la massa proletaria dallo spontaneo terreno di scontro con il padronato al terreno del negoziato e della conciliazione degli interessi, di alimentare la concorrenza fra proletari e di dividere concretamente i proletari tra indigeni e immigrati, giovani e anziani, uomini e donne, e tra quelli che abbassano la testa e si sottopongono alle esigenze del padrone e quelli che non abbassano la testa e si difendono magari organizzando anche i compagni di lavoro sul terreno immediato dell’aperto antagonismo di interessi.

Per quanto difficile, ostica e “impossibile” appaia la strada della ripresa della lotta di classe, è questa strada che i proletari devono imboccare, e imboccheranno perché non avranno altre alternative: anche gli schiavi si sono ribellati nel lungo corso storico della loro specifica oppressione, verrà il momento anche per i moderni schiavi, i proletari salariati!

 

Nessuna fiducia nella democrazia borghese, che ha ingannato sistematicamente il proletariato  portandolo al massacro in due orrende guerre mondiali e in continue guerre locali!

Nessuna fiducia in un cambiamento di politica che si basa soltanto nel cambio della guardia al tempio di Sua Maestà il Capitale, nemmeno se quella politica viene pronunciata e applicata da un presidente nero!

Nessuna fiducia nel clima internazionale di solidarietà e di concordia tra tutti i maggiori paesi del mondo, perché quella solidarietà e quella concordia sono dettate dalla cruda e bieca convenienza da parte di tutti gli Stati capitalisti di rimediare ad una crisi che si presenta persistente e dagli effetti incontrollabili!

Nessuna fiducia nelle forze politiche collaborazioniste che si dichiarano attente alle esigenze delle grandi masse proletarie e povere, colpite ancor più duramente dall’attuale crisi capitalistica, e nei confronti delle quali operano con la abituale demagogia della propaganda democratica al solo fine di controllarle più efficacemente e di individuarne le avanguardie di lotta per isolarle e darle in pasto alla repressione statale!

Nessuna fiducia nelle forze politiche pseudo-proletarie che si riempiono la bocca, oggi, di terminologia «socialista» e «comunista» e che parlano di «proletariato» e di «classe» dopo che per decenni hanno tradito anche le più elementari rivendicazioni di classe del proletariato, forze politiche che tentano di recuperare una base elettorale che dia loro quella forza numerica in termini di voti per tornare a calpestare i tappeti del parlamento nazionale e dei parlamentini locali!

Fiducia nella forza che il proletariato sa esprimere ogni volta che abbandona i condizionamenti interclassisti e conciliatori causati da decenni di politica collaborazionista con la borghesia sia sul terreno politico generale che sul terreno più strettamente sindacale e rivendicativo!

Fiducia nelle capacità di auto-organizzazione che il proletariato sa esprimere ogni volta che prende in mano direttamente le sorti della propria lotta di difesa esclusiva delle proprie condizioni di vita e di lavoro!

Fiducia nella solidarietà di classe generata sempre dalla stessa lotta proletaria sul terreno classista, solidarietà che si esprime soprattutto attraverso la lotta contro il nemico più insidioso della causa proletaria: la concorrenza fra proletari!

Fiducia nella ripresa della lotta di classe perché il proletariato, spinto sempre più nelle condizioni di miseria crescente e di oppressione sistematica nella stessa vita quotidiana, reagendo alla sempre più pesante pressione del capitalismo e alla repressione dello Stato borghese, comprenderà che l’unica possibilità pratica e reale di difendersi, e di difendere la propria stessa vita e la vita della sua famiglia, sarà quella di organizzare con i propri fratelli di classe la lotta di resistenza al capitale che duri nel tempo e che si allarghi il più possibile a tutti gli strati del proletariato.

Fiducia nella ripresa della lotta di classe attraverso la quale i proletari cominceranno finalmente a riconoscere gli autentici sostenitori della loro lotta anticapitalistica dai falsi amici, da coloro che mimetizzeranno in tutti i modi – magari anche barricadieri – la propria servitù al capitale, alle sue esigenze, alle sue leggi, ai suoi poteri.

Fiducia nella prospettiva storica che il marxismo ha affermato 150 anni fa, cioè che è lo stesso capitalismo nel suo sviluppo economico forsennato a generare crisi sempre più acute e terribili fino a bloccare completamente la sua mastodontica macchina produttrice di profitti; è lo stesso sviluppo capitalistico che porta inevitabilmente l’umanità verso guerre guerreggiate sempre più ampie e orribili. Fiducia nella prospettiva storica che il marxismo ha affermato 150 anni fa, cioè che il proletariato, l’unica classe produttrice di ricchezza sociale ma espropriata di qualsiasi riserva di vita, sarà la classe che seppellirà definitivamente la società borghese e con essa, il capitalismo e ogni società divisa in classi!

Fiducia nella prospettiva storica che il marxismo ha affermato 150 anni, cioè che il proletariato guidato dal suo partito di classe rivoluzionerà da cima a fondo la società presente ed ogni residuo di società passate, prenderà il potere politico con la necessaria violenza rivoluzionaria per instaurare la sua dittatura di classe e per intervenire sul tessuto economico e sociale al fine di distruggere il modo di produzione capitalistico perché finalizzato esclusivamente alla produzione e riproduzione del capitale, per liberare il genere umano nel corso storico successivo da ogni forma di oppressione e di sfruttamento!

 

7 novembre 2008

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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